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2) Da essi apprendiamo che in Italia la diplomazia americana si interroga sui “wild parties” del
Presidente, e su i suoi rapporti non trasparenti con l’oligarca Putin (seconda notizia)
Against transparency
In “Against transparency”, pubblicato nel 2009 nella rivista liberal The new republic, Lawrence
che la pubblicazione di una marea di dati
Lessig fa notare
non produce un immediato effetto di trasparenza,
perchè non tutti i dati soddisfano i requisiti di base che li
rendono informazione utilizzabile.
Prendendo in esame sia le tecnologia digitali sia quelle analogiche a disposizione, nel
2007, l'umanità è stata in grado di memorizzare 295 exabyte di
informazioni, ovvero 295 trilioni di byte (295
000.000.000.000.000.000 byte), ha comunicato 2 triliardi (2
000.000.000.000.000.000.000) di byte e ha processato 64 trilioni
di informazioni al secondo (a farlo a mano ci sarebbero volute
2.200 volte il tempo trascorso dal Big Bang a oggi).
Per guardarla da un'altra prospettiva, i ricercatori suggeriscono una metafora
astronomica: se ogni bit fosse una stella, esisterebbe una galassia di
informazioni per ogni singolo essere umano. Il che vuol dire
anche 315 volte il numero di granelli di sabbia presenti sul pianeta.
E tuttavia, questa montagna di informazioni è equivalente ad appena l' 1 per cento di
quelle contenute nel dna di un singolo essere umano. “ Questi numeri, per quanto
impressionanti, sono ancora niente rispetto alla capacità della natura di gestire e usare le
informazioni”, conferma Hilbert. “Tuttavia, mentre la capacità della natura rimane costante,
quella dell'essere umano cresce a ritmo esponenziale”.
INFORMATION GALAXY
LA B ATTAG LI A DE LLE F ON TI
media
L’Iran twitter e i mille occhi dei nuovi media 25 giugno 2009
Un articolo molto citato intitolato “Is Google Making us Stupid?” di Nicholas Carr è diventato un libro:
“The Shallows: What Internet is doing to Our Brains”. Carr parte dalla
struttura stessa del cervello umano, sostenendo che la stimolazione continua che subiamo da Internet
ha effetti negativi sulla nostra capacità di concentrarci, ricordare, ragionare, e persino socializzare.
Il libro comincia con un’immagine molto efficace: lo scrittore paragona se stesso a HAL 9000, il
computer impazzito di 2001 Odissea nello Spazio, nel momento in cui viene disattivato dall’unico
astronauta umano superstite. “Negli ultimi anni – così si legge nella prima pagina del libro – è
aumentata in me la fastidiosa sensazione che qualcosa, o qualcuno, stia armeggiando con il mio
cervello, rimappando i circuiti neurali e riprogrammando la memoria”.
In risposta alla tesi di Carr, Jonah Lerner, della Book Review del New York Times, in un articolo ha dato
voce ad un team di esperti della UCLA secondo i quali le ricerche su Google portano ad un aumento
dell’attività del cervello rispetto alla lettura di un testo scritto su un libro. Lehrer, che collabora anche
con Wired, prosegue l’articolo scrivendo tra l’altro: “L’area del cervello attiva in questo caso è proprio
quella che sovrintende alcune attività, come l’attenzione selettiva o l’analisi volontaria, che Carr
sostiene siano svanite per colpa di internet. Google in altre parole ci aiuta a esercitare i ‘muscoli’ del
cervello che lo rendono più brillante”.
Carr invece sostiene che la mente umana è per sua natura plastica, cioè viene modificata dalle cose
che fa. “Se noi siamo costantemente distratti e interrotti, però, come succede quando siamo online, il
nostro cervello non è in grado di ‘forgiare’ con gli stessi tempi le forti connessioni neurali che danno
profondità e unicità alla nostra attività mentale”. “Diventiamo così soltanto delle unità di elaborazione
dei segnali, con pezzi di informazioni scollegati che entrano nella memoria di breve termine, e poi si
perdono praticamente subito”.
