Il dialogo platonico Fedro è posteriore alla Repubblica, a cui viene fatto riferimento
nell'opera, e presenta notevoli affinità tematiche con il Simposio. La sua stesura può
essere ricompresa nell'ultima fase della produzione platonica. I personaggi presenti
fanno propendere per un'ambientazione immaginata tra il 420 e il 410 a.C.
Struttura e tematica dell'opera
Il dialogo riguarda l'uso e il valore della retorica in connessione con l'educazione e la
filosofia: sullo sfondo, a fornire il fondamentale inquadramento concettuale, permane
il sistema delle idee e il metodo corretto per pervenire alla conoscenza della verità e
per comunicarla. Fedro, un giovane ateniese appassionato dell'arte del discorso,
incontra Socrate e con lui inizia a discorrere di retorica, mentre i due si recano fuori di
Atene, nella valle dell'Ilisso, a est della città. Il luogo offre a Platone lo spunto per
produrre una delle descrizioni ambientali più belle di tutta la letteratura greca.
In questo scenario di grande tranquillità e bellezza, Fedro racconta a Socrate di aver
appena ascoltato un discorso, di cui ha la copia con sé, che l'oratore Lisia ha composto
sull'amore, in particolare sull'opportunità di concedere i propri favori a chi non è
innamorato, piuttosto che a chi lo sia. Socrate ascolta il discorso lisiano che Fedro
legge e lo trova apprezzabile dal punto di vista della tecnica oratoria, ma scorretto nei
presupposti metodologici e la tecnica perde di valore se non è sorretta dalla saggezza
del pensiero.
Socrate, a capo coperto, compone quindi un suo discorso su eros, assumendo lo
stesso punto di vista di Lisia, ossia su quanto sia preferibile concedersi a chi non è
innamorato, ma partendo da una base filosofica che a Lisia mancava, consistente nella
preliminare distinzione tra ciò che è bene e ciò che procura piacere.
L'amore di cui Socrate tratta in questo discorso sul modello lisiano costituisce solo uno
degli aspetti di eros, la mania umana tendente al piacere. L'intento del filosofo,
tuttavia, non è quello di contrapporsi a Lisia sul suo stesso piano: egli ha composto il
discorso sull'amore umano, che tende al piacere e che trova maggior soddisfazione e
interesse nel concedersi a chi non è innamorato, solo per dimostrare come, dal punto
di vista tecnico, si possa elaborare una forma retorica migliore, corretta per deduzione
di principi e densa di significato.
Ma non è questo aspetto di eros che può interessare chi tenda alla vera conoscenza. È
necessaria, dunque, una palinodia, ossia un nuovo canto in onore di eros, che ne
sviluppi ed esponga la vera essenza.
Il dialogo presenta, a questo punto, un terzo discorso, che costituisce il nucleo
filosofico dell'opera e si iscrive nella metafisica delle idee che Platone andava
disegnando nelle sue opere, ma che soprattutto esponeva e approfondiva nelle lezioni
orali all'interno dell'Accademia.
Eros come mania divina. Il mito della biga alata
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Accanto all'amore quale mania umana, che ricerca il piacere fine a se stesso e
l'interesse contingente, esiste l'amore quale mania divina, su cui si incentra anche il
discorso della sacerdotessa di Mantinea, Diotima, nel Simposio, che è tensione verso
la conoscenza dell'essere.
Per comprendere pienamente la natura di questa forma di eros, è necessario esporre
quale sia la natura della vita al di là dell'esistenza terrena.
L'anima degli uomini è tripartita in una parte razionale, una passionale e una volitiva:
per analogia, può essere rappresentata come una biga dotata di ali, retta da un auriga
che rappresenta la ragione e da due cavalli, uno nero ribelle e difficilmente
governabile, che si identifica con l'anima concupiscibile, cioè con i desideri intensi,
come quelli dovuti alla sessualità o alla gola, e uno bianco, che rappresenta l'anima
irascibile, che sostanzializza la volontà e il coraggio. L'aggressività positiva o "grinta" o
determinazione è rappresentata dal cavallo bianco, più obbediente alla ragione.
