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FEDRO

Il dialogo platonico Fedro è posteriore alla Repubblica, a cui viene fatto riferimento
nell'opera, e presenta notevoli affinità tematiche con il Simposio. La sua stesura può
essere ricompresa nell'ultima fase della produzione platonica. I personaggi presenti
fanno propendere per un'ambientazione immaginata tra il 420 e il 410 a.C.
Struttura e tematica dell'opera
Il dialogo riguarda l'uso e il valore della retorica in connessione con l'educazione e la
filosofia: sullo sfondo, a fornire il fondamentale inquadramento concettuale, permane
il sistema delle idee e il metodo corretto per pervenire alla conoscenza della verità e
per comunicarla. Fedro, un giovane ateniese appassionato dell'arte del discorso,
incontra Socrate e con lui inizia a discorrere di retorica, mentre i due si recano fuori di
Atene, nella valle dell'Ilisso, a est della città. Il luogo offre a Platone lo spunto per
produrre una delle descrizioni ambientali più belle di tutta la letteratura greca.
In questo scenario di grande tranquillità e bellezza, Fedro racconta a Socrate di aver
appena ascoltato un discorso, di cui ha la copia con sé, che l'oratore Lisia ha composto
sull'amore, in particolare sull'opportunità di concedere i propri favori a chi non è
innamorato, piuttosto che a chi lo sia. Socrate ascolta il discorso lisiano che Fedro
legge e lo trova apprezzabile dal punto di vista della tecnica oratoria, ma scorretto nei
presupposti metodologici e la tecnica perde di valore se non è sorretta dalla saggezza
del pensiero.
Socrate, a capo coperto, compone quindi un suo discorso su eros, assumendo lo
stesso punto di vista di Lisia, ossia su quanto sia preferibile concedersi a chi non è
innamorato, ma partendo da una base filosofica che a Lisia mancava, consistente nella
preliminare distinzione tra ciò che è bene e ciò che procura piacere.
L'amore di cui Socrate tratta in questo discorso sul modello lisiano costituisce solo uno
degli aspetti di eros, la mania umana tendente al piacere. L'intento del filosofo,
tuttavia, non è quello di contrapporsi a Lisia sul suo stesso piano: egli ha composto il
discorso sull'amore umano, che tende al piacere e che trova maggior soddisfazione e
interesse nel concedersi a chi non è innamorato, solo per dimostrare come, dal punto
di vista tecnico, si possa elaborare una forma retorica migliore, corretta per deduzione
di principi e densa di significato.
Ma non è questo aspetto di eros che può interessare chi tenda alla vera conoscenza. È
necessaria, dunque, una palinodia, ossia un nuovo canto in onore di eros, che ne
sviluppi ed esponga la vera essenza.
Il dialogo presenta, a questo punto, un terzo discorso, che costituisce il nucleo
filosofico dell'opera e si iscrive nella metafisica delle idee che Platone andava
disegnando nelle sue opere, ma che soprattutto esponeva e approfondiva nelle lezioni
orali all'interno dell'Accademia.
Eros come mania divina. Il mito della biga alata

