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SANTA TERESA D’AVILA

Una donna, una maestra

Si festeggia il 15 ottobre

INTRODUZIONE

La « noche vieja »

Chi mi ha suggerito di venire ad Avila in questa fine


d'anno?... Un diavolo o un buon genio?... Eccomi, prima
dell'alba, calpestando nell'ombra nera, con un freddo
pungente, cumuli di neve; eccomi arrivato alla città dei
santi.
- Hombre! è venuto per la « noche vieja » - mi
gridavano quando incontravo qualcuno. La noche vieja,
in Spagna, è l'ultima notte dell'anno che finisce.
Avrei potuto scegliere meglio quando intrapresi
l'avventura? Ne ignoravo le sorprese e i fasti, voglio dire quei compagni di gloria,
quegli amici del passato di cui la «noche vieja» voleva onorarmi.
Mai, per quanto possa ricordarmi, mai giornata mi parve più piena.
All'improvviso, verso le due, spazzate le nubi, il cielo si abbellì di un azzurro
limpidissimo che sembrava aspirare la città, l'altopiano, la Sierra così vicina. In
Castiglia, l'inverno è apportatore d'infinito! Al soffio dei venti, lo spazio immenso
divora la terra.
Il tempo di girare le mura, di scendere in gran fretta al monastero dell'Incarnazione, di
fermarmi, verso mezzogiorno, a S. Segundo, primo vescovo d'Avila nella sua urna di
pietra, quasi rannicchiata sul ponte dell'Adaja. Il tempo di una strada su cui vol-
teggiano i ricordi.
A ponente, il sole indorava le mura. In lontananza, candide scie; vicino, lame infocate.
Alcune vecchiette, con la schiena rivolta verso quell'insolito calore, se la ridevano del
freddo e del ghiaccio improvvisamente messi alla porta.
Ah! perché non posso attardarmi anch'io su questa pietra? La Spagna ozia nella sua
bellezza: un' aria così pura, oro dappertutto, come se la città dei cavalieri - costellata di
speroni o ostensorio carico di ornamenti - mi ammaliasse e mi inchiodasse alla bassa
porta de « la Mala Dicha », della « Mala Sorte ».
Tuttavia, mi aspettavano a San José, primo monastero riformato di S. Teresa. Rumore
confuso di voci sotto il minuscolo patio d'ingresso, abiti scuri sul far della notte. La
noche vieja, vecchia di quattro secoli, mi avvolgeva con i suoi sortilegi. I vecchi amici
della santa Madre si presentavano. Non c'era che da salutarli.
Il Maestro Gaspar Daza: sottana nera su un'oncia di corpulenza. Avrebbe avuto
tendenza a parlare con stile ampio e sonante, se l'ascesi e gli spostamenti incessanti
attraverso i villaggi non avessero fatto di lui un predicatore spedito e ascoltato. A
Valladolid, una volta, si bruciavano eretici, negromanti e stregoni. Lui, instancabile,
catechizzava - in chiese senza finestre, profonde, gelide come tombe, o ai piedi di
calvari di granito - i contadini ignoranti.
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Vicino a lui e come lui vestito di nero, Francisco de Salcedo. Ingegnoso e
ingenuo, mosso da folli entusiasmi come da categorici rifiuti, nascondeva sotto una
recente vedovanza una vasta curiosità teologica.
Lo accompagnava il suo maestro, il padre Domingo Bànez. Alto e asciutto, votato alla
magrezza per vocazione e decisione, con il suo abito bianco da domenicano,
rischiarava il minuscolo parlatorio dove lo avevano già preceduto gli altri due. Chi
avrebbe detto che quest'uomo aveva passato la sessantina? A Santo Tomàs, il convento
di sotto, la sua candela si attardava in interminabili nottate. Con passo leggero, molto
prima dell'alba, era il primo a entrare nel coro di sopra.
Dall'altra parte della grata, una voce, dieci voci, ci salutavano con quel gioioso vocio
abituale ai conventi spagnoli.
- A vedervi così riuniti - esclamò la priora, - non posso fare a meno di ricordare ciò
che proprio qui, venti anni fa, nel 1565, scriveva la nostra santa Madre: « Io vorrei che
tra noi cinque che ora ci amiamo in Cristo - ci manca soltanto dona Guiomar per fare
la quinta - stabilissimo un accordo di riunirci alcune volte per disingannarci
reciprocamente, avanzare proposte circa il nostro possibile emendamento, e
compiacere meglio Dio »(Vita XVI, 7, p. 146).
« Noi che ci amiamo in Cristo ». Così, quella donna rinchiusa in un chiostro, Teresa
d'Avila, in fondo alla sua notte quattro volte secolare - la noche vieja - era riuscita ad
ordire questo complotto d'amore, questa congiura d'amore. La Spagna di Filippo Il non
ne era forse avida? Politici, eretici, macchinazioni, intrighi, tramavano in segreto ciò
che, presto o tardi, avrebbe flammeggiato alto e chiaro sui roghi dell'Inquisizione.
Teresa d'Avila accendeva, nell'oscurità, un incendio di gran lunga più potente. Tutti i
suoi amici: monaci, preti, gentiluomini della santa Giunta d'Avila erano trascinati loro
malgrado in una passione ardente: la vita evangelica, una vita d'amore al servizio della
Chiesa. A questo pensavo mentre i nostri ospiti del passato andavano avanti passando
da ricordi ad esclamazioni, da esclamazioni a risoluzioni.
Laggiù, la città brillava dei bagliori dell'anno defunto. Ah! che festa di splendore sulle
nevi di Gredos! Qui, le carmelitane avevano afferrato tamburelli e nacchere e
cantavano con voci ritmate. Non si cede alla nevrastenia nei Carmeli della Madre. Una
campana fu scossa dietro la porta. Finita la ricreazione! Scomparsi i sortilegi della
notte e i suoi fantasmi prestigiosi!
Mi ritrovai a camminare sulla strada, avanzando con la folla dei giorni di festa, verso
San Vicente 5, nella noche vieja, senza rimpianto ma non senza progetti.

***

Parlare di S. Teresa d'Avila, non è forse una sfida? Biografi, maestri di spiritualità, di
preghiera, teologi, storici, a gara - e con quale fortuna! - si sono cimentati in tale
impresa. Chi sono io per entrare in competizione con loro? Saggi e sapienti
condannerebbero la mia balordaggine!
Ma c'è un'altra strada che relega ogni concorrenza.
« Noi tutti che ci amiamo in Cristo », potreste trovarmi modo migliore di accostarsi
agli uomini, fossero anche di grandissima statura, al di fuori dell'amore?
Ora, da più di venti anni io sono pellegrino delle due Castiglie. Tutto il tempo libero
delle mie brevi vacanze l'ho speso nel cercare nei suoi paesaggi, nei suoi monasteri e
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nei suoi borghi il ricordo della grande cittadina d'Avila, di cui la voce pubblica e
la Chiesa hanno fatto una santa. Ma Teresa di Gesù non è una mummia, un corpo
pietrificato in un'urna di oreficeria. Essa vive ancora nei suoi Carmeli. Con la stessa
lingua, al ritmo delle sue coplas e delle sue sentenze, ad ogni pie sospinto, le sue figlie
la rievocano. Sotto questo rapporto, nell'implorarla, nel cantarla, ho goduto maggiori
privilegi di quanto qui convenga dire. Tornato dalla Castiglia - i miei amici ne sono
testimoni - porto con me i suoi libri. Analizzo ogni sillaba di quel parlare mirabile,
fatto di scintille e di colpi di spada. C'è fuoco, ferro e sale, respiro e senso
dell'umorismo in questa scrittrice che pensa parlando, che geme e si esalta. La parola
s'impone; rimane impressa, viene ripetuta a bassa voce come per deliziarsene.
Poeta, la Madre lo fu, nel senso greco della parola: « creatrice » di slancio di bellezza
e di amore. Chi le potrebbe negare questa prerogativa?
Quindi - perdonatemi se esprimo questo proposito - andrò a raggiungere i miei
compagni del passato. Attizzando il focolare dei nostri ricordi e dei nostri affetti,
racconterò, attraverso la noche vieja della storia, immagini e parole, poiché ogni santo,
a modo suo, ne è il riflesso.
Nessun commento alle sue opere mistiche, quantunque io le sfogli e le conosca; ma
talvolta, per il profano, il linguaggio della Madre « suona » come arabo. Ella stessa ha
l'abitudine dell'espressione.
Punti di riferimento, approcci. Quel non so che somiglia a un profumo perché -
bisogna dirlo agli scettici del nostro tempo? - di tanto in tanto, ne fanno fede testimoni
incontestabili, nei monasteri, tutt'a un tratto, questa o quella suora sente un odore
meraviglioso: cannella o violetta, rosa o gelsomino.
Ah! vi vedo sorridere e capisco. Si possono impaginare delle fragranze? Eppure,
l'apostolo ha scritto proprio: Noi siamo il profumo di Cristo (2Cor 2,15).
L'essenziale, dopo tutto, nelle prossime righe, è di suggerire più che di spiegare, di
suscitare più che di descrivere. A forza di frequentarla, la Madre diventa familiare,
benefica e tutelare.
Così, il padre Francisco de Ribera, alcuni anni dopo la morte della santa, poteva
chiudere il racconto della sua vita con queste parole che io adotto immediatamente: «
Perdoni, santa Madre, l'impotenza del mio ingegno e la povertà delle mie parole; lei sa
che il mio cuore non è stato povero né di affetto, né di devozione per lei ».

I
PARTIRE PRIMA DI GIORNO

Mistero delle infanzie e delle genesi! chi le disprezzasse commetterebbe una


sciocchezza. In una sola volta, tutto viene dato. I cristiani aggiungono: da Dio, poiché
il Signore non lavora in maniera incoerente e non sperpera i suoi doni.
Teresa rievoca i suoi verdi anni. Brevemente: quattro capitoli sui quaranta che conta la
sua autobiografia. Come la Bibbia, poco curiosa dei primi giorni della sua storia, la
riformatrice di quarantasette anni che termina a Toledo, nel 1562, la prima redazione
della sua Vita, va all'essenziale.
Come potrebbe sfuggire alla tentazione di ritrovare se stessa? Senza dubbio, subisce il
fenomeno della trasformazione, della proiezione dei suoi desideri di adulta sui suoi
stati infantili e adolescenti. Sebbene amasse le Confessioni di S. Agostino, forse cede
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meno che il dottore d'Ippona alla tentazione di accusarsi. C'è un'ombra di
sorriso in questo racconto. Teresa è donna e dotata d'immaginazione. E vissuta in
mezzo a otto ragazzi, suoi fratelli. Li ascolta e li guida: è nata per essere un capo e non
lo ignorerà mai. Ma già, nella sua anima di razza, sedotta dal cielo, ella accenna i
primi tentativi di alzarsi in volo.
Ho visto talvolta ad Avila, sotto l'influsso dell'estate, dei cicognini esercitarsi al volo.
Si sollevano a due metri al di sopra del nido, poi si lasciano cadere; ma l'ala contusa e
possente affronterà ben presto il passaggio delle Sierre e l'immensità dell'acqua. Sono
fatti per volare via. La loro pesantezza, anche se ancora troppo grave, non la vogliono
riconoscere. Domani, saranno prigionieri dell'infinito. Così la giovinetta che, con la
sua governante, verso sera sale a San Juan per la predica: è dei Cepeda, si vede dal
portamento. Teresa ci rivela l'atteggiamento del suo cuore, troppo grande - già! - per
avvilirsi in chissà quale palazzotto signorile della Vecchia Castiglia.

1 - Cammino d'eternità

A gran trotto di mula, don Francisco de Salcedo scendeva verso la porta.


- Eh! senor! vada più lentamente! è forse inseguito dai Mori?
Quelle vie che scendono rapidamente verso la città bassa sono un misto di labirinti e di
caos. Dappertutto affiora la roccia; le case, non di pietra ma d'argilla e di paglia, hanno
l'aspetto di catapecchie. Grandi spazi, molto utili una volta, quando il nemico
devastava la regione, per raccogliere i paesani in pericolo.
Un segno di croce davanti alla chiesa San Esteban ed eccoci sotto la porta, sul ponte.
L'Adaja scorre rapido e limpido; a volte trasporta una manciata di neve e viene ad
infrangerla sulla punta estrema del pilastro. Passato il fiume, la strada risale,
faticosamente, in mezzo a capanne e a cortili rustici con alti steccati.
- Si - continua don Francisco nell'aria tagliente come una spada - da quella parte fuggi
la nifia Teresa con suo fratello Rodrigo... in cerca di martirio! Bisogna riconoscere che
i ragazzi non hanno molto il senso della geografia! Andarsene in terra di Mori! Ma
verso la Sierra de Gredos avrebbero dovuto dirigersi, verso sud e non verso est.
Al diavolo le carte e i geografi! L'essenziale: andare al cielo per la via diretta, «
comprare molto a buon mercato la grazia di andare a godere di Dio » (Vita I, 4, p. 38),
a prezzo delle strade cattive, malgrado il fuoco dell'estate e i rigori dell'inverno: « pre-
sto » vicino al Signore!
Ecco l'esaltazione infantile, si dirà!, il danno di quelle letture di cui Teresa resterà
sempre così avida. Ecco il contagio dei santi e l'entusiasmo eroico!
A quest'impresa di grande coraggio non mancava un motto o, se si preferisce, una
formula magica. « Ci impressionava molto nelle nostre letture l'affermazione che pena
e gloria sarebbero durate sempre. Ci accadeva pertanto di passare molto tempo a
parlare di quest'argomento e godevamo di ripetere molte volte:
sempre, sempre, sempre! » (Vita I, 4, p. 39).
Che cosa c'è di sorprendente nel fatto che dei fanciulli siano affascinati da parole
dense, la cui eco si ripercuote alle montagne dell'eternità? Simili sentenze andavano di
pari passo, naturalmente, con la lettura di vite di santi. Tali biografie, spesso
leggendarie,
non hanno forse nutrito generazioni di cristiani? Spetta ai critici discernere in esse la
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parte di affabulazione e di errore. Ma esiste una verità nella leggenda. Al di là
dell'esagerazione, della fioritura del miracolo, Dio si esprime. Ne è ben cosciente
Teresa, fanciulla, che nota: « Nel pronunziare a lungo tale parola, piacque al Signore
che mi restasse impresso nell'anima, fin dall'infanzia, il cammino della verità » (Vita I,
4, p. 39).
C'è un tratto da cui non si può fare a meno di essere colpiti: sia che si tratti di correre
al martirio, di strappare la grazia di una decapitazione nel paese dei Mori, sia che con
il fratello « decida di fare l'eremita », costruendo nell'orto eremi così precari che subito
crollano, Teresa è attiva: appena concepito, un progetto è messo in atto. E quest'atto è
religioso.
Mi si dirà che la storia di Castiglia vedeva scendere in campo donne valorose.
Attaccato dal vento, dal freddo, tormentato dal suolo spesso arido, minacciato
d'invasione, l'altipiano castigliano assume l'aspetto di una fortezza. Battersi è la legge,
la cavalleria, l'onore della città. « Avila de los Caballeros », « Avila dei Cavalieri ».
Ma la fanciulla Cepeda y Ahumada non attizzava furori guerreschi. Dalla caduta
dell'ultimo regno moro di Granata, nel 1492, sotto il regno dell'imperatore Carlo V,
non si trovano più in Spagna terreni di battaglia. Dove porteranno il loro ardore i
fratelli di Teresa se non al di là dei mari? Qui, non c e piu un nemico contro il quale
combattere.
Teresa, molto prima del chiostro, comprende che ci sono altre crociate, altre
riconquiste. Lo intuisce nell'intensa vita religiosa dell'epoca. Gli svaghi degli uomini
sono allora rari. Solo le campane delle chiese, dei conventi striano l'aria di
avvenimenti che si tramano più in cielo che sulla terra. L'anno liturgico con i suoi
fasti, l'intrepida fede spagnola creano il paesaggio morale dei suoi verdi anni. Con
l'aiuto della grazia, le parole sfolgorano: « Il paradiso, la beatitudine... vedere Dio! ».
Per la fanciulla naturalmente credente, nulla ne allontana, nulla, se non quelle
bagattelle da cui, con l'avanzare dell'età, durerà tanta fatica a liberarsi. « Fare
l'elemosina, recitare preghiere, specialmente il rosario, costruire monasteri »,
organizzare una regola, guidare un gruppo, vedere come tutto si delinea in anticipo! La
donna di quarant'anni passati che redige le sue memorie a Toledo o nelle prime
emozioni del nuovo monastero di San José (1563-1565) contempla l'opera di Dio. Non
era né inefficace né vano Colui che la attirava con tanta forza, a sua insaputa, verso le
cime.
- Guardi - mi dice don Francisco - proprio qui lo zio fermò la nina e suo fratello.
In realtà, poco m'importa di dare un'occhiata a quel pezzo di terreno dove furono poi
innalzati i Cuatro Postes: io sono affascinato dalla storia della città, che muove
naturalmente all'assalto del cielo. Avila si stende lungo il pendio della montagna. In
basso, con le sue acque rapide, l'Adaja bagna le mura. Ma il blocco delle rocce, la
massa dei bastioni, il sorgere delle ottantotto torri, tutto converge verso la cattedrale
massicciamente slanciata sull'orizzonte. Come in un unico movimento nella sua guaina
di granito: palazzi, chiese, case formano una sola truppa per conquistare lo spazio,
l'infinito, l'eternità. Anche se fosse già stato scritto cento volte, proverei piacere a
ripeterlo. Avila medievale e mistica, tutta di sassi e di pietre, diventa tabernacolo di
Dio ai piedi della Sierra.
« Per sempre, per sempre », mormorava nelle sue prodezze giovanili colei che avrebbe
reso universale questa città. Come se Teresa de Ahumada y Cepeda non potesse essere
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insignita di un altro nome. Senza dubbio l'umile donna, con tutta la veemenza della
sua modestia, lo avrebbe ricusato... ma era detto che la riformatrice del Carmelo,
ospite per cinquant'anni delle sue mura (1515-1567), avrebbe dato un'anima a questa
pietra, a questi palazzi severi, a questi patios senza grazia. Decine di uomini celebri,
politici, scrittori, religiosi porteranno questo nome: d'Avila. Nessuno avrebbe avuto
tanta influenza né un cuore tanto aperto da potervi gettare simili semi di eternità.
- E’ vero, senor - continuava don Francisco - che la nina cresceva in un ambiente
privilegiato: suo padre, un santo ante litteram. « Non si poté mai ottenere ch'egli
tenesse schiavi. Nessuno lo udì mai imprecare o mormorare. E fu onesto in sommo
grado » (Vita I, 1, p. 37). In quanto a sua madre, posso parlare di lei perché, essendo
loro parente, frequentavo spesso la casa dei Cepeda. Le nascite, le preoccupazioni
l'hanno prostrata prima del tempo. Morire a trentatré anni, è troppo presto. La piccola
aveva preso da lei per la bellezza, perché era molto bella, e per il suo gusto
dell'avventura... il che, con i tempi che correvano, sembrava di moda. Tutti i Cepeda
non sono forse partiti per le Indie occidentali?
Ascoltavo la meditazione del buonuomo.
Avila si pavoneggiava al sole d'inverno.
« Per sempre, per sempre, Rodrigo! ».
Come se queste lettere si iscrivessero in profondità in seno allo spazio.
Così, dicevo fra me tornando verso le porte, questa figlia di Dio, di primo acchito e
seguendo l'impulso naturale del suo animo, ha ritrovato l'aspirazione più profonda
della Scrittura: Guidami sulla via della vita! (Sal 139,24).
Quante insidie! quante deviazioni l'aspettavano! E questa la sorte dei figli di Adamo,
ma il primo slancio era dato, la prima gravitazione assicurata, dono irrecusabile di
Dio.
Un giorno, Teresa riassumerà tutto questo: « Siate benedetto, mio Signore, che da una
melma così sporca come son io, fate uscire un'acqua così limpida perché sia degna
della vostra mensa! Siate lodato, o delizia degli angeli, per voler elevare tanto un così
vile verme! » (Vita XIX, 2, p. 161).

2 - Maria de Briceno

Alta, nella grata del coro, con le tempie strettamente serrate dalla cuffia, la voce
limpida, la madre Celina mi riceveva a Santa Maria della Grazia. Dio sa se avevo
cercato questo monastero! Non me ne vorrete. Per quanto Avila sia grande quanto un
fazzoletto, per uno straniero come me ritrovare il monastero in cui Teresa adolescente
cominciò ad essere « illuminata dal Signore »(Vita Il, 10, p. 45) rappresenta
un'impresa.
- Senor - mi spiegò don Francisco che quel giorno si recava in una proprietà lontana -
esca dalla porta vicina alla cattedrale, come se andasse a San Pedro, poi cominci a
scendere sulla destra:
Santa Maria della Grazia è lì, rannicchiata sotto le mura.
Confesso che nel precipitarmi giù per quei larghi scalini lastricati, tutto il mio pensiero
andava alla giovane Teresa. 1531: il palazzo Cepeda risuonava ancora delle recenti
nozze di Maria, la sorella maggiore. Tutta la famiglia, venuta da Toledo, da Gredos, da
Alba de Tormes era sfilata nel patio sonoro. Scomparsa Maria con il suo sposo, portati
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via i cassoni e i vestiti su pesanti calessi, in casa non restava più che Teresa, sola
soletta e senza madre.
- Su! figlia mia, come le tue cugine, andrai anche tu dalle agostiniane. Sono sagge e
discrete... Ti insegneranno molte cose. Starai meglio lì che con il tuo vecchio padre e
con i tuoi fratelli sempre occupati nei campi o in scontri.
Teresa aveva varcato la porta della clausura. In quel tempo maestre e allieve vivevano
nel chiostro. Il suo cuore, a dir vero, era triste: chi mai, nella sua parentela, aveva
mormorato che la ragazza piaceva... e cercava di piacere? Con tanti giovani tra i cugini
e nella confusione delle feste! Teresa, con un pizzico di tenerezza nel cuore, lo
confessa, « era già stanca di queste vanità ». In otto giorni, questa inquietudine si era
calmata, ma per una più dura prova (Vita Il, 8, p. 44s).
Teresa, a sedici anni, scopre una vera educatrice: Maria de Briceno.
Chi avrebbe detto che questo vasto monastero con i suoi due chiostri laterali dagli alti
muri, ma distaccato dai bastioni, con i
suoi giardini, la sua veduta a ponente e sulla Sierra, inaugurava a sua insaputa per la
giovane secolare un singolare noviziato?
La sua maestra era giovane: ventotto anni appena passati. Intuitiva e comprensiva, e
dotata di un'arte così spagnola: il parlare bene! Giacché questo popolo vive della sua
lingua, delle sue parole forti e saporose, dei suoi proverbi e delle sue sentenze; il tutto
animato dal gesto e punteggiato dal fervore dell'accento.
« Maria parlava così bene di Dio » (Vita III, 1, p. 46). Tutto è detto in poche parole.
Ieri l'adolescente ascoltava sua madre, i suoi libri, il suo cuore; spontaneamente, si
costituiva professore, predicatore, in mezzo al piccolo mondo infantile. Oggi, ha
trovato il suo maestro, un maestro tanto più eloquente e persuasivo in quanto per
imporsi ha solo virtù e fascino. Quando un maestro insegna una cosa, prende anche
amore al suo discepolo, gode che il suo insegnamento lo soddisfi e l'aiuta molto
nell'apprendimento di esso (Cammino XXI, 4, p. 129).
Senza dubbio, come in tutti i conventi, e ancor più ad Avila, si provava gusto a far
pettegolezzi, ad intrattenersi sui piccoli e sui grandi fatti della storia. Di chi non si
parlava nella città dei cavalieri? La visita recente dell'imperatore Carlo V alimentava il
gazzettino locale. Quante chiacchiere erano state fatte sul soggiorno imperiale! Il re
dall'accento fiammingo, il suo seguito di signori, di vagabondi, amanti di salsicce e di
sbornie. E poi, a cento passi dalle agostiniane, l'infante Filippo Il era posto sotto la
tutela delle bernardine. Lo stesso anno in cui don Alonso rinchiudeva sua figlia a
Santa Maria della Grazia, il futuro signore dell'Escorial, ancora bambino, riempiva dei
suoi strilli i chiostri del monastero vicino. A queste gesta si aggiungevano cronaca
devota, matrimoni e vestiti, di cui quelle signorine discorrevano quando non erano in
cappella o in laboratorio.
In una sala del piano superiore, Maria de Briceno riuniva le migliori. Si stava molto
bene in quella stanza, con il soffitto basso, ma con le finestre a piccoli vetri che si
tuffavano sulla campagna.
In lontananza, sovrastando con l'arco nero dei suoi rilievi il campanile di Santiago, la
Sierra; più vicino, l'alta valle dell'Adaja, qualche magro campo d'orzo e pietre, sempre
pietre. Il torrente capriccioso, in primavera e in autunno, inondava i prati di poz-
zanghere immense. Su questi specchi spezzati il sole al tramonto gettava lacca
incandescente. Ora deliziosa de l'atardecer, così cara agli spagnoli, in cui la notte esita
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ad incupire il giorno.
Maria parlava di Dio, delle cose eterne. « Ci racconti come è entrata così giovane
nell'ordine delle agostiniane », esclamava una delle ragazze.
E la maestra, compiacente, spiegava: « Mi piaceva molto leggere il Vangelo; un
giorno, una frase mi sconvolse: Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti » (Vita III, 1,
p. 46).
Immaginava, l'incomparabile educatrice, il colpo inferto? Un raggio di luce cadeva a
piombo sullo stemma bruno-dorato della facciata; una freccia di fuoco attraversava il
cuore dell'adolescente dagli occhi avidi. Il colpo era inferto in profondità. Non sarebbe
mai guarito. Ferita da una frase di Cristo!
Un giorno, la Madre scriverà: « Io ho amato sempre molto le parole del Vangelo che
mi hanno procurato in ogni circostanza più raccoglimento di libri scritti assai bene... ».
E continuerà con questa immagine mirabile: « Avvicinandomi a questo Maestro della
sapienza » (Cammino XXI, 4, p. 128).
Dobbiamo dire per questo che Teresa aspirasse alla vita religiosa? No di certo! In
questa materia, come in un matrimonio d'amore, la scelta ed i partiti non si
impongono.
Entrare a Santa Maria della Grazia le pareva difficile. Troppa virtù, un granello di
severità, di eccesso. D'altra parte, forse, le sue compagne esageravano sul conto delle
agostiniane... Si potrà mai sapere che cosa la fermò? Le confidenze di Teresa non sono
chiare. L'argomento principale dipendeva da considerazioni differenti. A nord della
città c'era un altro monastero, più vasto, più bello senza dubbio. Dona Juana Suàrez, la
sua grande amica, che era stata a servizio di don Alonso, si trovava lì. Ciò bastava per
orientare la sua decisione. « Badavo, insomma, più a compiacere il mio istinto naturale
e la mia vanità che a procurare il bene dell'anima mia », conclude Teresa. Ma Dio trae
profitto anche da queste inclinazioni per chi aspira a seguirlo.
Qualunque fosse allora l'intensità della sua vocazione, un punto l'umiliava più di ogni
altra cosa: « Se vedevo qualcuna versar lacrime quando pregava, o dare altri segni di
virtù, ne avevo grande invidia, perché il mio cuore era così duro a questo riguardo che,
se avessi letto tutta la Passione, non avrei versato una lacrima; e ciò mi faceva soffrire
» (Vita III, 1, p. 46).
Un « recio corazòn ». Più volte, nei suoi scritti, Teresa si accuserà di questo « cuore di
pietra », classico in Ezechiele (Ez 36,26). Che cosa significava ciò? per adesso non
osiamo definirlo troppo chiaramente.
Ma l'occasione di questa durezza è più grande. Si tratta della « Passione del Signore ».
Dio l'aspettava lì? Doveva prepararsi attraverso il vuoto quel « profluvio di lacrime »
che la giovane monaca avrebbe versato un giorno dinanzi al « Cristo tutto coperto di
piaghe » (Vita IX, 1, p. 90)? Tutta Avila, come l'intera Spagna, venerava molti « santi
Cristi ». Nel corso della settimana santa, da Siviglia a Valladolid, di giorno e di notte
si organizzavano processioni intorno all'immagine sconvolgente. Il venerdì santo, per
tre ore intere, domenicani, francescani, padri della Misericordia, predicatori di ogni
ordine, di ogni scuola, di ogni talento, commentavano a gran voce le Sette Parole di
Gesù in croce. Le due Castiglie, l'Andalusia, i nuovi regni acquisiti alla corona
piangevano sull'Uomo dei Dolori.
E un'adolescente di sedici anni si accusava di conservare gli occhi asciutti... Senza
dubbio le restava ancora da percorrere una tappa immensa per raggiungere Colui che,
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dando se stesso per lei, l'aveva amata (Gal 2,20).

3 - Hortigosa

Uscivamo da Avila al passo cadenzato delle mule. Per lasciare la città, bisogna salire
sempre. Il piede delle bestie si posava con sicurezza, evitando una buca, scansando
una pietra. Ah! quel sole sulle nostre teste! La mattinata non era ancora molto inoltrata
e tuttavia camminavamo in un calore infocato ed in mezzo a nugoli di mosche. A
destra, a sinistra, attraverso le rare erbe, lo stridio degli insetti e dei grilli. Talvolta,
una mandria di cavalli, presa da improvvisa follia, accorreva al galoppo verso gli
steccati.
Don Francisco veniva dietro, ciondolante e appesantito dall'estate.
- Allora - cominciò a dire raggiungendomi - questa visita a Santa Maria della Grazia,
le è piaciuta, senor?... Ho ben capito che vi cercava il ricordo di dona Maria de
Briceno. Che cara persona! Forse lei non sa che visse molto a lungo... fino a ottantasei
anni. Morì due anni dopo la santa Madre... Non sbaglia dicendo che la sua influenza fu
decisiva sull'adolescenza di Teresa, ma non quanto quella di suo zio don Pedro.
In quel momento le mule si fermarono. Cinque, sei tori interrompevano la strada,
mandati avanti a colpi di frusta e con l'aiuto di cani da alcuni omaccioni gesticolanti.
Don Salcedo, asciugandosi il sudore, riprese con maggior lena:
- Non arriveremo a Hortigosa prima di sera... e temo molto che sarà deluso. Da quando
don Pedro entrò in un convento di girolimini, la proprietà è rimasta incolta e la casa è
in stato di abbandono.
Ah! quelle strade di Castiglia, le abbiamo sopportate per tutta una giornata. Non che il
paesaggio fosse insignificante. Su quegli altipiani si trovano sempre sorprese: qui
querce da sughero, là un rialzo di rocce, talvolta tre pioppi frementi vicino a una
sorgente nascosta. L'aria molto asciutta risuona di tutti gli stridii della terra e del cielo.
Rari spuntano i villaggi, annunciati da campi di segala e parchi di bestiame. Qualche
ragazzo dall'aspett9 risoluto vi sorpassa trottando sul suo asino e vi lancia uno
squillante saluto.
Finalmente si profila un minuscolo campanile, qualche casupola sparsa qua e là
intorno a un rio in secca; su una collinetta, il castello di don Pedro Cepeda. Castello? è
dire molto! Quando Teresa ammalata entrò in casa di suo zio, attraversò come noi un
cortile di fattoria. In fondo, l'abitazione oblunga a un solo piano. Nessun ornamento
sulla facciata di granito azzurro, salvo lo stemma del padrone di casa.
Era vedovo. La moglie, dona Catalina del Aguila, lasciando questo mondo, non lo
aveva privato dei beni del cielo. « Il Signore andava disponendo don Pedro per sé »,
nota la santa (Vita III, 4, p. 47).
Senza che ella lo sapesse, Dio attendeva qui la giovinetta d'Avila, poiché il
passatempo preferito del vecchio erano i libri, « buoni libri in volgare ». Sperduto fra
quelle montagne austere, lontano dalle città, dalle corti, circondato dai suoi bovari, dai
suoi pastori e dai suoi servitori, don Pedro viveva già come un recluso.
La neve, la prima neve di fine ottobre, era caduta assieme alle castagne. Lo spazio,
fuori, era così silenzioso che soltanto lo schiamazzo del pollame nel cortile, il rintocco
della campana della messa al mattino e del rosario nel pomeriggio venivano a squar-
ciarlo come un tessuto sottile.
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Davanti all'alto camino dove bruciavano tronchi di quercia, andavano a sedersi lo
zio e la nipote. « Vorresti leggermi qualcosa? » chiedeva don Pedro.
« Quantunque quei libri non mi piacessero, ci confida Teresa, ho sempre procurato di
contentare chiunque, anche se ciò dovesse pesarmi » (Vita III, 4, p. 48).
Il libro s'intitolava Lettere di san Girolamo, edito a Valenza.
La voce chiara e pacata s'innalzava nella stanza in cui non si sentiva altro che il battito
dell'orologio e il crepitio delle fiamme. Le parole dell'eremita di Betlemme cadevano
fitte come chicchi di grandine sul metallo dell'anima. Come scriveva, così Teresa leg-
geva in modo mirabile. Il vecchio dialetto castigliano è altisonante, ma la voce della
fanciulla, duttile e naturale, gli infondeva un accento di verità.
Installato in una poltrona di pelle, il brav'uomo ascoltava ad occhi chiusi. Si sarebbe
detto che sognasse o meditasse in silenzio.
Attraverso le strette finestre, cenere sottile, cadeva la notte. Impossibile continuare
la lettura! Solo alte fiamme illuminavano a momenti la pagina oscura. Bagliore di
grazia. Allora don Pedro incominciava a parlare. « La sua conversazione aveva quasi
sem
pre per argomento Dio e la vanità del mondo » (Vita III, 4, p. 47s).
Il gentiluomo - se lo immaginava? - raggiungeva per istinto i pensieri più gravi di
Teresa fanciulla.
« Anche se i giorni in cui mi trattenni li furono pochi, in virtù di quanto operavano nel
mio cuore le parole di Dio, lette o ascoltate, e la buona compagnia, riuscii man mano a
capire la verità delle cose che mi colpivano da bambina, cioè il nulla del tutto, la
vanità del mondo, la brevità della vita » (Vita III, 5, p. 48).
Così, Dio non lavorava in maniera sconnessa. Le prime intuizioni, quelle delle
conversazioni con Rodrigo, quelle della strada di Salamanca, il ricordo della morte
della sua giovane madre, la prima frattura del nucleo familiare con il matrimonio di
Maria, tutto finisce presto: « la vita è breve! », troppo breve per questo cuore
impaziente, avido di assoluto.
Avrebbe mai rivisto il suo benamato zio? Poco importa! Anche lui avrebbe seguito il
suo destino. Presto sarebbe entrato nel monastero di Guisando, lassù nella Sierra, nel
punto in cui le due Castiglie, la Vecchia e la Nuova, si congiungono. « In età avanzata,
conclude Teresa, lasciò tutto quello che possedeva, si fece religioso e finì la sua vita in
modo tale che credo goda ormai di Dio » (Vita III, 4, p. 47). In quell'alta dimora del
Signore, sul fianco della montagna, con la sua vasta chiesa circondata dai faggi e dal
silenzio, don Pedro terminò il suo eroico cammino.
Lasciava qualcuno che lo invidiava? Strana famiglia quella dei Cepeda. Don Alonso,
suo fratello e padre di Teresa, mori nel 1543. Quali furono le sue parole in punto di
morte? « Fra le lacrime ci disse il suo grande dolore di non avere servito abbastanza il
Signore e che avrebbe voluto essere frate in qualche ordine dei più rigorosi » (Vita
VII, 15, p. 78).
All'adolescente malaticcia ed inquieta don Pedro lasciava una meravigliosa eredità.
Non terre né gioielli, ma, nel tempo in cui la pagina stampata era rara, Teresa prendeva
gusto alla lettura. « Mi rianimò l'essere divenuta ormai amante di buoni libri » (Vita
III', 7, p. 49).
Da bambina, come il cavaliere della Mancia don Chisciotte, i romanzi cavallereschi
avevano infiammato la sua immaginazione. Così come le vite dei santi. Oggi, beveva a
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un'altra fonte di cui non perderà mai il gusto: Osuna, Laredo, 5. Agostino... Più
tardi, i
Moralia di 5. Gregorio Magno arricchiranno il suo universo mentale. A nostro avviso,
sarebbe stato bene che avesse conosciuto la Sacra Scrittura, ma era proibito leggerla in
castigliano. Per aver tradotto il Cantico dei Cantici, il suo contemporaneo, Fray Luis
de Leòn, sconterà cinque anni di prigione inquisitoriale a Valladolid. Così volevano
quei tempi e la loro miseria.
Attraverso gli scritti dei Padri, Teresa afferrava una tradizione di Chiesa. Con un
potere di assimilazione stupefacente, faceva sue le loro parole, le assorbiva in se
stessa, le passava al vaglio per ritenerne soltanto il meglio. Autodidatta, soggetta alla
sua condizione di donna del XVI secolo, elaborava, senza immaginarselo, un
insegnamento personale fondato sulle migliori autorità.
E così lontano il giorno in cui, nella cella alta di San Iosé, Teresa costellerà i margini
del suo « S. Gregorio » di apprezzamenti e di raccomandazioni. Leggeva per sé e per
le sue figlie.
A Hortigosa si accese questa lame, non lame di pane, questa sete, non sete di
acqua, ma di ascoltare la parola del Signore (Am
8,11).
Mentre il vento sconvolgeva le encinas - le querce da sughero
- intorno alla dimora di campagna, una passione nuova s'infiammava in un cuore
adolescente.
« Senza che io lo volessi, Dio mi costrinse a vincere me stessa! Sia benedetto per
sempre! » (Vita III, 4, p. 48).

4 - A tastoni nella notte

Entrare in religione con animo giubilante, consacrarsi a Dio nell'allegrezza, tale non è
spesso la condizione degli eletti. Come una volta, al tempo della chiamata dei profeti,
il predestinato a questo stato subisce una violenta costrizione (Am 7,14; Ger 20,7).
Così avvenne per la vocazione di Teresa.
Rileggevo il finale del capitolo III dell'autobiografia. Il quadro vi si prestava in
maniera mirabile. Abitavo allora in una minuscola camera ad Avila, all'altezza della
Plazuela San Juan de la Cruz. La finestra con inferriata lasciava passare una scarsa
luce. Finito lo splendore dell'estate! I due pioppi piantati dietro il monumento del
santo ingiallivano sotto i pallidi raggi del sole. Silenzio nelle strade, rumori di passi
sulla piazza per la messa di mezzogiorno alla « Santa », la casa di Teresa così vicina.
Solo il vento, mio compagno, gemeva sotto la porta mentre rileggevo le tergiversa-
zioni di un' anima.
« Sebbene la mia volontà non fosse ancora incline allo stato monacale, capii che era lo
stato migliore e più. sicuro; pertanto a poco a poco mi confermai nella decisione di
abbracciarlo » (Vita III, 5, p. 48).
Riflessione, discussione, calcolo in una ragazza di diciotto anni: come non essere
meravigliati? Ci aspetteremmo maggiore spontaneità, maggiore entusiasmo. Colei che
parlerà così felicemente di quei « gustos » - dobbiamo tradurre « piaceri » permessi
dall'amore divino - non rievoca nessuno di questi favori.
Si mostra fredda, calcolatrice: « In tale battaglia durai tre mesi, incoraggiando me
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stessa con questo ragionamento: che i travagli e la sofferenza d'esser monaca
non potevano superare le pene del purgatorio e che, avendo io ben meritato l'inferno,
non era poi molto vivere come in purgatorio, tanto più che, dopo, sarei andata diritta in
cielo, e questo era il mio desiderio. Così, in tale impulso ad abbracciare uno stato, mi
sembra che a spingermi fosse più un timore servile che l'amore ».
La discussione diventava aspra, ma all'interno della fede. Teresa ci appare tutta dedita
a calcoli, valutazioni, confronti; in effetti, ritrova l'intuizione dell'infanzia: l'inferno, il
purgatorio, il cielo. « Per sempre, per sempre! ». E questo forse un elemento
fondamentale del temperamento spagnolo, assillato dal sentimento della morte?
Questo popolo caloroso, di una vitalità e di un'energia non comuni, è vissuto sempre
come faccia a faccia con il suo trapasso. In Castiglia più che altrove. Senza posa si è
dovuto combattere contro l'inverno, la neve, il vento delle Sierre, contro la siccità, la
terra ingrata, infine contro i Mori la cui occupazione si è protratta per cinque secoli.
Morire è la legge. Con una certa allegrezza stoica, la si subisce, soprattutto quando si
sa che cosa ci aspetta, passate le sue porte: « Sarei andata diritta in cielo, e questo era
il mio desiderio...». Mentre rileggevo questa riga, un uragano improvviso spogliava i
pioppi. Aspirate, leggere, diafane, come senza sostanza, le foglie accartocciate
salivano verso le nubi, mentre in non so quale convento vicino sferragliava una
campana.
« Il demonio mi insinuava, per dissuadermi, l'impossibilità di sopportare i disagi della
vita religiosa, delicata com'ero » (Vita III, 6, p. 48).
A Santa Maria della Grazia, come abbiamo visto, qualcosa nella vita delle sue
educatrici l'aveva urtata: una tendenza all'esagerazione, un eccesso nella penitenza, il
gusto innato dell'epoca per lo spettacolare. Anche in questo si manifestava la Spagna,
preoccupata delle apparenze! Tutto ciò non poteva mancare di tormentare Teresa.
Ben vestita, ben nutrita, « di sangue nobile », indipendente all'estremo dopo la morte
della madre e il matrimonio della sorella, non temeva forse le costrizioni della vita
claustrale e le sue meschinità?
« Mi difendevo ricordando le pene sofferte da Cristo, di fronte a cui non era gran cosa
che io soffrissi un poco per lui. Dovevo certo anche pensare - ma di quest'ultima
riflessione non mi ricordo - che egli mi avrebbe aiutato a sopportare tali pene » (Vita
III, 6, p. 48).
Qui, la penna esita... « Per tutta la vita, scriverà molto più tardi, ho amato con fervore
Cristo ». Ma in quel tempo la figlia di don Alonso non ardeva ancora di questo amore.
D'altro canto, una salute malferma, un misero corpo che trascinò fino all'età della
morte, a sessantasette anni, svenimenti! L'universo, se non dei malati, per lo meno dei
malportanti, di cui i benportanti stentano a farsi un'idea: ecco il clima della sua deci-
sione.
Da notare: la paura, l'inferno « se fossi morta », « un timore servile », motivazioni -
dobbiamo riconoscerlo - assai terra terra, non certo elevate (Vita III, 5, p. 48). « Nel
frattempo - rendiamo onore a questa veracità - io non trascuravo di prendere le mie
medicine » (Vita III, 3, p. 47). Tremante di febbre, il pellegrino dell'Assoluto non per
questo tralascia di mirare con chiarezza ai suoi fini e alle sue opzioni eterne.
La campana suonava per l'uffizio nel convento dei Carmelitani che, come tutti sanno,
abitano nella dimora della Santa. Uno scalpiccio di passi sul selciato della piazzetta:
devoti, religiosi, militari
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- ci sono soldati accasermati nel quartiere - ravviva il ricordo.
Qui, nella casa dei Cepeda y Ahumada, si è decisa una grande avventura.
Con la complicità dell'ora, è facile immaginare il seguito.
1535: Rodrigo, il compagno della prima fuga, si è imbarcato in primavera per le Indie
Occidentali. Fra cinque anni, lo seguiranno altri tre fratelli. Per il momento, non si
stringono attorno alla tavola. Questa sera, Teresa è sola accanto al padre. Hanno finito
di mangiare la zuppa con l'aglio, il pane bigio e il formaggio di capra, misero pasto
anche per persone agiate. La tradizione di sobrietà della Castiglia risparmia il grasso e
accresce il coraggio.
« Decisi di dire a mio padre quanto mi proponevo, il che equi-valeva quasi a prender
l'abito religioso, essendo io così ligia al punto d'onore che non credo sarei mai tornata
indietro per nessuna ragione, una volta detta una parola » (Vita III, 7, p. 49).
Non c'è da meravigliarsi. Donna realista, Teresa si protegge contro la propria
debolezza. L'onore - « el punto de honra », come ripeterà così spesso per denunciarlo -
le serve da serratura di sicurezza. « Piuttosto morire che cedere ». Motto d'Avila, mot-
to spagnolo tout court! Questo popolo non si è mai piegato, salvo davanti a Dio e
davanti al re. E fiero per natura e per tradizione. Anche una bimbetta, al giardino
d'infanzia, con le trecce rialzate, ha un atteggiamento da gran dama quando offre una
caramella alle sue compagne. A maggior ragione, quegli hidalgos che, assediando i
Mori, giuravano di incidere con il pugnale l'Ave Maria sulla porta della grande
moschea di Granata. Finita la riconquista, si vedranno questi soldatacci ormai
disoccupati trascinare la loro boria e il loro stomaco vuoto per le vie di Toledo. Così li
incontrò Lazarillo de Tormes. Non c'è quindi da stupirsi se una ragazza di meno di
vent'anni impegna il suo onore a non indietreggiare mai quando si tratta di servire una
più alta Maestà!
Che il vecchio buon padre gema pure sotto il colpo, si ostini a dire « no », anche alle
degne persone che sua figlia ha mandato da lui, consenta infine con un sospiro: «
Dopo la mia morte farai ciò che vorrai » (Vita III, 7, p. 49), la partita - lo sospettava? -
era vinta.
Per la giovinetta restava soltanto da affrettare la separazione.
« Io già temevo di me stessa, che, cioè la mia debolezza mi facesse tornare indietro ».
Sguardo lucido sulle proprie tergiversazioni, i propri stati d'animo, la propria
impotenza. Teresa ha già raggiunto la sua maturità: « Io decisi ». L'alba della partenza
sta per sorgere.
« Oh, grandezza di Dio! Come mostrate la vostra potenza, nel
dare questo ardire a una formica! E come, mio Signore, non dipende da voi se coloro
che vi amano non compiono grandi opere, ma dalla loro codardia e pusillanimità! Non
prendiamo mai una ferma decisione, pieni sempre, come siamo, di mille timori e pru-
denze umane, e voi, mio Dio, pertanto, non operate le vostre meraviglie e grandezze »
(Fondazioni Il, 7, p. 28).