Sembra esservi in questa analogia una ripresa della tripartizione dell'anima di cui si
parla nella Repubblica, ma vi è una differenza fondamentale: nella Repubblica si fa
riferimento all'anima mortale, mentre nel Fedro si dice chiaramente che si sta
parlando dell'anima immortale.
Sembra preferibile l'interpretazione che considera la figura della biga come
ipostatizzazione dell'anima dell'uomo mortale, quasi che si consideri qui l'idea
dell'anima, di cui l'anima degli esseri viventi non è che una copia.
Le bighe alate costituiscono diverse schiere, guidate dall'anima di una divinità: tutte le
schiere si muovono incessantemente e cercano di innalzarsi al di sopra del livello nel
quale si trovano, per riuscire a gettare uno sguardo al di là verso ciò che esiste oltre il
cielo, nell'iperuranio dove si estende la pianura della verità. Questa è la sede delle
idee, la cui contemplazione è concessa solo agli dei e a chi, conducendo una vita retta
secondo i principi del bene, è in grado di sollevarsi al di sopra della condizione media
dell'uomo.
L'insegnamento del mito della biga alata è duplice: da un lato le passioni (i sentimenti
e le emozioni) devono essere guidati dalla ragione (è l'auriga che decide dove deve
andare il carro, non i cavalli) dall'altro le passioni non possono essere eliminate (senza
i cavalli il carro si ferma) contro la posizione di alcuni socratici minori, che sarà poi la
convinzione degli stoici, secondo la quale le passioni derivano da errori di giudizio e
pertanto l'uomo saggio le deve estirpare, cancellare.
Ogni anima è soggetta a un ciclo di reincarnazione di diecimila anni: ogni mille anni
vive un secolo sulla terra e nove secoli nell'aldilà. Solamente le anime dei filosofi
riescono ad abbreviare questo ciclo a tremila anni, perché, usufruendo del metodo
della conoscenza, riescono a contemplare più a lungo la pianura della verità, di cui le
altre anime riescono a cogliere solamente una fugace impressione.
E tuttavia questo brevissimo istante di conoscenza risulta fondamentale perché lascia
nell'anima il ricordo delle idee, una traccia della verità che può essere recuperata
pienamente, attraverso l'anamnesi e la sollecitazione del ricordo, se l'uomo indirizza la
propria conoscenza verso l'essere.
Tramite verso le idee e l'uno è eros, la divina mania, che spinge l'anima verso ciò che
è bello, perché la bellezza costituisce tratto fondamentalmente concatenato all'uno. La
tensione verso un corpo bello aiuta a recuperare, nel profondo dell'anima, il ricordo
dell'idea del bello: quando eros è libero di manifestarsi nell'incontro tra due amanti, la
sua potenza esplode, pervade il corpo e l'anima di chi è innamorato, rende viva e
splendente l'immagine della bellezza che rigenera a sua volta il ricordo, breve ma
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intenso, delle idee eterne e immutabili nella pianura della verità.
Il filosofo è colui che conosce il vero significato e la vera funzione di eros, perché è
consapevole del legame esistente tra eros, bellezza e verità.
Il valore della vera retorica: synopsis e diairesis
Forte di questa conoscenza, il filosofo sa anche che la vera arte retorica è quella che si
esplica a partire dalla conoscenza della verità: altre forme di discorsi, come quelli di
cui Lisia fornisce un esempio, non sono altro che distorsioni della conoscenza, adatte
solo per il piacere temporaneo e vuoto.
Ma Platone dice molto di più: non solo individua quale debba essere la vera sostanza
del discorso, definisce anche quale sia l'unica tecnica corretta della retorica, che
procede per unificazioni e progressive dissezioni, fino a recuperare l'unità originaria
del concetto. Così come Socrate aveva iniziato il discorso individuando nel termine
unico di eros una compresenza di motivi e lo aveva sezionato in una mania umana e
una divina, procedendo poi per ulteriori separazioni, fino a ricomporre l'analisi in una
complessiva visione di insieme, così il vero discorso è quello che procede per
dihairesis, separazione, e synopsis, visione unitaria, separando ogni elemento nelle
sue parti costitutive, individuando, tramite l'analisi, quali siano le idee connesse con la
materia, ripercorrendo infine le relazioni fra le idee fino a concepire la struttura
dell'Uno.