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Accanto all'amore quale mania umana, che ricerca il piacere fine a se stesso e
l'interesse contingente, esiste l'amore quale mania divina, su cui si incentra anche il
discorso della sacerdotessa di Mantinea, Diotima, nel Simposio, che è tensione verso
la conoscenza dell'essere.
Per comprendere pienamente la natura di questa forma di eros, è necessario esporre
quale sia la natura della vita al di là dell'esistenza terrena.
L'anima degli uomini è tripartita in una parte razionale, una passionale e una volitiva:
per analogia, può essere rappresentata come una biga dotata di ali, retta da un auriga
che rappresenta la ragione e da due cavalli, uno nero ribelle e difficilmente
governabile, che si identifica con l'anima concupiscibile, cioè con i desideri intensi,
come quelli dovuti alla sessualità o alla gola, e uno bianco, che rappresenta l'anima
irascibile, che sostanzializza la volontà e il coraggio. L'aggressività positiva o "grinta" o
determinazione è rappresentata dal cavallo bianco, più obbediente alla ragione.
Sembra esservi in questa analogia una ripresa della tripartizione dell'anima di cui si
parla nella Repubblica, ma vi è una differenza fondamentale: nella Repubblica si fa
riferimento all'anima mortale, mentre nel Fedro si dice chiaramente che si sta
parlando dell'anima immortale.
Sembra preferibile l'interpretazione che considera la figura della biga come
ipostatizzazione dell'anima dell'uomo mortale, quasi che si consideri qui l'idea
dell'anima, di cui l'anima degli esseri viventi non è che una copia.
Le bighe alate costituiscono diverse schiere, guidate dall'anima di una divinità: tutte le
schiere si muovono incessantemente e cercano di innalzarsi al di sopra del livello nel
quale si trovano, per riuscire a gettare uno sguardo al di là verso ciò che esiste oltre il
cielo, nell'iperuranio dove si estende la pianura della verità. Questa è la sede delle
idee, la cui contemplazione è concessa solo agli dei e a chi, conducendo una vita retta
secondo i principi del bene, è in grado di sollevarsi al di sopra della condizione media
dell'uomo.
L'insegnamento del mito della biga alata è duplice: da un lato le passioni (i sentimenti
e le emozioni) devono essere guidati dalla ragione (è l'auriga che decide dove deve
andare il carro, non i cavalli) dall'altro le passioni non possono essere eliminate (senza
i cavalli il carro si ferma) contro la posizione di alcuni socratici minori, che sarà poi la
convinzione degli stoici, secondo la quale le passioni derivano da errori di giudizio e
pertanto l'uomo saggio le deve estirpare, cancellare.
Ogni anima è soggetta a un ciclo di reincarnazione di diecimila anni: ogni mille anni
vive un secolo sulla terra e nove secoli nell'aldilà. Solamente le anime dei filosofi
riescono ad abbreviare questo ciclo a tremila anni, perché, usufruendo del metodo
della conoscenza, riescono a contemplare più a lungo la pianura della verità, di cui le
altre anime riescono a cogliere solamente una fugace impressione.
E tuttavia questo brevissimo istante di conoscenza risulta fondamentale perché lascia
nell'anima il ricordo delle idee, una traccia della verità che può essere recuperata
pienamente, attraverso l'anamnesi e la sollecitazione del ricordo, se l'uomo indirizza la
propria conoscenza verso l'essere.
Tramite verso le idee e l'uno è eros, la divina mania, che spinge l'anima verso ciò che
è bello, perché la bellezza costituisce tratto fondamentalmente concatenato all'uno. La
tensione verso un corpo bello aiuta a recuperare, nel profondo dell'anima, il ricordo
dell'idea del bello: quando eros è libero di manifestarsi nell'incontro tra due amanti, la
sua potenza esplode, pervade il corpo e l'anima di chi è innamorato, rende viva e
splendente l'immagine della bellezza che rigenera a sua volta il ricordo, breve ma
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intenso, delle idee eterne e immutabili nella pianura della verità.
Il filosofo è colui che conosce il vero significato e la vera funzione di eros, perché è
consapevole del legame esistente tra eros, bellezza e verità.
Il valore della vera retorica: synopsis e diairesis
Forte di questa conoscenza, il filosofo sa anche che la vera arte retorica è quella che si
esplica a partire dalla conoscenza della verità: altre forme di discorsi, come quelli di
cui Lisia fornisce un esempio, non sono altro che distorsioni della conoscenza, adatte
solo per il piacere temporaneo e vuoto.
Ma Platone dice molto di più: non solo individua quale debba essere la vera sostanza
del discorso, definisce anche quale sia l'unica tecnica corretta della retorica, che
procede per unificazioni e progressive dissezioni, fino a recuperare l'unità originaria
del concetto. Così come Socrate aveva iniziato il discorso individuando nel termine
unico di eros una compresenza di motivi e lo aveva sezionato in una mania umana e
una divina, procedendo poi per ulteriori separazioni, fino a ricomporre l'analisi in una
complessiva visione di insieme, così il vero discorso è quello che procede per
dihairesis, separazione, e synopsis, visione unitaria, separando ogni elemento nelle
sue parti costitutive, individuando, tramite l'analisi, quali siano le idee connesse con la
materia, ripercorrendo infine le relazioni fra le idee fino a concepire la struttura
dell'Uno.
Platone dichiara quale debba essere dunque la vera retorica, opponendosi
consapevolmente a Isocrate, che viene espressamente citato nel Fedro quale giovane
che non ha mantenuto le brillanti promesse, e alla sua scuola, dove si insegnava che
alla base del bravo oratore dovesse esservi una buona conoscenza della storia: la
composizione del discorso non vale nulla, invece, se non è sostenuta da quella forma
di dialettica che, muovendo per disgiunzioni e unificazioni, pone come proprio fine la
conoscenza del mondo delle idee.
La vera retorica è dunque quell'arte che si esplica nel quadro della conoscenza
filosofica.
Conclusione dell'opera. Prevalenza dell'oralità
Ma Platone va molto oltre, giungendo a negare piena validità qualunque discorso
scritto, attraverso l'aneddoto, costruito artificiosamente, di Theuth e Thamus, narrato
a Fedro da Socrate, verso la fine del dialogo.
Theuth, dio egizio delle arti e dei mestieri, dalla brillante intelligenza, corrispondente
al greco Ermes, si presenta al faraone Thamus, magnificandogli l'utilità prodigiosa
della sua ultima invenzione, la scrittura, capace di fissare in eterno le conoscenze
umane: Thamus, tuttavia, rifiuta il dono, sostenendo che la forma scritta è in realtà
nemica della vera conoscenza, perché il discorso vero è quello comunicato oralmente,
capace di incidersi nell'anima di chi ascolta, mentre la parola scritta rimane fissata in
una perenne e muta immobilità.
Al di là dell'aneddoto, Platone afferma, attraverso Socrate, che solo la comunicazione
diretta tra maestro e allievo è capace di innalzare l'anima dello studente verso la vera
conoscenza e, nel sostenere il valore della parola orale quale unico mezzo in grado di
penetrare nell'anima di chi ascolta, di riflesso nega validità a tutti i suoi stessi scritti,
quasi che tutti i dialoghi a noi pervenuti non siano altro che un semplice supporto
mnemonico e una pallida copia dell'essenza del pensiero filosofico, cui avevano
accesso solo gli studenti al più alto grado all'interno dell'Accademia.
Dopo la celebrazione dell'oralità, alla quale il sapiente affida la sua conoscenza, il
dialogo si chiude con la preghiera che Socrate rivolge a Pan e alle altre divinità del
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luogo in cui si trovano lui e Fedro che sempre la bellezza alberghi in lui e lo faccia
agire in accordo con la sua essenza.

http://it.wikipedia.org/wiki/Fedro_%28dialogo%29

Il Fedone (Φαίδων)

Il Fedone (Φαίδων) è uno dei più celebri dialoghi di Platone. Ultimo dialogo della prima
tetralogia di Trasillo, sembrerebbe un dialogo giovanile del filosofo, anche in
considerazione del contesto in cui si svolge (la morte di Socrate). Lo studio stilistico
dell'opera, tuttavia, più narrativa che dialogica, motiva alcuni studiosi ad assegnare
l'opera al periodo della maturità.[1]
Argomento centrale è l'immortalità dell'anima, in sostegno della quale Platone porta
quattro diverse argomentazioni: la palingenesi, la dottrina della reminiscenza (più
dettagliatamente esposta nel Menone), la differenza sostanziale fra l'anima e il corpo e
la constatazione che l'idea della morte non può risiedere nell'anima, che è partecipe
invece dell'idea della vita.
Celeberrimo è il finale, dove Socrate, morente per avere ingerito la cicuta e circondato
dai suoi allievi piangenti, li esorta ad offrire un gallo ad Asclepio (dio della medicina),
in segno di ringraziamento per la liberazione dalla vita.
« Quest’oggi, disse, io taglierò i miei capelli e tu i tuoi, se morirà questo nostro
ragionamento e non saremo capaci di richiamarlo in vita. »(Platone, Fedone
89b)
personaggi principali del dialogo sono:
-Fedone di Elide, allievo di Socrate e voce narrante del dialogo;
-Echecrate di Fliunte, filosofo pitagorico e interlocutore di Fedone nel dialogo diretto;
-Socrate, filosofo e maestro di Platone;
-Simmia di Tebe, filosofo tebano, ex-allievo di Filolao (un pitagorico) in seguito
"convertitosi" alla dottrina di Socrate;
-Cebète di Tebe, altro ex-allievo di Filolao, amico di Simmia;
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-Critone, facoltoso cittadino ateniese, amico e allievo di Socrate nonché protagonista
del dialogo omonimo.
Altri personaggi presenti al momento della morte di Socrate: Apollodoro, Critobùlo
(figlio di Critone), Ermogene, Epigene, Eschine, Antistene, Ctesippo di Peania,
Menèsseno, Fedonda di Tebe, Euclide e Terpsione di Megara. Platone è invece
stranamente assente, forse malato (59b): in realtà, nessun'altra fonte antica parla per
quell'epoca di una malattia del filosofo, tanto grave da impedirgli di assistere il
maestro nelle ultime ore. Con la sua assenza, Platone forse vuole affermare che il
dialogo non sarà una cronaca puntuale della morte di Socrate, quanto piuttosto, come
afferma Centrone, una sua ricostruzione letteraria in linea con lo spirito dialogico del
maestro.[2] Più precisamente Reale, nella raccolta da lui curata dell’Opera Omnia
platonica, evidenzia: «La spiegazione più probabile del fatto che Platone si citi qui
come malato sarebbe questa: egli vuole rendere il lettore avvertito del fatto che
quanto farà dire a Socrate non è la pura verità storica».[3] E alcune pagine oltre
prosegue: «Platone non presenta in questi dialoghi un documento storico, ma mette in
bocca a Socrate le proprie convinzioni metafisiche e fornisce la grandiosa
dimostrazione del mondo intelligibile delle Idee e dell'essere metasensibile».[4]

