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Carlo Serra

Fra stelle e caduta. La metamorfosi come forma narrativa nel Volo di Notte di Luigi
Dallapiccola

La prima serie di Volo di notte

1
§ 1 La serie come forma metamorfica della narrazione

Vi è uno strano intreccio di temi musicali in Volo di Notte di Luigi Dallapiccola, l’opera che il
compositore italiano trasse nel 1937 – 38, dallo splendido Vol De Nuit di Antoine de Saint –
Exupéry: esso promette una calibratura drammatica, meglio ancora il peso specifico, delle funzioni
narrative, e dunque dei contenuti, che sostengono la riscrittura del romanzo da parte del musicista
istriano.
A dirlo, l’intreccio è semplice: il tema iniziale, la prima serie che si disegna nel registro delle viole,
quasi parlando, è tratta dalla prima delle componenti il trittico della composizione gemella di
quell’anno, Tre Laudi, Altissima luce: essa serve, come ha colto bene Dietrich Kämper1 nel suo
studio su Dallapiccola, “da cornice formale a tutta la composizione, tendendo un arco che partendo
dal preludio orchestrale, giunge all’episodio conclusivo dell’opera”.
Lo stesso tema accompagna la caduta dell’aereo di Fabien e la sua morte, instaurando, scrive
ancora lo studioso tedesco, una correlazione simbolica tra la Stella Marina della Preghiera alla
Vergine e l’esclamazione di Fabien, “scorgo le stelle”. Nell’opera, del resto, caratteri simili hanno
le occorrenze dei precipitati semantici delle altre Laudi, creando un gioco metamorfico fra
significati e strutturazione sonora, designando un piano di musica allusa, in grado di sostenere i
nuclei profondi, nascosti, dell’opera.

Dallapiccola deve aver molto amato la prima, esplicita, correlazione fra musica e stelle, che cade
nell’opera in uno dei continui monologhi interiori del direttore della navigazione aerea, Rivière.
Essa si sviluppa come gradiente drammatico, che diventa via via più intenso, senza riuscire a
risolversi:

«Alzò gli occhi verso le stelle, che splendevan sulla via angusta, quasi annullate dalla pubblicità
luminosa, e pensò: “ Questa sera, con i miei corrieri in volo, io sono responsabile d’un cielo
intero. Quella stella è un segnale che mi cerca tra questa folla, e mi trova: per questo io mi sento
un po’ estraneo, un po’ solitario.

Una frase musicale gli tornò alla memoria: qualche nota di una sonata che il giorno prima aveva
ascoltato in compagnia di amici. I suoi amici non lo avevano capito: “ Quest’arte ci annoia, e
annoia anche lei; tutta la differenza è nel fatto che lei non lo dice”

“Forse…” aveva risposto.

E come questa sera, egli s’era sentito solitario, ma subito aveva scoperto la ricchezza d’una simile
similitudine. Il messaggio di quella musica veniva a lui, e solo a lui trai mediocri, con la dolcezza
di un segreto. Così, quel segno di stelle. Qualcuno gli parlava, al di sopra di tante spalle, un
linguaggio che egli solo intendeva.2»

Sulla metafora musicale si scarica un reticolo di significati piuttosto complesso. La dimensione


dell’ascolto individualizza, accentra un movimento della soggettività verso un significato
meramente affettivo, che gli altri non colgono. L’affettivo è, tuttavia, la maschera dell’etico: il cielo
notturno va continuamente sfidato, la stella invita ad andare verso di lei, ad usarla come un punto di
riferimento, per un’espansione nell’ignoto, ma le stelle da sempre parlano solo a chi le sa intendere.
La consapevolezza della propria solitudine, e della propria missione, accosta suono e luce, e lo
splendore delle stelle porta un messaggio, nascosto come quello della musica: esso attrae, come
accade per gli accordi del pianoforte, che, dopo l’enunciazione della serie brillano allontanandosi
(dal pp delle viole al ppp del pianoforte), un’intermittenza luminosa che subito si spegne, un
1
Dietrich Kämper, Luigi Dallapiccola. La vita e l’opera, Sansoni , Firenze, 1984, pp. 56 – 57.
2
Antoine Saint-Exupéry, Volo di notte, trad. it. di Cesare Giardini, Mondadori, Milano, 1991, pp. 39 – 40.

2
piccolo enigma, che entra in rapporto con l’attacco straordinario di oboi, trombe e clarinetti,
rinforzato dall’accendersi degli armonici di violoncelli e contrabbassi. Si è soli di fronte al cielo
stellato, consapevoli del dovere del volo e della propria mediocrità, mentre la capacità di cogliere
un messaggio, stellato o musicale, ci separa da tutti gli altri, ci impone un ascolto. L’ascoltatore ed
il personaggio sono posti sullo stesso piano, hanno lo stesso compito.

La prima occorrenza della serie entra in una polifonia profonda con questa pagina, e da qui si
irradia su tutta una partitura, dove la solitudine dei personaggi si specifica nelle forme dialogiche
che li oppongono: il pilota nella tempesta, la sua vedova, gli impiegati, i controllori dei piloti, tutti
ruotano attorno ad una dialogica continua che lascia il personaggio Rivière sempre più solo, e che li
isola tutti l’uno dall’altro.

La connessione sono gli intercalari dialogici di direttore di navigazione, la sua apparente oggettività
rispetto alla sfida del cielo, il ferreo lavoro di organizzazione che si fa forma di autoeducazione al
dovere, e all’isolamento: Rivière unisce e separa, è il centro da cui diramano i raggi delle vicende
umane, che lo mettono in gioco in modo sempre più profondo. Il tema della stella, che si identifica
con il tema del personaggio, sono così il simbolo di un’accettazione sempre più profonda della
propria funzione, ma la stella e la caduta sono anche la via d’accesso allo squarcio interiore che è il
vero evento dell’opera legato alla solitudine essenziale, per usare un’espressione del Varèse di
Deserts, che caratterizza la dimensione interiore di tutti i personaggi, e perché il gioco dei
riferimenti possa aver luogo, dobbiamo ascoltare le continue piccole metamorfosi della serie che,
raffinatissime, si inseguono per tutta l’opera.