Platone dichiara quale debba essere dunque la vera retorica, opponendosi
consapevolmente a Isocrate, che viene espressamente citato nel Fedro quale giovane
che non ha mantenuto le brillanti promesse, e alla sua scuola, dove si insegnava che
alla base del bravo oratore dovesse esservi una buona conoscenza della storia: la
composizione del discorso non vale nulla, invece, se non è sostenuta da quella forma
di dialettica che, muovendo per disgiunzioni e unificazioni, pone come proprio fine la
conoscenza del mondo delle idee.
La vera retorica è dunque quell'arte che si esplica nel quadro della conoscenza
filosofica.
Conclusione dell'opera. Prevalenza dell'oralità
Ma Platone va molto oltre, giungendo a negare piena validità qualunque discorso
scritto, attraverso l'aneddoto, costruito artificiosamente, di Theuth e Thamus, narrato
a Fedro da Socrate, verso la fine del dialogo.
Theuth, dio egizio delle arti e dei mestieri, dalla brillante intelligenza, corrispondente
al greco Ermes, si presenta al faraone Thamus, magnificandogli l'utilità prodigiosa
della sua ultima invenzione, la scrittura, capace di fissare in eterno le conoscenze
umane: Thamus, tuttavia, rifiuta il dono, sostenendo che la forma scritta è in realtà
nemica della vera conoscenza, perché il discorso vero è quello comunicato oralmente,
capace di incidersi nell'anima di chi ascolta, mentre la parola scritta rimane fissata in
una perenne e muta immobilità.
Al di là dell'aneddoto, Platone afferma, attraverso Socrate, che solo la comunicazione
diretta tra maestro e allievo è capace di innalzare l'anima dello studente verso la vera
conoscenza e, nel sostenere il valore della parola orale quale unico mezzo in grado di
penetrare nell'anima di chi ascolta, di riflesso nega validità a tutti i suoi stessi scritti,
quasi che tutti i dialoghi a noi pervenuti non siano altro che un semplice supporto
mnemonico e una pallida copia dell'essenza del pensiero filosofico, cui avevano
accesso solo gli studenti al più alto grado all'interno dell'Accademia.
Dopo la celebrazione dell'oralità, alla quale il sapiente affida la sua conoscenza, il
dialogo si chiude con la preghiera che Socrate rivolge a Pan e alle altre divinità del
3
luogo in cui si trovano lui e Fedro che sempre la bellezza alberghi in lui e lo faccia
agire in accordo con la sua essenza.
http://it.wikipedia.org/wiki/Fedro_%28dialogo%29
Il Fedone (Φαίδων)
Il Fedone (Φαίδων) è uno dei più celebri dialoghi di Platone. Ultimo dialogo della prima
tetralogia di Trasillo, sembrerebbe un dialogo giovanile del filosofo, anche in
considerazione del contesto in cui si svolge (la morte di Socrate). Lo studio stilistico
dell'opera, tuttavia, più narrativa che dialogica, motiva alcuni studiosi ad assegnare
l'opera al periodo della maturità.[1]
Argomento centrale è l'immortalità dell'anima, in sostegno della quale Platone porta
quattro diverse argomentazioni: la palingenesi, la dottrina della reminiscenza (più
dettagliatamente esposta nel Menone), la differenza sostanziale fra l'anima e il corpo e
la constatazione che l'idea della morte non può risiedere nell'anima, che è partecipe
invece dell'idea della vita.
Celeberrimo è il finale, dove Socrate, morente per avere ingerito la cicuta e circondato
dai suoi allievi piangenti, li esorta ad offrire un gallo ad Asclepio (dio della medicina),
in segno di ringraziamento per la liberazione dalla vita.
« Quest’oggi, disse, io taglierò i miei capelli e tu i tuoi, se morirà questo nostro
ragionamento e non saremo capaci di richiamarlo in vita. »(Platone, Fedone
89b)
personaggi principali del dialogo sono:
-Fedone di Elide, allievo di Socrate e voce narrante del dialogo;
-Echecrate di Fliunte, filosofo pitagorico e interlocutore di Fedone nel dialogo diretto;
-Socrate, filosofo e maestro di Platone;
-Simmia di Tebe, filosofo tebano, ex-allievo di Filolao (un pitagorico) in seguito
"convertitosi" alla dottrina di Socrate;
-Cebète di Tebe, altro ex-allievo di Filolao, amico di Simmia;
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-Critone, facoltoso cittadino ateniese, amico e allievo di Socrate nonché protagonista
del dialogo omonimo.