Cornice del dialogo : Teseo e il Minotauro


Echecrate, membro della scuola pitagorica di Fliunte, chiede a Fedone di narrare a lui
e ai suoi allievi le ultime ore di Socrate, poiché le notizie giunte da Atene al riguardo
sono poche e vaghe. Fedone, presente al momento dell'esecuzione, accetta di buon
grado, e inizia a narrare ciò che accadde quel giorno, riportando i discorsi intrattenuti
da Socrate con i due filosofi tebani Simmia e Cebète. Il dialogo si svolge, per
l'appunto, a Fliunte, presumibilmente nella famosa scuola pitagorica della città.
Dopo un mese di prigionia,[5] è infine giunto per Socrate il giorno dell'esecuzione,
momento per lungo tempo rimandato, poiché dovevano far ritorno le navi che ogni
anno venivano mandate a Delo in onore di Apollo, per ringraziarlo di aver aiutato
Teseo a liberare Atene dal pericolo del Minotauro (58b).[6] Appresa la notizia dal
messo degli Undici, Critone, Fedone e gli altri allievi della cerchia socratica si
riuniscono attorno al maestro in carcere, per passare insieme a lui le ultime ore. Scena
emblematica a cui si trovano di fronte è la tranquillità d'animo del filosofo, il quale -
dietro invito di Apollo, apparsogli in sogno - ha iniziato a comporre poesie, mettendo in
musica i propri insegnamenti (60d-61c). In questo senso, Platone ci informa che il
Fedone sarà il «canto del cigno» di Socrate, come Socrate stesso ammetterà in 85a.
Socrate inizia a discutere della propria condizione di condannato a morte con quelli
che saranno i suoi interlocutori nel dialogo: i tebani Simmia e Cebète, allievi del
pitagorico Filolao (61d). Socrate afferma infatti che la sua condizione non è affatto da
compiangere, poiché qualsiasi filosofo, in quanto tale, desidera morire;[7] ciò non
significa, però, che la morte debba essere ricercata attraverso il suicidio, perché
sarebbe un atto empio. L'apparente contraddizione che si viene a creare si scioglie nel
momento in cui Socrate prende in esame il fatto che, come affermano certi misteri, il
corpo è come un carcere,[8] da cui non possiamo liberarci di nostra iniziativa: gli
uomini sono infatti proprietà degli dèi, e sarebbe un gesto oltremodo empio togliersi la
vita senza che essi lo abbiano ordinato apertamente (62a-c). Cebète tuttavia obietta a
Socrate che, se gli uomini si trovano veramente nelle mani di padroni così buoni e savi
come sono gli dèi, non vi sarebbe alcun motivo di desiderare la morte. A tali parole,
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Socrate risponde enunciando quello che sarà il fine del dialogo: il filosofo, quasi
tenesse una seconda apologia, tenterà di dimostrare che nulla di male può accadere
all'uomo buono né in vita né in morte, e che anzi, anche dopo la morte l'anima
continuerà ad esistere, sempre protetta da divinità benevole (63b-c).
Continuando nella risoluzione del precedente paradosso, la morte è intesa come
separazione dell'anima dal corpo. Il filosofo non si cura del corpo e dei suoi piaceri, ma
ambisce al perfetto sapere, che appartiene solo all'anima. La morte, dunque, in
quanto liberazione dal corpo, è una purificazione per l'anima; la vita del filosofo sarà
allora un continuo esercizio di preparazione alla morte (64a-68b). In questo senso solo
i filosofi sono coraggiosi e temperanti, mentre gli altri uomini, paradossalmente, lo
sono per paura e intemperanza: la virtù infatti necessita la vera conoscenza e la
purificazione da ogni altra passione, il che è prerogativa del filosofo, non dell'uomo
comune (68b-69e).
Con questa prima dimostrazione generale si conclude quella che è la prima parte del
dialogo.
L'immortalità dell'anima [modifica]
Come suggerito dal sottotitolo Περί ψυχής (Sull'anima), l'argomento su cui Socrate
ragionerà insieme agli allievi nelle sue ultime ore (nella seconda e terza parte del
dialogo) sarà la sua certezza nell'immortalità dell'anima. La dimostrazione di tale tesi
è portata avanti con molta attenzione dal filosofo, così da persuadere completamente i
suoi due interlocutori. Il timore di Socrate, il vero lutto da scongiurare, non è infatti la
propria morte, bensì la «morte del logos»: come afferma parlando con il giovane
Fedone, bisogna impegnarsi con tutte le forze per giungere, attraverso la maieutica, a
un risultato positivo per la propria indagine. In caso contrario, il rischio è quello che il
ragionamento muoia e, di conseguenza, si cada nella misologia - ovvero si inizi a
diffidare del logos come strumento di indagine (89b-c).[9]