Una serie si modifica, lasciandosi riconoscere, si deforma, struggendosi nella nostalgia di un


originale: sul piano teorico questo significa che tutte le trasformazioni hanno natura dialettica.
Incontriamo subito un principio fondamentale per ogni forma di serialità, che aspiri ad una
trasparenza di tipo narrativo, che si pensi ancora, più o meno consapevolmente, in termini di blocco
tematico, ma abitata da un paradosso sottile, perché l’originale andrà rintracciato nell’unità della
trasformazioni, come un puzzle che prende forma nel differimento continuo da una forma
originaria. Queste somiglianze di famiglia vengono utilizzate da Dallapiccola per raccontare tutta
la tensione all’inesprimibile che caratterizza il destino di un pilota che continua a salire, verso le
stelle, consapevole che tutto, sotto di lui, è, per sempre perduto, in un volo che è, di fatto caduta e
fuga dall’opacità.

«Fabien, quella notte, erra sullo splendore di un mare di nuvole, ma più in giù c’è l’eternità. Egli è
perso tra le costellazioni ov’è solo. […] Stringe nel suo volante il peso della ricchezza umana, e
porta, disperato, da una stella all’altra, l’inutile tesoro che sarà costretto a restituire.
Rivière pensa che un posto radiotelegrafico lo ascolta ancora. Non c’è che un’onda musicale che
leghi ancora Fabien al mondo, una modulazione in minore. Non un lamento. Non un grido. Ma il
suono più puro che la disperazione abbia mai modulato.3»

Nello scrittore francese, la stella è una ricchezza inutile, perché porta la morte, ma è anche l’unico
senso di una vita che va spegnendosi, alla ricerca del proprio senso. Il Radiotelegrafo di Rivière
cerca l’ultimo contatto con il fuggitivo, ma il suono che ascolta è il silenzio, o il rumore, la musica
è tra parentesi, non una nota dal cielo stellato.

La musica se ne è andata, ma è rimasto un significato: ecco che la comunicazione dei personaggi ha


preso ormai forma nell’attesa di un suono. Quest’idea affascina Dallapiccola che, operando
all’interno di una grammatica musicale che genera figurazioni deformate, può permettersi di
rovesciare il criterio costruttivo che stringe le figure nel romanzo: solo il suono estenuato della
3
Antoine Saint-Exupéry, Op. cit., p. 94.

3
serie dodecafonica può evocare il silenzio di quella lontananza, perché, nella vita e nella morte,
Rivière ed il suo pilota che sta sparendo sopra le stelle sono l’immagine della stessa solitudine,
dello stesso amore per il mondo, del senso della sua perdita.

Il lavoro sulla serie ci dice che uno è lo specchio dell’altro, e non è un caso che questo gemellaggio
veda le forme metaforiche della donna, che si insegue in caratterizzazioni dal registro prima
astratto, come voce orchestrale e voce del desiderio, fino alla condensazione concreta nella
compagna di Fabien, come mediazione tra loro di una vita possibile, di una dimensione degli affetti
che allontani dal volo, e come reciproca perdita. Ogni figura si tende verso l’altra, ma soprattutto
ogni figura è immagine di un teatro non psicologico, di una funzione, che attraverso la metamorfosi
della serie, le mette tutte in relazione rispetto al valore oggettivo di una scelta etica, volare per
aprire una nuova frontiera commerciale.

Vorremmo osservare che, in una simile prospettiva, la Stella del Mare e lo scorgere le stelle sono
certamente metafore del viaggio, ma prima ancora l’immagine dell’occupazione di un luogo
simbolico, che è il movimento verso la tacita assunzione di un modo di essere che è, per sua natura,
ineludibilmente solitario, prigioniero di se stesso. Possiamo così trarre immediatamente una
conclusione, e vedere la continuità tra le figurazioni musicali, come la metamorfosi dello stesso
concetto, che per Dallapiccola è l’immagine stessa del musicale.

Ma se le cose stessero davvero così, il teatro si chiuderebbe su se stesso, acquistando un che di


didascalico, capace di soffocare la narratività di Dallapiccola nelle spire di dimensione simbolica
angusta, proiettata verso una metaforicità che tende caratteristicamente verso un teatro di figura e di
carattere. Accentuando il carattere d’azione dell’opera musicale, come se ci trovassimo di fronte ad
una trascrizione del letterario, ci consegneremmo ad una prospettiva melodrammatica, che
sacrificherebbe troppo le ambiguità su cui si appoggia il gioco di intrecci, che porta dalla stelle e
dalla caduta alle stelle, saldando la via verso il basso con la via verso l’alto, ma rifiutando che si
tratta dell’unica via. Dallapiccola tende a muoversi in direzione opposta, questa duplicità sembra
aver orrore dell’idea dell’individuazione di un carattere netto del personaggio, muovendosi verso
uno sciogliersi del personaggio nell’atmosfera che lo evoca.

Dallapiccola costruisce così un teatro psicologico assai eversivo, che ci impone di non aderire al
piano della caratterizzazione, perché così perderemmo uno snodo essenziale, che si esplicita solo
nel concetto di metamorfosi, nella tensione che si muove dietro a due figure, al muoversi in modo
incompleto, fatalmente fissati nell’incompletezza della transizione: il significato della metamorfosi
esplode nella sua apertura, nel tenere il personaggio sospeso tra una figurazione e l’altra,
nell’alitare della vita, prima che si blocchi nel sigillo formale che racchiude la figura. Si arriva così
ad un paradosso, che ha natura estetica: un puro gioco metaforico è troppo trasparente, il valore
musicale della metamorfosi deve collocarsi su un piano più profondo di quello della semplice
trasposizione, come accde per i caratteri di un tema in una struttura musicale di tipo tradizionale,
mentre la coesistenza delle figure sonore permette di costruire deformazioni molto più controllabili,
nei loro passaggi intermedi.