5 - « Quando uscii dalla casa di mio padre »

« Appuntamento alla porta Santa Teresa », mi aveva gridato don Francisco nel
lasciarmi ieri, sull'imbrunire... La mia guida, con la precisione di un orario monastico,
era lì, con un volume sotto il braccio: la prima edizione delle Opere della santa Madre,
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« Salamanca 1588 ».
La nostra intenzione era semplice: rivivere i momenti in cui, valorosa come i
cavalieri di un tempo, Teresa aveva iniziato l'impresa eroica.
- Quante volte - sospirava Salcedo - il caro don Alonso mi ha raccontato questa
fuga, la definitiva!
Teresa uscì prima dell'alba, con un fagotto di abiti vecchi sotto il braccio.
Risuonavano i rintocchi di Prima nei conventi dei girolimini e dei concezionisti.
Dietro veniva Agostino, ardente come sua sorella.
- ~ passata davanti a San Juan, la parrocchia in cui era stata battezzata? Risalendo un
po' la strada, poteva farlo. Ma i due giovani hanno dovuto prendere il calle/òn - la
viuzza - di sinistra, al più presto, verso una delle porte a nord (chiamata poi "puerta de
5. Teresa"). Il monastero dell'Incarnazione, allora come oggi, seflor, si stendeva più in
basso. Per scendere lì, Teresa ha preso questa ripida mulattiera aggrappata alla
scarpata delle mura... Attenzione alle pietre che rotolano sotto i piedi, senor!
E già dona Teresa suonava al convento. La porta regolare si aprì sul chiostro di
sotto. La priora era lì, circondata da alcune anziane. Un rapido bacio al fratello. «
Adios, Agustin, hasta el cielo! » - Addio, Agostino, arrivederci in cielo! - E lui se ne
andò presso i domenicani, mentre lei rimaneva prigioniera di Dio.
La strana luce di quel mattino de las almas - giorno dei morti,come ha annotato il padre Gracian
in margine alla sua copia dell'autobiografia, quel 2 novembre 1535 illumina ancora la pagina celebre.
Senza dubbio unica negli Annali d'Avila, bisogna rileggerne i tratti essenziali, tanta è la vivezza con
cui vi si delinea un paesaggio spirituale.
« Nel tempo in cui maturavo queste decisioni, avevo persuaso un mio fratello a farsi
religioso, parlandogli della vanità del mondo, ed entrambi ci accordammo di andare un
giorno, di buon mattino, al monastero dove stava quella mia amica che io amavo
molto, anche se, riguardo a quest'ultima determinazione, mi sentissi così decisa che
sarei andata in qualunque monastero ove pensassi di servire meglio Dio o dove mio
padre l'avesse voluto, perché ormai non davo alcuna importanza al mio benessere, ma
miravo più che tutto alla salvezza della mia anima » (Vita IV, 1, p. 49s).
La nuova venuta arrivava, mossa da un coraggio poco comune. Se ne rendeva conto
la priora? Forse avrebbe dovuto già scoprire lo strano potere persuasivo di Teresa.
Quella ragazza di appena vent'anni era nata capo e tale sarebbe rimasta. Un tempo,
sulla strada di Salamanca, Rodrigo seguiva le sue orme per offrire con tutta semplicità
la sua testa ai Mori. Quella mattina la seguiva Agostino, di cinque anni più giovane di
lei, ma pervaso da tutte le impetuosità di una razza nata per battersi e inebriarsi di
prodezze. Fra meno di trent'anni, questa stessa Teresa lascerà discretamente questo
monastero dell'Incarnazione - troppo ricco, troppo facile a suo giudizio - per una
casupola ed un'esistenza più evangelica. All'alba del 24 agosto 1562, anche allora, non
partirà sola.
- Era un'illusione della santa Madre, nella sua tenera età - commentava Salcedo, con
gli occhi sognanti - di credere che tutti fossero tessuti con la stessa stoffa forte e
preziosa, ma alcuni erano tagliati soltanto in una canapa mediocre. Agostino, entrato
nell'ordine dei domenicani, passò, a causa della sua cattiva salute, nell'ordine dei
girolimini, ma non poté restarvi e se ne andò a morire in America, nel 1546. La santità
è come il genio: passa accanto al mediocre e respira un'aria troppo forte per la maggior
parte degli uomini.
Tuttavia l'epopea, per quanto vibrante sia, si accompagna sempre in Teresa a un
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grido dell'anima profondamente umano.
« Ricordo bene, a dire il vero, che quando uscii dalla casa di mio padre, provai tanto
dolore che non credo di sentirlo maggiore
in punto di morte: mi sembrava che tutte le ossa mi si slogassero » (Vita IV, 1, p. 50).
E’ vero, a detta dei migliori testimoni, che lo scenario s'intonava al suo stato
d'animo. Per tutta la notte, secondo la tradizione d'allora, le campane delle chiese
suonavano a morto, a intervalli regolari. Era il giorno dei morti. L'immensa
implorazione della terra per i rivedibili dell'eternità raggiungeva colei che consentiva a
seppellirsi per Dio. In questa ragazza sana, così ricca di intuizioni, di sentimenti, tutto
è sentito, espresso, affermato con maggiore violenza che negli altri. Slogatura di tutto
il suo essere perché sapeva perfettamente quali affetti lasciava, quale libertà abbando-
nava. Il convento dell'Incarnazione aveva un bell'essere quasi attaccato alla casa
paterna, nessuno ignorava che cosa significasse. Per Teresa, ancora soltanto all'inizio
della sua vita spirituale, aveva un sapore di morte.
« Non avendo ancora raggiunto un amor di Dio capace di rimuovermi dall'amore
del padre e dei parenti, dovevo far solo ricorso a una forza così grande che, se il
Signore non mi avesse aiutato, le mie considerazioni non sarebbero bastate a farmi
andare avanti. In quel momento egli mi diede animo per vincere me stessa, in modo
che potei dar principio al mio intento » (Vita IV, 1, p. 50).
E’ interessante leggere simultaneamente questa pagina e il capitolo XX dello stesso
libro della Vita, là dove Teresa descrive la sovrana padronanza di un'anima che il
Signore ha iniziato alla vita mistica e alle sue più meravigliose esperienze.
L'amore la trasporta poiché, di primo acchito, ella si volge verso di lui.
« In quel momento il mio unico desiderio è di morire - lei che ne temeva l'effetto
quando uscì dalla casa di suo padre -; dimentico tutto nell'ansia di vedere Dio, e quel
deserto di solitudine mi èpiù caro di qualunque compagnia del mondo » (Vita XX, 13,
p. 175).
Teresa sta diventando - e l'espressione ci pare sontuosa - « Figlia d'aquila », « hija
de esta agrnla caudalosa » (Vita XX, 28, p. 182).
La cosa più degna di nota in questo « volo soave, volo dilettoso, volo senza rumore
» (Vita XX, 24, p. 180) è l'incomparabile sovranità che ha acquistato su se stessa.
Finite le violenze dell'inizio e le loro lacerazioni! Ormai, Dio è il padrone e il
padrone assoluto, poiché a lui, ormai, l'anima ha dato « le chiavi della sua volontà »
(Vita XX, 23, p. 180).
« Qui nell'anima son nate le ali perché possa volare bene, e spiega già la bandiera
per la causa di Cristo; sembra che il capitano di questa fortezza salga, o meglio, sia
fatto salire sulla torre più alta, per inalberarvi il vessillo di Dio. Guarda a quelli di
sotto come chi è in salvo e non teme ormai i pericoli, anzi li desidera, avendoli, in
certo modo, sicurezza della vittoria. Qui si vede assai chiaramente il poco conto che si
deve fare di tutte le cose di quaggiù e la nullità di esse » (Vita XX, 22, p. 179).

Ah! certo, quel 2 novembre 1535, dofla Teresa non era a questo punto. Con il cuore
straziato, entrava in quel monastero dell'Incarnazione in cui la prova della mediocrità
non le sarebbe stata risparmiata. Si preparavano per lei molte stagioni in purgatorio.
Tuttavia, quel giorno dei morti, quel giorno di morte portava in sé un seme. Teresa
non esita a scriverlo e tutto il suo destino si basa su queste parole: « para ir adelante » -
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andare avanti -(Vita IV, 1, p. 50).
Come se avessimo dimenticato che la nostra unica riuscita è, protesi verso illuturo,
di correre verso Cristo (Fil 3,13).

2
IN CERCA DELL'AMATO

« Ah! dove ti celasti. Me in gemiti lasciando, o mio Diletto? ».


La prima frase del Cantico spirituale di S. Giovanni della Croce potrebbe definire la
giovinezza di Teresa. Appena entrata in convento, ella va incontro alla malattia e a un
certo disordine spirituale. Tuttavia, l'anima rimane profondamente retta. Il suo unico
desiderio è di amare Cristo e di seguirlo, ad ogni costo. E le costa.
Confessori mediocri, un immenso vuoto spirituale, l'assenza totale di maestri.
Ma Teresa ama la lettura e si immerge in libri di spiritualità che l'iniziano
all'orazione. Docile e perspicace, aperta e personale, possiede già quel dono
stupefacente dell'assimilazione che, a suo tempo, farà di lei una guida spirituale sicura
e originale.
Le sue malattie la formano alla povertà. Saprà bene che cosa significa questa vita: «
Una notte in una cattiva locanda ». Inutile installarvisi.
E poi, il Cielo moltiplica i suoi segni. Suo padre muore come un predestinato. La
morte socchiude una porta, attraverso la quale s'introduce un domenicano, il padre
Barron. E’ il primo di una schiera molteplice: quella dei grandi confessori.
Dio, adesso, può inferire il colpo definitivo.

1 - Monastero o beghinaggio?

Conversavamo gaiamente per le vie di Avila. Il Maestro Gaspar Daza era in uno dei
suoi momenti felici. Che fortuna! Infatti, taciturno per natura, eloquente per mestiere,
lodava o biasimava con la stessa disinvoltura con la quale i venti soffiano sulle Sierre.
- Hombre! - disse - lei è fortunato poiché don Felipe, il nostro signor vescovo, ci ha
permesso di entrare all'Incarnazione;
capirà molte cose della vita della santa Madre vedendo quello che vedrà!
Passavamo davanti al monastero e al mirabile capolavoro di Mosen Rubi,
deformazione di un nobile francese, « Monsieur Robert », che, nel XIII secolo, se ne
venne ad Avila e vi costruì la ben nota meraviglia. Il sole spazzava la strada,
accendeva riflessi di fiamma sugli stemmi delle facciate, gettava ombre tremolanti
negli angoli dei patios austeri, giacché Avila non è Siviglia, né Cordova. L'inverno, la
pietra e il carattere avvolgono in un manto severo la città dei Cavalieri.
- Capisce, senor - continuava Daza, - quale era la situazione dell'Incarnazione
quando Teresa vi entrò, quasi ventenne. Il convento ospitava circa duecento persone.
Un'immensa locanda, un reame in miniatura: a parte la preghiera ed una clausura
molto relativa, le persone d'alto lignaggio vi conducevano un'esistenza beata, nei loro
appartamenti. Le altre: domestiche, giardiniere, dame di compagnia, si dedicavano ai
lavori casalinghi.
...Già risonava una campana. Controllata l'autorizzazione episcopale, terminati i
saluti e le confabulazioni, la porta claustrale si apriva con gran fragore di catenacci. Io
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fui letteralmente travolto dalla luce abbagliante che batteva sui muri bianchi
di un minuscolo cortile. Una croce di ferro, innalzata su una colonna, era adorna di
sgargianti gerani edera. Davanti a noi appariva una fuga di chiostri profondi di pietra
scura: quale spazio e quale purezza di linee! Il deambulatorio sottostante era collegato
con quello del piano superiore - del tutto simile, lungo quaranta metri - da immense,
imponenti scalinate.
Se mi spingevo a sinistra, verso i giardini, alberi frondosi, magnolie o gelsi,
svettavano nell'aria tranquilla; se mi dirigevo verso destra, si scorgeva il coro
sottostante, schiacciato, troppo piccolo a mio avviso per una simile popolazione
monastica.
- Ecco - diceva la priora - gli appartamenti trovati dalla santa Madre, prima della
riforma. Un patio, a forma di corridoio, si apriva sul chiostro del pianterreno, un patio
per chiacchierare; al primo piano: la cucina per preparare i pranzetti, la camera da letto
per riposare.
Senza dubbio lei conosce il beghinaggio di Bruges, quell'ovale armonioso, ombreggiato, con la
chiesa alla sua estremità. Venti o trenta case linde, con un cortile sul davanti, la porticina e la
campanella, una statua della Vergine per custodire la proprietà, grande come un fazzolettino! Certo,
le Fiandre ammobiliavano i loro beghinaggi meglio della Vecchia Castiglia. Lì: stufa, tappeti,
lampade e inginocchiatoio lavorati. Qui: brocche, utensili di ferro, di rame e sgabelli di legno.
Tuttavia, questa casa per signore pensionanti, sotto il vincastro di Nostra Signora del Carmelo, somi-
gliava nelle sue linee essenziali ai beghinaggi fiamminghi. Ci si viveva in compagnia. Durante
l'interminabile inverno, la liturgia moltiplicava i suoi fasti: professioni, visite ai parlatori, carnevale,
feste improvvisate ammazzavano la noia che non potevano vincere un'esistenza in clausura e le pie
abitudini. Evidentemente, queste donne non lavoravano: le aristocratiche, s'intende. Le altre, in
servizio, le converse, si davano da fare attorno al forno da pane, ai bucati e al giardino. Chi avrebbe
biasimato un simile genere di vita, sotto l'egida della religione, quando l'Europa sacralizzava ciò che
oggi ci sembra tradimento del Vangelo: la divisione in ricchi e in poveri?
Tuttavia, la giovane novizia non ha mai parlato, nei primi tempi, di quello che
avrebbe potuto sorprenderla nella vita del suo monastero d'adozione: gli abusi che più
tardi susciteranno la riforma del Carmelo.
Sembra anzi che la storia del suo noviziato sia abbreviata. Tre paragrafi della sua
autobiografia al capitolo IV e altri due al capitolo V rievocano quel periodo decisivo
(cfr. Vita IV, pp. 49-56; V, pp. 56-63).
Anzitutto, una costatazione di felicità: « Quando vestii l'abito, subito il Signore mi
fece capire quanto favorisca coloro che si fanno forza per servirlo. Nessuno, però,
sospettava tanta lotta in me, di cui si vedeva solo una incrollabile risoluzione. Subito
fui così felice d'avere abbracciato la vita monastica, che tale gioia non mi è mai venuta
meno fino ad oggi, perché Dio mutò l'aridità della mia anima in grandissima tenerezza.
Mi davano molto diletto tutte le pratiche della vita religiosa; è bensì vero che a volte
mi accadeva di scopare in ore che prima ero solita occupare nel far sfoggio di
ornamenti, ma appunto ricordandomi che ero ormai libera da tutto ciò, provavo una
gioia sconosciuta, tale che me ne stupivo e non riuscivo a capire da dove provenisse »
(Vita IV, 2, p. 50).
Queste righe giudiziose illustrano nella maniera più semplice la situazione di Teresa: si trova là
dove deve essere. La sua vocazione non si sovrappone alla sua natura; è originale, fedele alla sua
fonte, alle sue prime intuizioni. Lottando contro se stessa, non si snaturava, ma nel profondo di se
stessa liberava la parte migliore.
« Libera » dalle cose insignificanti! Finalmente libera, di una libertà regale. La luce
del suo noviziato si purificherà man mano che l'esperienza di Dio l'introdurrà in nuovi
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spazi.
Nella sua maturità capirà come « questa vita sia un'assurda farsa ». Con forza dirà
quali « pene patisca chi aspira a Dio ». « Tutto stanca l'anima e non sa come trovare
una via di scampo; si vede incatenata e prigioniera; pertanto sente più al vivo la
schiavitù del corpo e la miseria della vita. Riconosce quanto avesse ragione 5. Paolo di
supplicare Dio d'esserne liberato, e lo invoca con lui, implorandone anche lei la
liberazione » (Vita XXI, 6, p. 186).
A Teresa è offerta un'altra grazia non meno decisiva: Dio trasformò l'aridità della
sua anima in grandissima tenerezza, « en grandisima ternura ». E il termine « ternura »
esprime tutta la dolcezza, la commozione e il fervore del suo contatto con il Signore.
Così, Dio, Cristo soprattutto, diventeranno per questa figlia del Carmelo esseri
appassionatamente amati. Fino a quel momento, Teresa andava verso di loro in virtù
dell'educazione ricevuta. Rigidamente formata secondo i principi di una famiglia
rigidamente cattolica, nel quadro severo di una città alla fine del medioevo in cui la
Chiesa, la sua liturgia, i suoi comandamenti, i suoi ministri, i suoi monaci e le sue
monache occupavano naturalmente il primo posto, la giovane Ahumada y Cepeda non
poteva sottrarsi a un'impregnazione quasi inesorabile. Dio troneggiava al di sopra dei
mortali con una gloria tanto più temibile in quanto all'orizzonte del destino si
accendeva il mistero della morte e dell'aldilà. « Attendere alla propria salvezza con
timore e tremore » (Fil 2,12). Parola d'ordine ben vissuta, difficile da eludere.
Ora, ecco che al termine dei suoi calcoli e delle sue violenze, il Signore diviene
oggetto di « tenerezza » e quindi calore, gioia, felicità e canto. Non c'è da
meravigliarsi che un giorno dal cuore della Madre sia scaturita l'idea di commentare il
Cantico dei Cantici. A Segovia, nel 1574, seguendo l'imprudente consiglio del padre
de Yanguas, ella getterà nelle fiamme quelle pagine attraversate da lampi e ardenti
come lava. Ma nell'intimo della sua
anima l'incendio avvampato il giorno in cui era entrata in religione non cesserà di
bruciare fino alle soglie della morte.
« Es tiempo que nos veàmos, amado mio y Senor mio! », « Signore, finalmente è
giunta l'ora di vederci! ».
« Quando ripenso (alla felicità del primo giorno), non c'è cosa che mi si possa
presentare, per quanto difficile sia, che esiterei ad affrontare, perché ormai so,
avendone fatto esperienza in molti casi, che se mi sforzo in principio a prendere la
decisione di fare una cosa (giacché, essendo in onore di Dio, fino dal principio egli
vuole - per nostro maggior merito - che l'anima provi quello sgomento, e quanto più
grande esso sia, tanto maggiore e più dolcemente gradito, se si riesce a vincerlo, sarà,
dopo, il premio), anche in questa vita Sua Maestà mi dà la ricompensa » (Vita IV, 2, p.
50).
Ecco che, desiderosa di ammaestrare, la Madre trae insegnamento dai suoi primi
passi. La cosa non sorprende se si tiene conto delle circostanze. Teresa scrive il Libro
della mia vita, a San José, tra il 1563 e il 1565. Intorno a lei accorrono postulanti e
novizie. Educatrice di queste giovani, priora, fondatrice, presto chiamata a percorrere
le due Castiglie per diffondere la sua opera, attinge d'istinto nel suo passato la materia
d'insegnamento.
Inutile cercare sotto i vasti chiostri dell'Incarnazione, nelle sue sale e nei suoi
oratori, l'aneddoto piccante della novizia, le sue goffaggini e i suoi fervori. La donna
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matura che parla non se ne cura. Solo conta l'itinerario interiore, poiché rischia
di essere ripetitivo.
« Non consiglierei mai che di fronte all'insistenza di una buona ispirazione, si
tralasci di seguirla per paura: se si agisce chiaramente soltanto per Dio, non c'è da
temere alcun danno, essendo egli onnipotente. Sia sempre benedetto! » (Vita IV, 2, p.
51).
- Ho conosciuto la Madre - concluse Gaspar Daza con un sospiro - a quarant'anni
passati. La prova che stava attraversando non le lasciava molto tempo per occuparsi
del suo noviziato... Tuttavia, checché ella dica, dobbiamo credere che non aveva poi
seminato così male. Più di molti altri, potevo giudicare la messe con piena cognizione
di causa.

2 - Un prete perduto

- Bene! andrò da solo a Becedas, quel borgo sperduto, poiché nessuno mi può
accompagnare. Ho deciso: scruterò con la lanterna, come dice il profeta, la provincia
di Avila, tanto grande è il mio desiderio di ritrovarvi le tracce della santa Madre.
Ora, arrivare a Becedas è un'impresa. All'estremo sud-ovest, nella Sierra de Bejar.
- Vieni con noi, amico - mi hanno detto Ram6n, Diego e Luis, tre simpatici tosatori
di pecore.
Ed eccoci in sella; sballottando, sudando, ruzzolando. Salite, burroni, valichi
inaccessibili. In aprile, gli altipiani della Sierra de Gredos sono ancora cosparsi di
cumuli di neve, mentre troneggia, scintillante di nevi e di ghiacci, l'Almanzor. Ah! mi
ricorderò dell'interminabile discesa verso Piedrahita! Due avvoltoi, appollaiati lassù in
alto, schernivano la nostra carovana tintinnante di sonagli. Ramòn, in testa,
bestemmiava tutti i diavoli della terra e i santi del Paradiso. Luis, più gioviale, cantava
e le sue sonorità latine spaventavano, sull'erba rada dei pascoli, un coniglio ad-
dormentato. Sosta in rustiche posadas (locande). La borraccia in pelle di capra vi
sprizzava un filo rosso in fondo alla gola. Ah! quel vinQ di Spagna, color sangue e
aromatizzato! E, di nuovo, la strada, le pietre, il vento.
In fondo a una lunga, lunga valle: Becedas. Il campanile s'inerpica all'assalto della
collina, ma le case basse, con i loro vasi di fiori, sono protese verso il fiume. Ponti
improvvisati - pietre piatte gettate su pilastri cadenti - l'attraversano. Rumorio delle
acque, mormorio dei greggi!
- Hombre! - gridò Luis. - Aqui Becedas! Ehi! ecco Becedas!
Entravo nel villaggio nello stesso momento in cui arrivava la lettiga che trasportava
la nostra malata. L'accompagnava Juana Suarez, l'amica dei giorni lieti e dei giorni
tristi. « Che pena! ripeteva; passati soltanto pochi mesi in convento, ecco dona Teresa
costretta a letto, febbricitante e senza forze. Mal di cuore, svenimenti... da non capirci
nulla... Allora i medici hanno consigliato un cambiamento d'aria e una cura presso una
celebre guaritrice. Becedas è distante da Avila ma Maria, sua sorella, abitava lì vicino.
Allora don Alonso non ha esitato a mettersi in cammino ».
A dir vero, l'avventura di Becedas comporta più che il semplice epilogo di un
soggiorno medico. A cinquant'anni, la santa Madre ne riassume l'essenziale: un libro e
un prete perduto.
Il libro - non c'è da esserne sorpresi - le è stato dato da suo zio. Tirando fuori dai
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suoi scaffali il Terzo Abecedario di Osuna, edito nel 1527 a Toledo, quel
venerabile libro che si conserva a San José di Avila, don Pedro - senza forse
immaginarselo - dava alla viaggiatrice esausta ben più di una semplice distrazione per
interminabili giorni di riposo.
Ecco una giovane monaca senza formazione spirituale, senza confessore. « Nei
venti anni che seguirono non l'aveva trovato, quantunque lo cercasse » (Vita IV, 7, p.
53). Chi può istruirla? dirigerla? Il libro del francescano diviene il suo « maestro » - «
teniendo a aquel libro por maestro » - (Vita IV, 7, p. 53).
Senza dubbio, l'insegnamento di Osuna presentava diverse lacune, anzi un pericolo
- torneremo un giorno su quest'argomento - tuttavia, per l'essenziale, Teresa è iniziata
alle vie dell'orazione mentale.
Il Signore l'appaga fin dall'inizio: « l'orazione di quiete, e qualche volta anche
quella di unione », il suo stato di malata, le sue insonnie, il villaggio di campagna che
l'accoglie, la casetta che si vede ancora situata dall'altro lato della via dove abitava la
guaritrice. « Nove mesi di solitudine! ». E quanto ci vuole perché Dio venga e venga
con grandezza al richiamo di questa immensa buona volontà.
Teresa pratica l'esame di coscienza, si confessa spesso, e l'indefinibile malattia di
una ragazza di ventitré anni compie il resto.
Senza dubbio Teresa, al ricordo di quel tempo, fa digressioni sempre per istruire.
Per pregare, ha avuto a lungo bisogno di un libro. Si immaginava forse che per fare
orazione bisognasse prodigarsi in riflessioni, considerazioni, risoluzioni? Ma tutto
questo la riduce all'aridità. Per diciotto anni, « nessun altro rimedio » se non il volume
aperto. Averlo vicino a sé diventava uno « scudo »contro le divagazioni importune.
Certo, la giovane suora procede a tastoni, ma a partire da questi maldestri tentativi
si costituisce un'esperienza.
Che ciascuna ne tragga profitto!
Fra le sue scoperte, ne noteremo una, così decisiva: « Mi sforzavo quanto più potevo di tener
presente dentro di me Gesù Cristo, nostro Bene e Signore » (Vita IV, 7, p. 54). Già si manifesta i1
cristocentrismo teresiano; torneremo su quest'argomento. Appare tuttavia evidente il frutto di questa
prima fiamma di vita mistica:
« Pur non avendo in quel tempo neppure vent'anni - in realtà, ne aveva ventidue o
ventitré - mi sembrava di tenere il mondo sotto i piedi » (Vita IV, 7, p. 53). Nella
fattispecie, questa grazia si mostrava più che necessaria.
Un prete - un uomo dalla vita sregolata - appare nell' esistenza della giovane malata.
« Di assai buona condizione sociale e di grande intelligenza; era anche colto, se pur
non eccedesse in cultura ». Teresa non svela il suo nome e noi lo ignoreremmo sempre
se il padre Bàfiez non lo avesse scritto sul margine del manoscritto autografo. Si
chiamava Pedro Hernàndez ed era parroco di Becedas.
Il confessore viene dunque al suo capezzale e subito è sedotto dal duplice fascino.
Teresa sembra esserne consapevole. Il Signore si è già impossessato della sua anima,
come traspare da queste parole: « Rapita in Dio come ero, ciò che mi faceva più
piacere era parlare di cose a lui attinenti » (Vita V, 4, p. 59).
Ecco dunque le lunghe conversazioni, delizia degli Spagnoli e in modo particolare
di un ecclesiastico senza molto lavoro, in fondo a un villaggio sperduto. Per di più,
questa monaca è bella! Nasce un grande « affetto ». Per la giovane suora tutto è
limpido, così limpido che lo sventurato arriva a « rivelare la rovina della sua anima ».
« Da sette anni si trovava in una situazione assai pericolosa, avendo una relazione con
21
una donna di quello stesso luogo; e ciò nonostante continuava a dir messa » (Vita
V, 4, p. 59).
Potenza della purezza! o meglio, attrazione segreta di Dio attraverso i tratti
consunti, le confidenze, gli slanci della penitente!
« Io ne ebbi molta compassione, perché lo amavo molto » (Vita V, 4, p. 59).
Intuitiva, realizzatrice, la donna e la cristiana si uniscono per correre in aiuto
dell'infelice. Viene strappata una confidenza: « Quella donna sciagurata gli aveva fatto
alcuni sortilegi ». In che modo? mediante un piccolo idolo di rame! Ridiamo pure
degli amuleti che, secondo noi, illudono i superstiziosi! Ma notiamo la
cristallizzazione della passione intorno a un ridicolo oggetto.
« Nessuno era potuto riuscire a levarglielo. Io non credevo esattamente a queste
storie dei sortilegi, ma dico quello che ho visto per avvisare gli uomini di guardarsi
dalle donne che cercano di adescarli in tale modo » (Vita V, 5, p. 59).
« Cominciai a dimostrargli più amore ». L'assalto della tenerezza ebbe il
sopravvento. « Per farmi piacere, si decise a darmi l'idoletto, che io feci gettare subito
nel fiume » (Vita V, 6, p. 60). Oggi ancora, viene mostrato il luogo.
Ed ecco il seguito inaspettato: « Appena se ne fu liberato, cominciò - come chi si
sveglia da un lungo sonno - a ricordarsi a poco a poco di tutto quello che aveva fatto in
quegli anni e, spaventato di se stesso, dolendosi della sua perdizione, finì con
l'aborrirla. Nostra Signora dovette aiutarlo molto, perché era assai devoto della sua
Concezione, la cui ricorrenza era da lui celebrata solennemente » (Vita V, 6, p. 60).
Allontanata l'amante, iniziata una vita santa, non occorre altro perché Teresa
concluda: « Morì allo scadere esatto di un anno dal giorno in cui l'avevo conosciuto.
Sono sicura che egli è in luogo di salvazione » (Vita V, 6, p. 60).
Secondo noi, l'avvenimento è carico di significato e di avvenire; al di là dei limiti
dell'aneddoto edificante, prepara, venticinque anni prima, l'orientamento del Carmelo
riformato.
Ancora giovane, Teresa ha incontrato la miseria della Chiesa. Per la prima volta, si
tratta di un prete, di un ministro di Cristo. E' disonorato, tanto vale dire che il suo
sacerdozio è minato, se non rovinato, dalla contraddizione stessa che mostra
apertamente. Come predicare una religione di cui si rivela così cattivo servitore?
Teresa sperimenta la forza dell'amore, ma anche la nostalgia che la santità infonde
in un'anima perduta, ma non fino al punto da non serbarne ancora il gusto. « Tutti gli
uomini preferiscono le donne che vedono inclini a virtù e le donne ottengono da essi di
più con questo mezzo » (Vita V, 6, p. 60).
Arma temibile - la sola arma con la preghiera e il digiuno - che sarà utilizzata più
tardi dalla riformatrice.
Se le chiacchiere spesso falliscono, la santità, invece, è irresistibile. Il Carmelo ne
diventerà la scuola e la Chiesa sarà purificata... sotto il segno di Nostra Signora.
Seduto sulla pietra del ponte, con le gambe dondolanti sull'acqua, riflettevo a questo incidente
che ogni abitante di Becedas - dove la devozione per S. Teresa è molto forte - conosce ormai a
memoria. Ramòn, Luis e Diego mi avevano lasciato per la fiera di aprile a Bejar, con grandi pacche
sulla schiena e grida amichevoli. Un uccello sperduto in un boschetto di pioppi modulava limpide
tonalità, e io osservavo le increspature che un ragno andava disegnando sul placido fiume. I cerchi
che formava a distanza sempre maggiore diventavano sempre più grandi.
Basta così poco per cambiare una vita! Una malattia, un incontro, un idolo di rame
gettato nel torrente: un prete riportato alla sua vocazione.
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Qui, a Becedas, come il vento negli ontani, lo Spirito ha toccato il cuore di
una grande serva della Chiesa. Che cosa ne farà nascere domani?

3 - « Un arsenale di malattie »

1538-1543, cinque anni della sua esistenza invero molto strani. Teresa ce ne parla
alla sua maniera vivace, evocatrice, ma che ci lascia nella perplessità.
La malattia si aggrava. La credono morta. Solo suo padre è persuaso del contrario.
Riprende vita, ritorna all'Incarnazione, ricomincia a vivere. Ma don Alonso muore e
questa morte avvia il processo della sua conversione. A dir vero, sarebbe giusto affer-
mare che don Alonso de Cepeda, più di Teresa, diviene il centro del racconto del
Libro della mia vita e che intorno alla sua persona, al suo amore e alla sua santa morte
gravitano gli avvenimenti di questi cinque anni.
Cupo, angosciato, il padre è accorso da Avila a Becedas a prendere sua figlia. La
cura è durata soltanto tre mesi. Sulle Sierre l'estate è al suo culmine, rendendo più
facile il ritorno della lettiga. Si va avanti a fatica, con frequenti fermate. La malata ha
potuto dare un'occhiata alle montagne che la clemenza del tempo adorna di fiori? Si è
riposata sulle rive del Tormes? L'acqua, come un giovane toro, si precipita attraverso
le rocce. Tutto è freschezza, mentre più in basso nella pianura le spighe d'orzo
bruciano al sole.
Teresa sta sempre peggio. « ... Ero ridotta quasi in fin di vita... alle volte mi sembrava che mi
dilaniassero il cuore con denti aguzzi ».
Non poteva cibarsi di nulla che non fosse liquido. Nausea continua, febbre senza
interruzione, spasmi nervosi. Colei che fu costantemente in cattiva forma fisica
analizza a perfezione il suo stato e aggiunge una frase che tanto più ci sorprende in
quanto contraddice il suo carattere innato: « Ero in una tristezza assai profonda » (Vita
V, 7, p. 61).
Appena ritornata nella casa paterna, la Facoltà di Avila viene convocata nella sua
camera. Quegli austeri signori, chini sul letto della paziente, scuotono la testa, si
consultano, ricominciano le loro consultazioni, per confidare al padre sconsolato che
sua figlia sta morendo « tisica ». La parola « tubercolosi », in quel tempo, suonava
funebre come suona oggi la parola « cancro ».
Si direbbe che Teresa non presti molta attenzione alla diagnosi. « Aveva dolori in
tutto il corpo, dalla testa ai piedi ». Soprattutto i nervi erano colpiti, si contraevano, si
rattrappivano. Come sopportare tanti mali nello stesso tempo? I medici se lo domanda-
vano, ma Teresa conosceva bene la fonte di questa pazienza: « Il Signore gliela dava
». Al di là del male mortale che l'accerchiava, le scoperte di Osuna, l'incamminarsi
nelle vie dell'orazione producevano il loro effetto. « Mi giovò molto l'aver cominciato
a fare orazione e l'aver letto la storia di Giobbe nei Moralia di s. Gregorio, con la
quale il Signore volle forse prevenirmi, affinché io potessi sopportare tutto con
rassegnazione. Il mio colloquio era sempre con lui; pensavo spesso, ripetendole, a
queste parole di Giobbe: "Se abbiamo ricevuto i beni dalla mano del Signore, perché
non ne accetteremmo anche i mali?". E mi sembrava che mi dessero coraggio » (Vita
V, 8, p. 61).
Tutta Avila festeggiava l'Assunzione della Vergine: suoni di campane e processioni.
Ci si accalcava alla Virgen de la Cabeza. Per di più, era la festa dell'estate, quel 15
agosto 1539, perché, passato quel giorno di gloria, la bella stagione fugge via sull'ala
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delle ultime cicogne. Si comincia a riporre la legna da ardere; i carretti
gemono più forte sulle strade dai selciati sconnessi; la notte si aggira, fresca, quasi
fredda, sulle mura, tanto che bisogna avvolgersi nel mantello.
Quella notte, Teresa trapassò. A più riprese, aveva richiesto un confessore. Suo padre,
« cattolico fervente », non glielo permise. Tuttavia, ella amava molto, come scrive
incidentalmente, « di confessarsi spesso » (Vita V, 9, p. 62), ma don Alonso temeva
che la figlia cedesse alla paura della morte.
Da quel momento, intorno al suo corpo inanimato, è un susseguirsi di grida,
clamori, preghiere. All'Incarnazione, « già da un giorno e mezzo era aperta la sua
sepoltura » (Vita V, 10, p. 62). A San Pablo de la Moraleja, i suoi confratelli
carmelitani avevano già celebrato un ufficio funebre per lei. Tutto era pronto per i
funerali, salvo quel padre insensato, il quale andava ripetendo che sua figlia era viva.
Era già stata colata la cera sugli occhi del cadavere, secondo la consuetudine del
tempo, al fine di evitare le sgradevoli deformazioni nel viso dei defunti... Il quarto
giorno, « il Signore si compiacque, scriveva Teresa, di farmi riprendere conoscenza »
(Vita V, 10, p. 62).
Lasciamo agli scienziati il compito di discutere su questa sorprendente catalessi.
Teresa non se ne meraviglia: appena rianimata, chiede un confessore, si comunica con
« molte lacrime »... e medita non sul suo strano male, ma sulla grazia della salvezza e
sulla divina pazienza. « Sia egli per sempre benedetto! Piaccia a Sua Maestà che io
muoia piuttosto che cessare mai di amarlo! »(Vita V, 11, p. 63).
Non cessa tuttavia di soffrire, ma si risveglia per ricadere in atroci sofferenze. «
Tutta rattrappita, diventata come un gomitolo », paralizzata, salvo un dito della mano
destra, non poteva sopportare d'esser toccata: la spostavano soltanto coricata, dentro
un lenzuolo... E presa da un desiderio: « Riportatemi all'Incarnazione ».
Don Alonso, che l'aveva condotta con sé contro il suo desiderio, la riaccompagnò più malata che
mai, alla fine di agosto del 1539.
Tre anni di paralisi, ma anche di supplizio: vedersi circondata, assalita ad ogni
momento. La sua infermeria diventa un salotto: vi si accorre per compassione, ma
anche per « edificarsi ».
La malata parla di Dio con tanto fascino! « La sua pazienza », « la sua gioia » si irradiano. Tanto
basta, in questo mondo chiuso, per diventare una vedette. Ah! come è facile capire il suo lamento:
quando avrebbe dunque potuto « stare da sola » (Vita VI, 2, p. 65)?
Del resto, in questo periodo Teresa non restava inoperosa. Parlava di orazione, « era
appassionata alla lettura di buoni libri ». I suoi erano stupiti tanto dei confessori che
chiamava in clausura quanto della sua squisita carità: da Teresa non si sentiva mai una
maldicenza, tanto era animata dalla preoccupazione di una coscienza pulita, e ledere la
reputazione altrui le sembrava una macchia. Amici e parenti furono spinti ad imitare
tale delicatezza: era già una forma di apostolato (Vita VI, 3, p. 65).
Allora avvenne il secondo miracolo. « Nel vedermi dunque tutta rattrappita e in così
giovane età, e nel vedere in che stato mi avevano ridotto i medici della terra, decisi di
ricorrere a quelli del cielo ».
Quale scegliere se non S. Giuseppe?
A partire dal 1522, la sua devozione andava crescendo in Spagna. Teresa, che
ottenne da S. Giuseppe la sua guarigione, parla di lui con entusiasmo e lirismo. Queste
righe furono scritte nel primo convento della riforma che, intitolato al suo nome, è
sorto grazie a lui.
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« Pertanto il Signore vuol farci intendere che allo stesso modo in cui fu a
lui soggetto in terra - dove S. Giuseppe, che gli faceva le veci di padre, avendone la
custodia, poteva dargli ordini - anche in cielo fa quanto gli chiede »... Lei che lodava
Dio quando cominciava a « camminare carponi » (Vita VI, 2, p. 64), di quale
riconoscenza circondò il padre di Gesù quando le permise di « alzarsi » e di « non
essere più rattrappita »! (Vita VI, 8, p. 68).
Lasciamo che le suore dell'Incarnazione gridino al miracolo vedendo questa ragazza
di venticinque anni riacquistare la salute. La salute? ironia delle parole. Le restano da
vivere quarant'anni. Un giorno Teresa confesserà al padre Diego de Yanguas: « Non
so, padre, se esiste un corpo umano oggi vivente che abbia sofferto quanto il mio ».
Malata, sempre malata! tale fu la sua condizione. Minacce di paralisi, mal di testa, di gola, di
cuore, incapacità di ritenere gli alimenti, infermità continue. Durante il suo priorato all'Incarnazione
(1571 - 1574), temerà sempre il terribile inverno di Avila, ancor più quello di Salamanca. Soltanto
Toledo le dà un po' di quiete: « Il clima di questo paese è ammirabile », scrive nel 1570. « Sono
quasi quarant'anni che non godo tanta salute come ora » (Lettere 17-1-1570, p. 95).
E tuttavia, non ci si stanca di ammirare, con il suo perfetto equilibrio mentale, il
ferreo regime al quale si sottoponeva. Coricata verso le due o le tre del mattino, si
faceva svegliare come tutta la comunità prima delle cinque. Per cibo: un uovo, un po'
di pesce, una sardina o una scodella di lenticchie. Mai vino, ma quando le forze
l'abbandonavano, per lo spuntino serale, le facevano un po' di pane fritto nell'olio.
Ciò nonostante, conosceremo presto le sue imprese e le sue fatiche.
La resistenza di questa donna è considerata un vero e proprio enigma. Altri,
sottoposti a un simile regime, sarebbero morti o, per lo meno, avrebbero diffuso
intorno a sé la malinconia. Invece, tutti conoscono il dinamismo e la giovialità
cattivante della santa Madre. E’ proprio il caso di esclamare con lei: « Non son più io
che vivo, ma voi, mio Creatore, che vivete in me » (Vita VI, 9, p. 69), in quel povero
corpo divenuto, secondo le parole di uno scrittore contemporaneo, « un arsenale di
malattie ».

4 - Don Alonso

Quel 24 dicembre, erravo intorno al monastero dell'Incarnazione.