Altri personaggi presenti al momento della morte di Socrate: Apollodoro, Critobùlo
(figlio di Critone), Ermogene, Epigene, Eschine, Antistene, Ctesippo di Peania,
Menèsseno, Fedonda di Tebe, Euclide e Terpsione di Megara. Platone è invece
stranamente assente, forse malato (59b): in realtà, nessun'altra fonte antica parla per
quell'epoca di una malattia del filosofo, tanto grave da impedirgli di assistere il
maestro nelle ultime ore. Con la sua assenza, Platone forse vuole affermare che il
dialogo non sarà una cronaca puntuale della morte di Socrate, quanto piuttosto, come
afferma Centrone, una sua ricostruzione letteraria in linea con lo spirito dialogico del
maestro.[2] Più precisamente Reale, nella raccolta da lui curata dell’Opera Omnia
platonica, evidenzia: «La spiegazione più probabile del fatto che Platone si citi qui
come malato sarebbe questa: egli vuole rendere il lettore avvertito del fatto che
quanto farà dire a Socrate non è la pura verità storica».[3] E alcune pagine oltre
prosegue: «Platone non presenta in questi dialoghi un documento storico, ma mette in
bocca a Socrate le proprie convinzioni metafisiche e fornisce la grandiosa
dimostrazione del mondo intelligibile delle Idee e dell'essere metasensibile».[4]
http://it.wikipedia.org/wiki/Fedone_%28dialogo%29
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Il Simposio
Il Simposio (in greco Συμπόσιον, noto anche con il titolo di Convivio) è forse il più
conosciuto dei dialoghi di Platone. In particolare, si differenzia dagli altri scritti del
filosofo per la sua struttura, che si articola non tanto in un dialogo, quanto nelle varie
parti di un agone oratorio, in cui ciascuno degli interlocutori, scelti tra il fiore degli
intellettuali ateniesi, espone con un ampio discorso la propria teoria su Eros ("Amore").
Nel 1988, il regista italiano Marco Ferreri ha trasposto filmicamente, per la televisione
francese, alcuni dialoghi del Simposio ne Il banchetto di Platone.
L'ambientazione
La cornice in cui si inseriscono i vari interventi è rappresentata dal banchetto, offerto
dal poeta tragico Agatone per festeggiare la sua vittoria negli agoni delle Lenee, o
Grandi Dionisie, del 416 a.C. Fra gli invitati, oltre a Socrate e al suo discepolo
Aristodemo, il medico Erissimaco, il commediografo Aristofane, lo storico Pausania con
il suo amico Fedro, figlio di Pitocle: ognuno di loro, su invito di Erissimaco, terrà un
discorso che ha per oggetto un elogio di Eros.
Verso la fine, fa una clamorosa irruzione anche Alcibiade, completamente ubriaco,
incoronato di edera e di viole, accompagnato dal suo komos, che si presenta per
festeggiare Agatone, e che viene accolto con cordialità.