I primi tre argomenti


Il discorso di Socrate sulla morte come distacco dell'anima dal corpo viene accettato di
buon grado dai due tebani. Tuttavia, ciò che ancora non li convince è l'effettiva
immortalità dell'anima una volta uscita dal corpo. Come afferma infatti Cebète, gli
uomini «temono che, nell'atto medesimo in cui ella si distacca dal corpo e ne esce,
subito come soffio o fumo si dissipi e voli via». Inoltre, la persistenza dell'anima dopo
la morte non basta per affermare che essa sia immortale: essa deve conservare anche
«potere e intelligenza», cioè mantenere la propria coscienza individuale (70b).
Socrate inizia ad argomentare la propria tesi, proponendo tre dimostrazioni.
Argomento dei contrari (70c-72e). Anzitutto, Socrate mostra come ogni cosa tragga
origine dal proprio contrario. Dal forte si genera il debole, dal grande il piccolo, dal
veloce il lento, e, perché ciò avvenga, tra i due contrari vi deve essere un processo
che permetta di passare dall'uno all'altro (per esempio: il crescere e il decrescere, il
raffreddarsi e il riscaldarsi…). La stessa cosa accade per il vivere e il morire: dal vivo si
genera il morto, e allo stesso modo, con il processo contrario del rivivere, dal morto si
genera il vivo. E se è possibile rivivere, è necessario che le anime non scompaiano, ma
continuino ad esistere anche fuori dal corpo. D'altra parte, se si esclude che dal morto
nasca il vivo, si dovrebbe ammettere che una legge di natura («i contrari si generano
dai contrari») non abbia valore universale, il che è impossibile. Questo argomento
viene anche detto della palingenesi o dell’antapòdosi.
Argomento della reminiscenza (72e-78b).
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Cebète richiama allora la dottrina della reminiscenza socratica (anamnesis), secondo
cui ogni nostro apprendimento è in realtà un ricordo di qualcosa conosciuto in
precedenza, prima della nostra nascita. Ma, obietta Simmia, come può Socrate
dimostrarlo, quali prove dà di questa teoria? Il filosofo richiama anzitutto l'attenzione
su alcune basi condivise: se qualcuno ricorda qualcosa deve averla vista in
precedenza; inoltre il ricordo di una cosa può smuoverne un altro (un oggetto, per
esempio, ricorda l'innamorato) e tale associazione può avvenire anche di fronte alle
semplici immagini dipinte di tali oggetti. Ora, noi diciamo che queste associazioni sono
possibili in base alla somiglianza o alla dissomiglianza tra gli oggetti: ma il concetto di
"simile", ovvero l'uguale in sé, da dove proviene? Poiché noi infatti lo conosciamo, è
necessario che da qualche parte lo abbiamo visto e conosciuto, e siccome in questa
vita abbiamo esperienza di oggetti uguali, ma non dell'uguale in sé, è necessario che
sia successo in una vita precedente. A questo punto, Socrate può ricollegarsi al
precedente argomento dell’antapòdosi, e riaffermare che le anime sono immortali e
posseggono conoscenza.
Solo ciò che è composto può decomporsi (78b-80b). Nonostante tutto, Simmia e
Cebète non sono ancora persuasi dalle parole di Socrate, e riportano la credenza di
molte persone, secondo la quale l'anima, dopo la morte del corpo, si dissolve nell'aria.
Socrate però allontana subito tali timori: solo ciò che composto può decomporsi e,
dissolvendosi nelle sue parti, perire. L'anima invece è simile alle idee le quali - e qui
Socrate fornisce l'unica definizione delle idee presente nell'intero corpus platonico -
sono quelle cose che «permangono sempre costanti e invariabili», le uniche che si
possano pertanto dire «non composte». Essendo dunque congenere alle idee, e quindi
di natura elementare e invisibile, l'anima non può modificarsi né tanto meno perire.
Dimostrazione di questa superiorità dell'anima sul corpo è anche il fatto che è la prima
a governare sul secondo, e non viceversa.[10]
Dopo queste tre prime dimostrazioni Socrate passa a descrivere il destino che le
anime avranno dopo la morte. Lasciato il corpo, l'anima buona (cioè di chi ha praticato
la filosofia e si è astenuto dalla stoltezza del corpo), di natura invisibile, va verso un
luogo altrettanto invisibile (l'Ade, nel suo significato etimologico); le anime di quanti,
invece, si sono dedicati solo a ciò che è corporeo, risulteranno appesantite da tutte le
impurità accolte e potranno solo vagare come fantasmi per tombe e sepolcri (81d). La
seconda parte del dialogo termina poi con un ulteriore discorso di Socrate circa la virtù
dell'anima e l'importanza della filosofia.
La dottrina dell'anima-armonia
La terza parte del dialogo inizia con un momento di stallo. Socrate e gli allievi
rimangono in silenzio a riflettere su quanto appena detto, mentre Simmia e Cebète
restano discosti a parlare tra di loro. Interrogati da Socrate, i due tebani affermano di
non essere ancora del tutto persuasi e di avere altri dubbi circa l'effettiva immortalità
delle anime. Per tale motivo, propongono a Socrate altre due obiezioni. Simmia
afferma che il ragionamento proposto in precedenza si adatta anche all'idea che
l'anima sia simile a un accordo musicale: come l'accordo è prodotto da uno strumento
e non gli sopravvive una volta che lo strumento è rotto, allo stesso modo l'anima
potrebbe essere un prodotto del corpo e dissolversi con esso. Cebète invece propone
un'analogia con un tessitore di mantelli il quale, dopo aver fabbricato e usurato vari
mantelli nel corso della propria vita, alla fine muore prima di aver consumato anche
l'ultimo: non può essere allora che anche l'anima, dopo aver vissuto varie vite, alla
fine si dissolva e muoia come il tessitore?
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Socrate accetta queste due ultime obiezioni, ribadendo che dovrà rispondervi subito,
poiché in futuro non ne avrà più l'opportunità. Anzitutto, si sofferma su quanto detto
da Simmia. Il filosofo tebano ha riproposto una teoria di origine pitagorica, la dottrina
dell’anima-armonia: poiché infatti, dice Simmia, il corpo è l'unione ben temperata di
caldo e freddo, umido e secco, e via dicendo, è possibile pensare che l'anima sia
l'accordo che armonizza questi elementi - e che quindi, come qualsiasi armonia, essa
scompaia con la scomparsa del corpo (85e-86d).
Dopo aver richiamato l'attenzione su alcuni punti condivisi delle precedenti
dimostrazioni, Socrate obbietta a Simmia che l'anima non può essere paragonata ad
un accordo poiché, mentre l'anima governa il corpo e ne regola le passioni, l'armonia
di uno strumento non può governare lo strumento stesso; al contrario, subisce delle
modificazioni a seconda di quelle cui va incontro lo strumento (92e4-93a7). Il tebano,
accettando allora la dottrina della reminiscenza, deve rifiutare quella dell’anima-
armonia (94b-e). Inoltre, se tutte le anime fossero armonie, dovrebbero essere tutte
uguali - mentre sono diverse - e dovrebbero sottostare ai desideri dei corpi, in quanto
loro prodotti - mentre si è detto che avviene l'esatto contrario (93a-95a).
La «seconda navigazione» e la ricerca delle cause prime
Persuaso Simmia, Socrate deve ora rispondere a Cebète. Il tebano infatti, ben più
sottile dell'amico e concittadino, ha proposto un'obiezione tutt'altro che ingenua, la cui
risposta richiede di cercare «la causa (aitía) della generazione e della corruzione delle
cose» (96a). Pertanto, prima di rispondervi, il filosofo decide di richiamare l'attenzione
sul metodo che si deve adoperare nelle indagini filosofiche.
Socrate racconta di essersi dedicato in gioventù allo studio della natura, e di aver
indagato le cause di tutte le cose senza però riuscire a rintracciare una causa prima.
Sconfortato da risultati così deludenti, che per di più lo avevano confuso su quanto già
sapeva, Socrate racconta di aver pensato di abbandonare quel genere di studi, finché
un giorno non sentì leggere «da un tale» (forse da Archelao, suo maestro[11]) alcuni
passi del libro di Anassagora, in cui veniva addotta come causa di tutte le cose una