Stavo per varcarne il patio, quando don Francisco, ansante, un tantino nervoso, mi
raggiunse:
- Senor, la stavo cercando alla porta della Mula e lei era qui...
Poi, guardando verso la Sierra:
- Lassù nevica, fra poco nevicherà qui da noi... non sarà facile andare in chiesa per «
la misa del gallo », la messa di mezzanotte...
Risalivamo verso le mura. E lui continuava, come parlando a se stesso:
- Non passo mai questa vigilia di Natale senza pensare a quel caro don Alonso. Morì proprio in
questo giorno, nel 1543... Mi ricordo che fui il primo ad avvertire dona Teresa, all'Incarnazione: «
Suo padre sta male, molto male... Poco fa è sceso nel salone per pagare i tosatori di pecore. Ha preso
freddo... (Ah! Senor, lei non conosce l'autunno ad Avila...). La febbre non gli dà pace, mentre
tossisce da spaccare i muri ».
Appena il tempo di chiedere il permesso di uscire ed ecco Teresa tornata nella vasta
casa paterna, vuota come un nido abbandonato. In un batter d'occhio, ha accelerato il
servizio, trovato la biancheria pulita negli armadi, chiamato i medici.
.... Soffrii molta pena durante la malattia di mio padre e credo di averlo in parte
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ripagato di ciò che egli aveva sofferto nel corso delle mie infermità. Nonostante che
io stessi molto male, mi sforzavo di servirlo, e sebbene, mancandomi lui, mi venisse a
mancare ogni bene e diletto, di cui egli mi faceva godere sempre e compiutamente, mi
feci coraggio per non dimostrargli dolore e comportarmi, finché morì, come se non
sentissi alcuna pena, anche se mi parve che mi strappassero l'anima, quando vidi estin-
guersi la sua vita, ché molto l'amavo » (Vita VII, 14, p. 78).
Il malato, affetto probabilmente da broncopolmonite, soffocava. Teresa non lo
lasciava neppure un secondo, certa dell'esito finale. Malato, don Alonso non pensava
che alla morte. Quindici giorni prima, forse per l'8 dicembre 1543, il vecchio de
Cepeda aveva ricevuto un avvertimento. « Dopo, pur essendo molto migliorato, come
riconoscevano i medici, non faceva alcun caso di ciò, ma era tutto inteso a preparare la
sua anima al trapasso » (Vita VII, 15, p. 78).
Nella camera del moribondo si accalcavano molte persone: la figlia dona Maria e il
genero, don Martin de Guzmàn, il fratello Lorenzo de Cepeda, parroco di Villanueva
del Aceral, il suo confessore domenicano, il padre Vicente Barr6n.
« Fu cosa da lodare il Signore la morte che egli fece, il desiderio che aveva di
morire, i consigli che ci diede dopo aver ricevuto l'estrema unzione, la preghiera di
raccomandarlo a Dio e di chiedere misericordia per lui, le esortazioni a servir sempre
il Signore e a considerare che tutto finisce quaggiù » (Vita VII, 15, p. 78).
Don Francisco mi ricordava, camminando, le parole stesse di sua figlia. Eravamo
arrivati al termine di una viuzza in salita che mette capo alla casa di don Alonso,
l'antica casa della Moneta, di fronte alla porta di Montenegro. Allora Salcedo riprese:
- Lei è straniero in Avila, senor, non può sapere tutto. Don Alonso fu un degno uomo, venerato in
tutta la città dei Cavalieri, ma lei non ha conosciuto suo padre, don Juan Sànchez. Nessuno ignora,
qui da noi, che era di Toledo ed ebreo di origine. Si era arricchito nel commercio grazie a uno
straordinario dinamismo. In rapporti d'affari con i vescovi di Palencia, Salamanca, Toledo e
Santiago, si vantava di aver servito alla corte del re Enrico IV di Castiglia. Felicemente sposato con
dona Inés de Cepeda, originaria di Tordesillas, nulla mancava al suo fasto e alla sua gioia, quando
cominciò la reazione antisemita provocata dai re cattolici. Senor, poche persone sanno in Avila che
don Juan e i suoi figli praticavano la religione giudaica senza vergogna. Toccato dalla grazia, il 22
giugno 1485, fece confessione davanti alla santa Inquisizione e fu condannato a una pubblica
penitenza. Immagini quale fango venne a offuscare il suo blasone quando lo si vide, in piena Toledo,
per sette venerdì di seguito, andare di chiesa in chiesa coperto del san benito. Finito il suo
commercio, infranto lo slancio della sua prosperità! Ma il nonno di Teresa era di una razza diversa da
quella dei codardi e degli sconfitti. La città imperiale lo respingeva? Ebbene, si sarebbe stabilito in
Avila!
- Mia madre - continuava Salcedo - mi ha parlato spesso del successo della sua
bottega e della buona educazione che dava ai suoi figli. Quando i re cattolici
proibirono l'uso della seta e le spese d'abbigliamento voluttuarie, egli ebbe l'abilità di
farsi con-cedere dei fitti di fondi rustici e di riuscire a mantenere un rango onorevole.
Tutta Avila conosceva adesso la sua apostasia, ma anche la sua penitenza. Nessuno
metteva in dubbio la sua fede, i suoi figli l'imitavano: Lorenzo entrava nella carriera
ecclesiastica, Francisco era al servizio del vescovo di Plasencia. Ma il successo del
vecchio don Juan raggiunse l'apice quando riuscì a far sposare don Monso, il padre
della nostra Teresa, con dona Catalina del Peso. Anche a questo proposito mia madre
rievocava gli sfarzosi doni offerti da don Alonso alla sua fidanzata, secondo i suggeri-
menti dell'ex-commerciante di Toledo.
Don Francisco continuò:
26
- Tutto era pronto per le nozze, il 14 novembre 1504, ma il matrimonio fu ritardato
dal lutto nazionale. La regina Isabella la Cattolica decedeva a Medina del Campo. Il corteo funebre
che trasferiva le spoglie regali a Granata passava per le porte di Avila. Nel fango, sotto piogge
torrenziali, la Spagna piangeva la giovane sovrana di 53 anni il cui genio aveva fatto la sua unità. «
Era proprio il momento di pensare alle nozze! » concludeva mia madre con un sospiro... Ma per non
aver l'aria di sminuire la famiglia Cepeda, aggiungeva subito: questo rinvio non rovinò in nessun
modo la festa, poiché l'avo si mostrò generoso e permise ai giovani sposi di comprare la grande casa
in cui siamo: « la casa de la Moneda », « la casa della Moneta ».
- Davvero! - dissi - suppongo che una tale origine, intendo la sua ascendenza
ebraica, abbia dovuto pesare su Teresa; infatti, venire da Toledo, la città imperiale, la
città del buon gusto, non era piuttosto una promozione?
- Hombre! - replicò Salcedo - lei non si può sbagliare. Isabella la Cattolica era solita
dire: « In nessun posto mi trovo sciocca se non a Toledo! »... Ma io direi, sen or, che
l'appartenenza alla città più gloriosa di tutta la Spagna faceva dimenticare il sangue
che scorreva nelle vene della Madre. Don Juan decedette quasi contemporaneamente a
dona Catalina, la prima moglie di don Alonso. Una terribile peste fece morire tanta
gente in quell'anno 1507! Scomparso il Toledano, il figlio ne risentì molto la
mancanza. Finché era stato in vita, gli affari andavano bene, ma lei sa che quando il
padre di Teresa fu morto a sua volta, l'apertura del testamento rivelò la sua rovina e i
suoi debiti... Che vuole! don Alonso aveva ereditato dal commerciante di Toledo
soltanto una fede invincibile... Per il resto, era quello che era.
- A sentire le sue parole, don Francisco, si direbbe che il carattere deciso,
intraprendente del nonno, addormentato nelle vene dei figli, si sia risvegliato soltanto
in quelle della nipote!
- Ma certo, senor, e io non sono il solo a pensarlo. Dinamismo, sagacia, intuizione,
nobiltà d'animo e generosità, saltando in certo qual modo una generazione, tutti questi
talenti e queste virtù si sarebbero presto sviluppati nell'anima di questa donna di cui la
Chiesa ha fatto una santa.
Il nonno penitente, che se ne andava ogni venerdì, di santuario in santuario, nelle
faticose viuzze di Toledo, preparava, a sua insaputa, la sfolgorante conversione di
Teresa.
Dopo la morte di suo padre, ella non avrebbe tardato molto a convertirsi davanti al «
Cristo tutto coperto di piaghe ».

5 - Libera con gran pena

Dalla sua guarigione miracolosa alla sua conversione davanti al « Cristo tutto
coperto di piaghe » si estende un periodo singolare, cosparso di tormenti e di grazie
per Teresa (1542-1554). Per non rischiare di perdervisi, bisogna considerarne le fasi
essenziali. Tra i ventisette e i trentanove anni, la giovane suora attraversa « un mare
procelloso » (Vita VIII, 2, p. 83). Non praticando più l'orazione, secondo le sue stesse
parole, corre il rischio di « perdersi » (Vita VII, 11, p. 76).
Per dirla in breve, Teresa intraprende la conquista della sua libertà. Con gran pena.
La morte di don Alonso, anche se risale all'inizio di questo periodo, ne costituisce
un episodio importante. Questo lutto – è evidente - scatena di per sé uno choc; ma
provoca anche l'intervento di un vero maestro spirituale: il padre Vicente Barron, do-
menicano... Ma non andiamo troppo avanti e riprendiamo i fatti per filo e per segno.
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Primo periodo: l'indomani della guarigione. Tutti accorrono all'infermeria
per ascoltare il racconto dalle labbra della miracolata. Teresa narra come S. Giuseppe
l'ha assistita e ne approfitta per parlare di vita spirituale. Spiega, insegna; Osuna è il
suo maestro. Il primo allievo di questa ragazza poco comune diviene il suo stesso
padre. « Non ritenevo che in questa vita potesse esserci alcun bene maggiore
dell'orazione » (Vita VII, 10, p. 75).
All'interno dell'Incarnazione si raggruppa un piccolo numero di amiche. Ricordiamo
i loro nomi; li ritroveremo nel corso di questa storia: Maria de san Pablo, Ana de los
Angeles, Maria Isabel, Inés de Cepeda e Juana Suàrez. Teresa le chiama « amiche »;
in realtà sono le sue « discepole ». A sua insaputa, molto tempo prima di redigerle,
inculca in loro alcune pagine del Cammino di perfezione.
Ma andate a nascondere queste cose in Avila dove la maggior parte delle buone
famiglie della città alta raggruppa le sue figlie nel convento della città bassa. Devoti e
religiose scendono dalle mura fino al quartiere di Ajates dove si stende il monastero.
Senza volerlo, le trenta primavere di Teresa, il suo viso pallido, la sua seduzione
naturale, il fascino della sua conversazione - e Dio sa se la Spagna ama parlare! -
riempiono i parlatori e soprattutto procurano elemosine. Il monastero infatti è
sovraffollato: centottanta monache, più le ragazze raccolte dalle loro parenti, il pen-
sionato, gli ospiti, c'è da morire di fame! In mancanza di osservanza, si vive almeno
sotto la legge implacabile della carestia.
Teresa ama suo stato. Per misericordia di Dio, non era fra le più rilassate né fra le
più mondane in quella « Babilonia », come chiamerà più tardi l'Incarnazione.
« Oh, che enorme disgrazia, che enorme disgrazia è quella degli ordini religiosi
dove non si osserva la Regola! » (Vita III, 5, p. 73).
In quanto a Teresa, senza alcun dubbio osservante, un appello più imperioso
l'invitava al raccoglimento, alla solitudine. Ma quella maledetta campanella della
portineria, instancabilmente, la richiamava in parlatorio...
« Oh, grandezza di Dio, con quanta sollecitudine e con quanta bontà cercavate di
avvisarmi in tutti i modi, e quanto poco seppi approfittarne! » (Vita VII, 8, p. 74). Il
Cielo si adirava: non mancavano i segni.
« Vi era in convento una monaca, mia parente, anziana, gran serva di Dio e di molta
pietà. Anche lei talvolta mi ammoniva, e io non solo non l'ascoltavo, ma m'inquietavo
con lei che mi sembrava scandalizzarsi senza ragione » (Vita VII, 9, p. 75).
Si manifestano altri interventi, più misteriosi. Un giorno, mentre stava conversando
con una persona « alla quale era molto attaccata », viene verso di loro un grosso rospo.
Anche gli altri vedono questo disgustoso animale. In pieno giorno in quel luogo non se
n'erano mai visti. L'impressione suscitata è profonda, pur se viene percepita soltanto
da colei che sa percepire. Anche Ezechiele contemplava il santuario ingombro di
animali impuri.
Chi occupava in quel tempo l'anima della carmelitana?...
Un altro giorno, « mi si presentò davanti Cristo con aspetto molto severo... lo vidi
con gli occhi dell'anima più chiaramente di come potrei vederlo con quelli del corpo »
(Vita VII, 6, p. 74).
Pura immaginazione, pensa Teresa che rifiuta di crederci come pure di confidarsi.
Le è troppo cara quell'amicizia, quella « ricreazione pestilenziale ». Nel suo intimo,
rimane turbata. « In fondo, mi restava l'impressione che fosse opera di Dio e non un
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inganno » (Vita VII, 7, p. 74).
L'impressione rimaneva profonda. Cristo era attaccato alla colonna, con un brandello di carne
strappato al gomito. Secondo la testimonianza del padre Jerénimo, Teresa farà dipingere questa
immagine in un eremitaggio di San José.
Perché quei segni dall'Alto? Perché quella lacerazione nell'anima? Anche se questa « amicizia »
non era, come si suppone, un caballero, ma una pia dama, elemosiniera della casa, prodiga di
quattrini e di mondanità, Gesù Cristo manifestava la sua riprovazione giacché, come dice una frase
celebre: « Di passatempo in passatempo, di vanità in vanità, di occasione in occasione, cominciai a
espormi a tali tentazioni e ad avere l'anima così guasta da tante vanità, che mi vergognavo di tornare
ad avvicinarmi a Dio con quella particolare amicizia, che è data dall'orazione » (Vita VII, 1, p. 70).
Il suo migliore discepolo, suo padre, se ne rendeva conto? In cinque o sei anni, lui
aveva fatto progressi, mentre lei si era sviata. « Da oltre un anno non faceva più
orazione: fu la più grande tentazione che ebbe a sostenere ». Il sant'uomo avrebbe
capito?... Egli conosceva le sue malattie, i suoi vomiti quotidiani. Era già molto se
riusciva ad attendere al coro... (Vita VII, 11-12, p. 75s).
« Mio padre, per la stima che aveva di me e l'amore che mi portava, mi credette in
pieno, anzi mi compassionò ». Le sue visite all'Incarnazione divenivano brevi; già lo
avvolgeva la luce della morte; le altre luci non erano che barlumi.
Della sua fine abbiamo già parlato, ma non abbiamo ancora parlato del religioso che
stava al capezzale del morente. Teresa ha riportato il suo nome: padre Vicente Barron,
domenicano del convento Santo Tomàs. « Assai dotto », confessò la figlia angosciata
così come aveva aiutato il padre (Vita V, 3, p. 58). Era un uomo calmo e fervente;
apparteneva alla tendenza riformatrice del padre Juan Hurtado. La sua integrità aveva
pienamente soddisfatto le esigenze di don Alonso; ora egli avrebbe aiutato Teresa a
diventare se stessa.
Non era facile per il domenicano recarsi all'Incarnazione. I padri carmelitani,
confessori ordinari del convento, consideravano il monastero come loro proprietà
riservata.
Un giorno Teresa uscì e scese a Santo Tomàs. Confessò che aveva tralasciato la
preghiera mentale. « Mi disse di non abbandonarla mai, che assolutamente non poteva
farmi altro che bene ».
« Cominciai a tornare ad essa, anche se non evitavo le cattive occasioni, e non
l'abbandonai più » (Vita VII, 17, p. 79).
Era senza dubbio un punto acquisito che avrebbe reso presto possibile il suo
completo sviluppo spirituale. Per il momento, i vincoli non erano ancora del tutto
sciolti: ci mancava parecchio!
« Vivevo una vita piena di travagli, perché, mediante l'orazione, vedevo meglio le mie colpe: da
una parte mi chiamava Dio, dall'altra io seguivo il mondo; le cose di Dio mi davano una gran gioia,
quelle del mondo mi tenevano legata ad esse. Sembrava che volessi conciliare questi due opposti -
così nemici l'uno dell'altro - come sono la vita e le gioie spirituali, e i piaceri e i passatempi dei sensi
» (Vita VII, 17, p. 79).
L'essenziale, tuttavia, Teresa lo aveva ormai scoperto, e in modo definitivo.
L'occasione si era presentata in seguito alla morte di suo padre e, senza dubbio, grazie
alla sua preghiera. Finalmente un confessore serio e santo la confermava su una strada
che non avrebbe potuto mai più abbandonare. « Certo, lasciare l'orazione non era più
in mio potere, perché mi teneva con le sue mani colui che così voleva darmi maggiori
grazie » (Vita VII, 17, p. 79s).
Senza dubbio, bisognava aspettare un intervento dall'Alto; sarebbe presto arrivato.
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Per il momento, Teresa poteva soltanto deplorare la sua « immensa solitudine ». «
Per cadere avevo molti amici pronti ad aiutarmi, ma per rialzarmi mi ritrovavo così
sola, da stupirmi ora di non esser rimasta sempre a terra » (Vita VII, 22, p. 82s).

3
CRISTO E I SUOI SERVITORI

Dal 1554 al 1562 si susseguono mesi e anni di grazie straordinarie, preludio alla
fondazione del Carmelo riformato. Teresa è nella pienezza dei suoi quaranta anni.
L'incontro con il Cristo coperto di piaghe ha dato inizio a un tempo di conversione e
ad un'effusione di favori divini fuori del comune.
Come sempre, gli interventi dall'Alto sono intessuti di persecuzioni. I devoti, i
santocchi, i confessori timorati circondano colei che sta per diventare la « Madre
reformadora » di un alone di sospetti. La malizia della gente, l'ozio avido di dicerie di
una piccola città fecero il resto. Ma in questo cielo tempestoso, sempre ingombro di
nubi, brillano anche delle luci, autentici servitori di Dio che la Chiesa ha canonizzato:
Francesco Borgia, Pietro d'Alcàntara.
Nulla si edifica senza fatica in un regno in cui il Signore stesso ha dato il tono
lasciandosi inchiodare su una croce. « Per seguire i precetti evangelici con tutta la
perfezione possibile » (Cammino I, 2, p. 24), quanti aspri combattimenti dovrà
sopportare la santa d'Avila! Non per niente era figlia di una città dedicata alle batta-
glie, e sorella di conquistadores, pronti alla spada e al pugnale, oltremare!
Spetta a noi saper leggere questa tappa appassionante di una vita in cui terra e cielo
si affrontano con fortune diverse per portare alla nascita del Carmelo riformato.

1 - Il Cristo tutto coperto di piaghe

Avevo cercato il padre Bànez attraverso tutto il monastero di Santo Tomàs. Passata
la portineria, il « chiostro del silenzio », mi ero fermato nella galleria superiore, quella
in cui, sui pilastri, fiorisce un gran numero di granate. Così i re cattolici, prima della
conquista dell'ultimo regno moro, scongiuravano la sorte, raffigurando dappertutto
l'emblema della città di cui stavano per impadronirsi.
Nessuno!
Infine, nel coro superiore, nascosto in fondo a uno stallo, scoprii il domenicano. Si
alzò, mi venne incontro e, con un ampio gesto silenzioso, mi condusse nella sua cella.
Piccola, schiacciata, con finte travi, una stretta finestra che rischiarava un vasto
tavolo disadorno, libri sparsi un po' dappertutto, uno sgabello per il visitatore: ecco
tutto lo spazio che mi offriva il grande amico della Madre. Abitualmente lento nel
parlare, talora con delle esitazioni per precisare il suo pensiero, questa volta iniziò la
conversazione senza ambagi.
- Lei sa che Madre Teresa, fin dal primo progetto della sua riforma, trovò un
appoggio considerevole in questa casa. Il padre Ibànez si dichiarò suo irriducibile
sostenitore. Dopo la fondazione di San José nell'agosto del 1562, fui da lui delegato
alla junta convocata per condannare la sua opera. Poco tempo dopo, conobbi la
riformatrice; divenni il confessore e il predicatore del suo piccolo convento. Infine, nel
1575, l'Inquisizione mi incaricò di esaminare il Libro della mia vita...
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Alzandosi con agilità, prese un manoscritto cucito in una sacca di rozza
tela. L'apri con precauzione. La pergamena scricchiolava sotto le sue dita affusolate e
scarne come quelle di un dipinto di El Greco.
- Sì - continuò - ho letto e riletto questo testo ammirevole, limitandomi a brevi
annotazioni e correzioni marginali. Ma non le nasconderò uno dei passi che mi ha più
sconvolto e che esprime una delle più irrefutabili chiamate dall'Alto.
Il padre Bànez cominciò a leggere. La voce si levava nell'immenso silenzio scavato dall'inverno.
Un sole biancastro, una luce cruda s'insinuava sotto l'ogiva della finestra. Il fuoco non era acceso. Il
freddo, i muri nudi, la croce cupa, la saia scura gettata in fondo alla cella sul basso giaciglio
rendevano più spogli quegli istanti in cui un' anima si era convertita di fronte al Cristo crocifisso.
« Ormai, dunque, la mia anima era stanca e, anche se lo voleva, le sue cattive
abitudini non la lasciavano riposare. Accadde un giorno che, entrando nell'oratorio,
vidi una statua portata lì in attesa di una certa solennità che si doveva celebrare in casa
e per la quale era stata procurata. Era un Cristo tutto coperto di piaghe, e ispirava tale
devozione che, guardandolo, mi turbai tutta nel vederlo ridotto così, perché
rappresentava al vivo ciò che egli ebbe a soffrire per noi. Provai tanto rimorso per
l'ingratitudine con cui avevo ripagato quelle piaghe, che pareva mi si spezzasse il
cuore, e mi gettai ai suoi piedi con un profluvio di lacrime, supplicandolo che mi desse
alfine la forza di non offenderlo più » (Vita IX, 1, p. 90).
Il domenicano posò il manoscritto e rimase per un istante in raccoglimento.
- Come lei può immaginare - continuò - questo avvenimento ha sempre destato il mio più vivo
interesse. Ho dunque interrogato la Madre. Quale era questo oratorio? Non certo un angolo
privilegiato del monastero, ma semplicemente il suo luogo di preghiera personale, all'entrata del suo
appartamento. C'era nel muro una specie di rientranza dove Teresa aveva posto alcune immagini
sacre sormontate da un'iscrizione latina: Non chiamare in giudizio il tuo servo (Sal 143,2). Il Cristo
coperto di piaghe non era un dipinto, come ha supposto qualcuno, ma una statuetta dall'espressione
sconvolgente. Gesù china la testa su un busto devastato dalle piaghe. Una cordicella ciondola intorno
al suo collo, le mani si congiungono su una specie di scettro. Per tutta la vita, la santa Madre portò
con sé questa preziosa reliquia che, malgrado la sua piccolezza, esprimeva la grandezza di un amore
e di un'ingratitudine. E questo, a mio avviso, il significato dell'avvenimento: la scoperta del solo
amore che esista al mondo. Mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). Ecco quello che,
giovane educanda, Teresa aveva presentito a Santa Maria della Grazia: « Se avesse letto tutta la
Passione, non avrebbe versato una lacrima; e ciò la faceva soffrire » (Vita III, 1, p. 46). Prima, e
durante la quaresima, a detta di Maria Bautista, « Teresa amava svegliarsi di notte e rivivere,
attraverso il convento, certi episodi delle sofferenze di Cristo ». Quel giorno, è tutta sconvolta,
affranta. Il profluvio di lacrime che versa ne è il segno. E sorta in lei una specie di improvvisa
commozione che nulla aveva preparato né lasciava prevedere.
- È vero - replicai - che aveva potuto leggere in Osuna frasi come questa: « Tutte le
altre meditazioni che non trattano della Passione sono di scarsa utilità. Ricordati perciò
questo consiglio: limitati alle sofferenze di Cristo. Esse umiliano profondamente
l'anima e nessun'altra cosa la conduce meglio a Dio ».
- Senza dubbio - continuava il padre Bànez - inconsciamente Teresa era preparata. In quel tempo,
leggeva le Confessioni di s. Agostino, la cui traduzione era stata pubblicata a Salamanca proprio quel
15 gennaio 1554. « Io non cercai di averle, scrive la santa, non conoscendone l'esistenza. Io sono
molto devota di S. Agostino anche perché egli fu peccatore » (Vita IX, 7, p. 92). Si noti, tra parentesi,
lo stesso impulso che era scaturito dall'anima di Teresa di fronte all'immagine del Cristo coperto di
piaghe: « Quando giunsi alla sua conversione e lessi della voce che egli udì nell'orto, mi parve che il
Signore la facesse udire a me, per quel che ebbe a sentire il mio cuore, e rimasi lungo tempo
sciogliendomi tutta in lacrime e provando nel mio intimo grande afflizione e travaglio » (Vita IX, 8,
p. 93). Grazie a S. Agostino e di fronte al Cristo martoriato, Teresa prese coscienza delle proprie
catene. In termini quasi agostiniani, descrive questa luce improvvisa: « Oh, Dio mio, quanto soffre
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un'anima nel perdere la libertà che la rende padrona di sé e quanti tormenti patisce! Io ora mi
meraviglio di come potessi vivere in tanta angoscia. Sia lodato Iddio che mi diede vita per farmi
uscire da una morte così funesta! » (Vita IX, 8, p. 93). Senza alcun dubbio c'è una strana analogia tra
lo choc provato di fronte al Cristo martoriato e la lettura delle Confessioni. Ad un tratto, Teresa
riceve « grandi forze ». Avrebbe potuto temere che le lacrime che versava fossero soltanto « lacrime
di donnicciola »: infatti « non ottenevo ciò che desideravo ». Eppure, - si noti il realismo della Madre
- « credo che mi siano valse a qualcosa... Dopo queste due volte, cominciai a dedicarmi di più
all'orazione e ad occuparmi meno di cose che potessero essermi di danno » (Vita IX, 9, ... Chi
oserebbe dubitarne?
- concluse il padre Bànez, dopo una pausa.
In quella quaresima del 1554, nel monastero dell'Incarnazione di Avila, era accaduto un fatto
carico di profonde ripercussioni. Un'anima prendeva il volo verso la santità.
Come « la Madonna ai piedi del Crocifisso », di che cosa non sarebbe stata capace?
Teresa de Ahumada, allora, aveva trentanove anni.

2 - Il Cielo si schiude, la terra cigola

Chi potrà mai capire la vita mistica di Teresa d'Avila, se non ha gustato egli stesso
in maggiore o minore misura le medesime grazie, bevuto alla medesima sorgente,
sperimentato identiche prove? Ella stessa dichiarava di avere sofferto lunghe
incomprensioni, proprio da parte di confessori di scarsa cultura, limitati e timorati, le
cui paure e i cui giudizi perentori l'avevano turbata, messa in imbarazzo, fermata, più
di tutti i suoi detrattori messi insieme.
Dopo la conversione del 1554, una fiammata difatti mistici si accende nell'intimo
della sua esistenza. Teresa li racconta, tenta di descriverli, si riconosce vinta,
ricomincia ugualmente. Non dobbiamo dimenticare infatti che parla ai suoi confessori,
ansiosa di illuminarli, di evitare l'illusione e l'astuzia diabolica.
Di fronte a simili racconti disseminati nel Libro della mia vita e soprattutto nel
Castello interiore, siamo costretti ad ammirare, a cercare di capire.
« Le opere d'arte sono di un'infinita solitudine, scriveva Rilke, e ci vuole una solitudine infinita
per comprenderle ». Fatte le debite proporzioni, lo stesso può dirsi per l'opera della grazia nella trama
dell'anima. Per cercare di capire tali cose, ho quindi scelto un pomeriggio, a Toledo, in un'antica
chiesa sconsacrata. Pozzo d'ombra e di silenzio, cantone sperduto nella città immensa, non riuscireste
a trovarlo, anche se ve lo indicassi. Il callejòn - la viuzza - scende rapidamente verso il Tago. All'ora
della siesta e fino all'atardecer vi troneggia il sole. Il convento de las Isabelas, con i suoi muri ciechi,
sbarra l'orizzonte. Talvolta un grido di uccello attraversa un giardino chiuso. A Toledo, città
imperiale, gioiello di gloria che una triplice corona di spine sormonta dalla sua cattedrale, lì, sotto
l'ocra e il fuoco dell'estate, cercai di cogliere, dall'intimo, quello che accadde alla sua figlia
più illustre, dona Teresa de Aliumada.
Tutto il suo dramma interiore sembra svolgersi in tre tempi: Dio interviene; alcuni confessori
poco aperti subodorano una grazia sospetta; sopraggiungono dei maestri autentici, veri santi.
Al capitolo XXIII della sua Vita, Teresa riprende la sua storia là dove l'aveva
lasciata, l'istante in cui Cristo la commosse al punto di sottrarla alla sua leggerezza.
« Da qui innanzi sarà un libro nuovo, voglio dire una vita nuova... » (Vita XXIII, 1,
p. 201). Teresa pratica l'orazione.
« Sua Maestà prese a darmi assai di frequente l'orazione di quiete, e molte volte
anche quella di unione, che durava a lungo » (Vita XXIII, 2, p. 201). Ma Teresa
temeva la sospensione dell'intelletto come pure la profusione di gioie eccessive. Come
giudicare tali cose? Ella osserverà giustamente nel Castello interiore: « Sentiamo
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sempre parlare dell'eccellenza dell'orazione... ma non ci viene spiegato
più di quello a cui possiamo arrivare da noi stesse; delle cose che il Signore opera in
un'anima, si dice ben poco »(Castello Il, 7, p. 272). Certo, la devozione moderna, alla
fine del Medioevo, aveva insistito sulla meditazione discorsiva. Ma mentre persisteva
questa pratica arida e meccanizzante, i falsi spirituali -alumbrados, dejados -
gettavano il sospetto su qualsiasi abbandono di sante abitudini. In qual modo la
carmelitana, in preda nello stesso tempo all'inquietudine e ad esperienze sconosciute,
poteva farsi illuminare?
Don Francisco de Salcedo, il gentiluomo sposato, era imparentato con lei per parte di sua moglie,
dona Mencia del Aguila. Teresa non lesina gli elogi nei suoi riguardi: « Vita esemplare; intelligente;
per vent'anni ha seguito i corsi di teologia presso i domenicani. Pratica l'orazione da poco meno di
quarant'anni » (Vita XXIII, 6-7, p. 203s). S. Pietro d'Alcàntara lo metteva sugli altari decretando: « È
la migliore testa di Avila ». « Il santo cavaliere » - così lo chiama la futura riformatrice (Vita XXIII,
6, p. 203) - parlò a un ecclesiastico « gran servo di Dio » (Vita XXIII, 8, p. 204). Il suo proposito era
semplice: ella si sarebbe confessata da lui per ottenere la luce! Quel sacerdote, dice uno storiografo,
era pieno di zelo divino: visitava i poveri, spazzava la loro camera, puliva le loro immondizie.
Giuliano d'Avila diceva che andava attraverso la provincia di Avila « cantando la doctrina » (noi po-
tremmo tradurre: « come cantore della fede »). Ascoltò dunque la carmelitana, ma non volle
confessarla (Vita XXIII, 8, p. 205).
L'Incarnazione, con il suo mondo di gran dame e di futilità, non si addiceva a quel
rude castigliano. C'era in lui un misto di Vincenzo Ferreri e di Vincenzo de' Paoli. Si
dichiarò molto « occupato » e piantò in asso, senza altre spiegazioni, una cliente di cui
temeva le sottigliezze. Il santo cavaliere non abbandonò tuttavia la sua parente.
Andava a trovarla all'Incarnazione. Il padre Daza aveva chiesto alla carmelitana di
troncare gli ultimi legami con il mondo, ma lei se ne riconosceva incapace. Don
Francisco, più umile, la incoraggiava. Anch'egli aveva messo molto tempo per vincersi
in cose di scarsa importanza. Era un asceta, come si poteva esserlo nel clima di
quell'epoca, ma per imparare a volare, bisognava « mettere le penne ». Intuitivo,
pacifico, buono, don Francisco comprendeva... (Vita XXIII, 9-10, p. 205s).
Teresa arrivò alle confidenze.
Che cos 'era in realtà questa sua orazione? « Favori di Dio; godimento...
impossibilità di pensare a qualcosa ». Novizia nel campo dello straordinario, ella va a
tentoni per trovare la parola esatta. « La difficoltà era proprio che io non sapevo dire
né poco né molto in che consistesse la mia orazione, perché questa grazia di saper
capire che cosa sia e di saperne parlare, Dio me l'ha data da poco tempo » (Vita XXIII,
11, p. 206).
Per descrivere il suo stato interiore, un giorno, alla grata del parlatorio, Teresa porge
un libro: La salita del monte Sion, scritto da Bernardino de Laredo, medico di don
Juan del Portogallo, divenuto poi fratello converso francescano. Quest'opera era stata
pubblicata a Siviglia, esattamente venti anni prima. Teresa aveva segnato con alcune
linee le frasi importanti, rivelatrici della sua preghiera, soprattutto « quando non
poteva pensare a nulla ».
Ed ecco i nostri due dottori, Salcedo e Daza, intenti ad analizzare minuziosamente il libro. In quel
tempo il riferimento ai francescani - per giunta della scuola di Osuna - era sospetto. E poi lo scritto
veniva dall'Andalusia. Malgrado il lontano prestigio di S. Ferdinando di Siviglia, tutto ciò che si
trama al di là della Sierra Morena sa di eresia. Mori, Marrani, sensibilità, sensualità, fantasmagorie
andaluse! Ah! non ci vuol altro per allarmare il puro sangue di Castiglia! Quella gente del
Guadalquivir, anche se indossa il saio, parteggia sempre più o meno per il diavolo... Sapremo più
tardi ciò che la santa Madre pensava di quel paese e di quella gente... I nostri eruditi, dopo essersi
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consultati, emisero il verdetto. « Il santo cavaliere », molto afflitto, lo comunicò all'in-
teressata. A parer loro, Teresa « era vittima del demonio ».
Al più presto, doveva chiamare un padre della Compagnia di Gesù e informarlo di
tutta la sua vita con una confessione generale. In tal modo sarebbe venuta la luce
perché, secondo loro, « nelle cose di spirito quei padri avevano grande esperienza...
Mi raccomandarono di non distaccarmi in nulla da ciò che egli mi avrebbe detto,
perché correvo un gran pericolo, se non trovavo chi mi guidasse » (Vita XXIII, 14, p.
208).
I due consiglieri improvvisati non erano malintenzionati. Più tardi, diventeranno i
migliori difensori della Madre e della sua opera. Bisogna tener conto della loro
inesperienza nelle cose dello spirito; forse mancavano di una certa discrezione e
Teresa lo deplora.
Con il pretesto di consultare, parlavano, parlavano, di chi mai se non della loro
illustre confidente! « Mi hanno fatto un gran danno, riconosce la carmelitana... il
Signore lo ha permesso perché io avessi a soffrire » (Vita XXIII, 13, p. 207s). Ma, a
loro insaputa, gettavano sulla riformatrice in erba un velo di sospetto che la seguirà
anche al di là della morte.
Tuttavia, sono le montagne che fanno o disfanno i fiumi. Dallo zelo premuroso di
Salcedo, dal rigore di Daza, dalle loro esitazioni e dai loro rifiuti è nato il
provvidenziale incontro di Teresa con i gesuiti.
Per uno di loro la suora scrisse la sua prima relazione. Era il 1555. Teresa aveva
quarant'anni è da vent'anni praticava l'orazione (Vita XXIII, 12, p. 207).

3 - I padri della Compagnia di Gesù

« Padre de Cetina! Padre de Pràdanos! ».


Ho forse pronunciato ad alta voce questi nomi sconosciuti, nella mia cappella toledana? Il silenzio
diveniva così lieve sotto le volte all'ora della siesta che si sarebbe potuto sentire giù in basso il
rumoreggiare delle acque del Tago sospinte contro l'argine del mulino... Ero arrivato ai capitoli
XXIII e XXIV del Libro della mia vita, là dove Teresa racconta i suoi primi contatti con « persone
così sante come i padri della Compagnia di Gesù » (Vita XXIII, 15, p. 209).
I gesuiti in Avila! Era una novità che destava curiosità. Da San Segundo, vicino
all'Adaja, i nuovi arrivati si stabilirono nel collegio San Gil, « la parte più alta della
città, in mezzo ai monasteri e sul circuito delle acque che alimentano la città. Il loro
ingresso fece colpo; venivano attaccati anche dall'alto del pulpito. Questi nuovi
apostoli, privi di un proprio abito religioso, pretendevano forse di rivaleggiare con gli
ordini antichi, altamente reputati per santità e penitenza? Ciò nonostante Daza e il
santo cavaliere trovavano luce e conforto presso i compagni di Ignazio de Loyola e
convinsero uno di loro, il padre Diego de Cetina, a scendere all'Incarnazione.
I confessori ufficiali del monastero erano i carmelitani. Teresa si sarebbe dunque fatta
ancora notare chiamando uno di quei padri così contestati nella città? Aveva preso le
sue precauzioni perché quel giovane sacerdote di appena ventitré anni passasse
inosservato. Fatica sprecata! Alla porta spiava una chiacchierona. In un batter
d'occhio, la notizia fu strombazzata per tutto il convento! « Quanti ostacoli e paure
frappone il demonio a chi vuol giungere a Dio! » (Vita XXIII, 15, p. 209).
L'uomo che ascoltava la carmelitana era davvero giovane. Appena ordinato sacerdote,
fu mandato ad Avila. Non era dotato di grande talento, ma apparteneva alla prima
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generazione della Compagnia, seguiva con fervore gli Esercizi, era prudente e
illuminato. Per di più sapeva ascoltare e capire. Quale ispirazione sosteneva il suo
verdetto! La carmelitana lo ricorda a memoria:
« Mi fece gran cuore. Disse che evidentemente si trattava dello spirito di Dio, e che
dovevo riprendere l'orazione, perché non ero ben fondata, né avevo ancora cominciato
a intendere che cosa fosse la mortificazione... Che sapevo io se per mezzo mio il
Signore voleva avvantaggiare molte persone? » (Vita XXIII, 16, p. 209).
A quarant'anni, finalmente, Teresa de Ahumada trovava un confessore comprensivo ed efficiente. «
In tutto quanto diceva mi sembrava che in lui parlasse lo Spirito Santo per risanare la mia anima,
tanto profondamente s'imprimevano in essa le sue parole... Mi diresse in tal modo che mi parve
d'essere del tutto trasformata. Che gran cosa è intendere un'anima! » (Vita XXIII, 16-17,
p. 210).
La direzione del padre de Cetina era chiara: ritorno alla contemplazione di Cristo nella
sua umanità, « concentrare l'orazione su un punto della Passione », « cercare di trarne
profitto ». È questo il linguaggio proprio degli Esercizi spirituali. Così, ella non
rischiava di perdersi nelle brume di un falso illuminismo. « Resistere a quei miei
raccoglimenti e a quelle dolcezze interiori » (Vita XXIII, 17, p. 210), giacché ogni
consolazione non è esente da illusione!
« Mi lasciò consolata e rinvigorita, e il Signore che aiutò me, aiutò anche lui, perché
comprendesse la mia condizione e il modo con cui doveva guidarmi. Restai
fermamente decisa a non allontanarmi in nulla da ciò che mi avrebbe comandato... Sia
lodato il Signore che mi ha dato la grazia di obbedire ai miei confessori, sia pure
imperfettamente! Essi sono stati quasi sempre questi benedetti padri della Compagnia
di Gesù, e sebbene - ripeto - li abbia seguiti imperfettamente, la mia anima cominciò
ad averne un evidente miglioramento... » (Vita XXIII, 18, p. 210).
Il padre de Cetina rimase molto poco tempo ad Avila, ma oggi si ammette
comunemente che abbia iniziato agli Esercizi la carmelitana affidata alla sua guida.
Non nel corso di un ritiro, ma in conversazioni private e attraverso diversi
insegnamenti sulla maniera di contemplare i misteri di Cristo. Come spiegare in altro
modo l'orientamento decisamente cristologico che prese la vita spirituale di Teresa? Il
padre de Cetina poteva ora lasciarla; aveva ormai gettato le basi di un insegnamento
sicuro: « Cominciai a prendere nuovamente amore alla sacratissima umanità di Gesù
Cristo. L'orazione prese a consolidarsi come un edificio ormai posto su salde
fondamenta, e mi affezionai di più alla penitenza »(Vita XXIV, 2, p. 211s).
Entrò allora in scena dona Guiomar de Ulba, « una vedova, signora di nobili natali,
molto dedita all'orazione, che aveva consuetudine di trattare con i padri della
Compagnia... Abitava vicino a loro » (Vita XXIV, 4, p. 213).
Tutto è stato detto su questa giovane vedova di ventotto anni, madre di quattro figli (due delle sue
figlie sarebbero divenute monache all'Incarnazione). Era stata celebrata la sua bellezza, la sua
leggerezza. I mondani non le perdonavano di aver virato di bordo, di aver riempito la sua casa di
beghine come Maria Diaz e di averla trasformata in convento. Con grave scandalo dell'aristocrazia di
Avila, era stata vista entrare nella chiesa di San Pedro portando ella stessa la sua stuoia di sughero
per sedersi! I ricchi ridevano, i suoi parenti levavano alte grida, mentre dona Guiomar seguiva i
consigli del padre de Pràdanos.
Quando il padre de Cetina partì di lì a due mesi, Teresa credette che le fosse
impossibile di trovarne un altro. « La mia anima rimase come in un deserto » (Vita
XXIV, 4, p. 213).
Dona Guiomar l'accolse nel suo palazzo. Le leggi della clausura permettevano queste
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uscite per ogni evenienza. La mise in contatto con il proprio direttore spirituale,
il padre Juan de Pràdanos.
Più brillante del suo predecessore, inviato da S. Francesco Borgia come vicerettore del
collegio di Avila nel 1555, questo direttore di ventisette anni si occupò « con molta
abilità e dolcezza » della nuova suora da dirigere. Téresa doveva rinunciare a « certe
amicizie » che, senza offendere Dio, la distraevano dall'essenziale. Non ne aveva
davvero la forza!
Il padre le chiese di recitare per alcuni giorni di seguito l'inno Veni, Creator.
« Un giorno, dopo essere stata a lungo in orazione e aver supplicato il Signore di
aiutarmi a contentarlo in tutto, cominciai a dire l'inno e, mentre lo stavo recitando, mi
colse un rapimento così improvviso che mi fece quasi uscire fuori di me, né potei mai
dubitarne, essendo stato ben evidente. Fu la prima volta che il Signore mi fece la
grazia di un rapimento. Udii queste parole:
"Non voglio più che tu abbia conversazione con gli uomini, ma con gli angeli".
« Tutto ciò si è adempiuto perfettamente, perché da allora in poi non ho mai più potuto
concepire amicizia, né aver consolazione, né avere amore speciale se non per coloro
che so che amano Dio e procurano di servirlo.
« Da quel giorno io mi sentii animata a lasciare ogni cosa per amore di quel Dio che in un solo
momento - mi sembra, infatti, che non fosse più di un momento - aveva voluto trasformare
del tutto la sua serva » (Vita XXIV, 5-7, p. 214).
Così, durante le feste di pentecoste del 1556, nel palazzo di dona Guiomar, Teresa
aveva ricevuto la grazia del fidanzamento mistico. In effetti, per tre anni (1555-1558),
secondo la testimonianza della giovane vedova sua amica, Teresa rimase nella sua
casa, tutta dedita alla penitenza, tutta sollecita della purezza della sua coscienza...,
compagna obbligata di quella Maria Diaz che tutta Avila prendeva per una santa.
Un giorno, Teresa le chiese:
- Madre Maria Diaz, non hai un gran desiderio di morire? Io desidero moltissimo
andare a vedere il mio Sposo.
- Per me, figlia mia, io non desidero morire, ma vivere, al fine di soffrire molto per
Cristo, cosa che non potrò fare dopo la mia morte, mentre avrò molto tempo per
godere di lui.
Nell'autunno del 1557, il padre de Pràdanos si ammalò. « Il suo cuore lo abbandonò »,
dice un testimone; « aveva lavorato troppo in Avila ».
Ormai libera e padrona di se stessa, dona Teresa accompagnò il padre nella casa di
campagna di dona Guiomar. Era ad Aldea del Palo, nella provincia di Zamora,
proprietà paterna della vedova. Teresa si trasformò in infermiera giorno e notte, in
cuoca: non avrebbe potuto fare di più per il proprio padre.
Il fidanzamento mistico della pentecosté del 1555 l'aveva liberata. Ormai, diventano
suoi amici solo quelli che praticano l'orazione, come è detto in modo mirabile nella
sua prima relazione spirituale del 1560. « La conversazione, specialmente quella di
parenti e affini, mi riesce molesta: vi partecipo con una certa contrarietà, fatta
eccezione delle persone con le quali parlo di orazione e di cose attinenti all'anima,
perché queste mi sono causa di conforto e di gioia » (Relazioni I, 6, p. 431).
Nessuno si stupirà dunque di vederla presente, attiva, piena di premure, al capezzale
del suo secondo padre spirituale, colui che l'aveva avviata a maggior perfezione:
soddisfare completamente Dio (Vita XXIV, 5, p. 213).
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4 - Il padre Francesco, già duca di Gandia