Fedro
Il primo a parlare tra gli invitati è Fedro. Egli afferma che Amore è il più antico fra tutti
gli dèi ad essere onorato, come attestano Esiodo, nella Teogonia, e Acusilao, i quali
all'origine del mondo pongono il Caos e la Terra e quindi anche Amore. Inoltre,
Parmenide sostiene che la Giustizia «per primo, fra tutti gli dei, si prese cura di
Amore». È amore a spingere amante e amato a gareggiare in coraggio, valore, nobiltà
d'animo: gli eserciti, se costituiti da tutti amanti e amati, sono imbattibili: « Se vi fosse
dunque qualche possibilità perché una città o un esercito fossero costituiti per intero
da amatori e da amati, non vi è modo per cui potessero disporre meglio la propria
esistenza tenendosi lontani da ogni bruttura e gareggiando tra di loro in desiderio di
gloria, e combattendo insieme gli uni con gli altri, essi vincerebbero, anche se in pochi,
per così dire, tutti gli uomini. Infatti l'uomo che ama sarebbe disposto ad essere visto
da tutti gli altri mentre abbandona la posizione o getta via le armi più che dal proprio
amato e sceglierebbe di morire più volte invece di questo. E quanto ad abbandonare
l'amato o non portagli aiuto quando corre pericolo non c’è nessun vile a tal punto che
amore stesso non lo renda pieno di ardore in valore, tanto da eguagliarlo anche a chi è
valorosissimo in natura... »(Simposio 178e-179a; trad.: G. Giardini)
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Fedro porta alcuni esempi, primo fra tutti quello di Alcesti che superò in amore i
genitori di Admeto, suo sposo, tanto da farli apparire estranei alla sua vicenda e da
suscitare l’ammirazione degli dei; cosa che non avvenne a Orfeo, che tornò indietro
dall'Ade senza risultato, poiché era apparso vile. Gli dei invece onorarono Achille che
per sua scelta morì in aiuto e vendetta di Patroclo, suo amante, riservando a lui l’Isola
dei Beati.
Verso la fine del discorso si assiste a un rovesciamento del concetto greco secondo il
quale l'amato è superiore all'amante, perché autosufficiente, non soggetto a urti e
scossoni. Perciò il greco ama l'uomo, ritenendo la donna indegna di essere superiore.
Qui invece la superiorità è dell'amante e perciò il merito maggiore è dell'amato che
ama: Achille, mentre Alcesti non amata, ma amante. L'ultima frase del discorso inoltre
sottolinea l'importanza di Amore: « Così io sostengo che Amore è il più antico fra gli
dei, il più meritevole di onore e quello che è più padrone di spingere gli uomini, da vivi
e da morti, all'acquisto della virtù e della felicità. » (Simposio 180b)
Pausania
Lo storico Pausania è il secondo a parlare fra gli ospiti. Egli distingue due generi di
Amore, poiché come esistono due Afroditi (l’Afrodite Urania, “celeste”, figlia di Urano,
e l’Afrodite Pandèmia, “comune”, “volgare”, figlia di Zeus e di Dione) così esistono
anche due Amori: il primo detto “Celeste”, si accompagna all'Afrodite “Urania”, il
secondo detto “Volgare”, si accompagna invece all’Afrodite “Pandèmia”.
L'Amore Volgare è volto ad amare i corpi più che le anime e, partecipando di
entrambe le nature dei suoi genitori, maschile e femminile, preferisce tanto le donne -
considerate nella cultura greca antica oggetto inferiore d'amore - che i fanciulli ma
imberbi, quindi facilmente plagiabili. L'Amore “Celeste”, invece, trascende quello
corporale e si fa guida verso un elevato sentire e, partecipando della sola natura
maschile del padre, è rivolto esclusivamente ai fanciulli. L'Amore volgare, infatti, ha
come unico scopo la brutale soddisfazione dei sensi, mentre quello celeste,
infinitamente più elevato, spinge ad educare a cose nobili ed alte colui che si ama. Chi
è oggetto dunque di questo amore è indotto a contraccambiarlo perché «è bello in
tutti i modi mostrarsi compiacenti a causa della virtù». Il suo discorso si conclude con
una ricerca della giustificazione dell'amore omofilo basandosi sui nomoi (cioè le
norme, siano esse leggi scritte o no) delle varie regioni della Grecia, mostrando come
questo sia disprezzato «nell’Elide, a Sparta o anche in Beozia» a causa della scarsa
capacità oratoria di queste popolazioni, mentre ad Atene il nomos è più complicato,
poiché è considerato lecito farlo in privato, riprovevole farlo in pubblico.
« È cosa brutta quando si ha compiacenza per un abbietto e in maniera abbietta, è
bella invece quando la si prova per uno meritevole e in maniera bella. Abbietto è
l'amante volgare, innamorato più del corpo che dell'anima: non è un individuo che
resti saldo, come salda non è nemmeno la cosa che egli ama. Infatti quando svanisce
il fiore della bellezza del corpo del quale era preso "si ritira a volo" ad onta dei molti
discorsi e delle promesse. Chi invece si è innamorato dello spirito quando è nobile
resta costante per tutta la vita perché si è attaccato a una cosa che resta ben salda. »
(Simposio 183d-e)
L’Eros ellenico
La nozione ellenica di Eros (Amore) si inquadrava nella prassi educativa delle eilté
sociali dell’epoca, e indicava una relazione amorosa tra due individui dello stesso
sesso, dei quali uno aveva il nome di erómenos (amato), un giovinetto solitamente dai
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tratti femminei e di età compresa tra i 12 e i 20 anni, mentre l’altro, definito erastés
(amante), era di età maggiore (solitamente un uomo maturo).