mente ordinatrice (nous). Entusiasta, il giovane Socrate si era affrettato a leggere
l'opera di Anassagora, ma la delusione fu grande quando si accorse che il filosofo
riduceva tutto a cause materiali, come l'aria, l'etere, l'acqua (98c). Secondo simili tesi,
commenta Socrate, sarebbe come cercare di spiegare la sua presenza in carcere
adducendo a cause i suoi nervi e la conformazione dei suoi muscoli, invece che la sua
scelta di accettare la decisione del tribunale.
Fu così che, non trovando né maestri né soluzioni, Socrate decise di mutare «modo di
navigazione», ricorrendo qui alla nota metafora della seconda navigazione (99d; ad
essa sembra far riferimento anche Simmia in 85d). Non vi è tra gli studiosi
un'interpretazione condivisa di questa metafora, ma sembra comunque chiaro che
Socrate abbia deciso di abbandonare lo studio degli enti (gli oggetti sensibili) per
dedicarsi a quello delle cause prime, ben più difficoltoso. Come appare infatti dalla
metafora dell'acqua in 99d5-6, non è possibile guardare direttamente le cose senza
finire accecati: è dunque necessario ricorrere ad un filtro, ovvero ai discorsi (logoi).
Rivolgendosi ai logoi è però facile perdersi. Per porre rimedio a questo pericolo,
afferma Socrate, è necessario procedere con cautela: partendo da una regola
generale, riconosciuta ben solida, se ne trarranno le conseguenze, le quali andranno
messe in relazione con l'ipotesi di partenza, così da valutare se sono d'accordo oppure
no, e quindi se sono accettabili o meno. Nel caso, poi, si dovesse dar ragione
dell'ipotesi di partenza, bisognerà procedere allo stesso modo, ponendo via via altre
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ipotesi di valore sempre più universale, fino a raggiungere l'universalità massima
(101c-e). In questo modo è possibile scoprire le cause prime (cioè le cose in sé, le
idee) e quindi, per esempio, affermare che, se di due uomini uno è più alto dell'altro, il
primo non supera il secondo per la testa, ma perché partecipa dell'idea della
grandezza.[12]
L'ultimo argomento
Fatte queste premesse, Socrate può ora occuparsi dell'obiezione di Cebète. Nel
precedente ragionamento si è detto che le cause prime sono le idee, di cui
partecipano gli oggetti sensibili (100a). Ora, le realtà in sé hanno la caratteristica di
non accettare in sé il proprio contrario - senza con ciò negare la legge secondo cui il
contrario nasce dal contrario, poiché se il piccolo nasce dal grande, non per questo
partecipa dell'idea del grande. Anche tra le cose, accade lo stesso: alcuni oggetti
partecipano di uno solo dei contrari (per esempio, la neve del freddo, il due del pari), e
quando ad essi si avvicina qualcosa che partecipa dell'idea contraria, essi o periscono
o vanno via. Per esempio, la neve, che per essenza è fredda, se avvicinata al caldo si
scioglie, e lo stesso i numeri pari, se sommati a quelli dispari diventano dispari (103c-
105b).
Questo ragionamento viene applicato all'obiezione in campo: anche l'anima infatti
partecipa essenzialmente di un'idea, quella della vita, e per questo motivo essa non
potrà morire, poiché altrimenti l'idea della vita non sarebbe più vita; perciò, quando
l'anima entra in contatto con la morte, non potendo accogliere su se stessa tale idea,
essa se ne andrà via salva e incorrotta (106e). Socrate ha così dimostrato una volta
per tutte che l'anima è per essenza immortale e incorruttibile.[13] A Simmia e Cebète
non resta che concordare con lui che bisogna prendersi cura della propria anima, e
mantenerla sana attraverso l'esercizio della virtù.
Il mito escatologico
Persuaso anche Cebète, Socrate può ora concludere il dialogo con un mito
escatologico/geografico, il quale descriverà quello che - ragionevolmente - dovrebbe
essere il destino delle anime dopo la morte (108c-115a).[14]
La Terra, afferma Socrate, è una sfera posta al centro dell' universo, ma quella che noi
uomini conosciamo e abitiamo non è che una sua parte. Essa è infatti come una grotta
sovrastata dall'aria, di cui noi abitiamo la parte interna - situazione paragonabile a
quella degli organismi marini, i quali, vivendo sott'acqua, pensano che il limite del
mondo sia il cielo. Ora, sulla terra, a sua volta, esistono altre cavità e altre voragini, la
principale delle quali è quella che Omero e i poeti chiamano Tartaro, in cui
confluiscono tutte le acque dei fiumi e dei mari e da cui poi escono di nuovo. In questo
luogo, inoltre, vi sono vari fiumi che non mescolano mai le proprie acque, tra i quali i
quattro principali sono l'Oceano, l'Acheronte (che, attraversando luoghi deserti, alla
fine giunge all'Acherusiade, dove sono convogliate le anime dei morti prima della loro
palingenesi), il Piriflegetonte (in cui scorrono i lapilli e la lava che poi eruttano dai
vulcani) e lo Stige (che nasce dalla palude Stigia).
Per quanto riguarda il destino delle anime nell'Oltretomba, esse dovranno dapprima
essere sottoposte a giudizio, in modo da distinguere quelle buone da quelle cattive: le
buone ricevono un premio, le cattive vengono relegate per sempre nel Tartaro - o in
altro luogo, secondo la colpa -, mentre quelle la cui vita non è stata né buona né
cattiva vengono raccolte nella palude dell'Acherusia, dove dovranno purificarsi in vista
dei premi futuri.
La morte di Socrate (e della tragedia)
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Dopo tanti discorsi, viene però il momento per Socrate di abbandonare questa vita. La
scena descritta da Platone, tuttavia, non è tragica: l'intero dialogo ha infatti
dimostrato che all'uomo buono, che ha esercitato la filosofia per tutta la vita, non può
succedere nulla di male né in vita né in punto di morte. Si viene così delineando
l'immagine di Socrate come anti-eroe tragico, e il Fedone risulta in questo modo l'anti-
tragedia per eccellenza. Si consuma in questo modo quella che Nietzsche ne La
nascita della tragedia definisce la morte del tragico e dell'elemento dionisiaco in esso
contenuto, ad opera dell'apollineo Socrate.[15] Socrate, con la propria morte, dimostra
nella pratica ciò che era andato spiegando durante la propria vita: non può succedere
che il saggio soffra senza colpa a causa del proprio destino, ma anzi, gli dèi non gli
imputeranno dolore e sofferenza. Questo è il più puro insegnamento che il logos
socratico ci ha lasciato, la certezza, secondo ragione, che chi vive una vita morigerata,
dedita alla filosofia e alla cura della propria anima, non deve temere alcun male.
Giunta l'ora, Socrate abbandona i propri allievi per congedarsi dai parenti, quindi si
lava e, date le ultime raccomandazioni ai suoi cari, ribadisce a Critone che gli sta
appresso di non preoccuparsi per la propria sepoltura, poiché la sua anima verrà
liberata dal carcere in cui è stata rinchiusa per tanto tempo. Dopodiché, preso il
pharmakon (la tradizione vuole fosse cicuta, ma i sintomi descritti hanno indotto alcuni
interpreti a metter in dubbio tale notizia), trangugiatolo tutto d'un fiato - non prima di
aver chiesto se fosse possibile offrirne in libagione agli dèi - Socrate muore.
Si riporta di seguito la celeberrima conclusione del dialogo (118a), nella «classica»
versione di Manara Valgimigli:[16]
« E oramai intorno al basso ventre era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì - perché
s’era coperto - e disse, e fu l’ultima volta che udimmo la sua voce: - O Critone, disse,
noi siamo debitori di un gallo ad Asclèpio: dateglielo e non ve ne dimenticate.[17]
- Sì, disse Critone, sarà fatto: ma vedi se hai altro da dire.
A questa domanda egli non rispose più, passò un po’ di tempo, e fece un movimento;
e l’uomo lo scoprì; ed egli restò cogli occhi aperti e fissi. Critone, veduto ciò, gli chiuse
le labbra e gli occhi.
Questa, o Echècrate, fu la fine dell’amico nostro: un uomo, possiamo dirlo, di quelli
che allora conoscemmo il migliore; e senza paragone il più savio e il più giusto. »