El Greco ha spesso dipinto Toledo con un cielo tempestoso. Non è sotto nubi simili
che trascorsero per Teresa gli ultimi anni passati all'Incarnazione? Tuttavia, questa
volta tenebrosa è solcata da lampi. Questa donna sperduta in una città lontana ha il
dono
- chi lo avrebbe immaginato? - di attirare la folgore: ossia le personalità più sante della
sua epoca.
« In questo tempo arrivò in città il padre Francesco, già duca di Gandia ».
Era il maggio del 1554. In aprile egli aveva assistito alla morte di Giovanna la Pazza, a
Tordesillas. Nel mese di settembre, a Valladolid, avrebbe cercato di rendere meno tesi
i rapporti tra il papa Paolo IV e il re: il monarca rischiava la scomunica. Nel frattempo,
il delegato di S. Ignazio, in giro attraverso i collegi di Castiglia, passava per Avila.
Il padre de Cetina combinò un incontro con la carmelitana da lui diretta. Sapeva infatti
che il suo superiore, già duca di Gandia, divenuto gesuita, era « molto avanti nel
ricevere favori e grazie da Dio, il quale, tenuto conto del molto che aveva lasciato per
lui, lo compensava fin da questa vita » (Vita XXIV, 3, p. 212).
Teresa era commossa. Di fronte a lei stava l'amico intimo di Carlo V re di Spagna e imperatore di
Germania. Come aveva potuto barattare la sua fortuna, il suo prestigio, i suoi campi di grano e i suoi
aranceti, nel lontano Levante, con la tonaca di un ordine tanto male accolto in quel paese? Al suo
arrivo, il capitolo della cattedrale lo aveva invitato a predicare durante l'ottava del « Corpus ». Tutta
Avila venne ad ascoltare a bocca aperta sotto il pulpito, senza dubbio commossa più dall'umiltà di
quel grande di Spagna che dal tenore delle sue parole. In quel tempo la gente era avida di simili
emozioni: la regina Giovanna,i reclusa come una monaca a Tordesillas; il signore di questo mondo
che abdicava al suo impero per rinchiudersi in un con i vento a Yuste. Grandezza ed
abiezione! La passione della gloria i e il gusto della cenere: ecco i paradossi che
scaturiscono dall'anima castigliana.
« Dopo avermi ascoltata, spiega la carmelitana, il padre Francesco mi disse che si trattava dello
spirito di Dio e che gli sembrava non fosse ormai il caso di resistergli oltre... Aggiungendo di
cominciar sempre l'orazione con un brano della Passione, e di non opporre resistenza se, in seguito, il
Signore mi rapisse lo spirito, lasciando fare a Sua Maestà, senza procurare io tale elevazione.
Essendo già molto avanti in questa via, mi diede medicina e consiglio adatti, perché a tale riguardo è
molto importante l'esperienza. Disse che sarebbe stato un errore continuare a resistere » (Vita XXIV,
3, p. 212s).
Notiamo, tra parentesi, la somiglianza di questa diagnosi con quella del padre de
Cetina.
All'inizio della sua quarta relazione scritta a Siviglia nel 1576, Teresa rivelerà « di
avere parlato due volte con il padre Francesco, prima duca di Gandia » (Relazioni IV,
3, p. 448).
Era assillata da un problema: nell'orazione di quiete, « la volontà attende al suo lavoro
senza sapere come lo compia » (Cammino XXXI, 5, p. 178), « la volontà è unita a Dio
e lascia le altre potenze libere, affinché si occupino di cose attinenti al suo servizio »
(Cammino XXXI, 4, p. 177).
« Non riuscendo a capire nulla di questo stato, ne domandò spiegazione a un gran
contemplativo: era il padre Francesco, della Compagnia di Gesù », aggiunge in
margine il manoscritto di Toledo, « "prima duca di Gandia". Le disse che era una cosa
possibile e che a lui accadeva spesso » (Cammino XXXI, 5, p. 178).
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Così, dopo i confessori di valore, ecco il giudizio di un santo, un mistico come lei,
esploratore di terre sconosciute alla maggior parte dei cristiani. Come più tardi Pietro
d'Alcàntara, la testimonianza di Borgia è rassicurante. Ha vissuto anch'egli identiche
esperienze. La carmelitana e il gesuita attingono alla stessa fonte:
lo spirito di Dio, che è offerto loro senza misura. Non occorreva altro per rassicurare
colei che, con passo esitante, avanzava su nuove vie.
« Anche il santo cavaliere ne rimase assai consolato » (Vita XXIV, 3, p. 213).
Nella sua ultima visita in Avila, il padre Francesco aveva, una volta ancora,
accreditato la vita spirituale della suora. Ora, all'improvviso, erano cambiati i tempi e
gli uomini.
Un terzo confessore, il padre Baltasar Alvarez, di venticinque anni, arrivava al collegio San Gil. Più
esitante dei suoi predecessori, assalito dall'inquietudine di Salcedo e di Daza e dai pettegolezzi di
convento, rendeva la vita dura a Teresa. « Era assai discreto e di grande umiltà, e questa sua umiltà
mi cagionò parecchie tribolazioni » (Vita XXVIII, 14, p. 249).
Il padre Alvarez aveva l'inesperienza della sua giovinezza. Imponeva alla suora di
confessarsi « a viso scoperto ». In quel tempo e in Castiglia, era un'umiliazione!
Teresa gli scriveva, chiedendogli una risposta urgente. Lui rispondeva, ma scriveva
sulla busta: « Non aprire prima di un mese! ».
Si può sorridere di queste manie. E il confessore non era il solo! « Mi accadde specialmente una volta in cui si erano
riuniti molti servi di Dio che io grandemente stimavo - e con ragione -giacché, sebbene io ormai non trattassi se non con
uno, e solo quando egli me lo comandava parlassi ad altri, essi amandomi molto e temendo che potessi essere ingannata,
discutevano di frequente tra di loro circa il modo di venirmi in aiuto » (Vita XXV, 14, p. 222).
Erano « cinque o sei, tutti gran servi di Dio ».
Amici molto importuni, più tardi alleati zelanti della sua riforma: Daza, Gonzalo de
Aranda, de Salcedo, Hernandàlvarez e Monso Alvarez Dàvila.
Venivano spiati i minimi fatti e comportamenti dell'infelice carmelitana. Quello che
ella confidava a uno veniva risaputo da tutti, e subito correvano al collegio dei gesuiti
a chiedere del padre Alvarez e a stordirlo di raccomandazioni.
Ah! perché Teresa non era come Mandiaz, che pregava, faceva penitenza e camminava
nelle vie di Dio senza visioni, senza nvelazioni, senza storie! (Vita XXVIII, 12, p.
248).
Dopo tre anni di permanenza in casa di dona Guiomar, che Teresa se ne ritorni dunque
all'Incarnazione! La gente devota digrignava i denti: che ella vi si nasconda con le sue
« invenzioni »... « in fondo a una soffitta o in qualche cantuccio! ».
Peraltro, le grazie abbondavano. Eccoci negli anni 1558-1559. Non si tratta ancora di
visioni, ma di una particolare presenza di Dio, di Gesù Cristo (Vita XXVII, 4, p. 233).
Parole interiori, sempre udibili, anche « se ci tappiamo le orecchie ». Non c'è volere e
non volere che tenga. Il Signore èpadrone di noi, punto e basta (Vita XXV, 1, p. 215s).
La vita mistica di dofia Teresa si sviluppa nella sfera dello straordinario nel momento in cui, in Spagna, la paura del
primi autodafé. L'inquisitore
protestantesimo stava diventando panico. A Valladolid avvenivano i
generale, don Fernando de Valdés, pubblicava la lista dei libri proibiti, scritti in
castigliano. Parecchi di questi erano i favoriti di Teresa. La voce familiare replicò: «
Non darti pena, perché io ti darò un libro vivente » (Vita XXVI, 5, p. 230).
« Io non riuscivo a capire che cosa quelle parole potessero significare, non avendo
ancora avuto visioni; in seguito, di lì a pochissimi giorni, le capii molto bene... Sua
Maestà è stato il solo libro dove ho letto le supreme verità. Benedetto sia tale libro,
che lascia impresso quello che si deve leggere e praticare, in modo che non si può
dimenticare! Chi, vedendo il Signore coperto di piaghe e afflitto da persecuzioni, non
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abbraccia le sue pene, non le ama e non le desidera? Chi, vedendo qualcosa della
gloria che dà a coloro che lo servono, non riconosce che tutto quanto possiamo fare e
patire è nulla, in attesa ditale premio? » (Vita XXVI, 5, p. 230).
« Chi dunque può vedere il Signore? ».
Ora, appunto, il giorno di s. Pietro, quel 29 giugno 1559, ecco che cosa avvenne. «
Mentre ero in orazione, vidi o, per meglio dire, sentii, perché né con gli occhi del
corpo né con quelli dell'anima vidi nulla, vicino a me Gesù Cristo... In principio fui
presa da grande spavento e non facevo che piangere, anche se poi una sola sua
rassicurante parola bastasse a lasciarmi tranquilla e lieta come al solito, senza alcun
timore. Mi sembrava che Gesù Cristo mi camminasse sempre a fianco e, poiché non
era una visione immaginaria, non vedevo in che forma, ma sentivo ben chiaramente
che stava sempre al mio lato destro e che era testimone di tutto quanto facevo » (Vita
XXVII, 2, p. 231s).
Bell'affare parlarne al padre Mvarez! Il dialogo si anima, giacché penitente e
confessore non parlano lo stesso linguaggio. « Mi domandò in che forma lo vedessi; io
gli risposi che non lo vedevo. Mi chiese allora come potessi sapere che era Cristo. Gli
dissi che non sapevo come, ma che mi era impossibile non accorgermi che egli mi era
vicino, che lo vedevo e lo sentivo chiaramente... Non facevo che portare paragoni per
farmi intendere, ma certamente, per questo genere di visioni, a mio parere, non ce n'è
alcuno che quadri bene » (Vita XXVII, 3, p. 232).
« Mi chiese, dunque, il confessore: "Chi le ha detto che era Gesù Cristo?". "Egli stesso me l'ha detto, molte volte", risposi
io, ma prima che me lo dicesse, avevo ben capito che era lui, anzi, me l'aveva detto prima ancora, quando
io non lo vedevo » (Vita XXVII, 5, p. 233).
Si vede bene di quale genere fossero i rapporti della carmelitana con il gesuita e,
soprattutto, la loro incontestabile piacevolezza.
Isabel de Jesùs, nel 1690, dà una conclusione amena a quest'episodio.
« Ritornato nella sua cella, il confessore alzò là testa e vide il Cristo, Nostro Signore.
Gli si mozzò il fiato. L'indomani, andò a trovare la suora e raccontò la sua visione.
« Ella gli disse: "Non lo creda, padre! Cristo apparirebbe a lei? Non sarebbe il Cristo!
Lo guardi bene!".
« Ma il padre le espose certi argomenti dai quali comprendeva che era il Signore
stesso.
« Teresa gli disse: "Ascolti, padre. Questa è la sua convinzione. Ma è anche quella di
coloro che la vengono a trovare?" ».
Intorno alla futura riformatrice si danno da fare santi, mezzi santi e devoti. I più grandi
rivelano i limiti dei più mediocri, e tuttavia, chi oserebbe giudicare male e disprezzare
questi ultimi?
Il genio di Bach, di Mozart non ha mai dato ombra a eccellenti musicisti.

5 - La santa e l'imperatore

Il cielo di settembre ci inondava con il suo diluvio mentre, partiti da Toledo,


camminavamo verso Yuste. Il padre Domingo Bànez mi aveva chiesto di
accompagnarlo. Il monastero dei girolimini, divenuto illustre per avere ospitato tra le
sue mura l'imperatore Carlo V, si era arricchito di una magnifica biblioteca. Il
domenicano voleva consultare alcuni rari infolio.
- Vuole venire anche lei? - mi chiese.
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Acconsentii volentieri. Mentre uscivamo dalla città, si mise a piovere. Pioveva
ancora, due giorni dopo, quando ci fermammo a Jarandilla, vicino alla casa di
Giovanni d'Austria, il figlio bastardo di Carlo.
- Davvero - esclamò Bàùez, con la tonaca e il cappuccio grondanti - il segretario
Quijada diceva bene: « Cade più pioggia in un'ora a Yuste che in una giornata a
Valladolid! ».
Salivamo lentamente l'ultimo chilometro che ci separava dal convento. Le nostre mule fumavano; gli eucalipti brillavano
al tramontar del giorno. Lasciando da parte la rampa che conduceva i cavalli agli appartamenti stessi dell'imperatore
defunto, suonammo alla bassa porta di entrata.
- È un tempo da finimondo - mormorava il padre Bànez.
Il padre aveva lì delle conoscenze di vecchia data: il padre Juan Regla. Nessuno
ignorava che Carlo, durante la sua vecchiaia, aveva trattenuto presso di sé questo
girolimino, sagace e calmo, perché lo ascoltasse spesso in confessione e lo calmasse
nei suoi tormenti.
Questo monaco stesso ci introdusse nella camera mortuaria. Il settembre del 1558 era
già molto lontano, ma il letto, la tappezzeria scura, il largo pannello di legno che si
faceva scorrere affinché il malato potesse assistere alla messa, celebrata all'altar
maggiore, tutto era rimasto come al momento della sua morte.
Il padre Bànez alzava la voce guardandomi:
- Lei si interessa alla santa Madre, senor, e mi chiedeva, il mese scorso, di spiegarle le
sue opere, in particolar modo, nel Libro della mia vita, i primi fatti mistici. Sono lieto
che in questo luogo stesso, lei possa rendersi conto del contrasto. Qui « si èspenta la
vita più potente del secolo », laggiù, in Avila, si destava un'esperienza « che non
mancherà di interessare i secoli ».
- È esatto - continuò il padre Juan Regla. - L'imperatore, il nostro re Carlo, è vissuto
qui, ne sono testimone, alla maniera di un religioso. Dopo la sua abdicazione a
Bruxelles, nel 1555, i rumori del tempo gli giungevano ormai come gridi di uccelli in
fondo a un bosco. Solo il destino della fede cattolica lo interessava. Quale risultato
concreto restava di quei quattordici anni di guerra in Germania contro i principi
luterani? Me ne parlava spesso, al di fuori della confessione. Mi rileggeva le parole
che gli scriveva il padre Francesco Borgia, suo amico: « Lasci scendere la pace nella
sua anima contemplando i bagliori dorati della pianura sotto il sole e, di sera, le cupe
nebbie purpuree della Sierra che spiccano sul cielo... Poi, ascolti il suo piccolo organo
che, dopo le sue campagne e i suoi viaggi, l'ha seguita fin qui...».
Mloggiavo in una piccola cella situata vicino al chiostro superiore. Il sole aveva finito col rischiarare
le ultime ore del giorno. Senza fine, gli eucalipti facevano dondolare le loro cime scure. Un vento
discreto, quasi andaluso, mescolava odori di pioggia e aromi di cisti. Sotto la finestra, su tre arance
dell'ultima stagione si attardava un estremo raggio di luce. Lo sgocciolio dell'acqua, il rumore delle
fontane nel chiostro sottostante, il vasto vivaio in cui l'imperatore pescava di tanto in tanto per
ammazzare il tempo, il silenzio umido, creavano il quadro più adatto per continuare la lettura di s.
Teresa.
« Le afflizioni mi venivano da ogni parte, ma con la grazia che mi faceva il Signore
riuscivo a sopportarle » (Vita XXVIII, 18, p. 251).
Quale grazia?
Dopo la visione « intellettuale » di Cristo, vengono le visioni « immaginarie », parola
coniata dalla santa per dire che vedeva veramente delle forme.
Le apparvero dapprima « le sue mani: erano di così straordinaria bellezza che io non
potrei descriverla... Di lì a pochi giorni vidi anche quel suo divino volto e credo di
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esserne rimasta completamente rapita » (Vita XXVIII, 1, p. 242). « Un giorno che
era la festa di S. Paolo, mentre stavo a messa, mi apparve tutta la sacratissima umanità
di Cristo, in quell'aspetto sotto il quale lo si suole rappresentare risuscitato » (Vita
XXVIII, 3, p. 243).
Benché le visioni « intellettuali » fossero più perfette e presentassero minori rischi di
ingannarsi, Teresa se ne rallegrava. « Desideravo di poter vedere con gli occhi del
corpo, affinché il confessore non mi dicesse che era un'illusione » (Vita XXVIII, 4, p.
243).
« Se è un'immagine, è un'immagine viva, non un uomo morto, ma Cristo vivo, il quale
rivela che è uomo e Dio... Oh, Gesù mio, come far comprendere la maestà con cui vi
manifestate! » (Vita XXVIII, 8, p. 245s).
Come convincere il confessore e la sua cricca? Egli vedeva il diavolo dappertutto e
tormentava la povera donna.
« Temevo di non poter trovare più alcuno da cui confessarmi e che, anzi, tutti
dovessero fuggirmi, e non facevo che piangere »(Vita XXVIII, 14, p. 250).
Un giorno, essendo assente il padre Alvarez, Teresa si confessò da un altro padre del
collegio, forse il padre Hernandàlvarez, amico di Salcedo e simile a lui per ristrettezza
di vedute.
In modo perentorio, il padre dichiarò che queste visioni erano opera del demonio. «
Quando avessi qualche visione, mi comandò di farmi sempre il segno della croce » e
di « dar higas », gesto molto volgare che consiste nel porre il pollice tra l'indice e il
medio a pugno chiuso (Vita XXIX, 5, p. 254). Isabel de Santo Domingo precisa che il
sacerdote le ordinò di « accogliere la visione con sputi ».
Povera Teresa!
« Il dover fare un gesto di spregio mi procurava un'enorme pena quando mi appariva la
visione del Signore, perché nel vederlo lì, dinanzi a me, neanche se mi avessero fatta a
pezzi, avrei potuto credere che fosse il demonio... Mi ricordavo degli oltraggi a lui
recati dagli Ebrei e lo supplicavo di perdonarmi, perché lo facevo per obbedire a chi lo
rappresentava, e di non attribuirmelo a colpa, perché me lo comandavano i ministri da
lui posti nella sua Chiesa. Mi rispondeva di non preoccuparmene, che facevo bene a
obbedire e che egli avrebbe fatto in modo che si vedesse la verità. Quando mi tolsero
l'orazione, mi parve che fosse sdegnato; mi ingiunse di dire loro che quella era una
tirannia » (Vita XXIX, 6, p. 254s).
Lungi dal gemere e lamentarsi, Teresa avanza coraggiosamente su questa via stretta.
L'amore di Dio aumenta in lei: « Non siamo noi a porre la legna, ma sembra che,
acceso già il fuoco, subito vi siamo gettati dentro per bruciare ».
« Non si può magnificare né dire il modo con cui Dio ferisce l'anima e l'enorme
sofferenza che produce, perché la trae fuori di sé... L'anima vede chiaramente di non
aver fatto nulla per attirarsi questo amore, ma che dal sommo amore, di cui Dio la
privilegia, sembra sia caduta a un tratto su di lei quella scintilla che la fa ardere tutta »
(Vita XXIX, 10-11, p. 257).
La visione del dardo infiammato con il quale un angelo le feriva il cuore segna un apice e si ripete diverse volte. Dona
Maria Pinel, suora dell'Incarnazione che, circa ottant'anni dopo la morte di S. Teresa, ha raccontato alcuni ricordi molto
precisi, mai pubblicati per intero fino ad oggi, afferma che questo fatto si ripeté diverse volte nel coro superiore. Anche
Ana Maria de Jesùs ne fu testimone quando la Madre era priora all'Incarnazione (1571 - 1574).
Dona Guiomar sa che tale grazia fu concessa a Teresa in casa sua.
Rileggevo il mirabile testo dell'autobiografia trascritto sul marmo, nella cappella della
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Trasverberazione, all'Incarnazione (Vita XXIX, 13, p. 258s).
Ma amo molto la concisione con la quale Teresa riferisce questa grazia in un
resoconto spirituale: « È una specie di ferita, in cui all'anima sembra quasi che le si
trafigga il cuore e tutta se stessa con una freccia » (Relazioni V, 17, p. 464).
Chi dubitasse dell'esperienza così descritta, del suo alto simbolismo, dovrebbe insistere sulla frase finale: « È un idillio
così soave quello che si svolge tra l'anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io
mento » (Vita XXIX, 13, p. 259).

Con le sue ali umide e cupe, la notte di settembre avvolgeva la Sierra, la foresta e
Yuste.
Perché, secondo il suggerimento del padre Bànez, associai spontaneamente il ricordo
dell'imperatore e quello della santa? Carlo V si spense qui il 21 di questo mese. Che
cosa restava del gran signore, nato nelle Fiandre, là dove gli alberi sono agitati dal
vento di mare, dove l'ala del mulino ferma la caravella delle nuvole? Moribondo,
anch'egli si dissolveva, come nel paese natio si sfilacciano le nubi.
Con lui, il suo impero su cui « non tramontava mai il sole » tremava sulle sue basi.
Verso le due e mezzo di notte, le sue dita lasciarono cadere il crocifisso che
l'imperatrice Isabella aveva tenuto a Toledo durante la sua agonia, e con voce forte
gridò: « Ya voy, senor... ay Jesùs! », « Sì, me ne vado, Signore... ah Gesù! ».
Verso questo stesso Gesù, e Gesù risuscitato, convergeva tutta l'esperienza di colei che
ben presto sarebbe stata chiamata la « Santa ». Due esseri così diversi per gusti,
situazioni, ambizioni, in una parola per tutto il genere di vita, e tuttavia uno stesso
Signore, perché l'imperatore fiammingo - el Flamenco - malgrado le miserie della sua
condotta, era un cristiano sincero.
La donna matura, agguerrita dalle difficoltà, che presto sarebbe stata chiamata
riformatrice e fondatrice, si levava sul fronte di combattimento dove si affrontavano i
credenti; non guidava né principi, né vagabondi, né coalizioni politiche, né eserciti.
Solo l'amore di Cristo, da cui il suo cuore era adesso trafitto, sarebbe divenuto la sua
unica arma insieme a quel grido di guerra che io sentivo nella notte di Yuste come
un'eco al rantolo dell'imperatore morente:
« Signore, morire o patire; non vi chiedo altro per me » (Vita XL, 20, p. 384).

4
UN PICCOLO ANGOLO DI DIO

Eccoci arrivati agli anni chiave: 1560-1562. Il primo convento riformato dell'ordine
del Carmelo, San José d'Avila, viene fondato non senza fatica. La fondatrice raggiunge
l'età di quarantasette anni. Le restano vent'anni da vivere per consolidare la sua opera,
diffonderla attraverso la Spagna, mentre si rinforza non solo la sua esperienza mistica,
ma anche la conoscenza che ha acquisito, al punto che d' ora innanzi, sarà
straordinariamente eloquente sulle cose di Dio.
Non che si possa parlare di due Terese: l'una organizzatrice di una nuova vita
carmelitana, l'altra scrittrice. I due personaggi si fondono umanamente nel genio di
questa donna nella piena maturità. Dal suo incontro con Cristo, il più personale e il più
inatteso, è scaturita l'opera. Senza immaginarselo e malgrado la sua volontà di
condurre una vita più appartata, la « Madre fundadora »diventa attiva, creatrice, figlia
della Chiesa, giacché il suo dialogo interiore non la lancia su un cammino di ronda
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dove incontrerebbe soltanto se stessa, né in un circolo chiuso dove introdurrebbe
un piccolo numero di elette. Teresa entra nella problematica della Chiesa del suo
tempo. Dilaniata, dolorante, straziata, la cristianità cerca chi lavorerà per la sua
unificazione, per la sua pacificazione.
Molto meglio di Filippo Il che, pur pretendendo di fare e disfare i papi, lottando contro il concilio di Trento, si
proclamava il re « cattolico », colei che d'ora innanzi sarà chiamata la « santa Madre », con la sua riforma evangelica
supera se stessa a beneficio del Corpo di Cristo. Come una volta Francesco e Domenico, come quasi nello stesso tempo,
Ignazio de Loyola, Teresa, intimamente legata al Cristo Salvatore, vuole essere efficiente ed esclama: « Beate le persone
che vi servono con grandi opere! Se l'invidia e il desiderare d'essere simile a loro potessero valermi a qualcosa, non
resterei molto indietro alle altre nel contentarvi » (Vita XXXIX, 13, p. 369).
Nel suo puro distacco da ogni tornaconto, nella sua passione della « salvezza delle
anime », la monaca dell'Incarnazione, che sta per diventare Teresa d'Avila, apporta
alla Chiesa del XVI secolo, e alla nostra, i doni di una personalità eccezionale,
trasfigurata da un amore non meno eccezionale a Gesù Cristo.

1 - « Conquistador » di Dio

- Le assicuro, - mi dichiarò don Francisco de Salcedo - che è entrato dalla porta


dell'Adaja, quella dove siamo noi. Dona Guiomar mi aveva inviato incontro a lui.
Scendeva a piedi dal suo convento di Arenas: quasi duecento leghe di strada cattiva.
Un mulattiere mi aveva avvertito. Non era difficile riconoscerlo: alto, abbronzato e,
come scrive la santa Madre, « di così estrema magrezza che sembrava fatto di radici
d'albero » (Vita XXVII, 18, p. 240). Notai subito delle rughe profonde sulla sua fronte
e il suo aspetto da vecchio giacché, sebbene non avesse che sessantun anni, si sarebbe
detto che ne aveva settanta. Mentre risalivamo attraverso l'antico quartiere ebraico di
Avila, passando davanti alla chiesetta di San Esteban, mi chiese notizie di dona
Guiomar. Veniva a trattare con lei per una fondazione di frati ad Aldea del Palo. Molto
affabile, non parlava molto, tranne quando veniva interrogato. La traversata della città
non era facile. La gente accorreva alle porte, ai balconi delle finestre spalancate in quel
periodo dell'anno. Al mercato, bisbigliata confidenzialmente, era corsa la voce: « Fray
Pedro è sulla strada di Avila ».
- Io so - risposi - che è nativo di Alcàntara, al limite dell'Estremadura. Non è rimasto
molto tempo a Salamanca, poiché a sedici anni si fece frate minore francescano.
- E che francescano! - rincarò Salcedo. - Predicava un ritorno alla stretta osservanza
finché, nel 1558, ottenne una provincia separata, quella di San José.
- Ho come l'impressione che intorno a lui si sia creata una leggenda...
- Potrei ammetterlo - riprese Salcedo - se non ci fosse l'autorevole testimonianza della santa Madre, che aveva ascoltato
le sue confidenze: lotta eroica contro il sonno. Per quarant'anni, egli aveva dormito solo un'ora e mezzo tra notte e giorno.
Vada a Pedroso, vedrà la sua cella sotto la scala! Vi stava soltanto seduto o in ginocchio
e, per dormire qualche quarto d'ora, non aveva che una piccola trave sulla quale,
sfinito, lasciava cadere la testa. Povertà dell'abito, miseria della cella, soprattutto con i
freddi eccessivi delle Sierre. « Mangiare ogni tre giorni era per lui cosa ordinaria e,
poiché io me ne stupivo, mi disse che era molto facile per chi ne avesse preso
l'abitudine » (Vita XXVII, 17, p. 240).
- Trovo sorprendente che questo francescano si sia mostrato così poco missionario.
- All'inizio - continuò il santo cavaliere - predicava, ma una volta gli accadde di cadere in estasi proprio mentre era sul
pulpito. Da allora non vi salì più. Che vuole, sefior, dall'Estrema-dura sono partiti, a centinaia, eminenti conquistadores.
Fray Pedro d'Alcàntara aveva deliberatamente optato per un altro nuovo mondo di conquiste più aspre, di gioie più
sconosciute... « Era soggetto a grandi rapimenti e impeti di amor di Dio, dei quali io una volta fui testimone », racconta il
Libro della mia vita (Vita XXVII, 17, p. 240).
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« Il Signore si compiacque, spiega S. Teresa, di rimediare in gran parte alla mia pena - anzi, per
allora, del tutto - facendo venire in questa città il benedetto Fray Pedro d'Alcàntara » (Vita XXX, 2,
p. 260).
Tre anni prima, un gesuita dall'animo francescano, Francesco Borgia, aveva rincuorato
Teresa. Gli effetti del suo intervento si erano attenuati. Era davvero ora che un altro
personaggio di incomparabile prestigio venisse in suo aiuto.
« Appena dona Guiomar seppe dell'arrivo di Fray Pedro, affinché potessi trattare con
lui con più libertà, mi ottenne dal provinciale il permesso di stare otto giorni a casa
sua. Sia qui, sia in alcune chiese, gli parlai spesso questa prima volta del suo soggior-
no in città » (Vita XXX, 3, p. 261).
L'essenziale delle loro conversazioni è riassunto in modo mirabile dalla Madre: «
Quasi subito vidi che mi capiva per esperienza... » (Vita XXX, 4, p. 261).
Per una volta, Teresa parlava un linguaggio che l'altro poteva capire. Lo aveva imparato in un libro identico: « Sua
Maestà è stato il solo libro dove ho letto le supreme verità » (Vita XXVI, 5, p. 230).
Fray Pedro la rassicurò sulle visioni che non erano « immaginane », quelle che vedeva non « con
gli occhi del corpo » ma con « gli occhi dell'anima ». L'aiutò a definire se stessa, poiché le
mancavano le parole e le espressioni per descrivere i suoi stati spirituali.
La esortò a non affliggersi, ma a « lodare Dio ».
Doveva essere così certa che era lo spirito di Dio ad agire in lei che, a parte le verità
della fede, non poteva esserci cosa più vera né più degna d'essere creduta.
Una perfetta corrispondenza di idee e di sentimenti si stabili fra loro, una vera felicità.
« Godeva di trattare con me, perché per colui che Dio fa giungere in questo stato non
v'è piacere né consolazione pari a quella di incontrarsi con persone a cui sembra che il
Signore abbia dato l'avvio ad esso ».
Fray Pedro ebbe per Teresa grandissima compassione: « Era uno dei più grandi
tormenti di questa terra quello che aveva patito, cioè il contrasto dei buoni; le restava
ancora molto da soffrire e in questa città non c'era alcuno che la potesse capire ».
Infine, l'uomo di Dio prometteva di parlare con il suo confessore e soprattutto con
Francisco de Salcedo, quell'anima timorata che, per amore eccessivo della sua
salvezza, le faceva tanta guerra (Vita XXX, 5-6, p. 262s).
Il santo francescano la lasciò del tutto consolata e soddisfatta dopo averle
raccomandato di continuare nell'orazione con assoluta fiducia e di non dubitare che era
opera di Dio (Vita XXX, 7, p. 263).
Nel tempo della sua formazione spirituale e prima della nascita della sua opera, due santi hanno attraversato la vita di
Teresa d'Avila e vi hanno entrambi svolto un ruolo, anche se di diversa importanza. In primo luogo: Francesco Borgia,
gesuita. Fu soltanto un passaggio episodico, rapido: il tempo di due o tre colloqui. Ma il commissario della Compagnia,
della quale sarebbe presto divenùto superiore generale, era troppo lontano, troppo sopraffatto dalle preoccupazioni di un
ordine in piena espansione. Fray Pedro de Alcàntara, invece, era come a portata di mano. Nel 1560 non gli restavano che
due anni di vita. Teresa e lui promisero di « scriversi » (Vita XXX, 7, p. 263), si sarebbero rivisti. Nel momento più
critico, il figlio di s. Francesco sarebbe solennemente intervenuto presso il vescovo di Avila. Ne riparleremo. Più segre-
tamente, egli era il consigliere della riforma carmelitana. Radicalmente povero, avrebbe sostenuto la riformatrice nella
ricerca di una più totale indigenza. A San José d'Avila, si mostrano il corridoio e le celle del noviziato il cui piano e la cui
disposizione sono stati ispirati da lui.
La nudità del Carmelo deriva da Pedroso dove, nel 1557, Francesco Borgia, in viaggio
verso il Portogallo, aveva fatto visita a Fray Pedro. Quel piccolo convento del Palancar
- così angusto che ci si domanda come potessero viverci dieci frati - è il modello di un
certo stile che verrà adottato in seguito dal Carmelo riformato.
L'incontro dell'agosto del 1560 porta quindi in sé i germi di una collaborazione in profondità. « Rimanemmo d'accordo
che d'allora in poi gli avrei scritto quello che ancora mi fosse accaduto, e che ci saremmo raccomandati molto a Dio,
poiché era così grande la sua umiltà da tenere in qualche considerazione le preghiere di questa miserabile, e io ne ero
piena di confusione » (Vita XXX, 7, p. 263).
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Dopo la partenza dell'asceta, verso la fine di agosto del 1560, si può situare la visione
dell'inferno, le cui conseguenze saranno così gravi.
« Mi sembrò di trovarmi tutta sprofondata nell'inferno... Capii che il Signore voleva
farmi vedere il luogo meritato per i miei peccati » (Vita XXXII, 1, p. 286).
« Passati sei anni - siamo nel 1566 - si sente agghiacciare »; l'impressione di orrore si
ravviva come se la visione della sordida prigione perdurasse.
Sono evidenti le grazie che ne derivarono per lei e Teresa si compiace di descriverle.
No! ormai non può più temere le tribolazioni e le contraddizioni di questa vita. Eccola
pronta a soffrire tutto per Cristo, piena di riconoscenza per il dono del Signore. «
Come chiaramente avete rivelato di amarmi molto più di quel che mi amassi io! »
(Vita XXXII, 4-5, p. 288).
« Questa visione mi procurò anche una grandissima pena al pensiero delle molte anime che si dannano (specialmente
quelle dei luterani che per il battesimo erano già membri della Chiesa) e un vivo impulso di riuscir loro utile, essendo,
credo, fuor di dubbio che, per liberarne una sola da quei tremendi tormenti, sarei disposta ad affrontare mille morti assai
di buon grado » (Vita XXXII,
6, p. 288).
Il desiderio di aiutare gli altri - già lo indoviniamo - si afferma in questa monaca di
quarantacinque anni. Invece di ripiegarsi sul timore, l'amore degli uomini l'apre alla
salvezza di tutti.
Infine, il suo realismo le fa trovare la risposta a questa domanda: « Che avrebbe potuto
fare per Dio? ». No! non rincorrerà delle chimere. La prima cosa da farsi era osservare
la sua regola con la maggiore perfezione possibile. Teresa fa il voto di maggiore
perfezione, così espresso nella sua prima relazione spirituale: « Ne ho riportato una
ferma determinazione di non offendere Dio. Non c'è nulla, inoltre, ch'io ritenga di
maggior perfezione e di maggior utilità al servizio di nostro Signore, che non farei »
(Relazioni I, 9, p. 432; cfr. Vita XXXII, 9, p. 290).
Questo voto, osserva stupito il suo primo biografo, il padre de Ribera, « non l'ho mai
letto né sentito da un santo ».
Siamo all'inizio del settembre del 1560. « La casa grande e piena di comodità »
dell'Incarnazione la trattiene ancora nel suo fascino. Ma, a detta dei testimoni, la
carmelitana moltiplica le sue penitenze.
Come è possibile sopportarne tante, si chiede meravigliata dona Inés Quesada, con un
corpo così rovinato?
Chi poteva sospettare, in quei primi giorni di autunno, così piacevoli in Avila, che
stesse maturando una strana decisione? Nel monastero era tutto un fruscio di mille
andirivieni: si usciva, si rientrava, e la miseria abbaiava alle porte per far trovare un
bene-fattore capace di nutrire quelle monache affamate.
Provatevi dunque a condurre una vita seria in mezzo a quel chiasso e a quella folla! «
Non era dunque possibile fondare un piccolo angolo di Dio "dove egli sarebbe stato
ben servito"? Fray Pedro non c'era forse riuscito? E se c'è riuscito lui, perché non
potrei riuscirci io? » pensava Teresa.
La volontà dj Dio non avrebbe tardato a farsi conoscere.

2 - « Aiuterò un'opera così santa »

Tale fu l'entusiastica risposta di dofia Guiomar quando fu informata dell'intenzione di fondare un convento di carmelitane
più austero e più piccolo di quello dell'Incarnazione, « alla maniera delle francescane scalze di Valladolid », aveva
spiegato Teresa. E subito la sua amica aveva promesso aiuti pecuniari.
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È bene studiare le circostanze: la politica, gli uomini e il Cielo vi si mescolano in
maniera strana.
Dal punto di vista politico, la pace di Chateau-Cambrésis, nel 1559, suggella la
riconciliazione franco-spagnola. Vedovo per la seconda volta, il re Filippo Il sposa la
figlia di Enrico Il: Elisabetta di Francia, soprannominata « Isabella della Pace ».
Celebrato per procura a Parigi, ratificato a Guadalajara il 4 gennaio 1560, il
matrimonio permette agli sposi reali di stabilirsi a Toledo. Dietro a questa tregua
improvvisa e a questa unione c'è una questione: la questione religiosa. In Fiandra e in
Francia, il calvinismo progredisce. All'inizio dell'anno 1560, il re cattolico lancia un
appello ai religiosi: « Sapete perfettamente in quale stato si trovano gli affari della
nostra religione cristiana, particolarmente in Francia... ». E Filippo chiede preghiere,
penitenze, processioni...
« Radicata nella sua fede, nota Jacques Pinglé, come potrebbe la Spagna restare
indifferente agli assalti che si moltiplicano ovunque contro il cattolicesimo? La sua
missione storica si rinnova una volta ancora. Inquadrata dal Sant'Uffizio, essa si
considera mobilitata per la cristianità »
Questi avvenimenti gettano una certa luce sulle parole della santa Madre: « In questo
tempo mi giunse notizia dei danni e delle stragi che avevano fatto in Francia i
luterani... Ne provai gran dolore... Mi sembrava che avrei dato mille volte la vita per
salvare una fra le molte anime che là si perdevano. Ma, vedendomi donna e dappoco, e
impossibilitata a riuscire di qualche utilità in ciò che avrei voluto a servizio del
Signore, poiché tutta la mia ansia era, come lo è tuttora, che avendo egli tanti nemici e
tanto pochi amici, che questi almeno fossero buoni amici, decisi di fare quel pochino
che dipendeva da me, cioè seguire i precetti evangelici con tutta la perfezione
possibile » (Cammino I, 2, p. 23s).
Questa trama storica costituisce dunque lo sfondo degli avvenimenti che preludono
alla riforma del Carmelo.
All'Incarnazione si usava ricevere nella propria cella nipoti e cugine a cui veniva così data una certa educazione. Maria
de Ocampo, la futura Mana Bautista, priora di Valladolid, ha raccontato questa celebre scena del settembre del 1560.
Nell'appartamento della zia Teresa si era spontaneamente costituito un gruppo.
Monache e ragazze conversavano piacevolmente, sedute su cuscini e su bassi sgabelli.
Lasciare quel monastero troppo vasto e chiassoso; fondarne un altro: piccolo, povero,
fedele alla regola primitiva del Carmelo; ritrovare lo spirito del deserto in cui vivevano
i primi padri eremiti: come agli inizi dell'Ordine.
E ciascuna esponeva il suo progetto, la sua idea. Le francescane scalze lo avevano
realizzato. Se ci sono riuscite loro, perché non ci dovremmo riuscire noi?...
Ma, fondare senza denaro, è possibile?...
« Vi darò mille ducati dalla mia dote », decise Maffa.
In quel mentre sopraggiunse dona Guiomar. Dato che aiutava Fray Pedro a istituire
una fondazione alcantarina sulle sue terre, perché non avrebbe sostenuto un'opera così
santa?
Teresa meditava... « La casa era grande e piena di comodità... era di suo completo
gusto, e vi aveva una cella molto adatta a lei » (Vita XXXII, 9-10, p. 290s), vicina alla
chiesa del monastero, ben esposta a levante, spaziosa e tranquilla. Avrebbe avuto il
coraggio di abbandonare quegli agi per l'avventura? quale avventura?
Al cader della sera un resto di luce si posava tra i rami di un boschetto di pioppi. La
chiesa di San Vicente si profilava in lontananza, mentre, al chiarore di una lampada,
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suore e laiche si accaloravàno e, cospiratrici improvvisate, complottavano.
« Raccomandiamo la cosa a Dio », concludeva Teresa. Tutte si trovarono d'accordo
disperdendosi nei chiostri.
La futura fondatrice pensava forse di fermarsi a questo punto, ma Dio vegliava.
« Un giorno, dopo la comunione, Sua Maestà mi ordinò con decisione di far quanto mi
era possibile per attuare tale intento, promettendomi che il monastero si sarebbe certo
fondato, e che in esso egli avrebbe trovato motivo di compiacimento. Doveva essere
dedicato a S. Giuseppe, che sarebbe stato di guardia a una porta; nostra Signora
avrebbe vegliato sull'altra, ed egli, Gesù Cristo, sarebbe stato con noi » (Vita XXXII,
11, p. 291).
Erano queste delle parole interiori. Impossibile non sentirle, impossibile resistere loro. « Colui che può tutto, vuole che ci
rendiamo conto di dover fare la sua volontà, mostrandosi così veramente padrone di noi » (Vita XXV, 1, p. 216).
Reticenze e obiezioni, paura dei travagli e delle complicazioni: niente da fare. L'ispiratore del progetto dibatteva gli
argomenti, respingeva le ragioni contrarie, placava le ripugnanze. Bisognava parlarne subito al confessore.
« Gli misi per iscritto tutto quello che mi era avvenuto » (Vita XXXII, 12, p. 292).
« Ancora un'altra storia », pensò il padre Baltasar Alvarez. Ma la faccenda usciva dal
foro interno per rientrare nella sfera di competenza del provinciale dei carmelitani, P.
Angel de Salazar.
Da persona astuta, Teresa incaricò doria Guiomar di occuparsi dell'impresa. Ricca e
semplice laica, avrebbe avuto maggior influenza di quella monaca inquietante che non
la finiva di mettere nell'imbarazzo chi l'avvicinava. Soprattutto, non una parola delle
visioni al superiore!
Frattanto, venne informato Fray Pedro il quale, con assoluta serenità, consigliò di non
abbandonare l'impresa e su tutto diede il suo parere (Vita XXXII, 13, p. 292).
Il provinciale vedeva la cosa di buon occhio. Doria Guiomar era una gran signora,
aveva due figlie all'Incarnazione. Come opporle un rifiuto senza alienarsi la buona
società? Inoltre, aggiunge Teresa, « egli amava la perfezione religiosa e aderì volen-
tieri all'idea » (Vita XXXII, 13, p. 292).
Ma, provatevi a mantenere il segreto in Avila su un'impresa di tale importanza! La
notizia cominciava a diffondersi. Che risate! Ma come, doria Teresa de Ahumada non
si trovava bene nel suo monastero? Aveva li tutto quello che poteva desiderare: amici,
la libertà, il benessere e fra poco, tenuto conto della sua età, del suo nome, delle sue
qualità, il priorato. In quanto alla sua amica, doria Guiomar, la persecuzione si
mostrava ancora più accanita. Tutto si coalizzava contro di lei. Vedova, ricca e devota
per giunta, era davvero troppo! (cfr. Vita XXXII, 14, p. 292s).
Teresa, sempre desiderosa di essere appoggiata da persone sapienti e autorevoli, scriveva a S. Francesco Borgia, a S.
Luigi Bertrando. Da Valenza, questi rispondeva in maniera profetica: « L'assicuro che prima di cinquant'anni il suo
ordiiìe sarà uno dei più illustri della Chiesa di Dio » (cfr. Opere p. 379, nota 1).
In effetti, mezzo secolo più tardi, nel 1610, l'Italia, la Francia, le Fiandre, la Polonia, la Persia, le Indie orientali e
occidentali vedevano attecchire la riforma del Carmelo.
Avila digrignava i denti, Dio approvava. « Sua Maestà cominciò a consolarmi e a
incoraggiarmi. Mi disse che da ciò potevo vedere quanto avessero sofferto i santi che
avevano fondato ordini religiosi e che mi attendevano ben più gravi persecuzioni di
quelle ch'io potessi immaginare » (Vita XXXII, 14, p. 293).
Di fronte a questa prima levata di scudi, il provinciale cedeva: « Le vostre rendite non bastano per vivere. Il vostro
progetto solleva troppe opposizioni... Rifiuto l'autorizzazione ».
A ovest della città s'innalza il convento domenicano di Santo Tomàs. In quel tempo vi
soggiornava un « religioso molto dotto e gran servo di Dio », il padre Pedro Ibàùez.
Già informato dalla voce pubblica, avvertito da un gentiluomo di non lasciarsi in-
fluenzare da quelle donne, accolse Teresa e dona Guiomar e chiese otto giorni di
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riflessione. « Ci domandò se eravamo disposte a fare quanto ci avrebbe
comunicato. Gli risposi si » (Vita XXXII, 16, p. 294).
Il parere del predicatore fu positivo. Il progetto gli pareva equilibrato e santo e sarebbe
stato a gran servizio di Dio.
- Non vi rinunciate, anzi affrettatevi a realizzarlo. Le rendite sono scarse, ma, in questa
materia, bisogna confidare nella Provvidenza.
Dopo un istante di silenzio, presentendo il peggio, aggiunse:
- Mandate da me chiunque avrà da dire qualcosa in contrano. Gli saprò rispondere.
In effetti, il mondo dei conventi si agitava, spettegolava, minacciava. Il confessore
gesuita e quelli del suo ordine si mostravano ostili. Ancora una stravaganza di quella
donna! Insediati da poco tempo nella città, i gesuiti temevano più di tutti gli altri lo
scatenarsi delle lingue che, accusando la carmelitana, se la sarebbero presa con il suo
direttore di coscienza.
Ma Teresa conservava una calma perfetta. Queste parole sono molto eloquenti per
farci comprendere il suo grado di maturità spirituale:
« Se il padre Ibànez mi avesse detto che non avremmo potuto attuare il nostro
proposito senza offendere Dio e tradire la nostra coscienza, credo che subito avrei
abbandonato l'idea e avrei cercato altri mezzi » (Vita XXXII, 17, p. 294).
Ma il domenicano era favorevole. Ora, correva voce che ella avesse avuto visioni,
rivelazioni. In quei tempi di sospetto, era una catastrofe! Nel solo anno 1559, tre
autodafé spettacolari da Valladolid a Siviglia avevano bruciato eretici, innovatori,
negromanti, falsi mistici. Erano sospetti la dottrina, i miracoli, l'orazione. Il diavolo si
nascondeva dappertutto; l'Inquisizione e il Consiglio reale montavano la guardia per
scovarlo.
La suora andò a trovare il suo nuovo alleato, il padre Ibànez. Gli raccontò tutto della
sua vita interiore. Per lui, come sembra certo, scrisse il suo primo resoconto spirituale.
« Il modo in cui procedo attualmente nell'orazione è il seguente » (Relazioni I, 1, p.
429).
L'approvazione venne data senza reticenze. Nulla nella vita interiore di Teresa era
contrario alla Sacra Scrittura.
Sin da allora, l'esempio della Madre diveniva contagioso. Il padre Ibànez stesso, per quanto teologo fosse, si dedicò ancor
più alla vita interiore e si ritirò per due anni in un monastero solitario: Trianos.
Il « santo gentiluomo » accorreva, finalmente convinto; così pure Gaspar Daza. La
casa, senza dubbio piccola, veniva comprata (Vita XXXII, 18, p. 295).
Dopo la politica e l'imbroglio umano, il Cielo trionfava!
A poche leghe da Avila, guardavo l'Adaja fuggire sull'altopiano. La primavera
freddolosa faceva dondolare gli steli dell'orzo, umile presentimento dell'estate. Qui, un
ciuffo di fiordalisi; lassù, un grido di uccello appeso a una nuvola; ai miei piedi,
l'acqua ancora frammista a neve, scorreva irresistibile. Nulla arresta lo slancio della
natura quando si afferma la stagione novella...
Chi avrebbe ormai ostacolato quell'aumento di linfa, quella esplosione di vita, quella
rinascita evangelica?