Il rapporto tra i due trascendeva la semplice relazione sessuale per abbracciare fini più
nobili, quali l’educazione del giovinetto alla futura vita pubblica. Per un fanciullo di
buona nascita era infatti un privilegio poter vantare le attenzioni di un uomo di
comprovata nobiltà, il quale in qualità di mentore lo avrebbe istradato ad una vita
virtuosa nell’ambito della polis. All’interno della coppia, pertanto, i rapporti erano
rigidamente regolamentati in modo gerarchico, similmente a quanto accade nel
rapporto docente-discente: l’erómenos ricopriva sempre un ruolo passivo durante gli
incontri amorosi, e il suo compito era quello di soddisfare anche intellettualmente il
proprio erastés (con Platone l’eros perderà completamente i connotati lubrici per
diventare puramente spirituale).
L’amore tra uomini era infatti preferito a quello tra persone di diverso sesso, e per
questo veniva ricercato nella pratica dei simposi, ritrovi di soli uomini. Le donne erano
generalmente ritenute individui inferiori non solo fisicamente ma anche
intellettualmente, e ciò faceva sì che un uomo fosse più propenso a cercare diletto
(sessuale e spirituale) nella compagnia di un suo pari. Una cosa simile, d’altra parte,
accadeva anche per le donne durante gli incontri nel tiaso.
Erissimaco
Come terzo, in sostituzione di Pausania che è colto dal singhiozzo, interviene
Erissimaco, il quale, da buon medico, considera l'amore un fenomeno naturale e ne
distingue gli aspetti normali da quelli morbosi. Nell'esporre la sua teoria si trova
d'accordo sulle due specie d'Amore individuate da Pausania: «che Amore dunque sia
duplice, pare a me che sia un distinguere bene», con una piccola differenza però: al
posto dell’Afrodite Pandemia (Volgare), Erissimaco pone l’Afrodite Polimnia (“dai molti
inni”, cioè portatrice di disordine). Amore infatti, come ogni cosa in natura, deve
essere armonico ed equilibrato in ogni sua azione - «comunione di opposti»: infatti la
“soverchieria”, “il disordine” insiti in ogni forma di attrazione non possono riuscire a
buon fine, ma determinano contagi, malattie, guasti e distruzione; «ma quando invece
l'Amore diventa incontenibile e infuria violento durante le stagioni dell'anno, produce
guasti e distrugge molte cose».
All'inizio del suo discorso, inoltre, Erissimaco ci propone una sua definizione di
medicina, e di armonia, e afferma che «nella musica, nella medicina e in tutte le altre
attività umane e divine, per quanto è dato, bisogna bene osservare l'uno e l'altro di
questi amori: infatti sussistono ambedue».
Erissimaco infine, come Pausania, cerca anch'egli una giustificazione per l’amore
omofilo, trovandola in maniera più fondata nella Physis (natura) piuttosto che nel
Nomos.
Aristofane
Come quarto, rimessosi dal singhiozzo, interviene Aristofane, il quale spiega la sua
devozione verso Amore per mezzo di un fantasioso, ma significativo mito. Per lui,
all'origine del mondo, gli esseri umani erano differenti dagli attuali, formati da due
degli umani attuali congiunti tramite la parte frontale (pancia e petto). Inoltre essi
erano di tre generi: il maschile, il femminile e l'androgino, che partecipa del maschio e
della femmina (cioè, appunto, ἀνδρόγυνος, “uomo-donna”). La forma degli uomini era
inoltre circolare: quattro mani, quattro gambe, due volti su una sola testa, quattro
orecchie, due organi genitali e tutto il resto come ci si può immaginare. Questa natura
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doppia è però stata spezzata da Zeus, il quale fu indotto a tagliare a metà questi
esseri per la loro tracotanza, al fine di renderli più deboli ed evitare che attentassero
al potere degli dei (d’altro canto, eliminarli del tutto avrebbe comportato la perdita
dell’unica forma vivente da cui gli dei erano venerati).