http://it.wikipedia.org/wiki/Fedone_%28dialogo%29

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Il Simposio
Il Simposio (in greco Συμπόσιον, noto anche con il titolo di Convivio) è forse il più
conosciuto dei dialoghi di Platone. In particolare, si differenzia dagli altri scritti del
filosofo per la sua struttura, che si articola non tanto in un dialogo, quanto nelle varie
parti di un agone oratorio, in cui ciascuno degli interlocutori, scelti tra il fiore degli
intellettuali ateniesi, espone con un ampio discorso la propria teoria su Eros ("Amore").
Nel 1988, il regista italiano Marco Ferreri ha trasposto filmicamente, per la televisione
francese, alcuni dialoghi del Simposio ne Il banchetto di Platone.
L'ambientazione
La cornice in cui si inseriscono i vari interventi è rappresentata dal banchetto, offerto
dal poeta tragico Agatone per festeggiare la sua vittoria negli agoni delle Lenee, o
Grandi Dionisie, del 416 a.C. Fra gli invitati, oltre a Socrate e al suo discepolo
Aristodemo, il medico Erissimaco, il commediografo Aristofane, lo storico Pausania con
il suo amico Fedro, figlio di Pitocle: ognuno di loro, su invito di Erissimaco, terrà un
discorso che ha per oggetto un elogio di Eros.
Verso la fine, fa una clamorosa irruzione anche Alcibiade, completamente ubriaco,
incoronato di edera e di viole, accompagnato dal suo komos, che si presenta per
festeggiare Agatone, e che viene accolto con cordialità.
Fedro
Il primo a parlare tra gli invitati è Fedro. Egli afferma che Amore è il più antico fra tutti
gli dèi ad essere onorato, come attestano Esiodo, nella Teogonia, e Acusilao, i quali
all'origine del mondo pongono il Caos e la Terra e quindi anche Amore. Inoltre,
Parmenide sostiene che la Giustizia «per primo, fra tutti gli dei, si prese cura di
Amore». È amore a spingere amante e amato a gareggiare in coraggio, valore, nobiltà
d'animo: gli eserciti, se costituiti da tutti amanti e amati, sono imbattibili: « Se vi fosse
dunque qualche possibilità perché una città o un esercito fossero costituiti per intero
da amatori e da amati, non vi è modo per cui potessero disporre meglio la propria
esistenza tenendosi lontani da ogni bruttura e gareggiando tra di loro in desiderio di
gloria, e combattendo insieme gli uni con gli altri, essi vincerebbero, anche se in pochi,
per così dire, tutti gli uomini. Infatti l'uomo che ama sarebbe disposto ad essere visto
da tutti gli altri mentre abbandona la posizione o getta via le armi più che dal proprio
amato e sceglierebbe di morire più volte invece di questo. E quanto ad abbandonare
l'amato o non portagli aiuto quando corre pericolo non c’è nessun vile a tal punto che
amore stesso non lo renda pieno di ardore in valore, tanto da eguagliarlo anche a chi è
valorosissimo in natura... »(Simposio 178e-179a; trad.: G. Giardini)

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Fedro porta alcuni esempi, primo fra tutti quello di Alcesti che superò in amore i
genitori di Admeto, suo sposo, tanto da farli apparire estranei alla sua vicenda e da
suscitare l’ammirazione degli dei; cosa che non avvenne a Orfeo, che tornò indietro
dall'Ade senza risultato, poiché era apparso vile. Gli dei invece onorarono Achille che
per sua scelta morì in aiuto e vendetta di Patroclo, suo amante, riservando a lui l’Isola
dei Beati.
Verso la fine del discorso si assiste a un rovesciamento del concetto greco secondo il
quale l'amato è superiore all'amante, perché autosufficiente, non soggetto a urti e
scossoni. Perciò il greco ama l'uomo, ritenendo la donna indegna di essere superiore.
Qui invece la superiorità è dell'amante e perciò il merito maggiore è dell'amato che
ama: Achille, mentre Alcesti non amata, ma amante. L'ultima frase del discorso inoltre
sottolinea l'importanza di Amore: « Così io sostengo che Amore è il più antico fra gli
dei, il più meritevole di onore e quello che è più padrone di spingere gli uomini, da vivi
e da morti, all'acquisto della virtù e della felicità. » (Simposio 180b)
Pausania
Lo storico Pausania è il secondo a parlare fra gli ospiti. Egli distingue due generi di
Amore, poiché come esistono due Afroditi (l’Afrodite Urania, “celeste”, figlia di Urano,
e l’Afrodite Pandèmia, “comune”, “volgare”, figlia di Zeus e di Dione) così esistono
anche due Amori: il primo detto “Celeste”, si accompagna all'Afrodite “Urania”, il
secondo detto “Volgare”, si accompagna invece all’Afrodite “Pandèmia”.
L'Amore Volgare è volto ad amare i corpi più che le anime e, partecipando di
entrambe le nature dei suoi genitori, maschile e femminile, preferisce tanto le donne -
considerate nella cultura greca antica oggetto inferiore d'amore - che i fanciulli ma
imberbi, quindi facilmente plagiabili. L'Amore “Celeste”, invece, trascende quello
corporale e si fa guida verso un elevato sentire e, partecipando della sola natura
maschile del padre, è rivolto esclusivamente ai fanciulli. L'Amore volgare, infatti, ha
come unico scopo la brutale soddisfazione dei sensi, mentre quello celeste,
infinitamente più elevato, spinge ad educare a cose nobili ed alte colui che si ama. Chi
è oggetto dunque di questo amore è indotto a contraccambiarlo perché «è bello in
tutti i modi mostrarsi compiacenti a causa della virtù». Il suo discorso si conclude con
una ricerca della giustificazione dell'amore omofilo basandosi sui nomoi (cioè le
norme, siano esse leggi scritte o no) delle varie regioni della Grecia, mostrando come
questo sia disprezzato «nell’Elide, a Sparta o anche in Beozia» a causa della scarsa
capacità oratoria di queste popolazioni, mentre ad Atene il nomos è più complicato,
poiché è considerato lecito farlo in privato, riprovevole farlo in pubblico.
« È cosa brutta quando si ha compiacenza per un abbietto e in maniera abbietta, è
bella invece quando la si prova per uno meritevole e in maniera bella. Abbietto è
l'amante volgare, innamorato più del corpo che dell'anima: non è un individuo che
resti saldo, come salda non è nemmeno la cosa che egli ama. Infatti quando svanisce
il fiore della bellezza del corpo del quale era preso "si ritira a volo" ad onta dei molti
discorsi e delle promesse. Chi invece si è innamorato dello spirito quando è nobile
resta costante per tutta la vita perché si è attaccato a una cosa che resta ben salda. »
(Simposio 183d-e)
L’Eros ellenico
La nozione ellenica di Eros (Amore) si inquadrava nella prassi educativa delle eilté
sociali dell’epoca, e indicava una relazione amorosa tra due individui dello stesso
sesso, dei quali uno aveva il nome di erómenos (amato), un giovinetto solitamente dai