3 - Intermezzo toledano

Il salone di Francisco de Salcedo mi accoglieva in quella sera della festa dell'epifania


che, in Spagna, conclude le festività di natale.
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Soffitto basso, alcuni arazzi ai muri, sedie di cuoio di Cordova.
Catalina, la criada - la domestica -' sparecchiava i resti del sommario pasto.
- Si avvicini al braciere - mi disse il « santo gentiluomo ».
- Stamattina, un valletto giunto da Fontiveros mi ha annunciato che laggiù nevicava.
Prima di mezzanotte, Avila sarà sepolta sotto la neve.
Con gesto meccanico, prese in un vasetto di ceramica alcuni ciuffi di rosmarino secco
e li gettò sui carboni che si riattizzarono con una fiamma breve e azzurra.
- Ah! - continuò, come parlando tra sé - lei mi parlava ieri dei fatti che precedettero la fondazione di San José; ebbene,
bisogna che le racconti la nostra partenza da Toledo, proprio all'inizio di quel gennaio del 1562. Più di venti leghe di
strada cattiva, nel periodo più rude dell'inverno. A dir vero, le cose andavano troppo bene. Dall'aprile del 1561 il padre
Gaspar di Toledo era rettore dei gesuiti. « Molto dedito alle cose spirituali, dotato di grande energia, d'ingegno e di buona
dottrina », scrive Teresa (Vita XXXIII, 7, p. 300). Il suo predecessore, uomo di mente limitata e bizzarro, costringeva il
confessore della Madre a diffidare di lei. Il padre Baltasar Alvarez, « con le mani legate », ne soffriva e faceva soffrire
(Vita XXXIII, 7, p. 300). Il padre Gaspar, trentunenne, sembrava dotato di un grande dono di discernimento. Al padre
Alvarez consigliò di « lasciare operare lo spirito del Signore » nella carmelitana da lui diretta. Egli stesso ascoltò la suora
in confessione; la capì. Possedeva l'arte di « far correre, non andare passo passo » (Vita XXXIII, 9, p. 301). Non vi era
alcun dubbio: bisognava occuparsi della fondazione di San José. Lo Spirito di Dio guidava quella donna, ma conveniva
prendere certe precauzioni per non divulgare la faccenda. Già l'annuncio di una nuova casa screditava doùa Teresa nel
suo monastero. Ah, perché non destinava le rendite che le venivano offerte a sostentare quel chiostro affamato! Alcune
arrivavano persino a minacciare di imprigionarla. E poi, se la prendevano con quella signora che l'assisteva, quella
vedova nebulosa che avrebbe fatto meglio ad amministrare i suoi beni invece di bazzicare nelle chiese e nei conventi.
Quella dona Guiomar era un tale scandalo pubblico che un prete rifiutò di assolverla, una mattina di natale del 1560. Ora
che le cose andavano per il meglio, bisognava comprare in fretta una casa! La Madre fece venire sua sorella Juana e suo
cognato Juan de Ovalle. Erano loro che organizzavano i lavori. Sotto questo prestanome, tutto si svolgeva senza storie,
nella clandestinità. Evidentemente, l'allogio non era un palazzo!
Il mio interlocutore continuò:
- Feci notare alla Madre che tutto mi sembrava molto piccolo, troppo piccolo per fare
un monastero. Riuscii ad impressionarla. Il Signore, contrariato, le disse - quante
volte, più tardi, nel corso delle sue fondazioni, Teresa mi ha ripetuto queste parole!
-: « Ti ho già detto di entrare come puoi... Oh, cupidigia del genere umano, che hai
sempre paura ti debba mancare la terra sotto i piedi! Quante volte io ho dormito a ciel
sereno per non avere dove mettermi!... ». « Alla buona, senza ricercatezza... »:
ecco formulata la regola delle costruzioni carmelitane; quello che sarebbe diventato il
monastero di San José doveva dare il tono (Vita XXXIII, 12, p. 303). Non le parlo
delle preoccupazioni per ottenere permessi e brevi da Roma. Fray Pedro si dimostrava
un buon consigliere. Essendosi già destreggiato in mezzo ai cavilli romani, dette
direttive precise e suggerì a chi rivolgersi per avere un appoggio, in particolare a
Francesco Borgia. Anche da questo punto di vista tutto andava per il meglio. Frattanto
la Madre, in una celebre visione del 15 agosto 1561, nella chiesa dei domenicani,
riceveva da Nostra Signora il consiglio di affidare il suo monastero non ai carmelitani,
ma di darne la giurisdizione al vescovo. « Allora io non lo conoscevo e non sapevo
ancora quale superiore egli fosse. Il Signore volle che fosse così buono da appoggiare
questa casa » (Vita XXXIII, 16, p. 305).
- In mezzo a tanta euforia - soggiunsi - a natale del 1561, se ben ricordo, entrò in
scena il provinciale dei carmelitani.
- Proprio così - rispose don Francesco attizzando il braciere. - Nella notte stessa di
natale, arrivò un ordine del padre Angel de Salazar. Dona Teresa doveva partire
all'istante per Toledo.
- Se ho ben afferrato il nocciolo della questione, qualche grande di Spagna ci aveva
ficcato il naso.
- Naturalmente. Arias Pardo de Saavedra, maresciallo di Castiglia e nipote del cardinale di
Toledo, Pardo de Tavera, aveva sposato, nel 1547, la sorella del duca de Medinaceli, dofia Luisa de
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la Cerda. Dopo quattordici anni di matrimonio, morì all'improvviso, lasciando la vedova
desolata. A dofla Luisa, scrive la Madre, « giunse notizia di questa povera peccatrice e il Signore
volle che gliene parlassero bene » (Vita XXXIV, 1, p. 306). Capisce, seflor, già a Toledo si
mormorava che ad Avila c'era una santa. La nostra gran dama volle averla subito al suo fianco. Ora,
le domando: che cosa poteva fare il provinciale, se non ottemperare ai suoi desideri come se fossero
ordini?
- La partenza, immagino, causò non poca angoscia.
- Si, ma anche in tale circostanza il Signore intervenne, appoggiato dal rettore dei
gesuiti. Teresa non doveva porre indugio ad eseguire questo comando. Aspettando
l'arrivo del breve romano, non poteva capitare nulla di meglio alla Madre e alla sua
opera. « Mi dava gran consolazione sapere che nella città dove andavo, esisteva una
casa della Compagnia di Gesù, e mi pareva, col sottomettermi a ciò che essi mi
ordinassero, come facevo qui, di poter essere alquanto sicura » (Vita XXXIV, 3, p.
307). Accompagnati da Juan de Ovalle, suo cognato, e da Juana Suàrez, uscimmo da
Avila attraverso strade coperte di neve. Dofla Luisa aveva inviato dei carri coperti, ma
le mule slittavano sulle lastre di ghiaccio. A San Martin de Valdeiglesias, credetti che
non ci sarebbe stato possibile andare oltre. L'aria si raggelava sulle narici delle bestie.
Talvolta bisognava sgombrare i cumuli di neve con la pala. Quando varcammo la
porta di Cambròn, eravamo alla vigilia dell'epifania. Tutta Toledo suonava a festa; ma
inerpicarsi fino al palazzo di dofla Luisa, sul selciato gelato e nel dedalo delle strade,
era un'altra storia! Finalmente, sollevammo il battente della porta principale. C'era da
credere che una buona stella ci avesse guida-ti... come i Magi.
- Ho letto che la Madre rimase a Toledo fino al mese di giugno seguente e ho ben
motivo di credere che questo soggiorno fu ampiamente occupato.
- ... e benefico - continuò Salcedo. - Non le parlo dell'amicizia che nacque ben
presto fra le due donne. Quando la Madre scrive: « La signora prese a volermi un gran
bene », non esagera affatto (Vita XXXIV, 3, p. 308). Lei sa quanto me come simili
appoggi presso i grandi le saranno utili per le sue future fondaziom. Femminilità,
abilità, santità, libertà verso tutto e verso tutte: la carmelitana si muoveva a suo agio
nell'universo pieno di scogli dell'aristocrazia toledana.
Con tatto squisito, perfettamente al corrente delle sottigliezze dell'etichetta, la Madre si provò a
cambiare l'atmosfera di quella vasta dimora. « Tutta la casa, attesta Maria de San José, che aveva
allora quattordici anni, si mise a confessarsi dai padri della Compagnia di Gesù, cosa rara fino ad
allora. E tutti a frequentare i sacramenti e a praticare le elemosine ».
Certo, la Madre soffriva per l'eccesso di lusso, per le comodità, per gli intrighi. «
Poteva estasiarsi degli agi in cui viveva » (Vita XXXIV, 5, p. 309), ma il Signore, fra
le altre grazie, l'illuminò singolarmente su questo punto.
« In quel tempo (era la fine di febbraio del 1561), in seguito alle mie preghiere, il
santo Fray Pedro d'Alcàntara che questa signora non aveva mai visto, grazie al
Signore, venne in casa sua »(Vita XXXV, 5, p. 319).
Coperto di stracci, a piedi nudi, esausto, si può immaginare quale impressione fece
l'asceta, spuntando in uno scenario di marmi e di arazzi, vicino alla chiesa di San
Vicente. Il francescano si guadagnò l'amicizia di don Juan, uno dei figli di dofla Luisa,
dodicenne, e soprattutto diede alla Madre consigli precisi perché non mitigasse per
nessun motivo il rigore della povertà nella sua futura fondazione (Vita XXXV, 5, p.
319).

Don Francisco parlava con animazione quando Catalina apparve e, ravvivando la


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lampada e il braciere, esclamò:
- Se vostra grazia vuole ascoltarmi, entro un'ora saràimpossibile camminare in
Avila... La neve cade come non mai. Non so come il signore potrà tornare a casa.
Don Francisco, tutto infervorato nel suo racconto, rispose:
- Dica a Salvador di preparare la lanterna. Riaccompagnerà il nostro amico
passando dalla via Santa Maria della Grazia: è il percorso migliore per poter andare
avanti...
Poi, volgendosi verso di me:
- Vede il fascino dell'inverno in Castiglia? Eccoci coperti di neve fino alla domenica
delle palme...
Per tornare alFintermezzo toledano - dissi - non vi fu un'altra celebre visita al
palazzo di dofla Luisa de la Cerda?
- Proprio così. Verso la settimana santa del 1562, una povera bussava alla porta del palazzo.
Aveva una quarantina d'anni, era scalza, vestita di stracci. Portava una lettera del padre Gaspar de
Salazar, gesuita, e veniva direttamente dalla corte di Madrid. A occhi bassi, chiedeva della « santa di
Avila ». Il padre le aveva raccomandato di parlare soltanto con la carmelitana. La beghina si
chiamava Maria de Jesùs Yepes e abitava a Granata. Rimasta vedova giovanissima, entrò fra le
carmelitane, ne usci per ordine della Vergine e, a piedi, con un gruppo di francescane, andò a Roma.
Il papa si chinò con attenzione su quel viso energico. La Chiesa ha sempre ascoltato i folli di Dio
quando sono testimoni della sincerità del Vangelo. Dalla città santa, Maria riportava autorizzazioni e
convinzioni. « Nei quindici giorni che rimase con me, concertammo come fondare questi monasteri
», spiega la Madre (Vita XXXV, 2, p. 317). Tuttavia, la venuta di questa beghina ebbe conseguenze
inaspettate. Maria voleva fondare un monastero senza rendite. Teresa sapeva quanto fosse gravoso
vivere senza denaro. « Avevo visto alcuni monasteri poveri non molto raccolti, senza riflettere che il
fatto di non esser raccolti era la causa della loro povertà e non la povertà causa di distrazione »(Vita
XXXV, 2, p. 318). Alla larga dai confessori e dai teologi! Anche dal santo padre Ibaflez « che le
scrisse due fogli pieni di confutazioni e di ragioni teologiche » (Vita XXXV, 4, p. 319). Lei conosce
la conclusione di questa visita non prevista: « Vedendo il Signore sulla croce così povero e nudo, non
potevo sopportare il pensiero di essere ricca » (Vita XXXV, 3, p. 318). Non è strano che, in questa
città di Toledo in cui il nonno, il ricco mercante converso aveva sfoggiato la sua opulenza, proprio
nel fasto del palazzo di una delle più grandi dame di Spagna, Teresa de Jesùs decida di « seguire i
consigli di Cristo, il quale le aveva già dato un vivo desiderio di povertà » (Vita XXXV, 2, p. 318)?
Mentre don Francisco agitava le mani in un gesto che gli era abituale quando voleva
esprimere la sua soddisfazione, Salvador, il domestico, bussò alla porta.
Uscimmo nella città sommersa sotto la neve: solenne nudità della notte d'inverno.
L'uomo batteva il suolo con la sua spada da caccia.
- Con un tempo simile - mormorò - è meglio andare armati. Ieri la sentinella ha
ucciso un lupo affamato, alla porta di Mosen Rubi!
Passando davanti al « Santo Cristo de la Luz » ai cui piedi si consumavano alcuni ceri, ripetei fra me
e me le parole della Madre: « Mirando a Cristo en la cruz tàn pobre y desnudo, no podia poner a
paciencia ser rica », « Vedendo il Signore sulla croce così povero e nudo, non potevo sopportare il
pensiero di essere ricca »(Vita XXXV, 3, p. 318).

4 - Assetto di combattimento

Con il naso per aria, il Maestro Daza e io guardavamo la partenza delle cicogne dal
campanile del convento di San José.
- Se ne vanno sempre prima della festa di s. Lorenzo - mi disse, con l'aria di chi la
sa lunga.
Battendo sonoramente il becco, descrivevano un cerchio perfetto sul cielo smaltato di
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Avila, questi grandi uccelli, familiari in Castiglia, abbandonavano la Spagna per
l'Africa e ci lasciavano meditabondi sul selciato de « la calle de las Madres »...
Quante volte, in venti anni, l'ho percorsa, in tutti i sensi, questa strada che sale, che
gira, pulita come una peseta nuova! Sta-mattina, ci sono venuto con Gaspar Daza « al
amanecer » - allo spuntar del giorno - perché mi racconti le ultime peripezie della
fondazione di San José.
Il Maestro Daza è preciso, conciso. Non fa mai digressioni inutili; sottolinea le sue
frasi con un « bene » professorale, come se doesse a se stesso un eccellente voto. La
sua memoria non vacilla mai; non si perde in vani discorsi né aggiunge una parola di
troppo. È un grande ammiratore della Madre.
- Pensi dunque, amico mio, proprio io ho celebrato qui, all'alba, come oggi, la prima messa in
questa santa casa. Era il lunedì 24 agosto, festa dell'apostolo 5. Bartolomeo, dell'anno 1562. Bene...
Ma non anticipiamo... Torniamo a Toledo da dove la Madre parte alla fine di giugnò del 1562. Un
avvertimento del Signore la riempiva di perplessità: « Non dovevo assolutamente tralasciare di
partire, perché, se desideravo la croce, là se ne stava preparando una buona per me » (Vita XXXV, 8,
p. 320). Temeva forse di trovarsi all'Incarnazione « nel trambusto delle elezioni »(Vita XXXV, 8, p.
320)? Grazie a Dio, non se ne fece nulla. 1110 agosto, veniva eletta dofla Maria Cimbròn. In altro
campo, il suo, tutto andava per il meglio. La sera stessa del suo ritorno, ecco giungere anche
l'autorizzazione per il monastero e il breve da Roma (Vita XXXVI, 1, p. 325). Era firmato in data 7
febbraio 1562 dal cardinale Ranuccio, gran penitenziere, nipote di Paolo III, giovane prelato di
appena trentatré anni, uomo di valore a cui Pio IV ne aveva affidato la redazione. Il testo latino, su
pergamena, autorizzava « dofla Aldonza de Guzmàn e dona Guiomar de Ulba, nobili signore,
vedove, vicine in Avila », a fondare un monastero del Carmelo sotto la giurisdizione del vescovo di
Avila. L'autorizzazione romana sarebbe potuta cadere in un vuoto di competenze se la Provvidenza
non avesse disposto le cose in modo mirabile.
Fray Pedro si trovava in Avila, in casa del suo amico don Juan Velàzquez Dàvila. A
due mesi dalla sua morte, il francescano era costretto a rimanere a letto. Subito, scrive
una domanda al vescovo perché permetta la nuova fondazione. Don Alvaro de
Mendoza era un gran signore. Figlio di conte, vescovo di Avila da due anni, molto
spesso assente dalla sua città episcopale, nota Ypes, accolse freddamente i latori del
messaggio, fra i quali c'ero io, Gaspar Daza, con Gonzalo de Aranda; e, senza
attendere oltre, si mise in viaggio verso la sua residenza estiva, a Tiemblo, nella Sierra
de Gredos.
- Bene - dichiarò Fray Pedro... Febbricitante, esangue, si fece issare su un 'asina
mansueta e, sotto l'implacabile sole di agosto, attraverso quindici leghe di strade
impraticabili, raggiunse la casa di campagna di sua eccellenza. Irriducibile, il vescovo
protestava:
- Ancora un altro convento in una città in cui già pullulano! in un luogo dove non ci
sono che pietre per nutrirli! Non voglio saperne in alcun modo.
Il Maestro Daza proseguì:
- Scomparso il sant'uomo, con grande meraviglia della sua servitù, don Alvaro decise improvvisamente di rientrare ad
Avila per conoscere quella famosa dona Teresa de Cepeda di cui gli dicevano mirabilia. Al suo ritorno a Tiemblo, i suoi
familiari trovarono il vescovo cambiato. Senza indugi, egli accordava il permesso. Ma il futuro convento era lungi
dall'essere finito. Tutta la pia « giunta » dei Salcedo, Juliàn de Avila, Gonzalo de Aranda, insieme al vostro servitore, ci
mettemmo al lavoro. Il cognato della Madre, Juan de Ovalle, venuto a Toledo, le dichiarò che ritornava ad Alba, nel suo
permise che si ammalasse; poiché sua moglie era assente,
paese. Mal gliene incolse! « Il Signore
aveva un così gran bisogno di assistenza, che mi diedero licenza di andare da lui.
Questa circostanza servì a non far trapelare nulla... Fu davvero una cosa sorprendente
che la sua malattia non durasse più del tempo che occorreva per la conclusione
dell'affare; dopo, essendo necessario che egli stesse bene, perché io restassi libera ed
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egli lasciasse sgombra la casa, il Signore gli diede così buona salute da riempirlo di
meraviglia » (Vita XXXVI, 3, p. 326). Per far tacere le chiacchiere, dona Guiomar si
trasferiva in casa di sua madre, nella provincia di Zamora; il padre Pedro Ibànez si
ritirava nella solitudine di Trianos. « I lavori erano molto indietro » (Vita XXXVI, 4,
p. 326). Dove battere il capo? Il minuscolo convento non andava avanti. Fray Pedro,
raccogliendo le proprie forze, vi faceva una visita furtiva; si complimentava: « E
veramente una casa di S. Giuseppe; mi ricorda la stalla di Betlemme », e pensava al
suo monastero lillipuziano di Pedroso,' somigliante a questo futuro Carmelo tanto da
poterlo confondere con esso.
A questo punto, il Maestro Daza interruppe il suo racconto. Eravamo scesi sotto il
muro di clausura, di fronte alle imponenti costruzioni de las Gordillas, le clarisse di
Avila.
Voltandosi verso di me, mi dichiarò con un pizzico di solennità nella voce:
- Sono assolutamente convinto dell'intervento decisivo di Fray Pedro de Alcàntara
nella riforma del Carmelo.
Chi mai, se non lui, ha incitato la Madre a seguire la sua prima intuizione: riformare
il suo ordine ritornando alla regola primitiva?
Chi mai, con la sua lunga pratica della diplomazia vaticana, ha redatto il testo della
supplica per ottenere dal papa il breve tanto desiderato?
Chi, infine, ha in certo qual modo strappato al vescovo di Avila il consenso ad
accettare questa opera sotto la sua giurisdizione?
Sempre Fray Pedro.
Provvidenzialmente, egli si trovava in quei primi giorni di ago-sto ad Avila e
celebrava la messa nella chiesa di Mosen Rubi de Bracamonte. Era una messa di
addio: Teresa non lo avrebbe più rivisto su questa terra.
Ma Fray Pedro non era solo. Veniva accompagnato da dona Isabel de Ortega. Ventunenne, figlia
spirituale del santo, ella voleva entrare fra le « francescane reali » di Madrid.
- No! - le rispose il frate. - Dio la vuole nell'ordine che dofla Teresa de Ahumada sta
rinnovando qui.
Di fronte alle sue reticenze, Fray Pedro ricorse alla maniera forte. Quest'ultima
messa li vide riuniti tutti e tre. Isabel diverrà la celeberrima Isabel de Santo Domingo,
una delle colonne della riforma.
- Bene - continuava Gaspar Daza battendo il suolo con il piede. - Ma, a mio avviso,
non è questo il fatto più determinante... Conosce questa lettera? A parer mio, la più
lorte e la più ispirata che un santo abbia mai scritto sulla povertà. Mi permetta di
leggerle la pagina che Fray Pedro scrisse alla Madre, durante il suo soggiorno
toledano, il 14 aprile 1562:
« Sono meravigliato che vostra grazia sottoponga ai teologi ciò che non è di loro
competenza. Per questioni giuridiche o di coscienza, è bene sentire il parere di giuristi
e di teologi; ma, quando si tratta della vita perfetta, bisogna parlarne con quelli che la
vivono...
« Se vostra grazia desidera seguire il consiglio di Gesù Cristo per una povertà più
perfetta, lo segua... vale per gli uomini come per le donne e Lui l'aiuterà come ha
aiutato tutti quelli che lo hanno seguito.
« Ma, se lei ci tiene a sentire il parere di teologi sprovvisti di spirito evangelico, cerchi
molte rendite. Vedrà se èmeglio questo che mancare di tutto per seguire i consigli di
Cristo.
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« Vediamo che c'è grande indigenza nei conventi di donne povere, per la ragione
che esse sono povere contro la loro volontà, che è loro impossibile avere di più, che
non vogliono seguire i consigli di Cristo.
« Io non faccio l'elogio della povertà in quanto tale, ma di quella che è sopportata con
pazienza per amore di Cristo nostro Signore e, quel che più conta, la miseria
desiderata, ricercata e abbracciata per amor suo...
« In ogni modo, io credo che i consigli di Cristo sono buoni come consigli divini...
Considero beati, come dice Sua Maestà, "quelli che hanno un'anima da povero", quelli
che sono risolutamente poveri. Io l'ho veduto e, sebbene mi fidi più di Dio che della
mia propria esperienza, quelli che sono poveri con tutto il cuore, per grazia di Dio,
vivono una vita beata, come la vivono coloro che ripongono in Dio il loro amore, la
loro fiducia, la loro speranza.
«Sua Maestà dia a vostra grazia la luce per capire queste verità e metterle in pratica!».
- E scritto bene, non è vero? - concluse il Maestro Daza ripiegando le sue carte. Poi,
abbracciando con lo sguardo il minuscolo convento di San José e la sua clausura al di
sopra della quale si ergevano alcuni alberi: - Crede che tutto questo sarebbe mai
venuto alla luce senza il consiglio di Fray Pedro de Mcàntara?
In quel momento, le cicogne, dopo un ultimo volo, scesero in picchiata, oltre la
chiesa di Santiago, verso la Sierra. « Le cicogne! queste figlie del vento, con le ali
spiegate nella nudità immensa dello spazio ».

5 - Lunedì 24 agosto 1562

Una campana dal suono acuto turbava la pace dell'alba in quel mattino di agosto,
bianco, rosa, infine azzurro, come quello di tutte le estati in Castiglia. Il cielo scavava
una volta di luce al di sopra di Avila, di quel quartiere San Rocco fuori le mura dove
era appena sorto un convento. L'avvenimento aveva importanza soltanto per quelli che
sono sensibili ai minimi fremiti della storia, quelli che percepiscono l'invisibile: in una
minuscola cappella, dietro una stretta grata, dofla Teresa de Ahumada dava l'abito del
Carmelo a « quattro orfane povere » (Vita XXXVI, 6, p. 328).
All'altare, il maestro Daza celebrava la messa e, in nome del vescovo, le ammetteva a vivere
secondo la regola primitiva dell'Ordine di Nostra Signora del monte Carmelo. Nel santuario, erano
presenti tutti gli amici: don Francisco de Salcedo, Juliàn de Avila, il futuro cappellano, Gonzalo de
Aranda, la sorella di dofla Teresa, Juana, e suo marito Juan de Ovalle. Dietro la grata, due cugine
monache all'Incarnazione assistevano la nuova fondatrice: dona Inés e dofla Ana de Tapia.
L'avvenimento potrebbe concludersi qui se la Madre non avesse raccontato in modo
particolarmente felice quel lunedì memorabile, festa di S. Bartolomeo.
In un primo momento, la fondazione del nuovo convento scatenava una rivoluzione.
E possibile che qualcosa passi inosservato nel cuore di una piccola città, nel XVI
secolo e in Spagna? Appena si diffuse la notizia, la brava gente lodò Dio, scrive
Ribera. In un paese cristiano, la reazione non poteva essere diversa. Al di là dello
spirito di fronda, il popolo ama i monaci e le monache: sono dei « parafulmini ». Ma i
notabili si montarono la testa. Se non si distruggeva subito il monastero, era la rovina
della città.
E Juliàn de Avila aggiunge: « Un incendio da domare, il nemico all'assalto delle
mura non avrebbero provocato un panico più generale ». Ed eccoli che gridano,
proferiscono ingiurie, gesticolano agli angoli delle strade. Drammatizzazione,
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invettive a profusione, alla spagnola!
Il secondo atto è più interiore, ma la Madre lo descrive con grande abbondanza di
particolari, che dimostrano quali lunghi solchi abbia impresso nel suo ricordo.
« Si era portata a termine un'opera che sapevo a servizio del Signore e di onore
all'abito della sua gloriosa Madre... Mi rendeva felice costatare che Sua Maestà avesse
voluto scegliermi come strumento... Ne ero tanto soddisfatta da sentirmi come fuori di
me e immersa in una profonda orazione » (Vita XXXVI, 6, p. 328).
Questa felicità non durò più dell'effetto di un bicchiere di acqua ghiacciata sotto il
pieno sole di Castiglia.
« Finito tutto da circa tre o quattro ore, il demonio mi sconvolse con una battaglia
spirituale » (Vita XXXVI, 7, p. 328).
Le asserzioni dell'avversario si susseguono vivacemente: non aveva disubbidito al
suo provinciale? Senza dubbio ella stessa rimaneva sottoposta a lui, ma aveva posto le
nuove monache sotto la giurisdizione del vescovo.
Sarebbero state contente, quelle povere donne, in una clausura così austera?
Avrebbero avuto da mangiare?
Insomma, non aveva commesso una follia? Aveva già un comodo monastero:
perché aveva voluto imbarcarsi in questa impresa?
Due anni di grazie, di consigli ricevuti - giacché mai donna fu « più desiderosa di confidarsi, di
consultare uomini sapienti e santi », come riconosceva già, nel 1560, il padre Pedro Ibàflez in un «
Dettame » di trentatré punti -' tante preghiere incessanti, tanti lumi, tutto era annullato
in mezzo a « tali angosce, tenebre e oscurità nell'anima, che non riesco a descriverle »
(Vita XXXVI, 8, p. 329).
Ah! desiderava la clausura, la penitenza, la povertà, una comunità nuova... Ma che
cosa apportava, da parte sua, se non un misero corpo pieno di acciacchi e di infermità?
Che cosa abbandonava? Una casa spaziosa, piacevole, allietata da alberi da frutta,
dove viveva comodamente, coccolata, vezzeggiata. Come si sarebbe adattata,
insomma, lei, una gran signora, a quelle nuove compagne di cui due su quattro erano
nate da gente assolutamente plebea?... C'era di che perdere la propria anima!
« Vedendomi in questo stato, andai a visitare il santissimo Sacramento, benché non
riuscissi a raccomandarmi a Dio... Questo mi pare che fu certamente uno dei momenti
più duri della mia vita. Sembrava che lo spirito presagisse quanto avrebbe sofferto,
benché nessuna sofferenza sarebbe stata pari a questa, se fosse durata » (Vita XXXVI,
8-9, p. 329).
La luce venne in un sol tratto, con la preghiera, così come con un cielo tempestoso
sul far della sera, il sole s'irradia al di là della Sierra e trasforma la città in una coppa
d'oro, in un'offerta di bellezza.
Che ragione c'era di temere la sofferenza? Essa procurava meriti, sarebbe certo
servita di purgatorio. « Perché, dunque, dovevo perdermi d'animo nel servizio di colui
a cui tanto dovevo? ».
Sotto i colpi del demonio che, vile per definizione, ha manipolato la menzogna, «
promisi davanti al santissimo Sacramento di far quanto potevo per ottenere il
permesso di venire in questa casa e di impegnarmi ad osservarvi la clausura, non
appena l'avessi potuto fare in buona coscienza » (Vita XXXVI, 9, p. 330).
« Nell'istante stesso in cui feci questa promessa, il demonio fuggi ». Come
possiamo costatare, teme l'ardimento, il coraggio, lo sforzo accettato per amore.
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« Tutto ciò che in questa casa si osserva circa clausura, penitenza e il
resto, mi è estremamente dolce e leggero... Sia benedetto colui che concede ogni bene
e per la cui potenza si può fare ogni cosa! » (Vita XXXVI, 10, p. 330).
Terminata la battaglia, era ora di unirsi alla gioia delle sue compagne. Un pasto frugale: qualche
sardina, un po' di pane, una fetta di melone e acqua della giara. La povertà è condita di gioia nel
Carmelo nascente.
« Volevo prendermi dopo pranzo un po' di riposo, perché tutta la notte non avevo
quasi potuto chiudere occhio, e molte altre ne avevo passate fra continui travagli e
preoccupazioni, oltre alla gran stanchezza di tutti i giorni » (Vita XXXVI, 11, p. 331).
Ma non bisognava dimenticare che, se la siesta sopiva la città e le sue voci, laggiù
in basso, àll'Incarnazione, si accendeva l'indignazione. Era tutto un susseguirsi di
proteste presso la priora; i carmelitani, confessori ordinari del monastero, facevano la
parte loro propalando l'irritazione degli abitanti di Avila.
Verso le quattro o le cinque, il vescovo in persona venne in parlatorio a salutare la
Madre e le novizie. La clausura, spiega don Juan Carrillo, il suo segretario, era quanto
mai sommaria: alcuni pioli messi insieme e una stuoia di vimini.
Frattanto, bussavano alla porta due carmelitani. Malgrado il vescovo, trasmisero
l'ordine della priora: Teresa e le sue due cugine dovevano ritornare seduta stante nel
loro monastero.
Appena il tempo di affidare a Ursula de los Santos, la più anziana con i suoi
quarantun anni, il carico delle sue sorelle. Il Maestro Daza avrebbe celebrato per loro
la messa, le avrebbe istruite, confessate, e avrebbe servito da intermediario tra loro e la
fondatrice.
« Partii assai contenta che mi si presentasse l'occasione di patire per il Signore e di
poterlo servire. E così me ne andai, sicura che subito mi avrebbero gettata in prigione
» (Vita XXXVI, 11, p. 331).
Scendeva la sera quando la si vide uscire con maestosa tranquillità, per affrontare
l'ira della sua superiora e delle sue consorelle.
Possiamo immaginare il suo ritorno in un chiostro deserto dove si chinavano visi
curiosi e furiosi. Davanti all'appestata, alla scomunicata, si faceva il vuoto. Non era
forse uno scandalo, un oltraggio vivente alla regola, all'ordine, a quel convento pieno
di vere serve di Dio e della nobiltà di una delle più nobili città della Vecchia Castiglia?
Subito comparve dinanzi a dofla Cimbròn, circondata dal suo consiglio. Si stese a terra senza una
sola parola, esponendosi al rimprovero. Come infierire contro chi si umilia? La collera
della priora si placò di colpo.
- Si rialzi - disse. - Domani si giustificherà davanti al nostro provinciale. L'ho già
informato.
Teresa fu condotta nella cella spaziosa che, sul chiostro superiore, era riservata alla prigione. E
Maffa de Ocampo aggiunge: « La priora le mandò un'ottima cena ».
L'indomani, comparizione dinanzi al padre Angel de Salazar.
« Mi ricordai del giudizio di Cristo, di fronte al quale il mio mi parve una cosa da
nulla. Mi accusai come se fossi molto colpevole e tale dovevo sembrare a chi non
conosceva i motivi delle mie azioni » (Vita XXXVI, 12, p. 332).
Severi rimproveri piovevano su dofla Teresa, decisa a non discolparsi. Alla fine, al
cospetto delle monache anziane, il provinciale le ordinò di rendere conto del suo
operato.
No! non aveva agito così per attirare l'attenzione né per far parlare di sé, né per
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chissà quale smania di novità.
Il provinciale e le monache non trovarono nulla da condannare. Parlando da sola
con il provinciale, Teresa si spiega « più chiaramente ». Uomo di Dio, ma desideroso
di pace, il padre Sala-zar promise di aiutarla a ritornare a quel monastero « non appena
si fosse affermata la fondazione e la città fosse ritornata tranquilla » (Vita XXXVI, 14,
p. 332).
L'affermazione fa pensare. Sospetto o saggezza? Eccessiva prudenza o diffidenza di
principio? Così è sempre avvenuto quando le opere di Dio a~ffrontano il giudizio
degli uomini.
Quel lunedì 24 agosto 1562, nell'intimo di una misera casupola, era cominciata
un'avventura, un'avventura spirituale.
Chi oserebbe deplorare che pochissimi saggi ne abbiano avuto percezione?

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PRIMO SOLCO, PRIMI SEMI

La fondazione di San José segna una pausa di cinque anni. Tempo di sementi,
tempo di germinazioni future.
Nel pensiero della Madre, tutto doveva cominciare e finire in quel piccolo
monastero innalzato a mala pena nel quartiere San Rocco. Teresa avrebbe davvero riso
se le avessero parlato di espandersi fuori della città dei cavalieri. Una così profonda
solitudine conquistata a caro prezzo, un totale isolamento sotto il segno della povertà
assoluta e dell'orazione: tale era la sua ambizione. Una volta realizzata, perché pensare
ad altri monasteri simili a « quel piccolo angolo di Dio »?
Mortalmente malato, il santo Fray Pedro de Alcàntara aveva ricevuto ad Arenas la
visita del Maestro Gaspar Daza. Era il 14 ottobre 1562.
Con mano tremante, per l'ultima volta, prese la penna. La Madre non doveva temere
la persecuzione. Egli se ne rallegrava grandemente, poiché a così grandi opposizioni
avrebbe corrisposto una più sicura solidità dei fondamenti. Era certo che il Signore
sarebbe stato perfettamente servito in questo monastero, poiché il demonio lo
ostacolava tanto. Ma, per amor di Dio, che non si acconsentisse in nessun modo ad
aver rendite! (Vita XXXVI, 20, p. 336).
Era l'ultimo grido di quel francescano povero, prima colonna del Carmelo nascente.
La domenica 18 ottobre, alle sei del mattino, in ginocchio, con le braccia sostenute da
due confratelli, egli rese l'anima al suo Creatore. Si sarebbe detto che si addormentasse
di un sonno leggero. I suoi occhi erano limpidi e aperti, il viso splendente. A prima
vista, non si sarebbe capito se era vivo o morto.
Quella « grandisima gloria » (Vita XXVII, 19, p. 241) in cui apparve alla Madre nella sua
prigione dell'Incarnazione, nel momento stesso del suo trapasso, era come il presagio dello splendore
del Carmelo riformato. L'ultimo messaggio del santo, a detta del padre Ribera che lo ha tenuto tra le
sue dita, era contenuto in un misero pezzetto di carta, tutto riempito dalle poche frasi del morente.
San José non era né più grande né più brillante. Nondimeno, come una volta la
Porziuncola in cui nacque l'opera di 5. Francesco d'Assisi, così pure la casupola di
Avila e le sue « quattro orfane » avrebbero ricordato in pieno « secolo d'oro »
spagnolo, in mezzo alle sue conquiste, alle sue ricchezze culturali, una delle leggi
fondamentali del Vangelo: la povertà volontaria al servizio dell'amore.
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1 - I santi sotto processo

Il padre Bàflez mi aveva introdotto negli archivi concistoriali di Avila. La sala alta,
profumata di odore di legno e di vecchi scritti, formava un asilo di silenzio. Nell'ora
della siesta, mentre un raggio di sole faceva danzare il pulviscolo, mi piaceva sentire
scricchiolare i fogli di pergamena firmati dallo scrivano pubblico. Non riporterò tutto,
ma mi limiterò ad esporre l'essenziale della mia lettura. Quel piccolo convento di San
José aveva davvero assillato, ammutinato, messo in subbuglio i luminari della città dei
cavalieri.
« In Avila, martedì venticinque del mese di agosto 1562, a suono di campana, il
consiglio si riunisce intorno all'illustre e magnifico signore Garcia Suàrez Carvajal,
corregidor di questa città e del suo territorio in nome di sua maestà ».
Segue l'accusa: « Alcune donne che dicono di essere monache del Carmelo hanno occupato una
casa, innalzato altari, fatto celebrare la messa. Ci sono tanti monasteri di monaci e di suore in questi
luoghi oppressi dalla miseria, che bisogna convocare per domani, mercoledì, i teologi di questa città
perché trovino un rimedio a tali fatti...
Mercoledì 26 agosto, all'ora convenuta, nuova riunione. « Questa casa edificata di recente sotto il
patrocinio di S. Giuseppe reca danno ai cittadini. D'altro canto, è costruita proprio vicino alle fontane
che alimentano la popolazione; siamo dunque costretti ad intervenire presso il consiglio reale e il
signor vescovo... ». Don Alvaro de Mendoza mal si prestava alla discussione. Poco importa! «
L'unica cosa da farsi era di spaventare le suddette monache e convincerle ad uscire », spiega Juliàn
de Avila.
Il magnificentissimo corregidor in persona si recò al quartiere San Rocco, circondato
da un nugolo di curiosi e di persone ostili al convento, perché « era così grande il
subbuglio della gente, che in città non si parlava d'altro » (Vita XXXVI, 16, p. 333).
L'illustre notabile divenne minaccioso all'entrata di San José:
« Uscite di qui, se no sfondiamo la porta, vi espelliamo e togliamo il santissimo
Sacramento! ».
Decisa, una voce di donna rispose: « Abbiamo un superiore: il signor vescovo. Andate
a trovarlo. Usciremo soltanto su suo ordine!... Volete sfondare la porta! Buon pro vi
faccia! ma badate a chi dovete rendere conto ».
Le quattro monache afferrarono alcune travi per rinforzare le uscite e, con l'animo
tranquillo, se ne andarono a conferire con Dio.
L'esperimento stava prendendo un andamento da vaudeville. Ridotto a mal partito,
fuori di sé per la rabbia, il corregidor si ritirava, meditando nuove operazioni.
Nell'ora in cui Avila s'imbeve di sole, si formava una vera processione. Centinaia di
persone accorrevano davanti a quella casupola ostinatamente chiusa. I curiosi si
limitavano a guardare le mura; i malevoli alzavano il pugno proferendo ingiurie. I
devoti si scandalizzavano dello scandalo. Solo qualche raro amico si azzardava a far
scivolare accanto alla ruota del convento un po' di cibo per sostentare le quattro suore
isolate nella clausura, e alcuni ammiravano quelle donne capaci di tener testa alla città
dei cavalieri e ai suoi notabili.
Sabato 29 agosto, venne decisa una giunta solenne, una delle più solenni - nota Juliàn
de Avila, con umorismo - « che possa tenersi al mondo, come se si fosse trattato della
salvezza o della perdita della Spagna!
Domenica 30 agosto, alle tre del pomeriggio, erano rappresentate tutte le autorità di
Avila. Ne conto più di una ventina - e delle più distinte - di cui vi risparmierò
l'enumerazione. Era evidente che questo vasto raduno insorgeva contro la decisione
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del vescovo. Con quale diritto aveva egli autorizzato l'erezione di un convento
senza consultare prima le personalità della città?...
Stavo rileggendo il verbale di quella nobile riunione quando la porta cigolò e il padre
Domingo Banez si introdusse nella sala. Con un'occhiata alla pergamena, si rese subito
conto delle mie consultazioni.
Posando il dito su una riga, dichiarò:
- Noti, senor, un errore del segretario: dice che il padre Ibanez era presente; in realtà,
lo rappresentavo io. Mi ero appena licenziato in teologia e in autunno avrei
ricominciato le mie lezioni. In poche parole, il padre Ibanez mi aveva spiegato la
controversia, aggiungendo: « Questa è opera di Dio e la donna che l'ha fondata è una
santa. Lei saprà esporre convenientemente gli argomenti per difendere l'una e l'altra ».
Mi alzai dunque - spiegò il domenicano - e, solo contro tutti, dichiarai che non si
poteva sopprimere quel monastero. Il caso era di competenza del vescovo. Senza
dubbio, facevo alcune riserve circa la mancanza di rendite e di dotazioni; ma per il
fatto in sé, facevo appello alla prudenza e alla moderazione (Vita XXXVI, 15, p. 333).
- Che cosa successe allora?
- Il mio appello alla calma sembrò placare la loro furia distruttrice. Bisognava trattare
con il vescovo? Ebbene, che si trattasse! L'indomani, 31 agosto, nuova giunta, nuove
discussioni. Il Maestro Daza parlò in nome di monsignore; si difese come un leone. «
Egli era solo contro tutti, e alla fine riuscì a calmare gli animi col suggerire certi
espedienti che contribuirono molto a tirarla in lungo », scrive la Madre (Vita XXXVI,
18, p. 335). In sostanza, si trattava di un appello al consiglio reale. Andare a corte,
come lei può immaginare, era un vantaggio per la causa, giacché nessuno ignorava i
sentimenti di sua maestà il re cattolico. In Avila, evidentemente, per gli amici della
Madre non tirava aria da luna di miele! Incontrai per strada Juliàn d'Avila,
accompagnato da don Francisco de Salcedo. Juliàn andava avanti, don Francisco lo
seguiva, rosso di vergogna; Juliàn entrava sotto i portici nei diversi uffici della
giustizia, Salcedo si nascondeva per non essere riconosciuto.
Vede in quali circostanze, concluse il padre Domingo Bàflez, feci conoscenza con il
Carmelo riformato, con la sua fondatrice. Non li ho mai abbandonati...
Alcuni istanti dopo, eccomi tutto solo a meditare, ritto di fronte alla cattedrale.
In fondo, la terra aveva intentato un processo al Cielo. Ma, chi pretende di toccare i
santi impunemente?
Rievocavo le parole della Madre: « Andai dal Signore e gli dissi: "Signore, questa
casa non è mia, è stata fatta per voi. Ora che non vi è più nessuno ad occuparsene, ci
pensi Vostra Maestà!" » (Vita XXXVI, 17, p. 334).
E il Signore s'incaricò egli stesso del processo.
Diressi i miei passi verso San Vicente...
Alla fin fine, il padre Pedro Ibàflez ritornò ad Avila. Prese in mano la faccenda,
insisté presso il provinciale dei carmelitani affinché Teresa potesse raggiungere il
nuovo convento e le quattro compagne che l'aspettavano (Vita XXXVI, 23, p. 337).
Era il mese di dicembre del 1562, come dichiara Teresa stessa nel prologo delle
Fondazioni. La riformatrice non risaliva sola dall'Incarnazione, ma accompagnata da
quattro monache che le venivano prestate per formare le novizie.
So che cosa si racconta in Avila. La santa scese nella cripta della Vergine di
Soterrana, situata sotto il coro di San Vicente. Li si sarebbe tolta le calzature...
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Il suo corredo, dichiara un documento dell'Incarnazione, non era molto pesante:
« Una stuoia intrecciata, un cilicio di catenelle, una disciplina e un abito vecchio, che
s'impegnava a restituire ».
Prima di oltrepassare la clausura, entrò nella minuscola cappella del monastero di
San José, e cadde in estasi!
« Vidi Cristo che pareva mi accogliesse con grande amore e mi mettesse in capo
una corona, ringraziandomi di quello che avevo fatto per la Madre sua » (Vita XXXVI,
24, p. 337).
Alcuni giorni dopo arrivava il breve da Roma, datato 5 dicembre 1562, che
permetteva di vivere secondo la povertà assoluta prevista dalla regola primitiva. Pietro
prendeva le parti di Teresa, più che mai « figlia della Chiesa ».
Alla fine del lungo capitolo XXXVI in cui racconta la fondazione del suo primo «
colombaio », la Madre nota che « il popolo prese ad avere gran devozione per il nostro
monastero. Il Signore cominciò a toccare il cuore di quelli che più ci avevano
persegui
tato, inducendoli a favorirci molto e a farci elemosine. Così venivano ad approvare
quello che avevano tanto biasimato; a poco a poco rinunziarono a continuare la causa,
dicendo di essere ormai convinti che la fondazione era opera di Dio » (Vita XXXVI,
25, p. 338).
Continuavo ad aggirarmi attorno a San Vicente, la mirabile basilica romanica
innalzata in onore dei santi martiri, protettori della città dei cavalieri. Ma,
irresistibilmente, rivolsi i miei passi verso San José, nascosto laggiù sull'altro versante
di Avila.
La più pura architettura lascia il cuore inerte, mentre l'epopea dei santi solleva in esso
infiniti turbini di sentimenti.
« Oh, mio Dio!... l'anima vorrebbe essere tutta lingua per lodare il Signore » (Vita
XVI, 4, p. 144).