« Da tempo è dunque connaturato che negli uomini l'amore degli uni per gli altri che si
fa conciliatore dell’antica natura e che tenta di fare un essere solo da due e di curare
la natura umana. Ciascuno di noi dunque è come un contrassegno (σύμβολον) d'uomo,
giacché è tagliato in due come sogliole, da uno diventa due. »(Simposio 191c-d)
Ma da questa divisione in parti nasce negli umani il desiderio di ricreare la primitiva
unità, tanto che le “parti” non fanno altro che stringersi l’una all’altra, e così muoiono
di fame e di torpore per non volersi più separare. Zeus allora, per evitare che gli
uomini si estinguano, manda nel mondo Eros affinché, attraverso il ricongiungimento
fisico, essi possano ricostruire “fittiziamente” l’unità perduta, così da provare piacere
(e riprodursi) e potersi poi dedicare alle altre incombenze cui devono attendere.
« Questo è il motivo per il quale la nostra natura antica era così e noi eravamo tutti
interi: e il nome d'amore dunque è dato per il desiderio e l'aspirazione
all'intero. »(Simposio 192e)
Agatone
Per quinto parla il padrone di casa, Agatone, che definisce Amore il dio più bello e più
nobile. Egli si incarica di dire «qual è e di quali beni artefice» è Amore. «Amore è il più
felice perché è il più bello e il migliore. È il più bello perché è tale: anzitutto è il più
giovane tra gli dei», e inoltre «è il più giovane e il più soave, e oltre a ciò è come
flessuoso nell'aspetto. Non sarebbe infatti in grado di abbracciarsi ovunque, né di
entrare in ogni anima di nascosto e poi uscirne se fosse inflessibile». Da sottolineare
l'affermazione che «tra Amor e bruttezza c’è sempre guerra», poiché Amore
simboleggia la bellezza, «la sua esistenza tra i fiori reca una testimonianza della
bellezza della carnagione del dio». Egli non fa ingiustizia né la subisce, perché
“giustizia”, “morigeratezza”, “potenza” e “sapienza” sono le virtù che lo
contraddistinguono: « La cosa più grande è che Amore non fa ingiustizia né la subisce
da parte di un dio né contro un dio, né da parte di un uomo, né contro un uomo; né
egli soffre per violenza, se pure prova qualche sofferenza, perché la violenza non si
attacca ad Amore; né quando agisce, agisce con violenza, perché ognuno volentieri in
tutto serve ad Amore e le cose che mettono d'accordo chi lo desidera con chi lo
desidera, le leggi regine della città dicono che è giusto. »(Simposio 196b-c)
Agatone compone anche versi in onore di Amore: « Pace fra gli uomini e sul mare una
tranquillità senza vento, luogo di quiete e di sonno nell'affanno dei soffi impetuosi. »
(Simposio 197c)
E conclude il suo discorso tessendone un elogio molto poetico.
Socrate
Socrate Interviene per sesto e ultimo. Sulle prime tenta di schermirsi per la sua
incapacità come oratore, ma sostenuto dalla convinzione che su ogni cosa «basta dire
la verità», decide di fare lo stesso anche con Eros, scegliendo ed ordinando nel modo
migliore le cose più belle. Infatti gli elogi di Eros fatti dai precedenti oratori poggiavano
tutta la loro efficacia sul dispiego della retorica e su argomentazioni sofistiche,
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arrivando a gareggiare nell'associare ad Eros i migliori benefici. Socrate invece, come
detto, partirà dalla verità.