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tratti femminei e di età compresa tra i 12 e i 20 anni, mentre l’altro, definito erastés
(amante), era di età maggiore (solitamente un uomo maturo).
Il rapporto tra i due trascendeva la semplice relazione sessuale per abbracciare fini più
nobili, quali l’educazione del giovinetto alla futura vita pubblica. Per un fanciullo di
buona nascita era infatti un privilegio poter vantare le attenzioni di un uomo di
comprovata nobiltà, il quale in qualità di mentore lo avrebbe istradato ad una vita
virtuosa nell’ambito della polis. All’interno della coppia, pertanto, i rapporti erano
rigidamente regolamentati in modo gerarchico, similmente a quanto accade nel
rapporto docente-discente: l’erómenos ricopriva sempre un ruolo passivo durante gli
incontri amorosi, e il suo compito era quello di soddisfare anche intellettualmente il
proprio erastés (con Platone l’eros perderà completamente i connotati lubrici per
diventare puramente spirituale).
L’amore tra uomini era infatti preferito a quello tra persone di diverso sesso, e per
questo veniva ricercato nella pratica dei simposi, ritrovi di soli uomini. Le donne erano
generalmente ritenute individui inferiori non solo fisicamente ma anche
intellettualmente, e ciò faceva sì che un uomo fosse più propenso a cercare diletto
(sessuale e spirituale) nella compagnia di un suo pari. Una cosa simile, d’altra parte,
accadeva anche per le donne durante gli incontri nel tiaso.
Erissimaco
Come terzo, in sostituzione di Pausania che è colto dal singhiozzo, interviene
Erissimaco, il quale, da buon medico, considera l'amore un fenomeno naturale e ne
distingue gli aspetti normali da quelli morbosi. Nell'esporre la sua teoria si trova
d'accordo sulle due specie d'Amore individuate da Pausania: «che Amore dunque sia
duplice, pare a me che sia un distinguere bene», con una piccola differenza però: al
posto dell’Afrodite Pandemia (Volgare), Erissimaco pone l’Afrodite Polimnia (“dai molti
inni”, cioè portatrice di disordine). Amore infatti, come ogni cosa in natura, deve
essere armonico ed equilibrato in ogni sua azione - «comunione di opposti»: infatti la
“soverchieria”, “il disordine” insiti in ogni forma di attrazione non possono riuscire a
buon fine, ma determinano contagi, malattie, guasti e distruzione; «ma quando invece
l'Amore diventa incontenibile e infuria violento durante le stagioni dell'anno, produce
guasti e distrugge molte cose».
All'inizio del suo discorso, inoltre, Erissimaco ci propone una sua definizione di
medicina, e di armonia, e afferma che «nella musica, nella medicina e in tutte le altre
attività umane e divine, per quanto è dato, bisogna bene osservare l'uno e l'altro di
questi amori: infatti sussistono ambedue».
Erissimaco infine, come Pausania, cerca anch'egli una giustificazione per l’amore
omofilo, trovandola in maniera più fondata nella Physis (natura) piuttosto che nel
Nomos.
Aristofane
Come quarto, rimessosi dal singhiozzo, interviene Aristofane, il quale spiega la sua
devozione verso Amore per mezzo di un fantasioso, ma significativo mito. Per lui,
all'origine del mondo, gli esseri umani erano differenti dagli attuali, formati da due
degli umani attuali congiunti tramite la parte frontale (pancia e petto). Inoltre essi
erano di tre generi: il maschile, il femminile e l'androgino, che partecipa del maschio e
della femmina (cioè, appunto, ἀνδρόγυνος, “uomo-donna”). La forma degli uomini era
inoltre circolare: quattro mani, quattro gambe, due volti su una sola testa, quattro
orecchie, due organi genitali e tutto il resto come ci si può immaginare. Questa natura

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doppia è però stata spezzata da Zeus, il quale fu indotto a tagliare a metà questi
esseri per la loro tracotanza, al fine di renderli più deboli ed evitare che attentassero
al potere degli dei (d’altro canto, eliminarli del tutto avrebbe comportato la perdita
dell’unica forma vivente da cui gli dei erano venerati).
« Da tempo è dunque connaturato che negli uomini l'amore degli uni per gli altri che si
fa conciliatore dell’antica natura e che tenta di fare un essere solo da due e di curare
la natura umana. Ciascuno di noi dunque è come un contrassegno (σύμβολον) d'uomo,
giacché è tagliato in due come sogliole, da uno diventa due. »(Simposio 191c-d)
Ma da questa divisione in parti nasce negli umani il desiderio di ricreare la primitiva
unità, tanto che le “parti” non fanno altro che stringersi l’una all’altra, e così muoiono
di fame e di torpore per non volersi più separare. Zeus allora, per evitare che gli
uomini si estinguano, manda nel mondo Eros affinché, attraverso il ricongiungimento
fisico, essi possano ricostruire “fittiziamente” l’unità perduta, così da provare piacere
(e riprodursi) e potersi poi dedicare alle altre incombenze cui devono attendere.
« Questo è il motivo per il quale la nostra natura antica era così e noi eravamo tutti
interi: e il nome d'amore dunque è dato per il desiderio e l'aspirazione
all'intero. »(Simposio 192e)