I link ipertestuali sono considerati comunemente un grande passo avanti per la comunicazione e la
conoscenza, visto che aiutano a tornare con un solo click su informazioni che in un testo su carta il
lettore deve essere capace di ricordare ‘da sé’. Carr nel libro si cita un esperimento di Erping Zhu,
docente all’Università del Michigan, su vari gruppi di persone che hanno letto tutti lo stesso articolo
online, ma con un numero diverso di link, secondo il quale la comprensione del testo diminuisce in
funzione proprio del numero di link. “I lettori – dice Zhu – sono costretti a dedicare sempre più
attenzione a valutare i link e a decidere per ciascuno se aprirlo o no”.
”LeechBlock”, il blocca sanguisughe, è un software che permette di bloccare selettivamente i siti del social
networking dai quali non si vuole essere disturbati. E questo non solo in entrata ma anche in uscita dal
computer. Una volta installato il software e scelto, diciamo, di bloccare “Facebook”, non lo si può accedere
nemmeno se lo si vuole, a meno che ovviamente non si riavvia il computer.
”Isolator” invece copre semplicemente tutte le icone che hanno a che fare con il social networking. Così
anche a volerlo prima di collegarsi a “Twitter” bisogna ricaricare l'applicazione. “Darkroom” e “WriteRoom”
invece trasformano un PC e un Mac in una tavoletta per scrivere e basta. Nel caso di “Darkroom” la pagina
viene oscurata così da escludere tutte le distrazioni in arrivo dal desktop. In questa maniera l'autore si
concentra esclusivamente sulla sua scrittura. Verde fosforescente su sfondo nero, questa salta dalla pagina
agli occhi dello scrivente.
Secondo una ricerca di “AOL” e “Salary.com” (uno dei maggiori portali web degli USA e la maggiore agenzia
temp online statunitense), il lavoratore medio americano trascorre due ore e 10 minuti della sua giornata
lavorativa chiacchierando sui siti del social networking con familiari, amici e colleghi. E queste ore non
includono le pause per il pranzo, per il caffè e per andare in bagno. «Una volta pressati, tutti gli intervistati
hanno dichiarato che non avevano abbastanza da fare», hanno scritto alla fine i ricercatori nel loro rapporto.
Nella media sono anche comprese professioni come il carpentiere e il sommozzatore, lavoratori che un
computer a portata di mano non ce l'hanno così spesso.
Il costo di queste abitudini secondo “24/7”, un blog al quale collaborano anche giornali come il “Wall Street
Journal”, supererebbe l'astronomica cifra di 800 miliardi di dollari l'anno. Non sorprende quindi che, come
riporta il blog, il 54% delle aziende americane abbiano deciso di bloccare l'accesso ai siti del social
networking. E adesso non sono solo le aziende a bloccarli, anche svariati dipartimenti di istituzioni
accademiche di grande prestigio come Yale, Harvard e Stanford hanno cominciato a stabilire social
networking free-zone, aree nelle quali se non esplicitamente proibito, l'uso dei social network è attivamente
scoraggiato.
Gli allarmi sugli effetti negativi della rete sulle capacità cognitive, oltre che su quelle di relazione sociale, si
moltiplicano da tempo. Secondo tali allarmi, la gente non sa più concentrarsi su testi lunghi, schiva i
paragrafi troppo compatti, assimila in modo superficiale e frammentato. Lavora saltando da un programma
all'altro senza essere davvero presente in nulla. I giornali pubblicano ricerche e articoli sull'argomento che i
lettori, il più delle volte, sbirciano distrattamente dopo averli trovati sulla bacheca Facebook di un amico.
Se per «capire meglio il mondo» qualcuno ha bisogno di abbandonare il medium che più di tutti, oggi,
pretende di farcelo conoscere, è chiaro che la situazione si è fatta paradossale. La progressiva morte
dell'attenzione risulta cruciale per capire alcuni fenomeni culturali. Ad esempio l'estinzione della poesia. Con
la sua brevità e la sua immediatezza, ci si sarebbe potuti aspettare un revival della poesia nell'era della rete.
Invece, come ha sottolineato il poeta statunitense Donald Revell, la poesia non ha tanto a che vedere con la
lunghezza quanto con l'attenzione, e «l'attenzione è un fatto di totalità, di essere pienamente presenti».