2 - Riformatrice e scrittrice

Mi piace molto ascoltare don Francisco de Salcedo. Per rievocare il Carmelo nascente,
non c'è in Avila lingua migliore. Parente della Madre, amico devoto, artefice delle sue
opere, sempre più convinto, si dedica all'impresa con ardore tanto più grande, quanto
un tempo si era mostrato scettico, timorato, paralizzante. Conversando con il « santo
gentiluomo », rivedo i primi anni del primo monastero. Giovinezza, fermento! Questa
donna, che dimostra tutti i suoi quarant'anni, ricomincia a vivere. La sua maturità non
ha logorato una giovinezza d'animo, ma, al contrario, ha provocato una prorompente
effusione di tutte le sue risorse intime. Ella agisce, scrive, rivela se stessa in una
fioritura di doni armonizzati dalla santità.
- Non creda, senor, che la Madre fosse priora fin dal suo arrivo a San José. Niente di tutto questo.
Dall'Incarnazione, venne nominata per il futuro monastero dona Ana Dàvila, cugina della marchesa
de Valada. Era chiamata « l'anziana » e prese il nome di Ana de San Juan. La sua rigidezza rendeva
ancor più manifesta l'umiltà della Madre. In capo a tre mesi, ritornò al suo monastero e Teresa,
secondo il consiglio del vescovo e il semplice buon senso, assunse la direzione della comunità.
Bisognava formare quelle giovani a una vera vita carmelitana. All'inizio, le suore recitavano soltanto
l'ufficio della Madonna; la Madrè insegnò loro la recita dell'ufficio divino. Cominciò a redigere le
costituzioni; Roma glielo aveva permesso. Il vescovo, consultato, consigliava, approvava. Don
Alvaro de Mendoza, infatti, stava diventando il grande amico, conquistato dal fascino che s'irradiava
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da quella suora di cui gli avevano detto mirabilia. Volentieri accorreva in parlatorio, accompagnato
dal suo segretario don Juan Carrillo. Uscendo, lasciava pane, medicine e una borsa ben fornita alla
ruota del monastero.
« Noti - continuò don Francisco - che le costituzioni non vennero redatte di getto.
Furono terminate nel 1567, quando la Madre le presentò al generale dei carmelitani.
Ma la riformatrice, partendo dall'antica regola dell'Incarnazione, correggeva, infarciva
il testo delle proprie riflessioni. In fondo, più che prescrivere, descrive.
« Ho sentito dire dalle prime carmelitane scalze che il capitolo delle colpe, ogni
settimana, si apriva come una festa. Le suore vi accorrevano "a digiuno", perché
ascoltare la Madre era come sedersi a un festino. Un soffio di Dio, spirito, una parola
scherzosa, frasi ben coniate, un calore, un'anima... Le ascoltatrici erano conquistate.
« Si sussurrava che i confessori le avevano ordinato di scrivere la sua vita. E le nostre
penitenti insistevano perché le venisse comandato di mettere per iscritto quello che
spiegava in capitolo con tanto brio. Nacque così il Cammino di pedezione. Questo
libro contiene gli avvisi e i consigli che S. Teresa di Gesù dà alle consorelle religiose,
sue figlie spirituali... Lo indirizza particolarmente alle consorelle del monastero di San
Giuseppe d'Avila, che fu il primo delle nuove fondazioni, e di cui era priora quando lo
scrisse.
« "Penso d'indicare alcuni rimedi per certe piccole tentazioni, opera del demonio, alle
quali, per essere tanto piccole, forse non si bada" (Cammino Prefazione, 2, p. 20s).
« Ella afferma - continua don Francisco - di redigere queste note "per amore delle sue
sorelle". "I suoi anni e la sua esperienza potranno aiutarle". I dotti, presi da
occupazioni più importanti, non prestano troppa attenzione a queste cose! Ma "tutto
può recar danno a chi è così debole come noi donne". E, per non aver l'aria di fare la
morale e di vaticinare da una cima inaccessibile:
"Io, nella mia viltà, mi sono difesa assai male, e pertanto vorrei che le mie sorelle
imparassero dal mio esempio" (Cammino Prefazione, 3, p. 21).
« Povera donna! - mormorava Salcedo come parlando tra sé e sé. - Sopraffatta dal
lavoro al punto che filava anche in parlatorio, cosa che non ho mai tollerato, seflor.
Preferivo pagarle l'ora che la mia conversazione le aveva sottratto piuttosto che
sentirla muovere il suo arcolaio. Alla fine, insieme alla chiave, consegnavo la mia
paga alla ruota del convento! Come poté dunque riuscire ad ubbidire al suo
confessore, il nostro amico padre Domingo Bàflez? Me lo domando.:. Lei sa di certo
che la santa Madre proseguirà la composizione delle sue opere sempre in mezzo a
simili difficoltà, disturbata in continuazione da un messaggero venuto da lontano e che
aspettava una risposta urgente; chiamata alla grata per discutere, cavillare sull'acquisto
di una casa, di un colombaio, presto lanciata sulle strade della Vecchia e della Nuova
Castiglia. Lei ha letto il suo modo di scusarsi, nel manoscritto dell'Escorial: "Io scrivo
alla diavola... Di chi è la colpa, sorelle, poiché voi me lo comandate; leggete come
potete, così come io scrivo come posso... cerco di sedermi e non ho neppure un can-
tuccio tranquillo. Ve ne rendete conto: sono più di otto giorni che non ho preso la
penna in mano. Così, ho dimenticato quello che avevo detto e non so quello che dirò"
(Cammino Manoscritto Escorial XXII, 1).
« Si - riprese il santo gentiluomo dopo aver fantasticato un istante. - Ma quando questa
donna prendeva la penna, in che bella maniera la maneggiava! Era bastata una notte
per trasformare la Madre in guida spirituale: la fondazione di San José. Adesso che è
morta, la ritrovo così come l'ho conosciuta, semplicemente sfogliando il Cammino di
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perfezione. Viva, ella parla; mi parla. Il suo avvertimento, il suo consiglio
emergono direttamente dalla sua "esperienza". Del resto, il libro, redatto nel 1562, fu
trascritto nel 1569. Tre copie del manoscritto autografo di Valladolid furono corrette
dalla santa stessa. Le parole palpitano come battiti di palpebre.
« D'altro canto, è un capitano, un soldato che stende sulla pergamena imperiosi comandi. "Ciò che
anzitutto dobbiamo sforzarci di fare è di liberarci dall'amore di questo nostro corpo, perché alcune di
noi sono così attaccate, per natura, ai loro agi, che non hanno da adoperarsi poco a tale riguardo...
Alcune suore, poi, sembra che siano venute in monastero per null'altro che per cercare di non morire,
e ognuna tende a questo fine come puo... Abbiate la ferma risoluzione, sorelle, di venire a morire per
Cristo e non a concedervi benessere per lui" (Cammino X, 5, p. 72).
« Il sangue dei Cepeda bolle nelle sue vene. Ah, seflor, lei non ha conosciuto i suoi
fratelli! furono quasi tutti dei soldati. Contro chi non hanno combattuto, oltremare? La
sorella li stringe da vicino, e addirittura li surdassa, poiché il combattimento che in-
traprende nel suo Carmelo richiede un coraggio più che ordinario, nel pieno della
battaglia spirituale: "Torno a dire che tutto o quasi tutto consiste nell'affrancarsi da noi
stessi e dai nostri agi. Chi comincia, infatti, a servire il Signore, il meno che gli può
offrire è la vita... Non lo sapete, sorelle, che la vita del buon religioso, che vuol essere
fra i più intimi amici di Dio, è un lungo martirio?" (Cammino XII, 2, p. 78s). Una
parola di verità in cui il vigore non esclude la dolcezza. Favo stillante, certo, come
dice la Sacra Scrittura, ma in viscere di leone. Non fa meraviglia! Avila è sempre stata
un nido di girifalchi; non un salottino di effeminati. E la Madre è figlia di questa terra,
di queste mura, di questa massiccia cattedrale rannicchiata sui propri piedi come una
belva pronta a balzare all'assalto del cielo.
« Nel rileggere queste pagine, potrà vedere la lotta che la fondatrice ingaggia contro il
punto d'onore: "Ve l'ho detto molte volte, sorelle, e ora ve lo voglio lasciar scritto qui,
affinché non lo dimentichiate, che le religiose di questa casa, come anche ogni persona
che vorrà essere perfetta, deve fuggire le mille miglia da espressioni come queste:
'avevo ragione', 'mi hanno fatto un torto', 'non aveva un motivo chi mi ha fatto
questo'... Dio ci liberi da cattive ragioni!" (Cammino XIII, 1, p. 83).
« Non so se uno che non sia spagnolo può capirla. La fierezza:
ecco il retaggio più personale del castigliano. Come il moro, del resto, che per cinque
secoli tentò invano di assoggettarlo, le monache di San José ereditavano questo
patrimonio. "Piuttosto morire che cedere", proclamava il motto di Avila. Solo
l'esempio di Gesù coperto di offese, oppresso dalle ingiustizie, poteva aiutarle a
calpestare quest'orgoglio di razza. Non a tutti è dato di essere figlia di Castiglia
(Cammino XIII, 1, p. 83).
« Del resto, la Madre si era per prima esposta ai colpi. Quando aveva preteso di riformare l'ordine,
senza volerlo, non aveva forse attaccato nel suo onore il venerabile monastero dell'Incarnazione? le
sue magnifiche priore, il patrocinio esercitato da decenni sulla casa dall'antica famiglia degli Aguila,
la nobiltà di un numero considerevole di suore? Teresa aveva osato intaccare questo prestigio.
Bisognava che si disprezzasse a tal punto perché la città intera, quella celeste e quella terrestre,
spettegolasse sul suo conto e le mormorazioni non le facessero più impressione di quanta ne
avrebbero fatta a un "citrullo"? (Relazioni Il, 5, p. 442 - 1562).
« Ah, - esclamò don Francisco - non invano la Madre aveva contemplato "il Cristo
tutto coperto di piaghe", attaccato alla colonna, incoronato di spine! Non era rimasto
senza frutto l'incitamento dei suoi primi confessori a far sempre riferimento alla
Passione del Signore! Teresa sapeva benissimo che l'amore spinge alla somiglianza,
che l'onore della Sposa è quello dello Sposo (Cammino XIII, 2, p. 84). Chi potrebbe
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rimproverarle quest'eccesso di tenerezza i cui slanci la portano a passare per "folle"
poiché Lui, per primo, fu trattato come tale dagli uomini?
« So che alcuni hanno trovato il Cammino di per/ezione molto ascetico - continuò
pensieroso Salcedo. - Eppure, non c'è strada migliore per condurre all'orazione. "Dio
voglia che io possa scrivere sull'orazione con più mani perché non dimentichino né le
une né le altre!" (Cammino Manoscritto Escorial XXXIV, 4). "Vorrei gridare ad alta
voce, litigare, malgrado la mia miseria, con quelli che pretendono che l'orazione
mentale non sia necessaria" (Cammino idem XXXVII, 2).
« Ma uno squillo di tromba avverte: "Coloro che vogliono seguire questo cammino
senza fermarsi fino al termine di esso, cioè fino a giungere a bere di questa acqua di
vita, è cosa - ripeto
- di grande importanza come debbano cominciare: devono, cioè, prendere una
risoluzione ferma e decisa di non arrestarsi prima di raggiungerla" (Cammino XXI, 2,
p. 127).
« Trappole, illusioni? Ah, non ne mancavano certo su questa strada. La Madre stessa, con il suo
esempio, poteva trarre in inganno. Suore, novizie, quella minuscola comunità in cui tredici donne
confinate in uno spazio grande come un fazzoletto si sorvegliavano, si conoscevano senza cercarlo;
la Madre in estasi, dopo la comunione o con il tegame in mano, in mezzo alla cucina, chi non l'aveva
vista? chi non lo sapeva? La sorella stessa del vescovo non aveva forse dovuto aspettare la fine di un
rapimento per intrattenersi con lei? Con una frase decisa, come con un manrovescio su una bocca che
protesta, Teresa sentenzia: "Il modo di capire, figlie mie, se siete progredite in virtù, sta
nell'esaminare ciascuna in se stessa se è la più miserabile di tutte e se lo dà a vedere con le opere...
non se ha più diletti nell'orazione e nei rapimenti, o visioni o grazie di questo genere, che il Signore
può dare, e per conoscere il cui valore dobbiamo aspettare d'essere nel mondo di là" (Cammino
XVIII, 7, p. 108). "Concludo, figlie mie, dicendovi che queste virtù sono le virtù ch'io desidero in
voi, quelle che dovete sforzarvi di possedere e quelle che santamente dovete invidiare. Non vi date
pena di non avere le altre speciali forme di devozione: non sono un bene sicuro" (Cammino XVIII, 9,
p. 109s) ».
Don Francisco de Salcedo, avendo ricevuto un'ottima formazione presso i domenicani
di Santo Tomàs el Real, non ignora gli eccessi dell'illuminismo, soprattutto nelle
donne senza distrazioni: gli ambienti chiusi conoscono queste fiammate. Egli
apprezzava il sano giudizio che guidava la Madre in ogni cosa. Provenivano entrambi
da quella buona terra di Castiglia. Essa aveva dato i natali a don Chisciotte: piaccia a
Dio che non sorgano molti altri come lui fra quelli che si consacrano all'avventura
interiore! Ce ne sono tanti che credono di conquistare il Regno e la cui spada non
trapassa altro che ali di mulini a vento... Fin dalla sua fondazione, la Madre ebbe cura
che a San José non si confondesse il sogno con la realtà.
E concludeva: « Questa casa è un paradiso, se ce ne può essere uno sulla terra. Per chi
trova il suo appagamento solo nel contentare Dio e non bada al proprio piacere, tale
vita è assai felice. Chi desidera qualcosa di più, siccome non potrà averla, perderà tutto
» (Cammino XIII, 7, p. 86).

3 - Miseria e luce

Un debole chiarore piove dalla stretta finestra del parlatorio di San José. La grata è così stretta che si
riesce appena a indovinare il viso della priora che, dall'altra parte, si china verso di me. Sulle prime
umile e riservata, si entusiasma quando rievoca gli inizi di quel « piccolo angolo di Dio ». La frase in
castigliano crepita, scatta in un'esclamazione, riparte, rapida, sempre più veloce.
- Come lei sa perfettamente, seflor, Sua Maestà aveva dichiarato alla santa Madre che
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« questo monastero avrebbe brillato come una stella di vivissimo splendore » (Vita
XXXII, 11, p. 291).
« "E fu di certo così, poiché subito accorsero le novizie destinate a un avvenire
prestigioso. Donne davvero degne di essere chiamate uomini" (Cammino VII, 8, p.
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« Sei mesi appena dopo la fondazione, venne a bussare alla porta Maria de Ocampo.
Era la nipote brillante e chiassosa della Madre: la prima postulante. Prese il nome di
Maria Bautista; offriva i suoi vent' anni.
« Nel mese di settembre 1563, si presentava Maria Dàvila, altra nipote della santa,
ventiduenne. Un pomeriggio, la via in salita di San José si riempì di cavalli e di
carrozze. Da una di queste scendeva la figlia di Alonso Alvarez, "il santo", tutta ador-
na, coperta di gioielli, unica erede di un'immensa fortuna, circondata dalla sua corte di
pretendenti.
« "Lasciatemi andare, - disse - vado a salutare mia zia".
« Ma, invece di raggiungere il parlatorio, la porta del chiostro si apre per accoglierla.
Non c'era più Maria Dàvila, ma Maria de San Jeronimo.
« Fuori, i gentiluomini si agitavano, giravano in tondo, imprecavano, sul selciato, con
il naso all'aria.
« Nell'ottobre del 1563, Isabel Ortega, con i suoi ventitré anni, faceva il suo ingresso.
Era - come lei sa - la figlia spirituale di Fray Pedro. Prendendo il nome di Isabel de
Santo Domingo, si apprestava a dare la scalata a un destino fuori del comune.
« Come vede, il numero delle suore era completo giacché, se la Madre aveva potuto
scrivere nel 1561 a suo fratello che ne avrebbe ricevute soltanto "quindici" (Lettera
23-12-1561), ripiegava ora sulla cifra di tredici, - dodici monache e la priora (Vita
XXXVI, 19, p. 335) - "tredici povere piccole suore che non fanno un gran rumore"
(Cammino Il, 10, p. 31) ».
- Madre, è proprio vero che erano così povere?
- Ah! certo, seflor! In Avila, la loro indigenza stava diventando una leggenda. Nel 1567, arrivava una
postulante da Fontiveros, Isabel Bautista. Prima di entrare in convento, si fermò in città presso un
suo parente, nella cui casa si svolgeva una riunione di persone autorevoli. "Come!, le venne detto,
vuole entrare in quel convento affamato? Le astinenze e i digiuni sono così severi che le monache si
trasformano in vere forsennate". La stessa Isa-bel, divenuta monaca malgrado tutto, ha così riassunto
la situazione: "Molto spesso, a tavola non c'era che un po' di pane, formaggio, alcuni avanzi e
qualche frutto. Ai pasti abbondanti: un uovo e una sardina!".
« Guadagniamoci la vita! concludeva la santa Madre. Con una libbra di lana filata si
incassa un reale. Per il resto, affidiamoci alla Provvidenza!
« "Sua Maestà ci mandava il necessario, scriveva Teresa, senza che lo chiedessimo, e
quando ci veniva a mancare, il che accadde ben poche volte, la gioia di quelle anime
così sante e pure era ancora più grande" (Fondazioni I, 2, p. 19).
« Ecco, ne convenite, c'era di che scoraggiarsi!... Neppur per sogno! Avevano tutte
modi da principesse come se l'universo intero si inchinasse ai loro piedi.
« Quando la fiamminga, dofla Wasteels, fece la sua domanda di ammissione, volle
offrire loro un dono utile. "Non abbiamo bisogno di nulla", le risposero. Una volta
entrata in clausura, immaginate il suo stupore! In cucina, c'era un solo tegame per
friggere le uova. E le suore ribattevano: "Con questo, siamo ricche abbastanza. Non ci
manca nulla".
« Chi potrà descrivere il fervore delle nostre prime madri? Sapevano di essere figlie
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del profeta, candidate al deserto. In tutti gli angoli della casa, andavano a
nascondersi in romitorio: una cantina era il romitorio di S. Gerolamo; sotto una scala,
c'era qùello di s. Alessio; S. Ilarione, S. Elia e S. Eliseo, come pure S. Francesco, S.
Domenico e S. Caterina presiedevano il coro. Santo fervore di solitudine! Noti che in
quel tempo l'orazione non si faceva in comune nel coro, ma ogni suora andava nel
luogo che si era scelto e in cui riusciva a trovare il più perfetto raccoglimento ».
- Suppongo, madre, che, avendo il consiglio reale messo fine alle discussioni col
favore della corte e la simpatia della brava gente di Avila, le carmelitane vivessero in
pace.
- Ahimè! se per la santa Madre era un'enorme consolazione vedersi in questo rifugio, con anime così
« distaccate », nell'oblio del mondo, il mondo no, non le aveva dimenticate. Fin dal 22agosto 1562,
due giorni prima della fondazione, La zaro Davila, capo fontaniere della città, le
denunciava al consiglio: "Come! - venne a dichiarare, fuori di sé - queste donne hanno
innalzato una casa che lascia all'ombra l'acquedotto municipale. Nel cuore
dell'inverno, l'acqua, gelando, non scorrerà più, e chi ne soffrirà?". Ed ecco, per più di
un anno, un susseguirsi di lamentele, accuse, arringhe, giacché le nostre povere madri
non possedevano nemmeno un maravedi per abbattere un muro, innalzarne un altro,
distruggere i romitori... Per fortuna, alla fine, arrivò un'elemosina e la santa Madre
comprò a Juan de San Cristobal, su un altro lato del monastero, "il recinto del
colombaio", dove fece costruire i suoi deserti in miniatura.
« Le fonti municipali scorrevano vicino a San José, ma le nostre prime suore dovevano
cavare l'acqua da un pozzo molto profondo e per di più l'acqua era assai cattiva. Gli
operai, consultati, risposero che non si poteva trovare di meglio. "Che cosa ne pensa-
te?" chiese la Madre alle consorelle. Maria Bautista rispose: "Proviamo! Nostro
Signore deve pur provvederci di persone che ci portino acqua e fornirci di che
mantenerle; è certo più economico per Sua Maestà darci lui acqua in casa; pertanto
non tralascerà di farlo" (Fondazioni I, 4, p. 21). La fede fa miracoli, conclude la santa
Madre. Ma Juan Carrillo, segretario del signor vescovo, aggiunge con la precisione di
un testimone: "Il pozzo era così abbondante che bisognò fare uno scaricatore. L'acqua
sboccava su una piazzetta, cosicché salici e pioppi si misero a crescere sui margini...
Più tardi, aggiungeva malinconico, il consiglio permise alle suore di essere allacciate
sull'acquedotto municipale. Il pozzo diventò meno abbondante e bisognò tagliare
questo pioppeto dai piedi secchi" ».
- Mi sembra, Madre, che questo getto d'acqua inaspettato sia simbolico, come la fonte
del Tempio di cui parlano le Scritture. Non è forse il simbolo della vita intensamente
spirituale che conducevano le prime carmelitane, « quelle anime angeliche »? (Fon-
dazioni I, 6, p. 21).
- Senza dubbio, seflor, conosco bene la frase delle Fondazioni da lei citata, ma la nostra Madre non
era così "miserabile" come pretende (Fondazioni I, 6, p. 21). Al contrario, durante i cinque anni in
cui rimase in questa casa (1562-1567), il Signore la visitò in maniera straordinaria. Le è costato
raccontarci questi insigni favori, ma ce ne indica chiaramente il significato quando scrive: "Si
sforzino tutti di contentare Sua Maestà, poiché anche in questa vita dà tali pegni" (Vita XXXVII, 1,
p. 341).
« I rapimenti si ripetevano con maggiore frequenza, soprattutto dopo la comunione.
Teresa strappata via dal suolo, sollevata da terra, aggrappata alla grata del coro: ne
erano testimoni le suore, il suo confessore, il provinciale, il vescovo. Provatevi a
lottare contro questo rapimento irresistibile! E come battersi contro un gigante (Vita
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XX, 4, p. 170). La santa ne soffriva, poiché, diffondendosi la fama ditali
fenomeni, cresceva la venerazione. Così - mi spiegava la priora - il padre Domingo
Bànez ci teneva un giorno una conferenza spirituale in questo stesso parlatorio. La
santa Madre cadde in estasi. Si fece un grande silenzio, racconta Isabel Bautista... il
padre si ritirò nella cappella finché la santa ritornò in sé. Per sottrarsi ai rapimenti,
Teresa aveva dato ordine che la tirassero con forza per il vestito; si aggrappava a tutto
quello che trovava. Noi la compativamo: che cosa può fare l'anima che è come "sulla
sommità o il tetto di se stessa, più su della parte più alta di se stessa"? (Vita XX, 10, p.
174).
« Poiché in quel tempo facevamo orazione nel luogo da noi scelto, la santa Madre se
ne rallegrava. Si chiudeva nella sua cella e vi restava molto più del tempo destinato a
tale esercizio. Così, Maria de San Francisco ha dichiarato: "E questa una cosa che
deploravamo. Se fossimo state insieme, ne sapremmo molto di più".
« Vergognandosi di dare spettacolo di sé, la Madre ordinava alle sue figlie di non
parlarne. "Signore!, implorava nelle sue preghiere, che queste cose almeno non
accadano alla presenza di estranei!". "Dio, spiega Ana de los Angeles, esaudì questa
domanda, almeno per un certo tempo".
« In realtà, il Signore non la liberò completamente dalle sue estasi. Divennero eccezionali, è vero, ma
le sue varie fondazioni la videro in questo stato. Il 17 gennaio 1577, la Madre scriverà al fratello
Lorenzo: "Un rapimento mi venne anche un po' prima di cominciare questa lettera, con mio grande
dispiacere perché ero in pubblico... Non si può resistere né dissimulare. Ne rimango così confusa che
vorrei nascondermi non so dove. Supplico istantemente il Signore a non mandarmeli più in pubblico.
Lo preghi anche lei, perché ci vedo troppi inconvenienti, senza poi dire che questo non mi pare
affatto una prova che si tratti di un'orazione più elevata" (Lettere 17-1-1577 n. 6).
« Lei sa, senor, che Julian de Avila, il nostro cappellano, abitava sulla piazzetta di
fronte al nostro monastero. Era di famiglia e non esitò quindi a chiedere alla santa:
"Madre, mi dica perché era soggetta a frequenti rapimenti. Adesso, la vedo rapita
meno spesso del suo solito". Ci voleva poco perché la nostra Madre cadesse in estasi:
la vista di un'immagine ben dipinta la faceva uscire fuori di sé. "Questo è vero -
rispose. - Niente più estasi! Ma così l'orazione è ancora migliore" ».
Intervenni allora dicendo:
- Mi sembra, madre, di aver letto, in un resoconto spirituale, questa frase rivelatrice: «
Mentre pensavo alla ragione per la quale non avevo quasi mai rapimenti in pubblico,
sentii queste parole:
"Ora, non è opportuno. Tu godi di considerazione sufficiente per ciò che desidero.
Stiamo attenti alla malignità delle persone maliziose" ».
In quel momento si senti bussare e la sottile figura del padre Banez comparve nel vano
della porta del parlatorio. In poche parole, la priora lo mise al corrente del nostro
colloquio.
- Si, - disse egli - questi fenomeni straordinari stupiscono. Ci ho riflettuto a lungo e l'ho dichiarato
solennemente, nel 1575, alla santa Inquisizione quando mi fu richiesto di esprimere il mio parere sul
Libro della mia vita. Nessuno è stato più di me incredulo per quanto riguarda le visioni e le
rivelazioni della santa Madre. Nei primi tempi, in quanto confessore del monastero, ero
perfettamente al corrente di ogni particolare relativo al comportamento della fondatrice. Un giorno,
Isabel de Santo Domingo mi raccontò di aver sentito la Madre dichiarare che, durante i rapi-menti,
temeva di morire, senza che nessuno se ne accorgesse. La vidi, mi disse, abbandonare il corpo, in
piena notte. Stava in un eremitaggio senza luce; per non disturbarla, non presi un lume neppure io.
Mi supplicò di lasciarla sola. Le toccai le mani che teneva congiunte: erano fredde come se fosse
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morta. Ne provai una tale impressione che, senza pensare a quello che dicevo, mi misi a farle dei
rimproveri: « Madre, stia attenta a quello che fa! E' in pericolo, sta per morire. Si sta ammazzando, e
noi con lei. Ah! riderà il demonio di essere finalmente riuscito ad abbreviare i giorni in cui lei poteva
servire Dio! E' una follia darsi tanto da fare per andare a vedere Sua Maestà prima che lo
voglia e ce lo ordini! ». Ma la madre, con dolcezza angelica, rispose: « Taci, sciocca!
pensi forse che dipenda da me? »...
- Dunque, - concluse il padre Banez - ricevetti le due querelanti. Isabel de Santo
Domingo mi ripeteva: « Padre, ordini alla nostra Madre di non allontanarsi e di non
rimanere sola durante le sue estasi »...
È evidente che la giovane suora ignorava tutto di quelle grazie!
Per questa ragione, senza dubbio, nel libro della sua vita, la santa avverte i confessori
la cui inesperienza è totale: non credano, in occasione di questi rapimenti, a una morte
anticipata. Semplicemente, l'attrazione di Dio è tale che il corpo sembra « immo-
bilizzato » e « l'intelletto e la memoria occupati nelle lodi di Dio ». Inebetimento,
certo, come « una persona che ha molto dormito e sognato, e ancora non è del tutto
sveglia ». In quanto al fisico, in fin dei conti ne trae profitto. « Molte volte, se era
molto malato - la Madre era esperta in materia - e pieno di forti dolori, si ritrova
guarito e più valido, essendo una grazia ben grande quella che lì ci viene data, e il
Signore, alcune volte, vuole che ne goda anche il corpo, ormai ubbidiente ai desideri
dell'anima » (Vita XX, 20-21, p. 178s).
La priora interloquì:
- Ma non per questo dobbiamo concludere che la santa Madre raccomandasse l'estasi
per le sue figlie. A questo proposito, a detta di Isabel de la Cruz, se ne usciva con una
delle sue frasi pungenti: « Che non si istupidiscano! lavorino piuttosto! ».
- Del resto - aggiunse il padre Bànez - Teresa misura il valore delle estasi dai loro
effetti. L'albero si conosce dai suoi frutti... Bisogna credere nella virtù. I veri rapimenti
non hanno nulla a che vedere con quegli arrabbiamenti di cui parla S. Vicente Ferrer
(Vita XX, 23, p. 180).
« Elevata fino a tale altezza, l'anima si duole del tempo in cui badava al punto d'onore e dell'inganno
in cui era di reputare onore qùello che il mondo chiama onore ». Si ride di sé, del tempo in cui
apprezzava il denaro, ed era avida d'averlo. Giunta a questo grado, scorge non solo le ragnatele del
suo intimo e i grandi peccati, ma anche qualunque pulviscolo vi sia... Non è ancora così simile
all'aquila reale da poter fissare bene il sole. Qui acquista la vera umiltà perché non le importa di dir
bene di sé, né che altri lo dicano. Il Signore distribuisce i frutti dell'orto e non lei.
« Così, nulla le si attacca alle mani; tutto il bene che ha viene indirizzato a Dio » (Vita
XX, 26-29, p. 181s).

4 - Fioretti

Sputando, tossendo, trasudando fumo nero, su un binario unico, il treno sale da


Salamanca ad Avila. Passata Penaranda de Bracamonte, l'immensità rossiccia
dell'altopiano di Castiglia si stende più austera. In mezzo ai campi, ai pascoli piantati
alla diavola, si innalzano blocchi di pietra. La città dei cavalieri, in definitiva, non è
che un granito in soprappiù, più compatto e solenne.
Nello scompartimento, alcune contadine dai visi che sembrano scolpiti chiacchierano
allegramente, con i piedi poggiati dentro panieri in cui pigolano e schiamazzano
volatili e anatre. È giorno di mercato. « Ad Avila! ». Queste sillabe radiose ritornano
puntualmente, come un cantico delle salite.
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So benissimo di non essere un turista come gli altri. Non andrò ad aggirarmi
attorno ai bastioni che potrei percorrere ad occhi chiusi; né sotto il portico romanico di
San Vicente; né a posare lo sguardo sulla cattedrale fusa nelle mura. Saltando giù dal
treno in mezzo alle sporte ed alle grida, punterò diretto verso San José.
Ringrazio don Felipe, il nostro vescovo. Per buona sorte del cielo e della terra
associati, per il suo umile servitore la clausura è sospesa. Credo nel favore della santa
Madre. Santa, non è rimasta gran dama anche in Cielo? In compenso di piccoli servigi
resi, mi ha offerto, per alcune ore, l'ingresso nel primo dei suoi colombai.
« Per una sardina, ha lasciato scritto, io sono riconoscente ». Campana, rumori di
chiavistelli, di serrature. Tre chiavi diverse. La porta cigola. Quattro forme velate:
quella in mezzo si toglie il velo per prima quando la porta si chiude dietro di me. È la
priora. Mi diceva ultimamente: « A San José, mi sembra talvolta di essere a
Gerusalemme! ». E, a dir vero, sto calpestando il terreno di un luogo sacro.
Tutto è povero: il suolo di pietra, di mattone. Un cofano. Una croce nuda sul muro calcinato. « Solo
Dios basta » è scritto in nero sul muro stesso: « Dio solo basta ».
A destra, un quadrato di giardino, « la huerta de Maria Bautista », grande come un
fazzoletto, cosparso di piante verdi.
L'una o l'altra delle accompagnatrici spiega, con una parola precisa, la stessa cosa da
quattro secoli.
« Mentre un giorno stavamo in refettorio, ci furono date certe porzioni di cetrioli. A
me toccò un cetriolo molto piccolo e internamente guasto. Come se nulla fosse,
chiamai una consorella tra le più dotate d'ingegno e di buon senso ch'erano li, per
mettere alla prova la sua obbedienza, e le dissi di andare a piantare quel cetriolo in un
nostro piccolo orticello. Mi domandò se doveva piantarlo diritto' o disteso; le risposi di
metterlo disteso. Ella andò lì e lo piantò, senza che le passasse per la mente che si
sarebbe certamente seccato... » (Fondazioni I, 3, p. 20).
La scala lavora intensamente: gradini di mattoni bordati di un listello di legno, alla
maniera di costruire dei Mori. I piani non hanno pavimento, ma un suolo
ammattonato, inabitabile per le pulci, mi dicono.
È « la scala del diavolo ». Scendendo per il mattutino di natale - il natale della persecuzione - nella
terribile notte del 1577, il vento delle Sierre, un vento d'inferno, spense la lampada; la santa Madre
mise il piede in fallo, cadde, si ruppe il braccio sinistro.
In cima, « il patio delle lampade a olio », che venivano qui pulite e preparate.
Minuscolo balcone di legno scuro, sporgente sui tetti rossicci; scorcio sull'azzurro,
sullo spazio e le cicogne; squarcio di cielo dove, di sera, si respira la tregua dell'estate.
L'inverno vi agita turbini di neve e lascia una scia di ermellino sulle ringhiere
crivellate di fessure.
Da lì, scendiamo nel coro.
- Cuidado, senor! attenzione! quanti gradini! quante salite! quanti passaggi ribassati!
Questo convento - spiega la vicepriora
- è fatto a pezzi e bocconi. La santa Madre comprava delle case. Troppo povera per
demolire tutto e costruire a nuovo, ha traforato muri, stabilito comunicazioni, un vero
labirinto. Questa piccola casa è un esempio eloquente di estrema povertà.
« Che la casa di tredici povere piccole suore faccia un gran rumore, cadendo, non sta
bene » (Cammino Il, 10, p. 31).
Eccoci nel coro. Un po' di pavimento, alcune panche disposte lungo i muri e, lusso per
Dio, delle piastrelle azzurre e bianche di Talavera de la Reina, fino a un metro da1
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suolo, tutt'intorno. Due aperture dànno sul santuario.
- La santa Madre ha fatto mettere queste grate -' commenta una suora. - Ha avuto
appena il tempo, prima che fossero collocate, di abbracciare la madre del padre
Gracian de la Madre de Dios... Quanti rapimenti, quante estasi in questo piccolo vano
attraverso il quale riceveva la comunione...: « Dio ci ricompensa con tanta
magnanimità che anche in questa vita si vede chiaramente il premio e il guadàgno di
chi lo serve » (Vita XXI, 12, p. 189).
Più commovente è la storia di Maria Dàvila, sorella del fedele cappellano Juliàn de
Avila. Spesso assente dal monastero, per accompagnare la fondatrice nei suoi nuovi
conventi, la sorella non lo riconosceva molto bene, attraverso tante grate e tende,
quando celebrava la messa.
- Sei tu, Julian? - gli chiedeva la monaca prima di ricevere la comunione.
- Sono proprio io, Maria - rispondeva il sacerdote.
Il giovane carmelitano non era né rigido né ampolloso.

L'avancoro ci attende. Nei primi anni, serviva da sala capitolare e da cimitero, come
all'Incarnazione. Un cofanetto contiene le ossa di Isabel de Santo Domingo.
Il suo nome, qui, suona grande quasi quanto quello della santa Madre. Passa una
suora, sorridente. Ce la indicano:
- Occupa la cella di Isabel de Santo Domingo.
È tutto dire!
Si staglia un grande riquadro di luce. Il giardino appare, minuscolo, stretto fra alte
muraglie. In mezzo, il famoso colombaio. Teresa lo comprò per erigervi quattro
eremitaggi.
A ovest, quello di Nostra Signora di Nazareth e dell'Annunciazione. C'era un vecchio cassone sul
quale la santa Madre si sedeva e leggeva in castigliano I Morali di s. Gregorio, che apprezzava in
modo particolare, e la Vita di Cristo scritta da Ludolfo il Certosino. Jerònimo de San José ricorda che
Dio le concesse grandi grazie. Lì, nel 1579, la vigilia di pentecoste, ricevette i quattro avvisi da
comunicare ai padri carmelitani scalzi affinché il loro ordine potesse avere sempre maggior
incremento (Relazioni LXVII, p. 515).
A nord, si apre l'eremitaggio di S. Agostino. S. Teresa, dopo la sua conversione, lo
amava molto. Per scrivere il libro della sua vita, « le Confessioni le sono, in una certa
misura, servite da modello »
L'eremitaggio di s. Caterina, piccolissimo, ha la porta esposta a sud. La Madre vi fece
dipingere la sua immagine sul muro stesso.
Il Cristo alla colonna illustra l'ultimo eremitaggio. « È stato dipinto a prezzo di
numerose preghiere, figlia mia », ripeteva la santa. « Il Signore mi ha dato un forte
desiderio di riuscire a farlo raffigurare. Sia benedetto lui che ha, per così dire,
acconsentito a posare per noialtri! ».
- Sì, - rievoca la priora - il pittore si chiamava Jerònimo Dàvila. Abitava nelle
vicinanze della città. Raccontava egli stesso come la Madre gli indicasse la maniera di
rappresentare i tratti del viso, i capelli, le membra. Il pittore non volle mai
ricominciare questo quadro. In quanto all'arte, se ne sarebbe dimostrato capace, ma
non avrebbe mai ritrovato l'ispirazione che gli dava la fondatrice. « Mi guidava con i
suoi consigli. Ma un giorno in cui mi riusciva impossibile raffigurare un brandello di
carne del gomito di Cristo, mi voltai, la tempestai di domande. Quando ripresi il
pennello, la commovente ferita si trovò dipinta non so come! ».
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Risaliamo attraverso le scale interne fino a una vasta sala che si stende tutta in
lunghezza. Un tavolo dalle assi consumate serve a spianare la biancheria, non a
stirarla. È il guardaroba.
- Amiamo questa stanza, perché servi da alloggio a Juan de Ovalle, marito di dofla
Juana, sorella della santa Madre. Li aveva fatti venire da Alba de Tormes per riuscire,
grazie alla loro presenza, a mantenere il segreto sull'acquisto e i lavori di adattamento
di questa casa.
La santa Madre ha sempre fatto lavorare le persone che la circondavano, con affabilità,
ma con energia. Che spirito d'iniziativa!
Come il fuoco, ben poche persone potevano resisterle.
- Ma, - dissi - era davvero una presenza temibile!...
E, sotto la luce splendente che entrava da un'alta finestra, ci mettemmo a rievocare
alcune storie di famiglia.
Un giorno, Gonzalito, il figlio degli Ovalle, cadde, esanime. Aveva quattro o cinque
anni. Il padre si mise a gridare. « Per amor di Dio, stia zitto! » lo supplicava la santa
Madre. Chiuse la porta perché la sorella non la sentisse, prese il bambino sulle ginoc-
chia... Dopo una mezz'ora o un'ora, usci; lo teneva per mano.
Dofla Guiomar le ripeteva: « Il bambino era morto. Come èpossibile che sia vivo? ».
La santa sorrideva, in silenzio, ma, alla fine, rispose: « Non dica sciocchezze! ».
Che cosa avvenne al piccolo Giuseppe, nato il 4 settembre 1561? Fu battezzato a San
Vicente. Il padrino era Francisco de Salcedo; la madrina, dofla Maria Guiomar. La
Madre lo cullava con una strana cantilena: « Giuseppe, Dio ti faccia santo o ti prenda
in cielo come un angelo ». Il bimbo mori. Il viso di Teresa s'infiammò, e la santa disse
a sua sorella: « Rendiamo grazie a Nostro Signore! che gioia vedere questi piccini
andare in cielo e una moltitudine di angeli venire incontro a loro!

Mezzogiorno fiammeggiava nel cielo di Avila. Notai, sul mattone della


pavimentazione, una chiazza di luce. I campanili della città suonavano l'Angelus,
trasfigurando il silenzio immenso.
Con passo lieve, nelle loro silenziose alpargatas, le suore mi conducevano al chiostro
superiore.
- Oh! - diceva la priora - queste non sono le gallerie dell'Incarnazione. Basta il tempo
di recitare un'Ave per farne il giro.
Semplici pilastri sostengono le tegole scure. Una vite sale dal basso e orna il parapetto
di pietra. Qui è sospesa la campana della fondazione, che pesa appena tre libbre.
Durante due secoli, fino al 1868, fu trasferita a Pastrana, dove suonava per i capitoli
generali. Oggi, è tutta sforacchiata dal tempo.
Ogni anno, con gran festa, suona per la processione del 24 agosto, come per rinnovarsi
nello spirito della riforma.
-Lei viene da troppo tempo ad Avila, seflor - aggiunse la priora - e da così lontano,
che la campana non può fare a meno di suonare in suo onore.
E un suono acuto, appena più forte di un rumore di campanacci nella Cordigliera,
riempì il minuscolo chiostro.
- Ecco la scala di santa Ana!
Con quale rispetto saliamo quei ripidi gradini!
Ana de San Bartolomé era infermiera. Un giorno, mentre, stanchissima, saliva questi
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scalini, con una tazza di brodo in mano, Nostro Signore le apparve, prese la
ciotola e le disse: « Va' ad occuparti delle altre malate! ».
Là, cielo e terra si uniscono: le grazie dall'alto si mischiano con le influenze, i
raffreddori, le miserie di quaggiù. E la gloria del Verbo si decifra attraverso una
lavanda di piedi.
Tristo chi se ne stupisce.
Grandi cose schiverà.
Capirà ciò che lo aspetta in cima a questa scala che sembra una scala. a pioli?
- Ecco la cella della santa Madre.
La porta pesante, munita di un semplice saliscendi di legno, gira cigolando. Si rimane
colpiti dalla luce che, come un'onda pura, irrompe da un'alta finestra.
Il pagliericcio, sulla destra, è ricoperto da un bigello che ricade fino alla
pavimentazione del suolo.
Su una stretta mensola sono ammucchiati alcuni vasi, provenienti dal Perù. Li portò a
Teresa don Lorenzo, suo fratello; servivano alle sue abluzioni.
Ai piedi del letto, un riquadro di sughero. Sul muro di sinistra, una croce immensa dà
l'impronta a tutto lo spazio.
Ma la cosa più commovente è, sotto la finestra, quel poyo, panca di mattoni, cubo di
muratura. Seduta per terra, lì la santa Madre terminò di redigere il Castello interiore.
Era il 29 novembre 1577, vigilia della festa di 5. Andrea.
So bene che la Madre, divenuta errante, non abitò molto in questa stanza. All'epoca
delle sue fondazioni, dormiva vicino alla porta della clausura, in una specie di
mangiatoia che si conserva come ricordo. Partiva spesso dopo mezzanotte, precedendo
l'alba, e non voleva disturbare le notti troppo brevi delle sue figlie.
Eppure qui, sotto questa pioggia di azzurro e ancora più spes so nel cuore della notte,
Teresa terminava il suo capolavoro, cominciato a Toledo il 2 giugno 1577, domenica
della Trinità.
Cinque mesi di interruzione non le impediranno, checché ne dica (Castello, Quinte
Dimore IV, 1, p. 360), di riprendere il filo del suo insegnamento.
Le più ricche pagine del suo genio furono redatte in questa angusta soffitta.
Accanto, alloggiava Ana de San Bartolomé, pronta ad accorrere alle sue chiamate,
giacché, nel momento più violento della persecuzione scatenata contro il suo ordine, lo
spirito naturalmente geniale di questa eterna malata univa la scrittura all'azione.
Con un tatto che sembra innato in loro, le suore si ritirano nel corridoio scuro e
nudo - il corridoio del noviziato - il tempo di dire a bassa voce, in quella lingua
mirabile, le parole così nobilmente adatte a questo luogo:
« Avviene in tanta pace e in tale assoluto silenzio tutto ciò di cui si serve il Signore
per arricchire e istruire qui l'anima, che mi fa pensare alla costruzione del tempio di
Salomone, dove non si doveva sentire alcun rumore. Così in questo tempio di Dio, in
questa sua dimora, solo lui e l'anima gioiscono l'uno dell'altra in un profondissimo
silenzio.
« Qui la cerva ferita riceve acqua in abbondanza. Qui ella si diletta nel tabernacolo
di Dio. Qui la colomba inviata da Noè a vedere se era cessata la tempesta, trova il
ramo d'olivo, come segno che ha scoperto la terraferma fra le acque e le tempeste di
questo mondo.
« Oh, Gesù! Se potessi conoscere i molti passi contenuti nella Sacra Scrittura per far
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comprendere questa pace dell'anima!
« Oh, mio Dio, sapendo quanto essa sia importante per noi, fate che i cristiani
abbiano la volontà di cercarla! Sia per sempre benedetto e lodato da tutte le sue
creature! Amen » (Castello, Settime Dimore III, 11, 13, 15, p. 485ss).