Dobbiamo così aggirare la questione e forse potremmo iniziare partendo, prendendo sotto presa la
nozione di metamorfosi, racchiudendola ad una sorta di principio esplicativo; del resto, l’avventura
creativa di Luigi Dallapiccola è intrecciata da un rapporto particolarmente stretto con la nozione di
metamorfosi, lungo la trama di un retaggio che trova la propria radice nel profondo amore per gli
studi classici, ereditato dal padre, e nel formidabile polilinguismo, che caratterizza un compositore
che amava ricordare che

4
«Non ci si dovrebbe dimenticare che la piccola penisola istriana in cui sono nato giaceva
all’incrocio di tre confini. Quando il treno si fermava nella stazione del mio paese il conduttore
annunciava Mittersburg, Pisino, Pazin4».

La frase di Dallapiccola porta alla luce un aspetto ovvio, che copre un complesso modo di essere, e
di sentire: lo stesso luogo ha tre nomi, e questa variazione indica diversi modi di intendere
l’appartenenza del luogo ad una comunità culturale: il luogo si dà solo nell’intreccio delle identità,
che brilla nelle differenze. La contestualizzazione modale viene rivendicata comep forma originaria
di un’appartenenza. Potremmo costruire un ponte con la nozione di metamorfosi partendo da qui?
Solo a condizione di rispondere ad una domanda: cosa muove la struttura drammaturgica dell’idea
di metamorfosi in musica, rispetto ad un retaggio rivendicato con tanto orgoglio?

Potrebbe sembrare scoraggiante anche solo tentare di avviare una prima linea di riflessione attorno
ad un tema tanto ampio, ma, per i nostri scopi, potremmo puntare immediatamente a due aspetti
fondamentali, che l’intersecarsi della nozione di forma con quella di trasformazione, mettono
immediatamente in gioco: il conservarsi di una serie di caratteristiche, che debbono essere visibili,
indicabili a colpo sicuro, come un carattere, delle note, in grado di tradurre una serie di proprietà
che rimangono riconoscibili nella trasformazione, che va intesa come un movimento polare tra
configurazioni aperte.

Il concetto di metamorfosi tipico del mondo antico, che prende terreno nelle speculazioni eraclitee,
dove vi è un ordine di conversione, che sostiene l’articolazione interna dei passaggi, che in epoca
moderna aprorà al problema delle note leibniziane5, di come cioè un oggetto rimanga riconoscibile,
dotato di un’essenza identificata, nel gioco dei mondi possibili, fino alla rappresentazione ovidiana
del repertorio di trasformazioni incomplete, che fissano in un carattere espressivo, la conservazione
del nucleo di significato dell’identità del personaggio (il continuum in Marsia, da ancia a liquido, la
traccia vocale in Siringa, da urlo a lamento, il lamento in Io, da lamento a muggito per una voce che
non riconosce se stessa) in una forma di strazio, che ricorda quanto vi era prima, e che non riesce
ancora ad entrare a ciò che accade adesso (basti, per questo, il gesto ritmico di Apollo, che cerca di
trattenere sulla superficie del proprio palmo, il battito del cuore di Dafne avvolto nella mineralità
della corteccia).

§ 2 Polarità ed assonanza

Sono proprio questi due lati, che trovano una straordinaria caratterizzazione nell’idea di
trasformazione continua che l’ultimo Beethoven rintraccia nel cultore della morfologia vegetali,
così innamorato di Palermo (alludo naturalmente a Goethe) che Dallapiccola, assieme ad un
nutritito gruppo di compositori che ne condividono il senso della ricerca formale (Mahler, Bartók
(l’orchestrazione di Volo di notte, nella sua articolazione per gruppi strumentali contrapposti
attorno ai soli degli strumenti ha impressionanti analogie con la scrittura drammaturgica
bartokiana) Berg, il Webern più schopenhauerianamente innamorato dell’idea di una natura che
moltiplica le proprie forme attraverso una modificazione articolatoria delle relazioni intervallari,
che Dallapiccola interpreta come formanti temporali di quella particolare forma di deformazione
metamorfica che è il concetto di assonanza, in una pagina incomparabilmente nitida, legata alla
lettura in parallelo del peso degli effetti fonici in una traduzione di Joyce, usando come lingua di
4
Dallapiccola, Selected writings, Toccata Press, 1987, Gloucester, p. 38
5
Quest’aspetto interno, legato alla raffinatezza della trasformazione ritmica, e timbrica, nella strutturazione della
forma musicale viene colto magistralmente nel capitolo che chiude il bellissimo testo di Pierre Michel, Luigi
Dallapiccola, Éditions Contrechampes, Genève, 1996. pp. 114 – 115, dal suggestivo titolo «Mondes Infinis». La
dimensione del carettere della fugirazione musicalmente viene suggestivamente dilatata da Michel fino ad un tentativo
analogico con la poetica dell’individuazione timbrica di Varèse, tenendo naturalmente una netta distinzione rispetto alla
ricerca materica del suono del compositore franco – americano.

5
rispecchiamento il francese e l'inglese6 nel suo bellissimo saggio sul senso della scelta della propria
avventura dodecafonica.

Articolare la serie, significa modificarla dall’interno, lasciandone emergere alcuni caratteri secondo
specifiche relazioni intervallari: da qui, l’altro passaggio, la modificazione ritmica, la caduta
architettonica del suono su un punto forte o su un punto debole, la contrazione dello scorrimento, o
la sua dilatazione, rispetto ad una relazione intervallare che venga immediatamente riconosciuta
dall’ascoltatore, con due conseguenze, che pesano non poco sul silenzio che è caduto attorno a
questo straordinario compositore.
In primo luogo, dovremo parlare di una rivalutazione dell’aspetto intervallare, rispetto all’idea di
serie, all’idea, per usare un’espressione che lo stesso Dallapiccola usa nel suo saggio, di una
polarità della struttura melodica dentro alla configurazione complessiva della serie (un passaggio
che sembra collocarsi in dialogo profondo con l’articolazione per graffe tipica della serie
schoenberghiana, genialmente tesa a porre delle relazioni interne in tutta la serie senza mettere in
evidenza un intervallo rispetto ad un altro, ma delle vere e proprie penisole in cui entrare in forma
combinatoria), in secondo luogo di una trasparenza modalizzante, in cui la nozione di memoria, di
origine profondamente melodrammatica, si costringe in una serie di gesti sonori che, come accade
ancora in Berg e Bartók, fungono da indicatori per un percorso di trasformazione che aspira alla sua
incompletezza, alla ricerca di una proliferazione per nessi interni di gesti sonori, di una vera e
propria disseminazione quasi citazionale di tracce, che si inseguono nell’esplicitazione di figure che
si determinino come costante espressiva, che si insegue soprattutto nell’ambientazione sonora del
canto, in una configurazione in cui le componenti timbriche non possono più serializzarsi, perché
completamente giocate dalla funzione di riconoscimento della figura stessa.