Il riferimento a Revell è contenuto in un libro di fresca uscita in Italia: “La tirannia dell'email“ di John
Freeman (Codice Edizioni, traduzione di Giovanna Olivero). Freeman è cresciuto in California dove per dieci
anni ha consegnato giornali a domicilio. Quindi ha iniziato a scrivere per quegli stessi giornali. Oggi,
nemmeno quarantenne, è direttore editoriale di una delle più prestigiose riviste letterarie al mondo, l'inglese
“Granta”. Ciò che distingue la sua analisi di grandezze e miserie della vita digitale, dunque, è un approccio
letterario-umanistico che gli permette di creare immagini e accostamenti efficaci.
L'analisi di Freeman si concentra in particolare sull'uso, e inevitabile abuso, del nostro strumento
comunicativo per eccellenza: l'email. «I corridoi delle aziende sono silenziosi, neanche fosse la mattina del
giorno di Natale. In certi posti di lavoro tutto ciò che si sente è il ronzio di fondo dell'aria condizionata, il
cigolio delle sedie girevoli, i clic dei mouse e il flebile ticchettio dei tasti. Ma se ci si affaccia nei cubicoli o
dalle porte socchiuse si vedranno figure tese, ingobbite sui computer, affannate a star dietro alle continue
email. Se proviamo a interromperle ci troveremo davanti espressioni vacue, occhi vitrei e affaticati. La loro
tastiera è diventata un nastro trasportatore di messaggi, e le pause non sono previste».
Se il quadro dipinto da Freeman appare esagerato, si dovrà riflettere sui dati. Secondo le statistiche citate
nel libro, l'impiegato medio americano spende oltre il 40% della giornata lavorativa leggendo e inviando
posta elettronica. Nel mondo vengono spedite all'incirca seicento milioni di email ogni dieci minuti. Il
sovraccarico di informazioni costa all'economia globale centinaia di miliardi ogni anno. Una bulimia
informativo-comunicativa di fronte alla quale, tutto sommato, la dieta di Taleb non appare così insensata. La
dipendenza dall'email, un disturbo ampiamente studiato che porta il soggettto a controllare la posta con
modalità ossessivo-compulsive, ogni pochi minuti e a qualunque ora del giorno e della notte, viene
paragonata da Freeman alla dipendenza da gioco: si clicca su invia/ricevi con la stessa aspettativa con cui si
tira la leva di una slot machine. Si spera nella ricompensa dell'arrivo di un nuovo messaggio, di una prova
della nostra importanza per il mondo. È solo una delle perversioni descritte nella “Tirannia dell'email”.
Gli ambigui vantaggi della connessione totale assumono l'aspetto di un vero ricatto se inseriti nella cornice
del tardocapitalismo, con lavoratori sempre più precari e disponibili, quindi, a lasciare che il lavoro li segua a
casa, a letto, in vacanza. Il lavoro ha smesso da un pezzo di accontentarsi del nostro corpo e della nostra
mente: oggi chiede la totalità della nostra energia. Ovvero la nostra anima. Ciò che ci dà in cambio è
l'illusione di essere ancora al centro di qualcosa, di essere lo snodo di una rete, punto di passaggio di
La vera droga del
messaggi, notizie, decisioni, impulsi operativi, o anche solo futili chiacchiere.
XXI secolo è tutta in questo necessario, adrenalinico senso di
connessione, in questa ultima abissale illusione di esserci.
A questo proposito, Freeman riporta che gli americani dormono in media un'ora in meno di vent'anni fa.
Facile immaginare che gli europei seguano l'esempio. L'autore continua riportando i drammatici casi di alcuni
blogger morti di superlavoro; quindi, con improvviso scarto ironico, racconta della superstar Madonna che,
un paio di anni fa, confessò che lei e il marito dormivano con il blackberry sotto il cuscino. «Nell'estate del
2008, cominciarono a trapelare notizie sull'imminente divorzio della coppia». Tutt'altro che luddista, Freeman
non intende contestare il progresso rappresentato dalla rete. Piuttosto, si interroga sulla velocità dilaniante a
cui ci siamo adeguati e che annulla di fatto ogni vantaggio. Il riferimento, qui, non può che essere al filosofo
Paul Virilio e alla sua classica, citatissima affermazione: «Troppa velocità è come troppa
luce: non vediamo nulla». Con felice istinto pop, Freeman accosta la citazione di Virilio a una
del pilota Michael Schumacher: «Per le cose perfette, la velocità è una forza unificante; per le cose
imperfette, è una forza distruttiva».