5 - Figlia della Chiesa

Joseph Lortz ha scritto queste frasi significative sulla rinascita della Chiesa cattolica nel XVI
secolo: « Una parte del lavoro che ècompiuto al servizio della ricostruzione viene sempre più in con-
tatto diretto con la preghiera. In Spagna, S. Teresa pone espressamente nel suo programma la
preghiera per i difensori della Chiesa contro l'eresia, per i predicatori e le persone colte ».
In effetti, quando mi trovo nella minuscola cappella di San José, sistemata nel 1577
da Francisco de Salcedo con il nome di « Capilla san Pablo », e sotto il cui pavimento
riposa il suo corpo, non posso fare a meno di riandare col pensiero a quella prima e
definitiva gravitazione, intorno alla quale si sono incessantemente volti i desideri, gli
slanci, l'azione efficace della santa Madre: il sostegno della Chiesa.
Nessuno oserebbe mettere in dubbio che Teresa sia stata cattolica nella raggiante
pienezza del termine. Sua nipote, Teresa de Jesùs, dichiarava nel 1610 che la si sentiva
spesso rendere grazie a Dio, ad alta voce, di averla fatta figlia della Chiesa. Sperava di
salvarsi come membro del suo Corpo, grazie alla Passione e al sangue di Cristo Nostro
Signore.
Quest'amore, la Madre lo aveva attinto naturalmente e direttamente dalla linfa del
suo popolo. Cinque secoli di lotta contro l'occupante musulmano che alternativamente,
secondo i tempi, risparmiava o perseguitava i cristiani, una razza altera, di costumi
austeri imposti dalla Cordigliera centrale; la rude Meseta, l'inverno senza pietà, l'estate
implacabile; il senso del dovere, il gusto del tragico, la familiarità con la morte, queste
eterne componenti dell'anima iberica, Teresa le aveva ricevute alla sua nascita come
un omaggio della Vecchia Castiglia.
Per di più, come abbiamo detto, nipote di un converso, di un ebreo sinceramente
entrato con la sua famiglia nella fede cattolica, erede di un uomo la cui conversione
era costata cara al suo onore e alla sua fortuna, la Madre non poteva non avere
acquisito questa maturità spirituale, un senso plenario e gustoso della catòlica.
L'ignoranza religiosa era diffusa ovunque nelle campagne. Le ragazze che da lì venivano per
essere accolte a San José mancavano spesso dei rudimenti del catechismo per vivere da contemplati-
ve il mistero cristiano. Teresa faceva dunque venire in parlatorio dei teologi e, dopo le loro
spiegazioni, chiedeva che l'una o l'altra delle giovani esponesse i suoi dubbi. Durante la ricreazione,
come se si trattasse di un gioco, faceva varie domande di dottrina e desiderava che rispondessero
come fanno i bambini.
Come avrebbe dunque potuto non esigere dalle postulanti soprattutto questo senso
della Chiesa?
Si giudichi dalla testimonianza di Ana de San Bartolomé:
« Quando, in una religiosa, non vedeva un grande attaccamento al bene della Chiesa e
alla conversione delle anime, anche se, da un altro punto di vista, la considerava molto
dedita alla penitenza e progredita in virtù, non teneva conto di tutto questo, ma la
riteneva sospetta e poco sicura ».
Chi potrebbe stupirsi di questa passione per la Chiesa che nasceva dalla sua
esperienza spirituale più intima e più originale?
« Questa visione mi procurò una grandissima pena al pensiero delle molte anime
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che si dannano... e un vivo impulso di riuscire loro utile » (Vita XXXII, 6, p.
288). Da tali sentimenti muoveva la fondazione del primo monastero delle scalze.
Nulla poteva animare le nuove carmelitane più del sentimento acutissimo di una bat-
taglia gigantesca di cui costituivano l'esercito nascosto ma efficiente. La Madre le
stimolava tutte con coplas inflammate che venivano cantate allegramente in occasione
delle professioni e delle feste.
« Non dormite or, non dormite, ché Dio manca dalla terra »(Poesie XXIX, p. 620s).
La guerra divampava laggiù, in Germania, nelle Fiandre, in Francia; ma Teresa
sapeva bene che il Nemico aveva seguaci decisi anche qui, in terra castigliana.
« Venne da me un sacerdote che da due anni e mezzo si trovava in peccato
mortale... pur continuando a celebrare la messa. Gli altri peccati, sì, li confessava, ma
questo diceva che gli era impossibile confessarlo, essendo troppo brutto. E desiderava
grandemente liberarsene, ma da solo non ci riusciva ».
Come vediamo, Teresa ritrova a cinquant'anni la stessa storia pietosa che aveva
rattristato un'estate ed i suoi vent'anni, a Becedas.
Prima conversione dello sventurato. La tentazione aumenta di violenza. « Io tornai a
raccomandarlo alle mie consorelle, che presero molto a cuore la cosa, e per le cui
preghiere il Signore mi avrebbe fatto questa grazia ».
La Madre si offre di soffrire al posto del penitente. « Fu così che passai un mese di
grandissimi tormenti... Avrei sopportato quella sofferenza per molti anni ancora, pur di
vedere libera quell'anima. Di tutto sia lodato il Signore, perché molto può l'orazione di
coloro che lo servono, come credo che facciano le sorelle di questa casa » (Vita XXXI,
7-8, p. 275s).
Non è possibile avere alcun dubbio in proposito. Fin dal primo capitolo del
Cammino di perfezione, la Madre dichiara che le suore di San José, questa prima
fioritura di carmelitane scalze, sono « tutte dedite alla preghiera per i difensori della
Chiesa, per i predicatori e per i dotti che la sostengono » (Cammino I, 2, p. 24).
È una gran sventura che « questo mio Signore sia così perseguitato da coloro che ha
tanto beneficato, da sembrare che questi traditori lo vogliano crocifiggere di nuovo e
ch'egli non abbia dove reclinare il capo!
« Oh, mio Redentore, il mio cuore non può giungere a tanto, senza sentirsi spezzare
di pena! Che cos’è oggi questo atteggiamento dei cristiani? Possibile che a
perseguitarvi siano sempre quelli che più vi devono? » (Cammino I, 2-3, p. 24).
« Fra così grandi tempeste, come sono quelle che oggi sconvolgono la Chiesa »
(Vita XIII, 21, p. 125) e nel momento in cui ella « era pronta ad affrontare mille morti
» (Vita XXXIII, 5, p. 299), la casa di tredici povere suore diventa simile a una città
fortificata.
Ah, era davvero figlia d'Avila questa donna che scrive come ha sentito raccontare
negli annali del suo paese o della propria famiglia: « Il paese è interamente occupato.
Ritirarsi nella città, una città assai ben difesa. Un pugno di coraggiosi fa meglio che
una schiera di codardi. A San José non ci sono traditori. Neppure la fame può
costringere l'assediato ad arrendersi. Morire piuttosto che capitolare »
Non si tratta certo di assistere con le armi sua maestà il re cattolico.
Diverso è il fronte: sforzarsi di « aiutare » preti, teologi, religiosi con le nostre preghiere, affinché
si fortifichino nello studio e in una vita esemplare, e così « vengano ora in aiuto del Signore »
(Cammino III, 2, p. 34).
Senza immaginarselo, la grande castigliana, istintivamente, ritrova le parole di s.
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Ignazio nel corso degli esercizi spirituali,
quell'arma di prima scelta al servizio della Chiesa, quando parla della maniera in cui
bisogna sostenere chiunque voglia « combattere per Dio sotto il vessillo della croce ».
A San José, si viveva dunque per la Chiesa. Più di ogni altra, la santa Madre, in
silenzio, militava.

Dio è un grande signore.


Un giorno di agosto del 1566 suonò alla ruota del convento un frate francescano, il
cui nome era Monso Maldonado de Buendia. Veniva dalle « Indie », spiega la Madre;
« Occidentali », precisa Isabel de Santo Domingo. « Eloquente, audace - come
leggiamo in una nota di quel tempo - idealista e lottatore infaticabile », veniva a
trovare il re Filippo Il, munito di diverse lettere, contenenti le lagnanze dei missionari
e degli indigeni, i Cacicchi della Nuova Spagna. Pressanti raccomandazioni pregavano
sua maestà di voler prestare attenzione ai racconti e agli appelli che il religioso gli
avrebbe esposto.
Certamente, la sua eloquenza toccò il cuore del re cattolico e dei superiori: nel
1567, un centinaio di religiosi si accingeva ad imbarcarsi per i paesi d'Oltremare.
L'effetto delle parole di Fray Alonso, pur essendo poco spettacolare, provocò
tuttavia una rivoluzione nello spirito della fondatrice. « Questo gran servo di Dio
cominciò a raccontarmi dei milioni di anime che fl si perdevano per mancanza di
istruzione religiosa, ci fece una predica con un'esortazione che ci animava alla
penitenza, e poi se ne andò » (Fondazioni I, 7, p. 22s).
Secondo il suo solito, la santa Madre possedeva una capacità di risonanza tanto più ampia agli
appelli della Chiesa quanto più grandioso appariva il progetto. Come la stoppa, prese fuoco. Non si
trattava più soltanto di salvare un povero prete infedele ai suoi doveri. Tutte le Indie Occidentali,
quel continente aperto all'avidità dei conquistadores, ma anche alla grazia, la chiamavano. Parecchi
dei suoi fratelli erano partiti verso quel lontano paese di cui fra poco, a Siviglia, la sua giovane
nipote, la figlia di Lorenzo, le avrebbe descritto gli splendori e le curiosità. Non rischiavano forse di
perdere l'anima quei crociati di nuovo genere? si chiedeva afflitta la Madre. A maggior ragione,
quegli infelici « Indiani » braccati, sfruttati, spesso martirizzati e uccisi per saziare la cupidigia di
sedicenti evangelizzatori.
« Dopo la partenza di quel religioso, racconta Isabel de Santo Domingo che ne era
stata testimone oculare, la santa Madre si recò in un romitorio; con gemiti d'angoscia,
chiese a nostro Signore di mostrarle il mezzo per salvare quelle anime ». Teresa
conferma il fatto ne Le londazioni, ma aggiunge queste frasi che esprimono il suo
senso profondo della missione della Chiesa:
« Invidiavo molto coloro che per amore di nostro Signore potevano dedicarsi alle
missioni, anche a costo di soffrire mille morti: mi accade, infatti, quando leggiamo
nelle vite dei santi che operarono conversioni, di sentire ben più devozione,
commozione e invidia per questo, che per tutti i martiri da essi patiti, essendo tale la
vocazione che il Signore mi ha dato. Mi sembra, infatti, che egli ci apprezzi di più se,
mediante la sua misericordia, riusciamo a guadagnargli un'anima con i nostri sforzi e
con la nostra preghiera, che non per quanti altri servizi possiamo rendergli »
(Fondazioni I, 7, p. 23).
Il passaggio del francescano, il suo grido d'allarme, provocarono più che l'invio di
missionari nel Messico. Nel cuore della Vecchia Castiglia, in quella città freddamente
avvolta nelle sue mura e nelle sue glorie passate, una monaca di clausura, oh para-
dosso!, si avventurava sull'immensa strada della preghiera e delle fondazioni.
74
La santa Madre ne aveva ricevuto assicurazione formale, seppure confusa
riguardo alle realizzazioni.
« Mentre ero in grandissima pena, una notte, stando in orazione, mi si presentò il
Signore nella maniera solita e, mostrandomi grande amore, quasi a volermi consolare,
mi disse: "Aspetta un poco, figlia, e vedrai grandi cose" » (Fondazioni I, 8, p. 23).
In quel tempo, pur essendo certa di vedere realizzarsi queste parole, la santa Madre
ignorava che nell'aprile del 1567 il padre Generale dei carmelitani sarebbe arrivato ad
Avila e che, grazie al suo appoggio, la riforma del Carmelo avrebbe preso uno
sviluppo insospettato.
Più che mai, l'opera di Teresa e, senza premeditazione, Teresa stessa s'impegnavano
al servizio della Chiesa.

6
LA FIORITURA DI UN'OPERA

« Vostra sono, per voi nacqui, che volete voi da me? » (Poesie Il, p. 585).

Questo poema, uno dei più belli scritti dalla santa Madre, esprime bene l'anima
della fondatrice alla vigilia di spiccare il volo. Questa donna di quarantadue anni, mai
inattiva, spinta da Dio, sta infatti per lasciare le mura anguste della sua città.
Vicino al palazzo di dofla Guiomar s'innalzava il campanile del collegio San Gil,
dei gesuiti. La via scende a precipizio. Dopo 50 metri, ecco la povera casa di San José.
In Avila tutto si tocca, tutto è piccolo. Ma, in fondo, per servire la « Sovrana maestà »,
per amare la « Sapienza senza fine, bontà ben dell'alma mia »(Poesie Il, 1, p. 585),
bastava un piccolo angolo. Chi potrà arrestare l'avventura del granello di senape?
Svilupparsi, crescere, riprodursi: questa è la sua legge. D'altra parte, la congiuntura si
rivela difficile per la Chiesa. Dal 1566, Pio V, papa riformatore, occupa la cattedra di
Pietro. Nel 1567 si ribellano i Paesi Bassi, coinvolgendo nella lotta la politica e le
controversie religiose. I Moreschi insorgono in Andalusia. Il mondo dei conventi resta
fiacco, meschino, mentre la cristianità crolla sotto l'incendio.
Ebbene, no! la riforma del Carmelo non rimarrà chiusa dentro la città dei cavalieri.
« Ditemi che volete voi da me, Signore! ».
Ancor prima dell'alba, Juliàn d'Avila copre l'ultimo carro, davanti alla porta chiusa
di San José. Ha l'ordine di bussare un'ora o due dopo mezzanotte. La Madre non ha
dormito nella sua cella per non svegliare tutta la casa, ma dentro un'artesa, madia, ma-
stello per la biancheria, o mangiatoia, come volete, vicino all'ingresso.
La fondatrice, a passi felpati, esce dalla clausura, seguita dalle sue compagne velate. Sul suolo
ghiacciato, sotto il vento delle Sierre o nella frescura estiva, le fruste schioccano, le mule si agitano, i
sonagli tintinnano.
Si sale verso la strada di Arévalo. Quando l'alba imbianchirà il cielo, sugli alti
cammini, non ci saranno più, sballottate da bestie sudate, che due o tre carrette chiuse.
Punti grigi, insignificanti, inghiottiti dal cielo immenso di Castiglia.

« Date a me le tenebre o il giorno chiaro, rivolgetemi qua e là, che volete voi da me? »
(Poesie Il, 8, p. 586).

Quale vita errabonda ha abbracciato la Madre! Durerà quindici lunghi anni, per
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concludersi con la sua morte.

1 - Un appoggio inaspettato

« Aspetta un poco, figlia, e vedrai grandi cose » (Fondazioni I, 8, p. 23). La Madre,


abituata alla serietà di Dio, non dubitava che queste parole si sarebbero adempiute, ma
le era assolutamente impossibile immaginare la loro realizzazione concreta.
Ora, cosa inaudita, arrivò in Spagna il generale dell'ordine del Carmelo, fra Giovanni
Battista Rubeo di Ravenna.
- Lei potrà capire l'importanza della sua venuta - mi spiegava il padre Domingo
Bafiez, leggendo il capitolo Il de Le londazioni. - Ma la sua presenza, la sua azione, si
anifestano chiaramente solo a chi è informato del contesto politico e religioso
dell'epoca.
In poche parole, il domenicano mi schizzò il quadro della situazione. Nel 1563, si era chiuso il
concilio di Trento, nel quale tanto più s'inseriva la riforma degli ordini religiosi in quanto, simbolo
dei tempi, tutto era cominciato con un monaco agostiniano, Martin Lutero. Il nostro re Filippo Il, da
parte sua, progettava più rigorose rimesse in ordine. Per il Carmelo, egli desiderava che il provinciale
di Aragona, Miguel de Carranza, si incaricasse della faccenda con il titolo di vicario generale. Al
capitolo di Roma, il 20 maggio 1564, i carmelitani spagnoli rifiutarono l'eletto di sua maestà il re
cattolico. I partecipanti al capitolo, allora, imposero al padre generale Rubeo, da poco nominato, di
recarsi in Spagna di lì a due anni. Quell'uomo di cinquantasei anni, dal profilo aristocratico e di
profonda cultura - lo chiamavano infatti « un arsenale di tutte le scienze » - era scelto bene per la
delicata missione di cui veniva incaricato. Partì dunque per Madrid sotto i migliori auspici. Il papa
domenicano Pio V, molto stimato alla corte spagnola, era stato eletto al trono papale. Il 12 giugno
1566, il padre Rubeo, visitatore italiano, fu ricevuto come si conveniva all'Escorial; Filippo Il gli
promise il suo appoggio.
Ne avrebbe avuto bisogno il generale?
I carmelitani di Andalusia costituivano un vero vespaio. La provincia era governata
da una cricca che ordinò di assicurare all'indesiderabile visitatore che tutto andava per
il meglio nei migliori dei monasteri.
Non mi dilungo a descrivere la rete di menzogne, di inganni, di mezze verità in cui
il padre Rubeo, nella sua probità, non riusciva a veder chiaro. La rilassatezza intaccava
non solo l'osservanza - certi priori non celebravano la messa più di quindici volte
all'anno! - ma anche i costumi. Correvano strane voci, per esempio, riguardo a
scandali e a malversazioni a Ecija, « la padella per friggere » dell'Andalusia. Tutto era
falsato, macchiato in anticipo, affinché il riformatore non ci capisse nulla. I
carmelitani andalusi godevano a corte di potenti amicizie. « I neri devoti », come veni-
vano chiamati, circuivano il re e il consiglio reale.
Dopo parecchi mesi di pazienza, il generale doveva costatare il fallimento dei piani
di riforma per la Spagna del Sud. Da lì, entro dieci anni, sarebbe insorta la crisi di cui
la Madre e la sua opera avrebbero fatto le spese. « Le cose - notava amaramente il
padre Rubeo nelle sue memorie - andavano di male in peggio ».
Per grazia di Dio, la Castiglia gli riservava maggiori consolazioni.
La sera del sabato 15 febbraio 1567, il padre generale e la sua scorta (legato
pontificio, cuoco, barbiere, segretario, domestici) entravano nella nostra buona città di
Avila.
La Madre, come ci ha confidato ne Le /ondazioni, temeva due cose: la prima, che il
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generale le facesse dei rimproveri. Non sapendo come si erano svolti i fatti,
avrebbe avuto ragione; la seconda, che le ordinasse di tornare al monastero
dell'Incarnazione (Fondazioni Il, 1, p. 24).
Il visitatore si comportava secondo il suo solito: il 17 febbraio, visita ai carmelitani; il 18,
all'Incarnazione, ricevimento dei delegati del capitolo. Dopo di che il padre Rubeo fece una visita
improvvisa al re, a Madrid. Protocollo, preoccupazioni, e sempre le faccende dell'Andalusia; infine,
passando al ritorno per i conventi de La Moraleja, Medina, Valladolid, Fontiveros, rientrava in Avila
proprio per il capitolo provinciale convocato il 12 aprile 1567.
Tutto si svolse tranquillamente, poiché, secondo una celebre osservazione, « la
Castiglia era una provincia totalmente riformata ».
In mezzo alle elezioni provinciali, priorali, alle celebrazioni di ogni specie, come
non avrebbero potuto parlargli del nuovo monastero di San José? La fondazione,
possiamo immaginarlo, era di data ancora troppo recente. Aveva dunque sollevato
l'emozione del popolo e dei conventi così leggermente che nel corso della sua visita
non ne venisse informato un superiore autorevolissimo, proveniente da Roma?
La Madre scrive: « Procurai che venisse a San José, e il vescovo - responsabile in
primo luogo della riforma - ritenne giusto che gli si facesse quell'accoglienza che si
sarebbe fatta a lui stesso » (Fondazioni Il, 2, p. 25).
Del resto, precisa Juliàn d'Avila, don Alvaro de Mendoza in persona aveva avvisato
il padre Rubeo che « tredici monache conducevano una vita perfetta, secondo l'antica
regola del Carmelo ».
Introdotto nel minuscolo parlatorio, il padre Rubeo di Ravenna non credeva ai suoi
occhi. Donne vestite con un saio, senza alcun fronzolo, calzate con semplici
alpargatas. Un quadro di miseria: legno grezzo, povere tavole, muri non intonacati, un
giardino popolato di eremitaggi.
La scoperta di un'autentica vita povera, reclusa, consacrata alla preghiera, come
l'aveva sognata egli stesso nella sua giovinezza, lo sconvolse.
« Si rallegrava di vedere il nostro modo di vivere, che gli sembrava un'immagine,
anche se imperfetta, di quello che era stato l'inizio del nostro ordine, e di constatare
come si osservava in tutto il suo rigore la regola primitiva che non veniva seguita
allora in nessun monastero dell'ordine » (Fondazioni Il, 3, p. 25).
Non sappiamo in quale giorno né quante volte il generale venne in quell'insignificante « ritiro di
Dio » (Cammino III, 5, p. 36). Ma, fin dal primo incontro, spiega Isabel de Santo
Domingo, si entusiasmò e ci fece un'esortazione molto spirituale.
« Egli, nei miei riguardi, era molto affettuoso e pieno di benevolenza, continua la
Madre, e, tutte le volte che poteva sottrarsi alle sue occupazioni, veniva al monastero
per trattare di cose spirituali, e lo faceva come chi è favorito dal Signore di insigni
grazie: pertanto l'udirlo ci era motivo di gioia » (Fondazioni Il, 4, p. 26).
- Tuttavia, - aggiunse il padre Bànez - la Madre e il padre Rubeo non potevano
limitarsi a celebrare le grandezze del Signore. Subito, per un gusto spontaneo di
chiarezza, la fondatrice, informandolo di ogni cosa con assoluta sincerità e franchezza,
gli rese conto dei suoi sentimenti e di quasi tutta la sua vita (Fondazioni Il, 2, p. 25).
Cosciente o no, questa era una buona tattica per conquistare quel monaco che, da
quando era arrivato in Spagna, si era trovato di fronte agli intrighi andalusi e non
aveva incontrato, eccetto in Castiglia, che religiosi e religiose mediocri, contenti della
loro mediocrità e grandemente desiderosi di non uscirne. Quanto fumo! Quanto fango!
Qui, su queste terre dell'interno, si respirava un'aria più pura che nella pianura del
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Guadalquivir.
Istintivamente, il superiore generale vide nella fondazione di San José il seme di ciò
che da lungo tempo auspicava e che faticosamente cercava di suscitare: un ritorno alle
origini.
La Madre non presentò nessuna domanda, ma il padre Rubeo voleva che una
riforma così evangelica progredisse. In data 27 aprile 1568, redasse una patente molto
elogiativa per la fondatrice e la sua opera, autorizzandola a « fondare monasteri,
secondo lo spirito della regola primitiva, in ogni luogo della Castiglia. A tale scopo,
poteva prendere all'Incarnazione alcune monache, volontarie, certo! Nessun
provinciale poteva opporsi a queste nuove fondazioni senza incorrere in gravi
sanzioni. La fondatrice era sotto la giurisdizione diretta del generale dell'ordine ». Il16
maggio dello stesso anno, il padre Rubeo inviava un'altra patente, precisando che i
suddetti monasteri potevano essere installati in « tutta la Castiglia, sia nella Vecchia
che nella Nuova ».
- Con i miei orecchi - concluse il padre Bànez - ho sentito il padre generale
comandare alla santa Madre di fondare « tanti monasteri quanti erano i capelli che
aveva sulla testa! ».
Era come sfondare una porta aperta poiché, lo sappiamo bene, per lottare contro gli
eretici, l'impotenza, la miseria della Chiesa, Teresa aveva sognato un solo
combattimento: quello della santità (Cammino III, 1-5, pp. 33-36).
In quello stesso tempo, nelle Fiandre, il duca d'Mba metteva tutto a ferro e fuoco.
Strana maniera di purificare dai suoi disordini il Corpo di Cristo! A San José si stava
preparando un'altra riconquista, anch'essa sotto il segno della veemenza, ma con le
armi dello Spirito.
Conoscendo la santa Madre come noi la conosciamo, chi potrebbe dubitare che
l'ordine di fondare monasteri l'avrebbe lasciata a lungo inattiva? Eccole, le « grandi
cose » di cui le parlava il Signore nel suo eremitaggio. Fatiche, prove, persecuzioni,
contraddizioni, nulla sarebbe riuscito a spezzare il suo slancio creatore. Da tutti questi
colpi - è facile indovinarlo - Teresa si sarebbe rialzata più forte e sanamente
aggressiva. Questione di temperamento, dirà qualcuno. Senza dubbio, poiché in questa
donna di cinquant'anni passati s'incarnano un popolo, una stirpe, una città che non
cedettero mai al timore, alla viltà, allo sforzo. Ma anche il sangue del Redentore,
l'anima, lo Spirito la solleva: anima visitata!

« Vostra son, vostra, ché mi riscattaste, vostra, ché a voi mi chiamaste, che volete
voi da me? » (Poesie Il, 2, p. 585).

Per rinforzare la sua opera, nasce nella sua mente un'altra idea: ci vorrebbero degli
uomini, dei « carmelitani contemplativi ». Teresa si era confidata in proposito con
Isabel de Santo Domingo, la quale, come si ricorda, aveva obiettato, nel 1562, a Pedro
d'Alcàntara, suo confessore, che non avrebbe voluto entrare in un ordine che non
avesse il suo equivalente maschile. Il santo aveva risposto, senza dubbio d'accordo con
la Madre, che Dio avrebbe potuto fare sì che anche « alcuni uomini si facessero
monaci scalzi » e assistessero il Carmelo femminile riformato.
Ora, il vescovo don Mvaro de Mendoza veniva in aiuto di Teresa e chiedeva al
padre generale il permesso di fondare nella
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sua diocesi qualche monastero di scalzi. Il padre Rubeo esitava. Aveva dovuto
faticare tanto in Andalusia, e non era ancora finita! E poi, c'erano così pochi monaci in
Castiglia!
Il superiore ritornò a Roma. Questa partenza « fece soffrire molto la Madre che si
era molto affezionata a lui » (Fondazioni Il, 4, p. 26). Anch'egli era assai affettuoso nei
suoi riguardi. La chiamava « cara figlia »; e sappiamo bene con quale arte Teresa sape-
va trattare gli argomenti.
La Madre chiedeva l'autorizzazione di fondare monasteri di frati, il che « sarebbe
riuscito a gran servizio di Dio ». Inutile sottolineare gli ostacoli che potevano
incontrarsi: era un'opera meritoria, che avrebbe reso « servizio a Nostra Signora, di cui
egli era molto devoto » (Fondazioni Il, 5, p. 27).
La risposta partì da Barcellona, ai primi di luglio. Per i carmelitani scalzi, i permessi
erano meno ampi che per le monache: due conventi soltanto. Era richiesta inoltre
l'autorizzazione dei provinciali: quello vecchio e quello nuovo. Il padre generale era
rima-sto scottato da quelle disgraziate storie di Andalusia, dalle suscettibilità spagnole,
dall'intervento del re, del consiglio reale. Poteva immaginare che da quelle discordie
fraterne sarebbe nata un giorno la crisi del 1578? Carmelitani calzati e scalzi lottavano
fra loro all'ultimo sangue, rischiando di mandare in rovina l'opera di San José.
- Particolare ricco di conseguenze, - concluse il padre Bàfiez - la patente per i
carmelitani contemplativi era indirizzata al procuratore generale Mariano di Leone, a
Toledo. Il priore di Medina del Campo, padre Antonio de Heredia, la portava al suo
convento.
Strana coincidenza: un giovane carmelitano vi aveva appena celebrato la sua prima
messa. Si chiamava Juan de Santo Matia e non aveva che venticinque anni.
Dall'inverno di quel fatidico anno 1568, la storia, la Chiesa, il mondo lo avrebbero
ormai conosciuto sotto il nome di Giovanni della Croce.

2 - Più pazza che mai

Mezzogiorno sulla Plaza Mayor di Medina del Campo. Il sole di agosto, allo zenit, ha spopolato il
selciato. Anche il venditore d'acqua si è seduto, sfinito, su una panca di pietra all'ombra dei portici.
Eccomi qui, in piedi, ad aspettare, come quella cicogna sulla torre più alta della collegiata.
Sudato, balbettando delle scuse, con un ampio cappello calcato sul viso, Gaspar
Daza accorre dal noviziato dei gesuiti.
- Il padre Baltasar Alvarez mi ha trattenuto a lungo... Abbiamo rievocato ancora una
volta gli anni fortunati in cui conobbe la santa Madre. Mi ripeteva la sua immensa
riconoscenza perché, anche se aveva lasciato Avila, non per questo Teresa lo aveva
abbandonato, ma aveva continuato a essere in corrispondenza con lui. Lo aveva
salvato da una crisi di disperazione, proprio in quell'anno 1567 in cui faceva
professione solenne nella Compagnia di Gesù. Da allora, si rendeva conto che la sua
anima era visitata dalla grazia, che la sua vita si era trasformata. « A chi lo devo,
ripeteva, se non alla santa di Avila?...
Eravamo adesso seduti tutti e due sotto i portici. Sentivo che il mio interlocutore era
lanciato su un argomento che gli stava a cuore e desideravo saperne di più.
- Ora non mi meraviglio che Medina del Campo sia divenuta un luogo privilegiato
per la prima fondazione: la presenza del padre Baltasar Mvarez spiega tutto.
- La sua presenza e quella del padre Antonio de Heredia -continuò Daza. - Nel 1564, questi era
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stato priore dei carmelitani d'Avila. Nella primavera del 1567, veniva mandato a reggere il
convento Santa Ana di Medina. Due amici di una simile statura morale, anche in una città popolata e
sovrappopolata al tempo delle sue fiere, era senza dubbio un vantaggio inestimabile per la fondatrice
che, prudente, inviava il cappellano di San José, Juliàn de Avila, ad informarsi sul posto. Come
dappertutto, sorsero ben presto delle contestazioni. Chi era questa madre Teresa de Jesùs? una
visionaria, un'altra Magdalena de la Cruz?... Approvazioni di domenicani celebri, come il provinciale
Pedro Fernàndez, conferma dei gesuiti. Anche l'insigne presidente delle /erias si rallegrava della
venuta delle scalze. « Quanto bene avrebbe fatto a quella città sempre brulicante di affari! ».
Certamente! Clero, monaci e mercanti erano felicissimi di accogliere delle carmelitane. Era come
aprire una sorgente in un deserto, accendere un fuoco di amore di Dio nel paese di Mammona.
Bisognava però trovare una casa! « Se ne affitti una delle migliori! » ordinava da Avila la fondatrice.
La sua intenzione era evidente: non voleva che a Medma ricominciassero le umiliazioni, le
vessazioni, le persecuzioni patite all'epoca della fondazione di San José. Per l'onore del Carmelo, ella
desiderava che tutto si svolgesse in maniera decorosa, anzi solenne. Il priore Fray Antonio doveva
dunque affittare un appartamento, poi comprare una casa. Il tutto, naturalmente -oh ingegnosità dei
poveri! - senza nemmeno un centesimo, « sin blanca ». In poche parole, sen or, tali furono i
preparativi di questo insediamento.

Ci eravamo alzati e risalivamo la via Santiago verso il Carmelo di San José. Il


Maestro Gaspar, assorto nei suoi ricordi, continuava il suo racconto. Di stretta misura,
evitò una mula e il suo cavaliere, lanciati a tutta velocità. L'uomo imprecò come un
turco contro l'ecclesiastico distratto che gli sbarrava la strada.
- Povera Madre! - mi spiegava Daza. - All'annunzio di questa nuova avventura, tutta
Avila mormorava, sogghignava. "Più pazza che mai, si diceva, quella figlia dei
Cepeda! Vedremo come andranno a finire le cose!". E Isabel Bautista, postulante, si
sentiva cantare in tutti i toni: "Ancora un'altra sciocchezza!... Non finisce mai di fare
sciocchezze!".
« Gli amici avevano mosso una quantità di obiezioni. Pure al vescovo, benché fosse
un grande sostenitore della Madre, tale insensatezza sembrava enorme, anche se allora
non lo fece capire (Fondazioni III, 3, p. 30).
« C'era una ragazza, Isabel Fontecha, che non aveva potuto trovar posto a San José
d'Avila. Offriva la sua buona volontà e un po' di soldi: non tanti da poter comprare una
casa, ma abbastanza per prenderla in affitto e per sopperire alle spese del viaggio.
Partimmo dunque mercoledì 13 agosto 1567. Accompagnai la comitiva fino al ponte
dell'Adaja e l'abbandonai là dove la strada risale in direzione di Gotarrendura,
Arevalo... Erano sette monache a dorso di mulo, quattro delle quali del monastero
dell'Incarnazione. Il nostro amico Juliàn de Avila apriva la scorta con la sua
cavalcatura; due carrette seguivano sobbalzando. Sul far della notte, le fondatrici
arrivavano ad Arevalo, la cui roccaforte si intravede a una lega di distanza,
sull'orizzonte.
« Un prete, Alonso Esteban, aveva preparato loro un alloggio in casa di alcune
donne devote. Teneva in mano un messaggio. Juliàn lo lesse e impallidì. "Le suore -
dichiarava don Alonso Alvarez, a cui era stato affittato un appartamento - non devono
assolutamente lasciare Avila. Gli agostiniani, miei amici, si oppongono alla
fondazione di un monastero vicino al loro; se sarà necessario, faranno causa...
« E il nostro bravo Alvarez non voleva storie!
« "Eccoci cacciati in un bel pasticcio!", pensava Juliàn. "Tornare ad Avila dopo
tutto il chiasso provocato dalla nostra partenza, significava diventare lo zimbello di
tutti".
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« Quando furono entrati in casa dell'ospite Ana de Velasco, Juliàn confidò
il tenore del messaggio alla Madre. Un attimo d'angoscia oscurò il suo viso. "Il
demonio comincia ad agitarsi: vuol dire che in questo monastero si servirà bene il
Signore. Devo riflettere... Ma non una parola alle due suore del monastero del-
l'Incarnazione che hanno faticato tanto per riuscire a partire. In quanto alle altre, non
c'è nulla da temere: per amor mio soffrirebbero qualunque travaglio" (Fondazioni III,
4, p. 32). Nella notte cominciava a spirare aria di complotto. Fortuna volle che il
nostro amico padre Domingo Bàfiez si trovasse ad Arevalo. Consultato, dichiarò che
la faccenda degli agostiniani non era insormontabile.
« "Chi più conosce Dio, trova più facili le sue opere" (Fondazioni III, 5, p. 32).
« L'essenziale era di congedare alcune persone, gli accompagnatori, di far condurre
le quattro suore dell'Incarnazione in casa del cugino della Madre, parroco di
Villanueva del Aceral, a due leghe da lì, e d'installarsi a qualunque costo a Medina.
« Prima dell'alba, il priore Fray Antonio, accorso di notte, sollevava il battente della
locanda. A parer suo, la casa di cui aveva concordato l'acquisto sarebbe stata
sufficiente. Un vasto portal, atrio, portico d'ingresso, come se ne vedono da noi,
chiuso da una pesante porta, si poteva adattare a cappella, adomandolo con alcuni
drappi.
« Guardi, - esclamò Gaspar Daza - ecco il punto esatto, divenuto oggi l'entrata del
monastero. Siamo passati or ora davanti a quello di quei tali agostiniani così poco
compiacenti! ».
- Dunque - dissi - secondo la Madre, la prima squadra arrivò a Medina a
mezzanotte.
- Evidentemente, Juliàn de Avila aveva lasciato la fondatrice a Olmedo, residenza estiva del
vescovo, don Alvaro de Mendoza.
A briglia sciolta, aveva raggiunto Medina. Bussando energicamente all'entrata del convento di
Santa Ana, aveva buttato giù dal letto alcuni carmelitani sbalorditi.
« "Arriva la Madre... Dateci l'occorrente per celebrare la messa prima dell'alba!".
« Ho sentito cento volte raccontare questa storia dal buon cappellano. Si forma una
strana processione: il priore, due o tre monaci carichi di paramenti sacri, la Madre con
le sue suore velate. Impossibile seguire la strada che hanno percorso. Dal convento di
Santa Ana, girarono intorno alla città. Grazie a Dio, la casa benedetta si trovava, come
vede, in periferia. Tutti acceleravano il passo. Si sarebbero detti degli zingari carichi
del bottino saccheggiato in una chiesa... Se qualche alguazil li avesse sorpresi, avreb-
bero terminato la notte in prigione. Incontrarono alcune persone, scapestrati o
ubriaconi, che li apostrofarono, ma, allungando il passo, monaci e suore fecero presto
a distanziarli.
« Ahimè! aveva pensato la Madre alla grande corrida dell'Assunzione?... Dio
misericordioso! appena furono entrati sotto il portal, attraversarono la strada a tutta
velocità alcuni tori che venivano condotti a colpi di frusta all'arena vicina.
« Il maggiordomo di dona Mana Xuàrez, la signora che aveva venduto la casa,
dormiva sodo. È quella l'ora di svegliare la gente perbene?... A forza di sentir bussare
alla porta, aprì, lesse la lettera della sua padrona e, mentre tutti si davano da fare,
sgomberò i locali verso le due di notte ».
- Ho sempre sorriso - dissi - dell'umorismo con cui Teresa racconta come quel
misero patio, « con il tetto di tegole senza assito e i muri senza intonaco » venne
trasformato come per incanto in una cappella (Fondazioni III, 8, p. 34).
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- Ah, senor, questo è dir poco! Tutti, infatti, a cominciare dal padre priore,
sembravano avere le traveggole, come gli Aramei del profeta Eliseo (2Re 6,18).
« "Era un cortile all'aperto, coperto di mucchi di immondizie", mi raccontava Dorotea de la Cruz.
Per quanto il maggiordomo mettesse a disposizione tutti gli arazzi della padrona di casa e una coltre
di damasco azzurro, per quanto tutti si dessero da fare a spazzare, a procurarsi i chiodi cercandoli nei
muri (non era quella l'ora di andarli a comprare!), ad adornare l'altare, a sistemare la campanella, una
rovina rimane sempre una rovina.
« Alle cinque, ci si mise a suonare a più non posso. Quelli che entravano restavano
senza fiato, si guardavano l'un l'altro e uscivano per chiamare i vicini. In un batter
d'occhio il patio si riempì:
cominciava la messa dell'Assunzione.
« Costrette a ritirarsi, le suore si nascondevano su per una scala che saliva agli
appartamenti, chiudendo dietro di sé una porta le cui fessure, come spiega Juliàn,
servirono loro "da coro per ascoltare la messa, da parlatorio per parlare, da
confessionale per confessarsi, da persiane per guardare".
« Il notaio convocato prese atto della fondazione del nuovo monastero di San José,
e la Madre "era molto contenta, perché era per lei di grande consolazione vedere una
chiesa di più dove fosse il Santissimo Sacramento. Ma il suo entusiasmo durò poco"
(Fondazioni III, 10, p. 34s).
« Tutto ben considerato, in molte parti della casa i muri erano completamente a
terra.
« Qualcuno' venne a spaventarla: "Qui siamo a Medina. Ogni anno per la fiera
vengono Francesi, Fiamminghi, molti dei quali aderiscono al luteranesimo... Non
avete paura che vi giochino un brutto tiro per il Santissimo Sacramento?".
« Come! "Sua Maestà in mezzo alla strada?... Non avevano visto giusto coloro che
avevano criticato questa avventura? Le sembrava impossibile proseguire il lavoro
intrapreso. Rimandare le suore ad Avila significava esporle allo scherno. Come
sperare per il seguito delle fondazioni dopo aver subito un simile fallimento all'inizio
dell'impresa? D'altro canto, le parole udite nell'orazione non erano un'illusione? Il
demonio l'ingannava una volta ancora?" (Fondazioni III, 11, p. 35) ».
- Ho notato - osservai - che a Medina Teresa subì lo stesso assalto che all'epoca
della fondazione di San José d'Avila. Sono perciò molto commosso da questo grido
dell'anima: « Oh, Dio mio! Quale è mai lo stato di un'anima che voi volete lasciare
nell'angoscia! Non c'è dubbio che quando mi ricordo ditale afflizione e di qualche altra
che ho sofferto in queste fondazioni, mi sembra che, al loro confronto, non debba far
caso delle sofferenze corporali, anche se sono state molte » (Fondazioni III, 11, p.
35s).
- Sì, - riprese il Maestro Daza - ma la fondatrice si piega sotto il peso senza crollare. Nasconde le
sue pene alle compagne e, soprattutto, passa all'attacco: le si trovi una casa da prendere in affitto! In
quanto a lei, come un tempo le eroine di Avila sulle mura, fa la guardia.
« Naturalmente, alcuni uomini vengono lasciati a vegliare il Santissimo Sacramento
durante la notte; ma se accadesse loro ciò che capitò agli apostoli nell'orto degli Ulivi,
ogni fatica diventerebbe inutile! Da una finestra del primo piano, Teresa vegliava. Il
chiaro di luna, nel cielo d'estate, passando attraverso la tettoia scalcinata, inondava di
luce la cappella in rovina.
« Lei che è un po' poeta, sen or, e sa apprezzare i simboli, che cosa pensa di questo?
All'estremo limite di questa città sempre dedita agli affari, una donna dal gran cuore
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consuma le sue notti a pregare davanti al Santissimo Sacramento ».

3 - Sul mercato di Medina

Nel cuore della Vecchia Castiglia, Medina del Campo rappresentava, durante il
Medio Evo e nel XV secolo, uno dei centri commerciali più frequentati e meglio
forniti. « Se vuoi scendere verso Madrid, verso Siviglia, verso l'Africa, passi a
Medina; se raggiungi il Portogallo o il regno di Valencia, attraversi Medina. A nord
della città in periferia, si trova la diramazione della strada per Burgos, per i Pirenei, e
dunque per la Francia e le Fiandre... Infine, non dimenticare mai che la nostra grande
Isabella la Cattolica nacque a qualche lega da qui, a Madrigal de las Altas Torres, per
andare a morire nel suo castello de la Mota, il 26 novembre 1504, a cinquantatré anni
appena ». Ecco quello che mi spiegava con fierezza un vecchio amico di Medina,
Angel Tejerina. Mercanti, banchieri, commercianti, mulattieri e borseggiatori si
davano appuntamento a quelle ferias che, scaglionate su parecchie settimane,
mischiavano affari e feste, cambiali e balle di lana, armi e gioielli.
Chi l'avrebbe creduto? Proprio a Medina la Madre incontrò l'uomo di cui aveva
bisogno per fondare i « carmelitani contemplativi ».
« Dio sia benedetto! » ripeteva la riformatrice, a detta del padre Graciàn: « per la
mia fondazione, ho un frate e mezzo ».
Chi era dunque questa metà di frate? Si trattava senza dubbio del priore di Santa
Ana: Fray Antonio de Heredia.
Non era per lei uno sconosciuto. Superiore dei carmelitani di Avila, nel 1565 era
stato incaricato dal provinciale d'interpretare il voto di perfezione che Teresa aveva un
tempo pronunciato. Molto attaccato al suo ordine, era temuto per la sua austerità. Per
tale ragione non era stato eletto provinciale al capitolo del 1567. Uomo dotto, ex
professore universitario a Salamanca, aveva ricoperto parecchie cariche. Era dunque
persona che godeva di una stima ben meritata. Strano gioco degli avvenimenti: come
abbiamo visto, proprio lui aveva portato da Toledo a Medina la patente del padre
generale, che autorizzava la fondazione di « carmelitani contemplativi ». È assai
probabile che egli fosse perfettamente al corrente della cosa quando la Madre, con
grande serietà, gli chiese consiglio su questa fondazione. « Appena venne a
conoscenza del mio disegno, se ne rallegrò molto e promise di esser lui il primo ad
aderirvi. Io credetti che scherzasse, e glielo dissi. Infatti, benché sia stato sempre un
buon frate, raccolto in se stesso, molto studioso e amante della sua cella, in quanto
uomo dotto, non mi sembrava che sarebbe stato adatto per dare inizio a tale opera, né
che avesse l'energia di promuovere l'austerità necessaria, essendo di salute delicata e
non fatto per questo » (Fondazioni III, 16, p. 38).
La Madre possedeva buone capacità di giudizio e di solito non doveva modificarlo.
Juliàn d'Avila, facendole eco, trovava il priore « molto raffinato nel suo abito e nella
sua cella; accreditava il suo ordine molto più per la sua distinzione che per il gusto del
disprezzo e l'umiltà ».
A San José, la fondatrice aveva scelto « quattro orfane povere », libere da ogni
relazione e da compromissioni con l'alta società. Il padre Antonio, uomo assai
autorevole, aveva in sé troppo sussiego e troppa suscettibilità. Bisognava metterlo alla
prova.
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« Non mi sentivo pienamente soddisfatta, pur ascoltandolo con piacere,
e lo pregai di attendere qualche tempo e di esercitarsi frattanto a praticare le
osservanze cui doveva impegnarsi » (Fondazioni III, 16, p. 38).
Elegante maniera di abbandonare le cose alla Provvidenza divina!
« Poco tempo dopo capitò in città un giovane padre ch'era studente a Salamanca; venne come
compagno di un altro, il quale mi disse mirabili cose sul suo genere di vita » (Fondazioni III, 17, p.
38).
Erano probabilmente i primi giorni di ottobre del 1567, poco prima della ripresa
delle lezioni.
Chi era dunque questo studente carmelitano di venticinque anni, modestamente in
piedi vicino alla grata? Di bassa statura, raggiungeva appena un metro e cinquanta.
Aveva la testa rotonda, forti mascelle, carnagione abbronzata, corporatura assai
emaciata. Appena ordinato sacerdote, era venuto a Medina a celebrare la sua prima
messa e a confortare la madre vedova. Il suo compagno, Pedro de Orozco, nativo di
Medina, parlava volentieri di Fray Juan de Santo Matia (era questo il suo nome). Fra i
suoi condiscepoli al collegio San Andrés di Salamanca, si conosceva bene la sua retti-
tudine, la sua intransigenza. Abitava una scomoda cella e, senza curarsi di quel che
diceva la gente, seguiva la regola primitiva del Carmelo.
Senza dubbio, era un po' temuto. In convento, con calma, diceva il fatto suo a chi si
lasciava andare. Il suo comportamento, condannando alcuni, lo faceva ammirare da
tutti. D'altronde, non faceva mistero della sua aspirazione: ritirarsi nella Certosa di
Santa Maria del Paular, come confessò alla Madre e ai suoi confratelli. Laggiù, nella
Sierra de Segovia, in fondo a boschi impenetrabili, vicino al rio Lozoya, dal 1390, i
certosini conducevano una vita ammirevole, protetti dall'altitudine, le foreste, il freddp
e la solitudine. Solo i re vi si avventuravano per la caccia, ma rispettavano la santità
del luogo, rifiutando, come Carlo V, di mangiare carne su quel territorio.
Per il momento, i due amici erano iscritti come « teologi sacerdoti » all'università di
Salamanca e avrebbero ricominciato a frequentare le lezioni il giorno della festa di S.
Luca.
I lavori della casa dove sarebbero andate ad abitare le carmelitane non erano ancora
terminati. La Madre accolse dunque il giovane frate in casa del mercante Blas de
Medina. Il giovane carmelitano candidato alla Certosa fece profonda impressione su
Teresa che, coraggiosamente, cercò di dissuaderlo dal suo intento:
« Egli poteva placare la sua sete di assoluto nell'ordine stesso della Vergine nel quale aveva fatto
professione e assunto il sacerdozio... Alcune donne seguivano già questa via stretta e il generale
dell'ordine aveva benedetto tale progetto. Per di più, le aveva dato una patente per fondare conventi
di carmelitani contemplativi. Perché non entrarvi? » (Fondazioni III, 17, p. 38s).
La Madre possedeva un grande potere di persuasione.
« Aspetti un po'! Se vuole condurre una vita più perfetta, lo faccia nell'ordine della
Vergine! ».
Ora, sappiamo bene come quel piccolo monaco amasse la Vergine Maria da cui, nel
suo villaggio natio di Fontiveros, aveva ricevuto un aiuto particolare.
« Egli s'impegnò ad aderire alla mia richiesta, conclude la fondatrice, purché non si
dovesse tardare troppo » (Fondazioni III, 17, p. 39).
Salamanca non è molto distante da Medina. Dall'8 dicembre all'epifania gli studenti
erano in vacanza. Fray Juan de Santo Matia ritornò a trovare la Madre.
Le monache si erano ormai stabilite in via Santiago, nel convento una volta in
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rovina, ora restaurato.
« Frattanto, le suore andavano acquistando la fiducia degli abitanti, che
cominciavano ad avere per loro molto affetto » (Fondazioni III, 18, p. 39). La città dei
mercanti e dei banchieri forniva un gruppo considerevole di novizie. Non mancava il
pane, poiché i benefattori dei gesuiti lo erano anche delle scalze. E i padri della
Compagnia di Gesù inviavano al convento le migliori delle giovani affidate alla loro
direzione spirituale. « Le novizie », conclude la Madre, « sembravano scelte dal
Signore quali conveniva che fossero per servire di fondamento a tale edificio »
(Fondazioni IX, 1, p. 84).
Fray Juan poteva interrogare, informarsi, e non mancava di farlo con quella
precisione, quella chiarezza che metterà ormai in ogni cosa, tanto nei suoi scritti,
quanto nella sua direzione.
Non ignorava certo tutto ciò che, nelle case dei borghesi e negli altri monasteri, si
andava dicendo a Medina sulla nuova fondazione. Che osservanza e che silenzio! Ecco
finalmente delle vere suore che si curavano anzitutto del Regno dei cieli! La Madre
dichiarava che in un anno certe novizie avevano progredito nell'orazione più che molte
altre in venti anni di vita religiosa.
Da parte sua, la riformatrice si mostrava soddisfatta di quel giovane monaco che la
Provvidenza le inviava. Del priore, era meno soddisfatta.
Adesso, conveniva aspettare il momento propizio per fondare il monastero dei carmelitani
contemplativi. Altre preoccupazioni la portavano altrove, a Alcalà, a Malagòn, a Valladolid. L'anno
1568 si annunciava fertile di avvenimenti. Fray Juan terminava i suoi studi a Salamanca. Poteva forse
immaginare che a una quarantina di chilometri da lì, non molto lontano dal suo villaggio natio, lo
aspettava un angolo sperduto, Duruelo, perché egli stesso vi si perdesse per sempre, in Dio?
Con la bella stagione, ricominciava la fiera di Medina. Baraonda di gente, di
denaro, di perdite, di guadagni, di truffe; il banale imbroglio umano.
Chi mai ha detto, non senza umorismo, che su quel mercato dove si incontrava di
tutto, la Madre trovò la migliore pietra della sua riforma: Fray Juan de Santo Matia,
votato alla sofferenza e alla gloria sotto il nome indimenticabile di Giovanni della
Croce?...