«E l’interesse di questa polarità sta principalmente nel fatto che essa cambia o può cambiare da
un’opera ad un’altra. Una serie potrà presentarci la polarità fra il primo ed il dodicesimo suono;
un’altra fra il secondo e il nono…e così via. E non parlo delle possibilità insite nei singoli tronconi
della serie. E’ qui che il fattore tempo, cui ho fatto cenno or ora, si presenterà in tutta la sua
imponente importanza. E’ così che nella serie potrà essere stabilito quell’intervallo così
caratteristico, da potersi imprimere nella memoria più profondamente che gli altri; è così che
avremo una possibilità maggiore far comprendere il nostro discorso.7».

La seconda conseguenza porta alla luce la tensione semantico – narrativa, che sta dietro alla
marcatura sulle note caratteristiche: in effetti, dobbiamo riconoscere che in Dallapiccola una
fortissima tensione narratologica porta al paradosso raffinatissimo di un autore che si forma sulle
opere di Schoenberg, ma che si reinventa uno stile, una forma che lontana dall’idea di serie come
gancio, come forma rigida, discretizzata, che caratterizza la geniale speculazione del padre della
dodecafonia in Comporre con dodici suoni. La serie si dilata e si contrae, con la plasticità di una
evocazione del suono come collante per la memoria, di una forma che sa vivere solo nel suo
tradimento locale.

Possiamo muovere alcune osservazione: la prima tocca il concetto di forma, che non sta nella serie
in quanto tale, ma nella serie come rappresentazione metamorfica di una struttura melodica. La
serie è tutta caratterizzata da un colore, da un gesto melodico, e la funzione del gesto è imprimersi
nella memoria, per poter fungere quasi da filo conduttore nella forme di permutazione. Se le cose
stanno così, vi è una serie originale, che tende a deformarsi per piccoli passi, per piccoli intervalli,
mantenendo la presa su una concezione dello spazio di tipo cromatico, saturando l’ampiezza del

6
Luigi Dallapiccola «Sulla strada della dodecafonia» (1950), in Luigi Dallapiccola, Parole e Musica, a cura di
Fiamma Nicolodi, IL SAGGIATORE, Milano, 1980, pp. 454 – 455. Originariamente il saggio tradotto poi in inglese da
D. Cooke, apparve su Aut Aut, Milano, I, n. 1, 1951.
7
Ibidem, p. 456.

6
grande intervallo, del grande salto, che va riassorbito lentamente nel colore, con un atteggiamento
compositivo lontano dalla posizione schoenberghiana, che tende, al contrario, ad una morfologia
melodica di tipo più discretistico.

La tendenza cromatica che caratterizza la produzione del primo Schoenberg, e che perde pregnanza
nell’elaborazione dodecafonica più matura del grande viennese, viene conservata in Dallapiccola, e
crea tante piccole penisole modalizzanti in cui germina una cantabilità cangiante, plastica, pronta
ad esplodere in piccole inflessioni locali che ne mutino l’oggettualità espressiva, un carattere che
invece deve diventare trasparenza compositiva nell’elaborazione schenberghiana. Ad un simile
lavoro di cesello sul piccolo intervallo, oltre che sul grande, potrebbe non essere indifferente
l’interesse che Dallapiccola, aldilà delle polemiche locali, mantiene per la tradizione operistica
della cantabilità: d’altra parte, questi aspetti di lontananza, non dovrebbero far velo alla ostinata
ricerca formale sulle forme musicali pretonali, contrappuntistiche, che permettono di modificare la
serie dall’interno, legata un elemento che lega indissolubilmente la ricerca Dallapiccola a quella
schoenberghiana.

L’idea di metamorfosi, che porta spesso Dallapiccola ad una tacita polemica con le idee di
Leibowitz, giace tutta nell’idea di riarticolare la serie come un intero percettivo, determinabile
attraverso una modificazione dei gesti, che diventano la struttura narrativa. Dall’intervallo al suono,
Dallapiccola pone il problema timbrico all’interno di una riflessione sul caratteristico, che ha ben
più di un punto di contatto con la lettura del corpo sonoro che Schaeffner, negli stessi anni va
elaborando rispetto al tema della musica, ma che ci porta dentro all’idea di una permutazione
timbrica della serie come motore espressivo della musica.

Stiamo certamente rivalutando un aspetto poco valorizzato, anche negli studi recenti attorno alla
figura del compositore, ma tali forme procedurali hanno peso rilevante in un’opera come Volo di
Notte, come lo hanno nel Prigioniero: il suono, i puri rapporti fonici, timbrici, sono gli indici a cui
si deve aggrappare il portato semantico del testo, ma questo significa che il testo, il suono interno
che ne determina l’aspetto fonetico, non basta più a se stesso, perché lo stesso piano testuale
assume ora un piano metanarrativo. Se in Schoenberg il valore della serie sta tutta nell’oggettualità
della serie, nella trasparenza espressiva dell’enunciato, in Dallapiccola la serie è continua
corruzione, dissoluzione che ce la ripresenta in tensione fra polarità nette, come accade nel modo in
cui essa viene trattata nel primo monologo interiore di Rivière.

E’ proprio alla luce di questi aspetti che vorremmo prendere in considerazione l’aspetto
metamorfico più celebrato della partitura, la scelta narrativa che spinge Dallapiccola a far sì che il
radiotelegrafista si trasformi progressivamente in Fabien, porti lentamente Fabien in scena, assieme
alla tempesta, e ci narri la sua morte.