In sostanza «Amore è amore di alcune cose», in particolare «di quelle di cui si avverte
mancanza». A questo punto sul discorso di Socrate si innesta quello di Diotima,
sacerdotessa di Mantinea, maestra di Socrate della concezione di Amore. Secondo
essa «Amore non è bello [...] e non è neanche buono», ma un qualcosa di mezzo tra
bello e brutto, tra buono e cattivo, tra mortale e immortale, un dèmone insomma. Fu
concepito da Penía (Povertà), che come detto dalla sacerdotessa approfittò di Póros
(Espediente), ubriaco, alla festa del genetliaco di Afrodite: egli è quindi un essere
intermedio tra il divino e l'umano che, assieme alle qualità positive, assomma in sé
anche quelle negative. Socrate, come apprende da Diotima, era caduto nello stesso
equivoco nel quale cadono tutti o quasi gli uomini che in Amore vedono solo il lato più
bello. Tutto questo deriva dal fatto che Amore viene identificato con l'amato e non con
l'amante: il primo è delicato, compiuto, il secondo invece è quale appare nella
descrizione che Diotima ne viene facendo. Ma qual è la molla che spinge l’amante
verso l'amato? L'attrazione della bellezza può essere uno stadio, ma non se è fine a sé
stessa: tra gli uomini chi è fertile nel corpo è attratto dalla donna e cerca la felicità
nella discendenza della prole e nella continuità, chi invece è fertile nell'anima cerca
un'anima bella a cui unire la propria, e può creare con questa una comunanza più
profonda di quella che si può avere con i figli. Su questo piano chi ama riuscirà «a
capire che tutto il bello che riguarda il corpo è cosa ben da poco».
Alcibiade: «Socrate è un sileno
Dopo che Socrate ha concluso il suo discorso, irrompe nella sala del banchetto
Alcibiade ubriaco e, dopo una breve schermaglia con Socrate, ne tesse il più splendido
elogio. Pur senza aver udito le considerazioni di Socrate, Alcibiade viene a darne la più
viva e diretta dimostrazione: Socrate gli è stato maestro, amico, gli ha salvato la vita
in battaglia, gli ha fatto attribuire dagli strateghi, in guerra, quei riconoscimenti che
avrebbe meritato per sè.
« Quando avvenne lo scontro per il quale gli strateghi mi concessero i premi del
valore, nessuno tra i soldati mi salvò se non costui, che non volle abbandonarmi
benché ferito, ma con me trasse in salvo anche le armi. E io, Socrate, anche in
quell'occasione chiesi ripetutamente agli strateghi che i riconoscimenti li
concedessero a te. [...] Ma gli strateghi guardando solo alla mia condizione erano
intesi a dare a me le insegne del valore e tu ti impegnasti più di loro perché fossi io a
riceverle e non tu. »(Simposio 220d-e)
Socrate gli ha resistito quando egli gli ha fatto dono della propria bellezza, perché non
a questo mirava. Era attratto piuttosto «dalla bellezza in sé, genuina, pura, non
mescolata, non incorporata di carni umane, né di colori, né di ogni altra vacuità
mortale». Era desideroso di contemplare la «bellezza divina nel suo unico aspetto».
« Sappiate che a lui non importa nulla se uno è bello e ne fa così poco conto quanto
nessun altro, né gli interessa se è ricco o se ha un altro titolo di quelli che, per la
gente, portano alla felicità. Ritiene di ben poco conto tutti questi beni, e che noi, vi
assicuro, non siamo nulla e passa la sua vita ostentando candore e scherzando, ma
quando poi si impegna seriamente e si apre, non so se uno ha mai visto le splendide
qualità che ha all'interno: io le ho già osservate, da tempo, e mi apparvero così divine,
dorate, belle e meravigliose da provare che si doveva fare subito quel che Socrate
comandava. » (Simposio 216d-e)
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« Si potrebbero dire, senza dubbio, molte altre cose per lodare Socrate e tutte da far
meraviglia, ma mentre per ogni altro atteggiamento nella vita tali cose si potrebbero
dire anche di altri, il fatto di non essere egli simile a nessuno degli uomini, né degli
antichi, né di quelli di adesso, questa è cosa degna di ogni meraviglia. [...] Ma come è
fatto quest’uomo, quanto a stranezza, lui e i suoi discorsi, neppure cercando si
potrebbe trovare uno che gli si avvicini né tra gli uomini d'ora, né tra quelli di un
tempo, a meno di metterlo a confronto con quelli che dico io, cioè non con un uomo,
ma con i sileni e i satiri, lui e i suoi discorsi. »(Simposio 221c-d)
http://it.wikipedia.org/wiki/Simposio_%28dialogo%29
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