Se la velocità è il problema, la soluzione potrebbe essere facile da individuare.
La “Tirannia dell'email” si conclude con un invito a rallentare: una sorta di manifesto slow communication
composto di poche pacate regolette tra cui quella di inviare meno posta, limitarsi a due sessioni di email al
giorno, riservare porzioni della giornata senza computer. Un esempio di squisito buonsenso anglosassone.
Ma forse, anche, una conclusione troppo conciliante che tradisce la radicalità di alcuni spunti inseriti nel
corso del libro. Il decalogo di Freeman si basa sull'assunto che la rete sia un'appendice della realtà fisica dei
corpi e dei sentimenti, e quindi vada semplicemente dosata in modo da rispettare le nostre esigenze naturali.
C'è da chiedersi se un simile assunto non sia fuori tempo massimo. Non sarà la nostra realtà reale, invece, a
venire già vissuta come una misera appendice della rete?
http://www.scribd.com/doc/14709113/INFORMATION-OVERLOAD
“La mente accresciuta è l'ambiente cognitivo, attivo sia a livello personale che collettivo,
che le tecnologie intessono attorno a noi e dentro di noi, attraverso Internet in particolare e
l'elettricità in generale. Funziona sia come memoria estesa sia come intelligenza di
elaborazione per ogni individuo che usa tecnologie elettroniche, dal telegrafo, al “cloud
computing”, a Twitter. Unisce le persone invece di dividerle, come è successo con
l'alfabeto, e tiene conto di qualsiasi quantità di voci singole all'interno di uno spazio di
informazione fluido, definibile in base agli individui e alla comunità che lo abitano,
seguendo i bisogni collettivi. Può assumere svariate forme e mettere in comune risorse
individuali in servizi come Wikipedia, o esternalizzare e oggettivare il nostro processo di
immaginazione in contesti di finzione in grado di offrire all'utente esperienze in presa
diretta, come Second Life”.
“per questa generazione il mondo è sia globale sia geo-localizzato, allo stesso tempo.
Ovunque si trovino, sono potenzialmente in contatto con il mondo intero. Come ha già
osservato Doug Rushkoff, al giorno d'oggi i bambini non si limitano a guardare la
televisione, come facevano i loro genitori, interagiscono con essa. Sono multitasking,
possono gestire diverse “finestre” in una volta. La loro intelligenza si affida alla
connessione con ipertesti colmi di riferimenti e tag, ipertesti che hanno gli stessi utenti al
loro centro. I giovani sono “amici” già a tre o quattro gradi di separazione, mentre i loro
nonni avevano bisogno almeno di stringere la mano a una persona più di una volta per
considerare quella persona un amico”.
La mente accresciuta
[...] Dunque il problema è di sapere che cosa si deve salvare, che cosa si deve
mettere nell'arca, come dovremo navigare. Il problema della navigazione nel
cyberspazio si presenta come navigazione dell'arca nel diluvio informazionale.
È bene esserne coscienti. Occorreranno i giusti strumenti per orientarci e
filtrare l'informazione. In secondo luogo, credo che il rapporto con il sapere sia
completamente cambiato: viviamo in un'epoca in cui una persona, un piccolo
gruppo, non può più controllare l'insieme delle conoscenze e farne un tutto
organico. È divenuto impossibile anche per un gruppo umano importante. Ciò
vuol dire che la ricostituzione di un tutto organico, che abbia senso, non può
essere fatta da individui o da piccoli gruppi. Dobbiamo imparare a costruire un
rapporto con la conoscenza completamente nuovo. In un certo senso non è un
male: dà molta più libertà all'individuo o al piccolo gruppo, ma certo è molto
più difficile.