Tutta la quinta scena è dominata da quest’idea, che, a dire il vero, sembra molto più problematica di
quanto lo stesso Dallapiccola non voglia mostrare: in sintesi, attraverso la metamorfosi del
radiotelegrafista in Fabien, otterremmo l’unità artistotelica di tempo ed azione, chiudendo tutto il
suo Volo di notte nella spazialità un poco claustrofobica delle due stanze, portando la traccia
acustica della testimonianza dell’evento allo statuto di protagonista. E’ la materia della voce a
narrare, la sua stessa foneticità a diventare storia, a disincarnarsi dall’individuazione del
personaggio, per farsi teatro. Si tratta di un’idea romantica, che gioca ancora con le pulsioni interne
al desiderio di morte nel Re degli Elfi goethiano, e che in Dallapiccola si fa invece testimonianza di
una profonda scelta di vita, di un modo di essere.

7
La voce media una spazialità, la rende concreta: rileviao così che l’idea di contrazione dello spazio,
la scelta di uno spazio chiuso che continui a dialogare con l’aperto, sia un tema che unisce in modo
strettissimo la scrittura di Volo di Notte con quella de Il Prigioniero, in cui passaggio dal chiuso
all’aperto attraverso un lungo corridoio trova un corrispettivo nella voce interiore del prigioniero
che crede di dialogare con un mondo che egli solo ascolta, e che così fa trapassare la sostanza
drammaturgica del proprio miraggio nell’intendere concreto dell’ascoltatore, che partecipa con lui
della liberazione immaginaria delle Fiandre. In Volo di Notte tutto accade nel segno di un
monologo che diventa lentamente interiore, in un modo molto differente da quello che occupa la
mente sconvolta de Il Prigioniero, durante la traversata del corridoio che lo separa dalla sua fittizia
liberazione. La caduta è reale, e solo la realtà della caduta, con la perdita di sostanza di Fabien,
permette la sua identificazione con Rivière.

Ma vi è qualcosa di più profondo, in quest’idea che entusiasmò lo stesso Saint- Exupéry, e che
trova analogia nella Persephone stravinskyana. Cio che muta, propriamente, è la stessa funzione del
mondo: nella scena V, nella sezione Corale – Variazioni- Finale, esplode infatti il registro affettivo
della pietas di Dallapiccola. Se ne Il Prigioniero il mondo è un fantasma di suono, che abita la testa
del protagonista, che non arretra neppure di fronte all’evocazione del rumore o del rafforzamento
microfonico, per lasciar emergere quella soggettività torturata che immagina una rivolta, parlando
di un mondo che non esiste, in volo di notte il mondo c’è, fino alla fine, fino al punto di portare alla
caduta, o alla frase non abbiamo più essenza, dove il volo si è fatto gesto, che cerca un significato
che trascenda la stessa funzione commerciale del volo notturno, per ritrovare la vicinanza alla
stella. Il narratore qui non partecipa della vicenda, come accade nell’opera del grande compositore
russo, è la vicenda stessa. Ma la vicenda è una voce, un mezzo in cui ci si identifica.

Ci viene così incontro una questione non di poco conto, perché il passaggio si collega all’idea di
una fusione tra piani narrativi, che allontana pesantemente l’idea di Dallapiccola dal modello di
Stravinsky, già teso verso quella retorica del Sublime che brilla nell’uso del Latino, come
mediazione marmorea, e remota che colora in modo opaco le forme dell’identificazione immediata
con il tragico, trascinandoci verso una rappresentazione sacra.

Nell’Oedipus Rex non vi sarà possibilità di sublimazione perché non vi è possibilità di un registro
più alto, perché la metamorfosi scompagina i piani che noi vorremmo distanti, schiaccia
nell’immanenza dell’azione il valore simbolico della rappresentazione. La poesia di Stravinsky
mira alla rappresentazione sacra, alla commozione di un registro Sublime che trascende la stessa
narratività, per fissarsi in figura, in un teatro del concetto, lasciando cadere la mediazione della
natura.

Non è un caso che la narratività dell’Oedipus giochi consapevolmente con il bloccarsi


claustrofobico della polifonia attorno ad Edipo, al suo stringerlo in modo sempre più implacabile,
come nella ritualità di Sacre, e forse questi aspetti dovrebbero gettare un’ombra espressiva molto
più inquietante sulla categoria di neoclassicismo, che forse meriterebbe d’esser ripensata attraverso
questo riferimento alla categoria dialettica della perdita del valore, più che quella di canonicità
della forma, che in questo contesto prende un colore tragico molto più forte, ed espressivo, di
quanto non si sia soliti riconoscere, e che muterebbe anche il senso della valenza ironica della
ricostruzione canonica della figure musicali, che racconterebbe non più una semplice forma di
corrosività (quante volte abbiamo sentito evocare questo fenomeno rispetto allo stesso Stravisky?),
ma la consapevolezza di un calco perduto e ricostruito nella consapevolezza della sua preziosa
precarietà, che rimanda ad un orizzonte di valori perduto ed incombente, una sorta di
sacralizzazione di un evento rievocato attraverso una riplasmazione affettiva di un oggetto.

8
E’ alla luce di questo motivo, che cambia la musica, l’uso della serie che sostiene Altissima Luce
muta completamente il registro dell’evento. Le seconde e le terze maggiori, e l’uso di un tritono,
come asse di simmetria, altro aspetto vicinissimo ai tentativi di serialità che si inseguono in Bartòk,
oltre che l’uso insistito del cromatismo discendente, permettono al compositore di mantenere una
distanza dall’ideintificazione simbolica, di trasformare in una concettualità astratta l’evento
concreto in scena, conquistando la dimensione del Sublime, attraverso il registro del rimando alla
sacralità del cielo stellato, unico spettatore, assieme a Rivière, del dramma. Hanno certamente
ragione Giancarlo Brioschi e Alessandra Pezzotti quando parlano del

«crescendo emozionale ottenuto tramite l’infoltimento delle sezioni orchestrali, cui fa da corollario
il carattere sempre meno cantato delle parole di Rivière8».