Agatone
Per quinto parla il padrone di casa, Agatone, che definisce Amore il dio più bello e più
nobile. Egli si incarica di dire «qual è e di quali beni artefice» è Amore. «Amore è il più
felice perché è il più bello e il migliore. È il più bello perché è tale: anzitutto è il più
giovane tra gli dei», e inoltre «è il più giovane e il più soave, e oltre a ciò è come
flessuoso nell'aspetto. Non sarebbe infatti in grado di abbracciarsi ovunque, né di
entrare in ogni anima di nascosto e poi uscirne se fosse inflessibile». Da sottolineare
l'affermazione che «tra Amor e bruttezza c’è sempre guerra», poiché Amore
simboleggia la bellezza, «la sua esistenza tra i fiori reca una testimonianza della
bellezza della carnagione del dio». Egli non fa ingiustizia né la subisce, perché
“giustizia”, “morigeratezza”, “potenza” e “sapienza” sono le virtù che lo
contraddistinguono: « La cosa più grande è che Amore non fa ingiustizia né la subisce
da parte di un dio né contro un dio, né da parte di un uomo, né contro un uomo; né
egli soffre per violenza, se pure prova qualche sofferenza, perché la violenza non si
attacca ad Amore; né quando agisce, agisce con violenza, perché ognuno volentieri in
tutto serve ad Amore e le cose che mettono d'accordo chi lo desidera con chi lo
desidera, le leggi regine della città dicono che è giusto. »(Simposio 196b-c)
Agatone compone anche versi in onore di Amore: « Pace fra gli uomini e sul mare una
tranquillità senza vento, luogo di quiete e di sonno nell'affanno dei soffi impetuosi. »
(Simposio 197c)
E conclude il suo discorso tessendone un elogio molto poetico.

Socrate
Socrate Interviene per sesto e ultimo. Sulle prime tenta di schermirsi per la sua
incapacità come oratore, ma sostenuto dalla convinzione che su ogni cosa «basta dire
la verità», decide di fare lo stesso anche con Eros, scegliendo ed ordinando nel modo
migliore le cose più belle. Infatti gli elogi di Eros fatti dai precedenti oratori poggiavano
tutta la loro efficacia sul dispiego della retorica e su argomentazioni sofistiche,

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arrivando a gareggiare nell'associare ad Eros i migliori benefici. Socrate invece, come
detto, partirà dalla verità.
In sostanza «Amore è amore di alcune cose», in particolare «di quelle di cui si avverte
mancanza». A questo punto sul discorso di Socrate si innesta quello di Diotima,
sacerdotessa di Mantinea, maestra di Socrate della concezione di Amore. Secondo
essa «Amore non è bello [...] e non è neanche buono», ma un qualcosa di mezzo tra
bello e brutto, tra buono e cattivo, tra mortale e immortale, un dèmone insomma. Fu
concepito da Penía (Povertà), che come detto dalla sacerdotessa approfittò di Póros
(Espediente), ubriaco, alla festa del genetliaco di Afrodite: egli è quindi un essere
intermedio tra il divino e l'umano che, assieme alle qualità positive, assomma in sé
anche quelle negative. Socrate, come apprende da Diotima, era caduto nello stesso
equivoco nel quale cadono tutti o quasi gli uomini che in Amore vedono solo il lato più
bello. Tutto questo deriva dal fatto che Amore viene identificato con l'amato e non con
l'amante: il primo è delicato, compiuto, il secondo invece è quale appare nella
descrizione che Diotima ne viene facendo. Ma qual è la molla che spinge l’amante
verso l'amato? L'attrazione della bellezza può essere uno stadio, ma non se è fine a sé
stessa: tra gli uomini chi è fertile nel corpo è attratto dalla donna e cerca la felicità
nella discendenza della prole e nella continuità, chi invece è fertile nell'anima cerca
un'anima bella a cui unire la propria, e può creare con questa una comunanza più
profonda di quella che si può avere con i figli. Su questo piano chi ama riuscirà «a
capire che tutto il bello che riguarda il corpo è cosa ben da poco».
Alcibiade: «Socrate è un sileno
Dopo che Socrate ha concluso il suo discorso, irrompe nella sala del banchetto
Alcibiade ubriaco e, dopo una breve schermaglia con Socrate, ne tesse il più splendido
elogio. Pur senza aver udito le considerazioni di Socrate, Alcibiade viene a darne la più
viva e diretta dimostrazione: Socrate gli è stato maestro, amico, gli ha salvato la vita
in battaglia, gli ha fatto attribuire dagli strateghi, in guerra, quei riconoscimenti che
avrebbe meritato per sè.
« Quando avvenne lo scontro per il quale gli strateghi mi concessero i premi del
valore, nessuno tra i soldati mi salvò se non costui, che non volle abbandonarmi
benché ferito, ma con me trasse in salvo anche le armi. E io, Socrate, anche in
quell'occasione chiesi ripetutamente agli strateghi che i riconoscimenti li
concedessero a te. [...] Ma gli strateghi guardando solo alla mia condizione erano
intesi a dare a me le insegne del valore e tu ti impegnasti più di loro perché fossi io a
riceverle e non tu. »(Simposio 220d-e)
Socrate gli ha resistito quando egli gli ha fatto dono della propria bellezza, perché non
a questo mirava. Era attratto piuttosto «dalla bellezza in sé, genuina, pura, non
mescolata, non incorporata di carni umane, né di colori, né di ogni altra vacuità
mortale». Era desideroso di contemplare la «bellezza divina nel suo unico aspetto».
« Sappiate che a lui non importa nulla se uno è bello e ne fa così poco conto quanto
nessun altro, né gli interessa se è ricco o se ha un altro titolo di quelli che, per la
gente, portano alla felicità. Ritiene di ben poco conto tutti questi beni, e che noi, vi
assicuro, non siamo nulla e passa la sua vita ostentando candore e scherzando, ma
quando poi si impegna seriamente e si apre, non so se uno ha mai visto le splendide
qualità che ha all'interno: io le ho già osservate, da tempo, e mi apparvero così divine,
dorate, belle e meravigliose da provare che si doveva fare subito quel che Socrate
comandava. » (Simposio 216d-e)

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« Si potrebbero dire, senza dubbio, molte altre cose per lodare Socrate e tutte da far
meraviglia, ma mentre per ogni altro atteggiamento nella vita tali cose si potrebbero
dire anche di altri, il fatto di non essere egli simile a nessuno degli uomini, né degli
antichi, né di quelli di adesso, questa è cosa degna di ogni meraviglia. [...] Ma come è
fatto quest’uomo, quanto a stranezza, lui e i suoi discorsi, neppure cercando si
potrebbe trovare uno che gli si avvicini né tra gli uomini d'ora, né tra quelli di un
tempo, a meno di metterlo a confronto con quelli che dico io, cioè non con un uomo,
ma con i sileni e i satiri, lui e i suoi discorsi. »(Simposio 221c-d)
http://it.wikipedia.org/wiki/Simposio_%28dialogo%29

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