Se mettete un documento sul Word Wide Web, fate due cose insieme: primo,
aumentate l'informazione disponibile, ma, in secondo luogo, fate anche un'altra
cosa: con i nessi che stabilite tra il vostro documento e l'insieme degli altri, voi
offrite al navigatore che arriverà su quel documento il vostro punto di vista.
Quindi non soltanto aumentate l'informazione, ma inoltre offrite un punto di
vista sull'insieme dell'informazione. Che cos'è il Word Wide Web? Non è
soltanto una enorme massa di informazione, è l'articolazione di migliaia di
punti di vista diversi. Bisogna considerarlo anche sotto questo aspetto [...]
http://www.scribd.com/doc/14709113/INFORMATION-OVERLOAD
Grazie alle nuove possibilità di accesso alle comunicazioni satellitari e alle infinite
connessioni via Internet, siamo diventati tutti individui globali. Dal punto di vista
dell'utenza, lo scenario è apparentemente ideale: abbiamo una vasta scelta di fonti, di
programmi, di informazioni; abbiamo la possibilità di confrontare opinioni, idee e posizioni.
La massa delle informazioni generate dal sistema mediatico pare offrire un panorama che
è espressione della più ampia libertà e soprattutto della più ampia potenzialità di strumenti
per le decisioni. L'utente dei media vive dunque nella interiore consapevolezza che la
proposta dei contenuti da parte dei media gli consente di "essere informato per
apprendere e per crescere, come cittadino e lavoratore". In realtà, la stessa
proposta di una larga massa di informazione genera situazioni di
stress informativo (“information overload”) che superano la capacità
di metabolismo dell'utenza. Troppa informazione = nessuna
informazione. Ciò è registrabile sia nella proposta di informazioni da parte dei vecchi
media, ma ancora più nella gestione dei messaggi proposti dai nuovi media, per i quali si
sono cominciati a generare sistemi automatici di selezione delle informazioni in arrivo sulla
propria stazione (cfr. K. Hafner, ”Have Your Agent Call My Agent”, Newsweek, 27 febbraio
1995).
«I media fanno parte di un sistema di propaganda ben congegnato. Il modo più abile per
mantenere la gente passiva e obbediente è limitare rigorosamente lo spettro delle opinioni
accettabili, ma permettere dibattiti molto vivaci all’interno di questo spettro incoraggiando
perfino le posizioni più critiche e dissenzienti» (Noam Chomsky).
«World War III will be a guerrilla information war, with no division between
military and civilian partecipation» (Marshall McLuhan).
http://www.scribd.com/doc/35953186/Info-War
NET REVOLUTION
L’iniziativa è un successo: sono stati inviati 172 saggi, per un totale di 132 mila
parole. Brockman passa in rassegna alcune risposte, soffermandosi su
quella che lo ha maggiormente colpito, a firma George Dyson. Secondo
quest’ultimo il rapporto tra Internet e pensiero può essere raffigurato con
una metafora. Nell’Oceano Pacifico del Nord c’erano due modi per
costruire imbarcazioni: quello degli Aleut, che realizzavano kayak
mettendo insieme frammenti di legna reperiti sulla spiaggia, e quello dei
Tinglit, che invece ricavavano canoe intagliando un unico tronco fino a
quando non avesse raggiunto la forma desiderata. Il risultato ottenuto è lo
stesso, ma attraverso strade opposte. Il nostro rapporto con la Rete,
caratterizzato da un ininterrotto flusso di informazioni, ci mette oggi di
fronte allo stesso divario culturale: siamo passati da essere costruttori di
kayak, che mettono insieme frammenti di informazioni per ottenere un
significato, a costruttori di canoe, che invece devono ignorare tutto ciò che
sia irrilevante per ottenere il significato desiderato. E’ tempo di di
passare tutti dalla parte dei Tinglit, conclude Dyson, se
non vogliamo affogare.
http://www.scribd.com/doc/24195536/Teoria-Dell-Infocaos
Net Generation
INFOWAR 2.0
INTELLIGENZA COLLETTIVA
LA GUERRA DEI MONDI 12