E proprio in questo arretrarsi dell’intonazione dal canto al parlato che la strategia drammaturgica di
Dallapiccola permette che esploda, finalmente, il processo identificatorio fra ascoltatore e
personaggio, che si muove parallelamente alla modificazione empatica che va prendendo forma in
Riviére. L’aprirsi del sipario orchestrale che parla da fuori di quello che accade dentro, è lo
strumento con cui Dallapiccola, nella logica dell’assonanza, ci porta dentro ad una soggettiva, che è
quella di una contemplazione acustica della tragedia.

Su questo terreno entra in fibrillazione l’idea di una compartecipazione emotiva, perché, ascoltando
attraverso il filtro di Rivière, non possiamo valerci di una identificazione lirica, e la metamorfosi ci
tiene sospesi, fuori e dentro il dramma, secondo una geniale rivisitazione dell’idea di coro tragico:
allo scopo di costruire questo spazio intermedio, per creare una piccola barriera che offra un
appiglio metamusicale, il compositore ricorre ad una sorta di montaggio, che impone ai frammenti
della serie di emergere nella linea del clarinetto, immersi nella tempesta che accompagna tutta
questa sezione della quinta scena.

L’idea di un’identificazione totale fra Fabien e Rivière ora può prendere corpo: Rivière parlerà
come Fabien, perché entrambe non sono che un’immagine dell’irraggiungibilità delle stelle, della
capacità di un pensiero che sa attestarsi non sconfitto, dentro ad un limite. La seconda minore e la
terza maggiore sono stati, in fondo, gli attori di questo teatro del frammento melodico, i nessi
interni che sostengono il senso della trasformazione.

Quanto questo gioco, che crea distanza e partecipazione, prefiguri già la pietas che abita la
preghiera del Prigioniero in Signore, aiutami a camminare, risulta evidente. Volo di notte è un
laboratorio in cui la plasticità romanzesca di Saint – Exupéry offre a Dallapiccola la possibilità di
conquistarsi una via alla caratterizzazione musicale del personaggio, in cui l’idea di una forma
realistica si stempera immediatamente sul piano dell’etica, un piano che non ha paura neppure di
rivalutare un’idea di brutto, di deforme, di caratteristico, per depurarla dagli aspetti caricaturali che
la via teatrale dell’espressionismo musicale tende spesso a mettere in primo piano, per proporci una
contemplazione attonita della debolezza umana, della straordinaria fragilità, che sostiene la forza
dei personaggi.

Tali aspetti condurranno Riccardo Malipiero9, in una splendida conferenza del 1962 alla Piccola
Scala su «Il Prigioniero»a trattenersi, incantato, sul carattere madrigalistico della cellula melodica

8
Gaincarlo Brioschi – Alessandra Pezzotti, «Una scena da Volo di Notte, in AA. VV, Studi su Luigi Dallapiccola, a
cura di Arrigo Quattrocchi, Libreria Musicale Italiana, 1993, Lucca, pp. 63 – 78.

9
in Dallapiccola, a descrivere la piccola cellula melodica su cui Dallapiccola costruisce la parola
fratello, con i suoi espliciti richiami alle intonazioni sacre, con espressioni come “ contiene tutta la
dolcezza della di questo vocabolo e nello stesso tempo tutta la vischiosità, falsa e insidiosa di chi la
pronuncia” e a scoprire che quella cellula già appare, in modo nitido, nell’incubo della madre che
apre l’opera, e a leggere lo sviluppo della sezione come una polarità fra le metamorfosi espressive
che proliferano attorno a quella cellula.

Il rapporto di seconda minore ascendente (Sol diesis La Si Bem) o la seconda con la terza minore
discendente (Fa Mi Do diesis) verrà poi impiegato per una caratterizzazione piscologica della
funzione drammatica del personaggio del Carceriere e del Torturatore, che sono, in fondo , due
accentuazioni psicologiche della medesima funzione scenica e che vivono nel contrasto fra questi
due piani narrativi, come ha mostrato bene Massimo Venuti10. La forma contiene, ma essa viene
indicizzata dall’intervallo: dove cade l’intervallo, la serie verrà riconosciuta come forma
d’espressione complessiva.

In una struttura di questo tipo, il cromatismo, il tema che la serialità schoenberghiana cancella in
modo radicale, prende invece il colore di una variante locale, che anima i passaggi drammatici da
un’occorrenza all’altra. La parte orchestrale che animano gli uragani di Volo di notte vive fino in
fondo l’irreversibilità di questa scelta, con i rispecchiamenti fra temi, che si muovono come
deformazioni cromatiche di piccole strutture intervallari, proiettando sulla natura che circonda le
narrazioni rivissute da Riviere in una proiezione espressionista del vissuto soggettivo sul mondo
che circonda i personaggi: in questo senso converremmo con Luigi Rognoni, quando propone una
lettura espressionista della teatralità di quest’opera.

La rivendicazione del musicologo italiano è davvero ben fondata, e tale filtro potrebbe esplodere
per i modi della procedura di condensazione di significato che vive nell’opera: che dire, ad
esempio, del tambureggiare spietato del telegrafo nella scena ritmica berghiana, che vive dentro
alle coscienze dei personaggi, proposto e metaforizzato il più possibile, persino nel lirismo
straordinario che in Dallapiccola lega Rivière ad un crescere pubblico del monologo interiore, nel
dialogo con la moglie di Fabien, con un ribattuto che si trasforma in danza, liquide ripercussioni
quasi rumoristiche, fino allo sciogliersi degli ostinato che accompagnano i silenzi fra i due
personaggi, che hanno più di un colore bartokiano, nella distribuzione dissociata dei timbri
orchestrali e nella scelta di contrapporre salti vocali a intervalli ridotissimi, sempre più sfrangiati,
che si richiamo polifonicamente nell’orchestra, ormai specchio interiorizzato che commenta il non
detto dei personaggi. Lo stesso accade per il gioco stellare che accompagna il gioco leggero di
timbri di fronte all’idea del pilota scomparso, nella parole dei personaggi che ne seguono da terra la
fatale salita alle stelle.

Si tratta così di un espressionismo certamente sui generis, che avverte un profondo disagio verso le
componenti più tardo-romantiche di quella corrente, ma che non sa ancora affidarsi al relativismo
linguistico –strutturale, che caratterizzerà la generazione che lo segue. Questa modalità sospesa
mostra ulteriormente la peculiarità del rapporto suono narrazione in Dallapiccola, e che potremmo ,
forse, riassumere così: tutto si anticipa o si ritarda, il terrore è creare una forma didascalica diretta:
il materiale simbolico viene affidato all’ascoltatore, le forme musicali canoniche abitate da figure
che, nella loro indeterminatezza, ne cancellano, per molti tratti, le relazioni funzionali. Il metodo è
così sistematico che vien da chiedersi in fondo, cosa abbiano mai inventato le strutture
narratologiche di Luciano Berio, e Calvino, che possa andare oltre questo metodo di dissociazione

9
Riccardo Malipiero, «Il Prigioniero», in Luigi Dallapiccola. Saggi, testimonianze, carteggio, biografia e bibliografia,
a cura di Fiamma Nicolodi, Edizioni Suvini Zerboni, Milano, 1975, pp. 7 – 21.
10
Massimo Venuti, Il teatro di Dallapiccola, Suvini Zerboni, Milano, pp. 33 – 37.

10
narrativa, che ha anche il grande merito di evitare il continuo riferimento all’idea di disgregazione e
polisemia, parole che hanno spesso infarcito l’impotenza analitica di tanta prosa contemporanea
sulla musica.

§ 4 Conclusione: narrare fra Proust e Saint – Exupéry

Di fronte a questa strategia compositiva, l’idea di metamorfosi, come carattere di fusione tra i
personaggi, si preannuncia in vari modi. Ci piace ripercorrere da questo punto di vista il saggio
sulla dodecafonia che abbiamo già citato, dove Dallapiccola si trattiene un poco sul problema del
rapporto personaggio – struttura narrativa, facendo cadere il suo interesse sull’evocazione di
Albertine nella Recherche proustiana.

Condensando molto le ricche argomentazioni del compositore11, egli osserva che dalla prima
occorrenza del nome del personaggio, che viene espressivamente accostato al termine inglese fast
dallo stesso Proust, quasi in una sorta di piccola canzone in cui Albertine corre ora di qua ora di là.
Essa si fissa nella memoria, crea una figura che già corre verso la propria delimitazione, ma rimane
ancora liminare ad una caratterizzazione.

L’annuncio, che gioca il gusto sapido di una variazione di registro, cade a prima, molto prima, che
il personaggio appaia nella sua interezza: il lettore deve trattenere quest’eco, questa prefigurazione,
e nelle lunghe pagine del romanzo, vivrà di figurazioni che si infittiscono, fino alla sua evocazione
piena del personaggio di Albertine, piena di caratteri che non possono trovare fortissima risonanza
in un musicista che pensa ossessivamente ad accoppiare il tema del viaggio all’illusione di libertà, e
che mira alla definizione ritmica e melodica della serie. Vediamo da vicino cosa trova Dallapiccola
nel terzo volume di A l’ombre des jeunes filles en fleur:

« Tout à coup apparut, le suivant à pas rapides, la jeune cycliste de la petite bande avec sur ses
cheveux noir son polo abaissé vers ses grosses joues, ses yeux gais et un peu insistants; et dans ce
sentier fortuné miraculeusement rempli des douces promesses, je la vis sous les arbres adresser à
Elstir un salut souriant d’amie, arc en ciel qui unit pour moi notre monde terraqué à des régions
que j’avais jugées jusque – là inacessibles.

Ecco che, soltanto l’ottava volta che incontriamo Albertine, possiamo dire di cominciare a
conoscerla 12».

Cosa è stato evocato? La figura è stata definita? Non credo sia questo il problema: a Dallapiccola
piace il fatto che il personaggio sia descritto in una serie di connotazioni gestuali, dove anche il
particolare delle guance grassocce diventa un elemento affettivo e si trasfigura negli atteggiamenti
di Albertine, nel volgersi del suo sguardo insistente, puntato ora verso il lettore: la figura che è
elusività pure, che si dà accommiatandosi, consegnandosi subito al proprio cielo simbolico.
L’ottava volta che la incontriamo, non la conosciamo, ma entriamo dentro di lei, facciamo proprio
il suo orizzonte, irrimediabilmente perduto come un arcobaleno.

11
Luigi Dallapiccola, «Sulla strada cit. », p. 456 – 458.
12
Tutt’a un tratto apparve, a passi rapidi, la giovane ciclista della piccola banda, sui capelli neri il polo abbassato
verso le guance grassocce, gli occhi allegri e un po’ insistenti; e in quel fortunato sentiero miracolosamente pieno di
dolci promesse, la vidi sotto gli alberi rivolgere ad Elstir un saluto sorridente d’amica, arcobaleno che unì per me il
nostro mondo terracqueo a regioni che avevo giudicato fino a quel momento inaccessibili.

11
Il personaggio vive celandosi e, osserva Dallapiccola, la musica seriale funziona come le
evocazioni di Proust, procede dialetticamente, facendoci lungamente aspettare, prima che il
personaggio sia delineato, e quando il personaggio si delinea nella sua interezza, la musica è già
alle sue spalle, modificandone irreversibilmente i caratteri narrativi, staccandolo quasi dalla sua
psicologia, dalla sua fisiognomica, per instradarlo verso un percorso simbolico di tipo universale,
giocando, in fondo, con una partecipe forma di straniamento, per quanto ossimorico quest’aspetto
ci possa apparire. Alla limpidezza del testo si oppone l’opacità simbolica del musicale, siamo
costretti a ruotare attorno al personaggio, veniamo messi in movimento verso un orizzonte in cui
l’individualità del carattere si fa riflesso di un’idea, come le stelle di Sanit-Exupéry alludono
all’intermittenza di un’idea.

Lo stesso accade mentre identifichiamo sempre meglio Riviére, o il senso del dolore della madre
del Prigioniero, che incontriamo all’inizio dell’opera, ma che realizziamo in pieno, solo di fronte
alla domanda inquietante sulla libertà, che il Prigioniero pone al pubblico.

La musica rende irraggiungibile la compresenza di significato e figura, li piega ad una delicatissimo


correlazione. Non è un caso se nel libretto le vicende accadono spesso in parallelo: il racconto della
bufera, o della tempesta di neve vivono in contemporanea ai loro commenti postumi, come se il
circolo degli eventi potesse essere evocato solo dilatando la vicenda verso il passato e verso il
futuro, come accade per la linearità dell’immaginazione mitica: il senso degli eventi vive solo nella
stratificazione temporale di una drammaturgia che sovrappone musicalmente i blocchi narrativi,
svuotando quasi il senso dell’azione all’interno delle relazioni solitarie dei personaggi che
dialogano tra loro. Questa è l’unica forma didascalica dell’opera, una deformazione del fattore
temporale permesso dalla plasticità d’uso della serie.

La serie è la materia narrativa di un testo che fugge, dove la musica esplode, il sipario è già calato.
Scrive ancora Dallapiccola, che prima ancora di arrivare a una definizione ritmica e melodica della
serie, potremo trovarla condensata in aggregati sonori, differentissimi fra di loro per densità e per
timbro .

La serie è suono materico, qualcosa che si comprime e si dilata, creando il proprio spazio letterario,
e va esattamente dalla suono alla struttura, in una direzione ben diversa dall’idea di coerenza
schoenberghiana: a quel modello geniale, Dallapiccola contrappone le sfrangiature di una
drammaturgia elusiva, dove l’oggettualità e la trasparenza della forma vivono in una penombra
semantica, che vede il madrigalismo come forma impressionistica del perduto. Il suono è ancora
più importante della serie, la cui coerenza sarà il punto di arrivo, dopo tante metamorfosi,
annodamenti, che vedono nell’epifania del suono, nelle sue opacità, il motore nascosto della
narratività.

In questo modo, Dallapiccola è costretto ad anteporre l’individualità della nota, dell’intervallo,


della nota caratteristica in senso leibniziano, alla totalità coerente della serie stessa, cercando di
valorizzare l’aspetto della modificazione locale, su quello della struttura: è un atteggiamento molto
moderno, che un compositore come Malipero individuava immediatamente, come abbiamo visto,
nella ricchezza del suo spessore: cercando nella mutazione fonetica della piccola cellula, il motore
drammaturgico della scrittura, Dallapiccola iniziava a porre in questione la nozione stessa di serie,
dissolvendola in direzione dell’idea di spazialità, di attrazione, di una fenomenologia minuta in cui
spazio e serie non coincidono più, altro tratto che lo distingue nettamente dagli esiti teorici
schoenberghiani.

L’idea di deformazione arriva così ad una consapevolezza teorica, che non poteva che immergere la
linearità narrativa di Saint – Exupéry nella luce smerigliata in cui vanno decomponendosi, vivendo,

12
i personaggi proustiani. In questa capacità di porsi delle regole coerenti, di disciplinare la scrittura
musicale alle esigenze interne di una grammatica compositiva, che renda trasparente la forza della
narrazione, le orbite creative di Schoenberg e le intermittenze di Dallapiccola si intrecciano di
nuovo, muovendo, come speriamo di aver mostrato, da direzioni ben differenziate, e verso esiti
narrativamente incommensurabili: se la serie è il risultato di una pratica compositiva, essa può
essere abitata diversamente, rispetto al modo in cui vuoi narrare.

La musica esiste solo nella polarità fra questi poli, la serialità è metamusica, nel senso in cui Bartok
parlava della musica popolare e dell’attività del compositore che la ricostruisce, nella lontananza
inevitabile dal mito, e in tutta la sua tenerezza: in Bartók il mondo contadino è perso, è aldilà del
tempo, ed il compositore che ne ha bevuto gli ultimi istanti, lo narra, felicemente infedele,
attraverso la pratica musicale, ce lo racconta, trasformandolo in metafora, in Dallapiccola le forme
aggregative della serie ci raccontano qualcosa che, come tale non avremo mai, ma che dobbiamo
cercare dialetticamente nella trasformazione, guidati da una polarità circolare che spesso ci fa
trovare alla fine le stesse figure dell’inizio.

Le frasi finali del suo Volo di notte, le parole che la vedova del pilota gli rivolge, che Saint –
Exupéry rivolge al personaggio, ora sono rivolte da Rivière a se stesso: Rivière il grande, il Rivière
il vittorioso, che reca la sua pesante vittoria e vengono pronunciate con rassegnazione, una
rassegnazione da Sisifo, mentre torna al lavoro e si chiude la scena. Ma ora la natura titanica è
infranta dalla responsabilità che mette in moto il senso della pietà umana, che incrina la voce di chi
circonda il protagonista, stemperando localmente il colore espressionista dell’opera. Ora
l’ascoltatore ritrova l’inizio dell’opera, sembra che l’ora dell’azione drammatica sia tutta
condensata nella solitudine essenziale del personaggio. Il ciclo si chiude nell’identità trovata fra
figurazione e significato, mentre la stella, per l’ultima volta, ha brillato e si è subito spenta: la
metafora della libertà, e della solitudine, si sono fatte scepsi, una scepsi che però non sa pacificarsi.

Forse dovremmo riguardare a queste pagine del novecento italiano con molta più attenzione, e
cercarvi dentro, in un modo diverso, le tracce di una vicenda multiculturale, che sembra così in
sintonia con gli orizzonti che oggi si aprono alle pratiche compositive che vediamo proliferare,
senza troppe rigidezze, accettando quell’orlo di oscurità che Dallapiccola ci ha insegnato ad amare,
proponendoci un’oscurità che non sia solo sconfitta, ma un modo di respirare della forma stessa, un
suo flettersi verso l’accoglimento dei movimenti più sottili del chiaroscuro narrativo in cui vivono
anche i personaggi più abbietti elaborati nei registri inquietanti del compositore fiorentino.

13

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