4 - Nel paese di don Chisciotte

Nella notte, ad Arevalo, come cospiratori. La stanza bassa della casa di Ana de
Velasco era illuminata con una misera lampada a olio. Il saio bianco del padre
Domingo Bàfiez disegnava un'ombra mobile sul muro di fronte, mentre la Madre,
sotto il suo velo rattoppato e ingiallito, sembrava schiacciarsi contro il tavolo.
Era il 13 agosto 1567.
- Madre, conosco benissimo la lettera che le scrisse a Toledo il venerabile Fray
Pedro d'Alcàntara. Lei sa che mi sono sempre dichiarato difensore della sua prima
fondazione in Avila.
- Senza rendite, padre, lo sa bene.
- Sì, senza rendite! Vi ho difeso tutte davanti alla giunta e al consiglio reale... Ma oggi, sua
signoria dona Luisa de la Cerda le offre di fondare un convento a Malag6n, con una rendita. Ha i suoi
motivi. Quel territorio, che il suo defunto marito comprò dall'imperatore, appartiene all'ordine di
Calatrava. Certo, sua maestà l'imperatore Carlo V aveva approvato... La morte improvvisa di Arias
Pardo, suo marito, ha lasciato la sua amica dona Luisa preoccupata per la salvezza della sua anima, a
causa di questo bene della Chiesa che egli avrebbe, in certo qual modo, male acquistato. Ella
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desidera fondare, non a Toledo, ma proprio a Malagòn, un convento del suo ordine, per
riparare, agli occhi del Signore, i danni causati alla religione. Aveva già proposto a
Pedro d'Alcantara un monastero per le sue case, ma egli si è spento prima di aver
potuto realizzare questo desiderio di fondazione. Ora, Malag6n è un povero villaggio,
privo di risorse. Come potrà permettere di vivere alla sua comunità? Dona Luisa,
insisto su questo punto, ci propone delle rendite. Vorrà rifiutarle? Il santo concilio
glielo consente e lei vorrebbe impedire al Signore di essere ben servito nel paese della
Mancia? Suvvia, Madre, non è ragionevole ostinarsi!
La Madre rifletté un istante, innalzò il suo cuore a Dio, ripensando alle precedenti, «
ripetute insistenze » della sua amica dona Luisa (Fondazioni IX, 3, p. 85).
- Bene, Padre, obbedirò. Chiedo soltanto una rendita conveniente, poiché « amo che
i monasteri o siano del tutto poveri o abbiano disponibilità sufficienti ad evitare che le
religiose debbano importunare chicchessia per ovviare alle loro necessità » (Fon-
dazioni IX, 3, p. 85).

Il debole sole dei primi giorni di primavera spuntava sul ponte d'Alcantara quando,
il mattino del 31 marzo 1568, un impressionante corteo di carrette e di mule lasciava
Toledo e si avventurava sulla strada dell'Andalusia.
In testa, con due domestici, avanzava il padre Pablo Hernàndez, gesuita, confessore
di dofla Luisa e della santa. A causa della sua serietà, del suo tono grave e moderato,
la Madre lo chiamava « il padre eterno » (Lettere 27.5.1568, p. 57).
Seguivano le vetture con sei monache che avrebbero assistito la fondatrice. Quattro
suore erano state convocate in fretta e furia dall'Incarnazione di Avila. Arrivate il
giorno prima, la Madre non aveva esitato a farle rimettere in cammino. Dopo tutto, si
era in quaresima, e un viaggio fatto con il freddo, sotto la pioggia, con notti trascorse
in locande sordide e rumorose, valeva un buon digiuno.
Dal mese di dicembre, due carmelitane scalze accompagnavano la Madre: Antonia
del Espiritu e Ana de los Angeles.
Difficile strada: montagne, strette valli, tratti di monotone pianure. Quante volte l'ho ripetuto al
padre Bànez: Malagòn, sperduta in quelle grasse terre della Mancia, pare all'estremità del mondo.
Con grande scalpore, le vetture e il loro carico di suore fecero il loro ingresso nella
serata del giovedì primo aprile. Un nugolo di bambini accorse per accompagnare le
fondatrici fino alla fortezza in cui avrebbero alloggiato provvisoriamente, aspettando
che fosse terminato il loro monastero, situato proprio al centro del villaggio, vicino
alla chiesa. Era composto da diverse case, una delle quali veniva chiamata la
Quinteria.
I vicini se ne rallegravano. In quell'angolo isolato del regno, paese devoto quanto
altri mai, l'erezione di un convento era considerata come una benedizione di Dio,
presenza propiziatoria, atta a scongiurare mille mali. La fondazione si adornava quindi
di tutti gli splendori di una solennità: « La domenica delle palme dell'anno 1568,
essendo venuti a prenderci in processione gli abitanti del luogo, noi, coi veli calati sul
viso e tenendo indosso le cappe bianche, andammo nella chiesa del villaggio. Dopo la
predica, si portò il Santissimo Sacramento nel nostro monastero. Ciò fu motivo di gran
devozione per tutti. Lì mi trattenni alcuni giorni. Una mattina, mentre, dopo essermi
comunicata, stavo in orazione, udii da nostro Signore ch'egli in quella casa sarebbe
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stato ben servito »(Fondazioni IX, 5, p. 86).
- Si, - osservò Juliàn d'Avila - il primo gruppo di fondatrici, come quelle che
sarebbero venute in seguito, non era certo composto da donne mediocri. A buon
diritto, la Madre poteva scrivere a dona Luisa: « Le posso dire che sono tanto virtuose
che, anche me assente, non mancheranno alla perfezione neppure di un apice »
(Lettere 18.8.1568, p. 49s).
In realtà, quello che « mancava » loro era soprattutto il silenzio, la pace necessaria
all'orazione. Le povere donne erano accampate nel cuore del villaggio, sulla piazza del
mercato. Tutto si combina - chi non lo sa? - sotto i portici della « Plaza Mayor »:
vendite, acquisti e feste. Lì si parla, si grida, si danza, si litiga. Lì ci si batte, di giorno e di notte.
Al tempo della mietitura e della vendemmia, nel paese della Mancia il vino è caldo, e si beve fino ad
ubriacarsi. Provatevi dunque a pregare, assaliti dal clamore di ubriaconi e di canti osceni! « Lasciare
un convento in quel punto era un'indecenza », concludeva Juliàn d'Avila. Restava quindi in teso con
dofla Luisa che questa sistemazione sarebbe durata soltanto poco tempo.
All'uscita dalla città, sulla via di Toledo, la Madre era stata condotta in un vasto
oliveto. In presenza del corregidor, del parroco e di una delle sue monache, ella
esclamò: « Lasceremo il nostro convento ai frati francescani... Non andiamo più
lontano:
Dio ha scelto questo luogo per il mio monastero ».
- Ha notato quanto è breve il capitolo IX de Le londazioni?
- sottolineava il padre Domingo Bànez - quello che racconta l'installazione del
convento di San José de Malagòn?
Tuttavia, questo nuovo insediamento nel paese di don Chisciotte segna una tappa
decisiva per la riformatrice. Ella acconsente a dotare il suo convento di rendite,
allontanandosi così dai consigli che le dava Fray Pedro (Vita XXXV, 5, p. 319); si
sottomette ai teologi che le espongono il pensiero della Chiesa e del concilio:
flessibilità, libertà, obbedienza. Per la prima volta, nelle clausole di fondazioni,
ammette che le monache potranno essere non più tredici, ma ventuno, numero
definitivo dal quale non si discosterà mai più. Infine, accetta che vi siano delle
converse -freilas o sargentas - per provvedere alle incombenze materiali. Aveva avuto
questa idea al suo passaggio nel convento di Maria de Jesùs, ad Alcalà de Henares.
- Credo di sapere - risposi - che questo monastero divenne un vivaio di grandi priore
per i futuri colombai di Beas, di Siviglia e di Caravaca.
- E esatto, - continuò il padre Bànez - ma forse un fatto di cui non si parla abbastanza è
la visione che ebbe a Malagòn, il secondo giorno di quaresima del 1570. Venuta da
Toledo, dopo aver ricevuto la comunione, le apparve Cristo, circondato da un grande
splendore. Le disse « che quello non era il momento di riposare, ma di far presto a
fondare questi monasteri, perché egli trovava il suo riposo nelle anime ch'essi
accolgono... I monasteri che avrei fondato nei piccoli centri dovevano essere simili a
questo... Dovevo, infine, scrivere la storia di queste fondazioni » (Relazioni IX, p.
473s).
Così, una delle opere più originali della Madre e, senza dubbio, uno dei libri più
deliziosi della letteratura spagnola, Lefondazioni quello che Teresa redasse a tempo
perso negli ultimi dieci anni della sua vita, ebbe origine a Malagòn.
Mercoledì 19 maggio 1568, la Madre si allontanava, a dorso di mula, verso Toledo.
« La prego di non dispiacersi se mi son portata via la sella che lei teneva al castello
», scriveva a dofia Luisa (Lettere 25.5.1568, p. 54).
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Poteva immaginare che sarebbe stato necessario aspettare circa dieci anni
perché la duchessa realizzasse le sue promesse e costruisse un vero monastero nel
famoso oliveto indicato dalla Madre?
Il 24 novembre 1579, la santa sarebbe ritornata nel villaggio della Mancia. Aveva
lasciato Avila da otto giorni mentre imperversavano trombe marine e burrasche di
neve. Nella locanda non c'era fuoco acceso, né luce, né cibo. I vestiti erano zuppi e
non c'era modo di farli asciugare. A tutti la Madre diceva: « Coraggio! questi sono
giorni davvero ricchi per guadagnarsi il cielo! ». Appena un giorno di riposo a Toledo
e di nuovo in viaggio verso il paese della Mancia.
La prima mattina, eccola che ispeziona il nuovo convento. I lavori erano molto
avanzati, ma tutt'altro che finiti!
- Madre, - le dissero capomastri e carpentieri - ci occorrono sei mesi per terminare
ogni cosa e permettere alle suore di trasferirsi qui.
- Come? - esclamò la « vecchietta » di sessantaquattro anni che, la sera prima, era
stata vista scendere dalla mula, tremante di febbre. - E impossibile! Le mie monache
devono entrare nel nuovo convento per la festa della concezione della Vergine, ossia
fra dieci giorni.
Detto fatto. Fin dall'alba, Teresa lasciava il primo convento, situato sulla pubblica
piazza, e s'installava di fronte al nuovo edificio. Era la prima a prendere la scopa o la
pattumiera per pulire i detriti. Per dieci giorni, eccetto la domenica, si privò della
messa e della comunione. Si faceva vedere in convento solo molto tardi, verso le
undici di sera, per recitare l'ufficio e riposarsi un pochino.
Non tutto andava per il meglio. Due operai le tennero testa, coprendola con un torrente d'insulti.
Alla spagnola! Ma la santa aveva la fortuna di placare i contrasti. Con voce dolce e ferma,
rispondeva ai trasgressori, che si addolcivano come agnelli.
- Noti questo monastero, - mi diceva il padre Bàfìez. - E stato interamente ideato
dalla fondatrice: un vasto chiostro quadrangolare, le gallerie superiori arieggiate e le
sale di sopra, cosa strana, con il soffitto alto; il lavatoio, il locale per filtrare l'acqua,
l'immenso giardino cosparso di eremitaggi, il coro inferiore un po' incassato (vi
avrebbe fatto più fresco in estate) e il coro superiore con l'impiantito (per mitigare i
rigori dell'inverno).
L'architetto non era uno sconosciuto. Mastro Nicola de Vergara aveva costruito
l'ospedale Tavera, a Toledo. Nel preventivo era tutto previsto: dalla qualità delle
tegole per coprire il tetto fino alla collocazione delle porte, delle finestre, delle
serrature. Chi, più della Madre, meriterebbe il titolo di patrona degli architetti, lei che,
con tanta minuziosità nel particolare, tante esigenze nella rifinitura, aveva disegnato i
progetti del suo terzo colombaio?
Nella sua lettera al padre Graciàn, possiamo dunque leggere un grido di trionfo: « Il giorno della
concezione queste monache si sono trasferite nella nuova casa. Io vi ero arrivata otto giorni prima, e
non vi ebbi meno da stancarmi che dello stesso viaggio, per il molto che vi era ancora da fare... La
traslazione si è fatta solennemente portando in processione il SS. Sacramento, tolto dall'antica casa.
Le monache erano piene di gioia, e mi parevano altrettante lucertolette che uscissero al sole
dell'estate » (Lettere 12.12.1579, p. 865).

Spesso, vado a sedermi sulla piazzetta davanti alla chiesa e a questo Carmelo di San
José de Malag6n. Il mese di agosto, appesantito dalla canicola, diffonde una luce così
viva che le palpebre vi bruciano.
All'angolo, sulla strada, un'angusta cappella contiene la pietra su cui, secondo la
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tradizione locale, si sedeva la santa per accelerare la fine dei lavori del convento.
Passa un trattore, un ragazzino in bicicletta: l'uomo e il bambino si fanno il segno
della croce o si tolgono il berretto.
Chi potrebbe negarlo? Nel paese di don Chisciotte non ci sono soltanto uomini che
combattono contro i mulini a vento!

5 - Al servizio della Madre di Dio

Natale 1568. A Valladolid, nel palazzo di dona Maria de Mendoza, sorella del
vescovo di Avila e di don Bernardino, il fondatore del quarto Carmelo teresiano. In
questo salone subitamente trasformato in convento che dava su una tribuna della
parrocchia del Rosario, la Madre parla con emozione del mistero di Betlemme. Poco
più di un mese fa, era stata portata quasi morente dalle rive del Rio de Olmos, il primo
tentativo di monastero, ed eccola ora lì a rievocare « le lacrime del Bambino Gesù, la
povertà di sua Madre, la durezza della mangiatoia, il rigore della stagione, la
scomodità della stalla »... Ascoltando le sue parole, le suore sono piene d'entusiasmo.
Se hanno patito tanto, sono decise a soffrire di più. « Ancora maggiori sofferenze,
ancora! » gridano, poiché, malgrado i doni della sua benefattrice -Teresa scrive a suo
fratello che « è quasi soffocata dalle molte delicatezze che le usa la dona Maria »
(Lettere 17.1.1570, p. 95) ,malgrado le attrattive di quell'angolo di palazzo da cui si
può seguire la recita dell'ufficio parrocchiale, malgrado la sua salute minata e « la sua
testa così malandata che Dio solo sa come riesce a scrivere » (Lettere 2.11.1568, p.
70), questa quarta fondazione è partita male.
Don Francisco de Salcedo, amico di don Carrillo, segretario del vescovo di Avila,
me ne aveva detto qualcosa, in quella sua maniera frizzante e pittoresca. Stavamo
passeggiando a grandi passi lungo la cattedrale, quando esclamò:
- Valgame, Dios! Aiutaci, Signore! Non basta essere un Mendoza, vescovo della città dei
cavalieri, avere fratelli e sorelle sposati con i personaggi più influenti della corte, perché di colpo
tutta la famiglia sia santificata e altamente edificante! Ascolti! il minore della famiglia, Bernardino,
rimasto celibe, non si lasciava mai sfuggire l~ occasione di una scappatella. I suoi facili costumi,
glielo assicuro, sfidavano la cronaca di Madrid, di Toledo e di Valladolid. Voleva forse riscattarsi
offrendo alla Madre « una sua casa che disponeva di un orto assai fertile con annessa una gran vigna
»? (Fondazioni X, 1, p. 87). Ella vi avrebbe fondato un Carmelo che avrebbe interceduto per i suoi
peccati. Dopo aver firmato la donazione nella dovuta forma, l'illustre dongiovanni fu colpito da un
male fulmineo. Riuscì a malapena a confessarsi « a segni ». Il Signore disse alla Madre che « la 'sua
salvezza era stata grandemente in pericolo e che non sarebbe uscito dal purgatorio finché non si fosse
detta la prima messa nel monastero fondato a cura di lui » (Fondazioni X, 2, p. 88).
- Malgrado la sua amicizia per la famiglia del vescovo de Mendoza - feci notare a
Salcedo - mi sembra che la fondatrice manifestasse una certa reticenza ad accettare
quella casa « situata a un quarto di lega dalla città » (Fondazioni X, 1, p. 87).
- Dice bene, sefior. La Madre esitava: fondare in un luogo deserto, inaccessibile alle elemosine.
Lei che scriveva a suo fratello: « Per ragione di questi nostri conventi, case di Dio e dell'ordine, mi
son fatta una affarista così esperta che ormai mi intendo di tutto » (Lettere 17.1.1570, p. 95s), fece un
ragionamento semplice: « Andiamo a Valladolid, poiché lì ci viene offerta una casa con il suo orto...
Poi vedremo...». Ho saputo da Juliàn d'Avila, il fedele compagno di strada, che le carmelitane non
potevano capitare peggio. Certo, Rio de Olmos, a una buona distanza da Valladolid quando vi si
entra dalla « Puerta del Campo », offriva un'abitazione attraente e un orto delizioso; ma, situato fra
due fiumi, quel posto « non poteva non essere malsano » (Fondazioni X, 3, p. 88). Del resto i
carmelitani avevano abitato lì nel 1560, ma se ne erano andati tre anni più tardi. Adesso, bisognava
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provvedere a ciò che era più urgente: celebrare la messa e prendere possesso del luogo. Juliàn
d'Avila si dette da fare, secondo il suo solito, per ottenere i permessi richiesti e, con l'appoggio di
conoscenze influenti, il cappellano di San José poté offrire senza indugio il Santo Sacrificio. Quando
la Madre si appressò per ricevere la santa Eucaristia, le apparve « splendente e giubilante » don
Bernardino. Il benefattore saliva al cielo, pieno di riconoscenza per la sua benefattrice (Fondazioni
X, 5, p. 89). Per il momento, era stato fatto l'essenziale: liberare quell'anima dal purgatorio. Da
quando aveva lasciato Malagòn, questo pensiero, confermato dalle ingiunzioni divine, non dava
tregua alla fondatrice: « Un giorno, mentre stavo in orazione a Medina del Campo, il Signore mi
disse di affrettarmi, perché quell'anima soffriva assai » (Fondazioni X, 3, p. 88). « Sia di tutto lodato
e benedetto, egli che ricompensa con la vita eterna e con la gloria del paradiso la pochezza delle
nostre opere e le rende grandi, nonostante il loro scarso valore! » (Fondazioni X, 5, p. 90). Noti
come, alla maniera di s. Agostino nelle sue Confessioni, la santa Madre infiora le sue narrazioni di
preghiere.
- Si, - dissi - ma che cosa accadde quando cominciarono ad innalzarsi i muri della
clausura?
- Le suore, che si erano dimenticate di avere un corpo, si ammalarono tutte. Il buon
Juliàn tornò ad Avila, essendosi buscato una bella febbre quartana. Non smetteva di
parlare della bellezza del paesaggio. Pensate un po': due fiumi, filari di pioppi, salici!
Nel suo arido altopiano di Avila non aveva mai goduto di tanta frescura, ma non aveva
neppure contratto febbri malariche ditale violenza! Il nuovo convento divenne un
ospedale: l'ultima a mettersi a letto, evidentemente, fu la Madre: cuoca, infermiera,
sempre pronta a ogni corvée per lavare, pulire, rifare i letti. Per fortuna, dofia Maria,
sorella del defunto, accorse in vettura da Valladolid. Le sue osservazioni furono
perentorie e la sua decisione rapida: « Cinque anni fa, i vostri confratelli carmelitani si
sono ammalati tutti qui, per le stesse ragioni che hanno fatto ammalare voi. Ho fatto
costruire per loro un monastero alla Puerta del Campo... Andiamo! Vi porto tutte a
casa mia. Celebrerete lì la festa di ognissanti; poi penseremo a trovare una casa più
ospitale ».
- Deve convenire, senor - concluse don Francisco - che le potenti amicizie della
santa Madre si sono rivelate aiuti efficaci nelle sue imprese e che dovunque sia andata
le hanno aperto le porte. A Valladolid, più tardi a Palencia, a Burgos, il vescovo di
Avila don Alvaro de Mendoza non solo non ha mai tradito la sua fiducia, ma
l'appoggiava dovunque e la corte, i prelati, la nobiltà, si coalizzarono per aiutarla. Sia
benedetto Colui che, all'insaputa di tutti, permetteva al Carmelo riformato di estendere
i suoi rami sulle due Castiglie!

Poste temporaneamente al riparo, le monache non potevano mettere le radici nel


palazzo di dona Maria... Dalla tribuna della parrocchia del Rosario, le suore seguivano
la recita dell'ufficio, ricevevano i sacramenti, ma pochi arpenti quadrati non si addico-
no molto a donne per le quali la vita eremitica costituisce la vocazione fondamentale.
La fondatrice veniva di già chiamata a Toledo.
Bisognava far presto, costituire in fretta una comunità. Dona Maria chiedeva che
venisse da Avila la nipote di Teresa, Maria Bautista, la quale, a sua insaputa, si
preparava a divenire la celebre priora di Valladolid.
Frattanto, veniva acquistata una casa, situata in fondo alla via reale, appartenente a
Maria Hernàndez de Isla: portico, cortile, giardino, non ci mancava nulla. Dona de
Mendoza riprendeva il podere di Rio de Olmos, troppo malsano, e pagava,
evidentemente con il suo denaro, il nuovo colombaio. Appena quindici giorni dopo la
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conclusione dell'atto di vendita, tutto si metteva a posto.
Otturare alcuni muri, dato che le aperture davano sulla via principale; innalzare un
recinto intorno al giardino; collocare delle grate. C'era di che riempire le brevi giornate
d'inverno in cui l'acqua gela nella giara e la neve schiaccia i tetti.
La mattina della festa di s. Biagio, il 3 febbraio 1569, si svolse il solenne
trasferimento delle suore. Presiedeva il vescovo di Avila. I carmelitani vicini, i
domenicani, le confraternite e la nobiltà di Valladolid accompagnavano le carmelitane.
Stendardi, ceri, campane a distesa, devozione e baccano, grida di fanciulli e ovazioni,
in imponente processione, come nella settimana santa, inauguravano il monastero
della concezione di Nostra Signora del Carmi-ne, a Valladolid.
Vi sarebbe rimasta a lungo la fondatrice? Le chiamate provenienti da Toledo si
facevano insistenti.
« Le prometto di partire immediatamente, senza indugio, né curarmi dei miei mali,
neppure della febbre, caso mai mi tornasse. Del resto è giusto che, mentre lei si dà
tanta premura, faccia anch'io il poco o nulla di sopportare qualche cosa, qualche lieve
fatica. D'altronde, non dovremmo desiderare di meglio se pretendiamo veramente di
seguire colui che visse sempre nei travagli pur senza averli meritati » (Lettere
9.1.1569, p. 79).
Ma la malattia della sua benefattrice dona Maria, il freddo, la neve, il ghiaccio
rendono impossibile il viaggio, come scrive la Madre il 19 febbraio 1569. Il demonio
continua ad agitarsi a Valladolid; lo farà ancora di più a Toledo, « per non poter
soffrire queste cose. Ma il Signore è onnipotente e il maligno se ne dovrà fuggire con
le mani nei capelli » (Lettere 19.2.1569, p. 81).
E lo dimostrava bene!
Valladolid procurava un'altra gioia alla fondatrice: Fray Juan de Santo Matia
prendeva l'abito degli scalzi e diveniva Fray Juan de la Cruz.
In una notte stellata di agosto del 1568, otto monache erano partite da Medina del
Camp9. Il giovane carmelitano, che seguiva ancora la regola mitigata, partecipava alla
spedizione.
Alla testa della scorta, la Madre avanzava in una carretta; l'accompagnava Fray
Juan, a dorso di mula. E parlavano di Dio, di orazione... La strada andava dritta sulla
Lianura. Sotto il chiarore lunare, le masse scure delle pinete si alternavano alle messi
d'orzo e di avena, biancheggianti. A volte, durante le soste, tutti si sgranchivano le
membra intorpidite, rinfrescati dal tepore dell'ombra, e il muschio secco dei
sottoboschi, tagliente come vetro, frusciava in mezzo alle risa dei viaggiatori.
Passata Tordecillas dove mori Giovanna la Pazza e le alte muraglie del suo
convento di Santa Clara, nell'alba nascente si profilava il castello di Simancas. A
destra, si doveva prendere la vecchia strada, e già ondeggiava il fogliame di Rio de
Olmos.
Il convento ambulante andava ad ascoltare la messa di s. Lorenzo al monastero dei
carmelitani calzati. Per buona sorte, vi si trovava il provinciale, Fray Alonso
Gonzàlez. Bisognava trattare la fondazione dei « carmelitani contemplativi ».
Fray Alonso era « vecchio, d'indole assai buona e privo di malizia ». Con lui, la
Madre fece sfoggio della propria eloquenza:
- Ma come, padre, vorrebbe ostacolare una così santa opera? Consideri il conto che
dovrà renderne a Sua Maestà.
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Nel frattempo arrivarono il vescovo di Avila e sua sorella Maria, che finirono di
persuaderlo.
Restava da convincere l'antico provinciale, Angel de Salazar. La patente del
generale poneva come condizione il suo consenso. La riformatrice lo temeva, non
senza ragione... Ma il padre Angel aveva bisogno dell'influenza di dona Maria de
Mendoza. Come poteva rifiutarle di lasciar fondare a Duruelo il primo monastero
riformato di uomini?
« Oh, Dio mio! » esclama la Madre. « Quante cose ho visto, in queste trattative, che
sembravano impossibili e che Sua Maestà ha appianato con estrema facilità! »
(Fondazioni XIII, 6-7, p. 113s).
E fu facile per la stessa fondatrice iniziare Fray Juan alla regola primitiva.
Il Carmelo di Rio de Olmos non aveva ancora la clausura. Così « ebbi l'opportunità
d'informare il padre Juan de la Cruz di tutto il nostro sistema di vita, in modo che
conoscesse a fondo ogni nostra pratica, sia riguardo alla mortificazione, sia alla forma
di fratellanza e di ricreazione che abbiamo in comune » (Fondazioni XIII, 5,p. 113).
Certo, è passato il tempo di quegli inizi, e quando la santa rievoca simili ricordi,
prova un rimpianto. In seguito, ha conosciuto meglio Fray Juan; lo ha apprezzato
come confessore e consigliere; così, si lascia sfuggire questa confessione: « Egli era
così buono che avrei potuto, da parte mia, imparare da lui molto più di quel ch'egli
apprendeva da me, ma non era questo ciò ch'io facevo; pensavo solo a informarlo del
modo di vivere di noi consorelle » (Fondazioni XIII, 5, p. 113).
Ed ecco infine un ultimo particolare commovente di questa iniziazione alla prima
regola del Carmelo: nella carretta era stata portata della saia per la vestizione di
Francisca de Jesùs.
La Madre chiese alla giovane:
- Le piacerebbe che con questa stoffa facessimo un abito per Fray Juan?
- Madre, come no! Ne sarò assai felice. Ho un fratello che, lo so bene, è prontissimo
a mandarmi l'occorrente non per un solo abito, ma per due.
Così, le suore e la santa cucirono il primo vestito del primo carmelitano scalzo.
« Fu per lui una grande felicità, spiega il cronista Alonso, sapere che riceveva il suo
abito dalle mani stesse della santa Madre ».
Ora, non gli restava altro che recarsi nel suo nuovo deserto.
A Valladolid li raggiunse il padre Antonio de Jesùs, tutto felice della fondazione
della prima casa di scalzi. Che cosa portava con sé?... « Era provvisto solo di orologi »
scrive Teresa, « perché ne aveva cinque, il che mi divertì molto. Mi disse che per
avere le ore ben regolate, non voleva esserne sfornito... Credo che ancora non
disponessero di qualcosa per dormire » (Fondazioni XIV, 1, p. 115).
La dama errante di Dio poteva ormai allontanarsi verso Toledo: Valladolid, il suo
quarto colombaio, era solidamente fondato... Da fì, Fray Juan de la Cruz, il primo
carmelitano scalzo, - checché ne dica più tardi Fray Antonio che ambiva quest'onore –
cominciava una meravigliosa avventura, « anche se era notte »(Giovanni della Croce,
Poesie, p. 85).
Dopo inizi così umili, tutto diveniva possibile, poiché Dio lo voleva.
Erano bastati il gesto di un gentiluomo, certamente leggero, ma credente, e il coraggio
avveduto di una donna.
« E davvero una cosa straordinaria quanto riesca gradito a nostro Signore qualunque
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servizio reso a sua Madre » (Fondazio- niX, 5, p. 90).

7
LE SOFFERENZE, MARCHIO DELL'AMORE

Quando alla grata del Carmelo di Beas due monache cantarono a Fray Juan de la
Cruz alcune strofe composte da un converso del Calvario, non rievocavano soltanto il
martirio del primo carmelitano scalzo a Toledo, ma anche la terribile fatica alla quale
si assoggettava la santa Madre per fondare conventi.

« Colui che non conosce la sofferenza In questa triste valle di lacrime Del Bene non ha
la conoscenza E non sa che cos'è l'Amore, poiché il dolore E il marchio di quelli che
amano »

Ci si abitua a tutto. Vedere la Madre andarsene, ora a dorso di mula, ora in carretta
attraverso le due Castiglie; sorprenderla mentre discute con un venditore bisbetico, o
in piedi in un cantiere, ci sembra naturale e facile. Chi potrà mai immaginare quale
somma di pene e di contraddizioni, avanzando negli anni, rappresentassero per lei
questi viaggi, queste trattative, queste fondazioni?
Anzitutto, sofferenze causate dal clima. La geografia non ha favorito il centro della
Spagna: le Sierre concentrano le piogge, rendono secchi gli altipiani e le pianure; il
suolo arido distrugge il verde; l'inverno comincia presto e non finisce mai; l'estate,
breve, si trasforma in fornace. Il proverbio che viene ripetuto a Segovia vale per tutta
la Vecchia e la Nuova Castiglia: « Dieci mesi d'inverno, due mesi d'inferno ».
Nel XVI secolo, quale era lo stato delle strade, dei valichi? Non parliamo di quello delle locande e
della pessima reputazione di cui godevano! Ricordiamoci don Chisciotte o Lazarillo de Tormes...
Rare, sporche, taverne per bere, covi di fuorilegge.
Immaginate un corteo di monache velate che scendono dalla vettura e penetrano in
questi antri: mulattieri, vagabondi, soldati, venditori ambulanti, mercanti, bovari,
pastori, sollevavano un viso ironico sulle insolite visitatrici e, dimenticando per un
istante il bicchiere di vino, venivano fuori con battute e oscenità, soprattutto quando, a
rendere piccante la sfilata, si profilava la tonaca di un monaco.
L'entrata in città non era molto più felice. Alla meno peggio, veniva occupato un
locale improvvisato, sordido, senza acqua, senza mobili. La sola preoccupazione della
fondatrice era anzitutto di adornare l'oratorio con povere immagini di carta. Ah! non
erano certo splendenti quelle misere cappelle in fondo a una strada, sotto il portico di
una casa, in mezzo al traffico di una folla chiacchierona e indiscreta.
Gli uomini d'affari, i delegati dei vescovi, delle giunte municipali, i religiosi di
diversi ordini sfilavano dietro a una grata di fortuna; la Madre, seduta sui talloni, alla
moresca, discuteva, perorava, ammoniva, seduceva. In Spagna, come in Oriente, tutto
consiste nella chiacchiera. Teresa eccelle in quest'arte, e riconosce di essere divenuta
un'« affarista » e un'attaccabrighe di primissimo ordine. C'è forse bisogno di ricordare
da quale razza discende e quale sangue circola nelle sue vene?
Autorizzazioni rinviate, rifiutate, messe ascoltate nelle chiese vicine, spesso
trasformate in luoghi di appuntamento di sfaccendati e di ladri notturni,
organizzazione delle comunità nascenti, postulanti accolte o respinte... Che trambusto
di fastidi, senza tralasciare per questo le ore canoniche, la regola, i digiuni, le
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penitenze!
Quando, verso mezzanotte, le suore spengono l'ultima lampada, quella della
fondatrice rimane accesa: bisogna sbrigare la posta. Domani, allo spuntar del giorno,
verrà a cercarla un mozo, un ragazzo.
Ma ecco che l'aspettano al varco la febbre, i mali di gola, l'asma. Occorre chiamare Ana de San
Bartolomé, la fedele segretaria; far venire il barbiere per praticare un salasso, dettare risposte,
trascinarsi tremante di febbre in parlatorio per sostenere interminabili discussioni. In questioni
controverse, non c'è che lei per vedere giusto, imporre silenzio, rettificare un contratto, far diminuire
una pigione, dire una parola del Signore, gettare un po' di luce nel tenebroso imbroglio degli uomini.
Dimenticavo il peggio: quegli ecclesiastici, vestiti di nero, sospettosi e segreti, che
sopraggiungevano all'improvviso e organizzavano un interrogatorio.
E soprattutto, dovunque, l'Inquisizione all'erta. Filippo Il regna da padrone; nella
sua persona si mescolano potere e religione. Guai a quelli che inciampano! Si
provvederà a porre riparo alle loro deviazioni.
Chi è dunque questa donna? un'intrigante, una falsa mistica, una visionaria, preda
per il rogo? Si pensi a Magdalena de la Cruz, clarissa d'impostura a Cordova. Per il
momento, ci si limita a mormorare, ma ben presto l'Andalusia griderà allo scandalo,
all'eresia, al complotto.
« Ah, Signore, è troppo! ».
Volevi dolori, sofferenze, eccone!, più di quanto ti aspettassi, a vivere questa
avventura, l'unica, di un Amore che deve rivestirsi di pene per non accontentarsi di
vane parole.

1 - Duruelo

Era il giorno di s. Cipriano, patrono di Fontiveros, il villaggio natio di Juan de la


Cruz. Dopo la messa solenne e la processione, il Maestro Gaspar Daza ed io avevamo
lasciato la festa in tartana. La vettura coperta, il mulo vivace, Gil, il mulattiere,
palesemente irritato di andarsene proprio quando cominciavano i festeggiamenti: non
avremmo potuto noleggiare equipaggio migliore per recarci a Duruelo.
Lasciando la via di Avila a sinistra, la strada si snoda attraverso la pianura montana,
in mezzo a stoppie e a terreni alluvionali. Non un albero all'orizzonte, ma, lontano
lontano, la Sierra de Gredos orlata delle prime nevi poiché inaspettatamente, da tre o
quattro giorni l'estate era scomparsa, l'aria era rinfrescata, la pioggia era caduta e la
Cordigliera si era coperta di neve.
Daza, con aria assente, seguiva il filo dei suoi ricordi come la scia delle nuvole che
si sfilacciavano nel cielo di settembre.
i ~R
- Duruelo! chi mai aveva sentito parlare di quel paesetto di venti case?
- Hombre! Come lei sa, l'aldea è il tipico borgo della nostra Vecchia Castiglia.
- ... Dunque, un cavaliere di Avila, chiamato Rafael, venne ad offrire alla Madre una
casa situata nei suoi paraggi dove alloggiava il gerente delle sue proprietà. Era venuto
a sapere dai carmelitani della città che la fondatrice cercava un luogo solitario per
fondare un convento di monaci contemplativi.
Ah! che bel sogno! In quel tempo aveva appena due candidati e le veniva offerto un
convento! (Fondazioni XIII, 2, p. 111).
Il 30 giugno 1568, al mattino, accompagnata da Juliàn e da Antonia del Espiritu
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Santo, la Madre uscì da Avila per la strada di Medina. Vuoi un po' di sole?
eccone tanto! E tante, ancor più, sono le cattive indicazioni. Qui, un pastore che ci era
passato una volta, diceva di prendere a sinistra; più oltre, un gruppo di mercanti in
cammino verso Toledo affermava il contrario. Sul far della notte, sfiniti, stremati,
sudati e affamati, le due viaggiatrici e il loro cappellano arrivarono alla catapecchia.
Madre de Dios! per trovare che cosa? provatevi a indovinare... mietitori e braccianti
celebravano la mietitura con abbondanti libagioni al suono delle danze e delle
nacchere!
Del locale, la Madre ha detto tutto. Spiega che comprendeva un portai abbastanza
grande, una camera a due col suo soppalco e una piccola cucina.
Con un'occhiata, Teresa costruiva un convento: nel portai la cappella, il coro nel
soppalco, nella camera il dormitorio.
Antonia del Espiritu esclamò: « Vi assicuro, Madre, che non ci sarà nessun'anima,
per buona che sia, capace di sopportare questo. Non parlatene più » (Fondazioni XIII,
3, p. 112).
« Ma, istruita dal Signore, la Madre mandava avanti il suo progetto »...
Gil, l'arriero, il mulattiere, gridò e, con la frusta, indicò Gimialcon, minuscolo villaggio, posto l
limite delle province di Avila e di Salamanca. Il temporale rumoreggiava, la pioggia, a rovesci
intermittenti, batteva sul copertone della tartana. Un lampo, due lampi. Il mulo s'impauriva e, con la
bava intorno al morso, accelerava il passo.
- Vede, senor, quell'encina, quella quercia da sughero, che si rizza in lontananza. A
partire da lì, cominceremo a scendere verso il Rio Almar e Duruelo.
Ma, andate a fidarvi degli alberi in Castiglia! S'innalzano nettamente disegnati sulla
meseta, a portata di mano. Eppure, quante leghe bisogna oltrepassare prima di
raggiungerli!
Gli ultimi brontolii del tuono portavano via sulle ali di un vento impetuoso gli
ultimi scrosci di pioggia, prima che scendesse il crepuscolo.
Mentre il vetturale stringeva i freni, iniziavamo la discesa, in mezzo a maggesi e
ginestroni, verso la valle, ampia all'infinito. Stridendo, cigolando, le ruote affondavano
nella sabbia gialla, crivellata qua e là da pietre rosse tutte tonde. Sulla distesa di
centinaia di encinas, gli ultimi raggi del sole gettavano chiazze dorate. Al centro, ritto
come un indice, il modesto campanile di mattoni indicava il convento. Non un rumore!
neppure quello degli insetti o quello degli armenti. Non si udiva altro che la carretta
traballante.
Verso la stessa epoca, nel settembre del 1568, forse al tramontar di un giorno simile
a questo, Fray Juan arrivava da solo a Duruelo. Era incaricato di organizzare ogni
cosa, e di fare presto. La Madre, insomma, considerava questo monastero come uno
dei suoi, e ci spediva il suo candidato fondatore.
Il corredo del giovane monaco era povero: due o tre coperte, il necessario per dire la
messa, alcune immagini sacre e qualche reale che le suore di Medina gli avevano dato
per sostentarsi. Conduceva con sé un muratore per aiutarlo a installare l'alloggio.
La Madre aveva scritto a don Francisco de Salcedo questa raccomandazione: « La
prego di voler trattare con codesto padre e aiutarlo in quanto intende fare... E' un uomo
di coraggio, ma èsolo, e per andare innanzi con tanto ardore ha proprio bisogno che il
Signore lo aiuti con le grazie che gli fa » (Lettere 6.7.1568, p. 68).
Il Maestro Daza e io non dicevamo nulla, ripetendo dentro di noi queste frasi,
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simbolo del primo carmelitano scalzo, del grande dottore mistico, di Juan de la
Cruz:

« Ma egli è solo... Solo nella solitaria Duruelo, solo nella notte solitaria.

Il 28 novembre 1568 cadeva la prima domenica di avvento. Quel giorno veniva


inaugurato il primo monastero dei « carmelitani contemplativi » o « scalzi ».
Fray Antonio si era dimesso dalla sua carica di priore a Medina del Campo. La
Madre scrive che lo fece « con ferma decisione » (Fondazioni XIV, 2, p. 115). I
mitigati lo rimpiangevano. Quell'uomo sulla cinquantina non mancava di valore;
perdendolo, la provincia perdeva molto.
Frattanto, egli partiva deciso per Duruelo. « Quando arrivò in vista del piccolo
villaggio, provò una straordinaria gioia interiore » (Fondazioni XIV, 3, p. 116).
Questo monaco colto, circondato e favorito da illustri conoscenze, aveva un animo
ardente.
Alla fondatrice che gli descriveva la povertà del luogo e il suo isolamento, aveva
dichiarato, con più entusiasmo che realismo, « ch'era disposto a stare non solo li, ma
anche in un porcile » (Fondazioni XIII, 4, p. 112).
Fray Juan l'attendeva sulla soglia della porta, assistito dal fratello Francisco il quale,
muratore di mestiere e profondamente attaccato al fratello minore, era accorso da
Medina per prestargli manforte nel dare un assetto al futuro convento.
Tutto era pronto per iniziare un'esistenza secondo la regola primitiva. Il provinciale,
Fray Alonso Gonzàlez, celebrò la messa e accettò la rinuncia dei due scalzi ai privilegi
della regola mitigata. Alla loro comunità si era unito un diacono, Fray José de Cristo.
Fray Alonso nominava il padre Antonio vicario e ben presto superiore della nuova
casa. Egli ne fu molto soddisfatto; in questo non aveva rinunciato del tutto al mondo
né agli onori.
La sua suscettibilità era ferita dal fatto che Fray Juan lo aveva preceduto da tre mesi
nel ritorno alla regola primitiva... Era questo il soggetto preferito dei suoi frizzi: «
Come! quel fraticello, quel giovincello aveva ricevuto il suo abito dalle mani di una
donna! ». Il nuovo superiore si mise quindi a sottovalutare il ruolo svolto dalla santa
Madre nella riforma del Carmelo, al cui spirito e alla cui lettera cominciò subito a fare
qualche strappo. Senza dubbio, non voleva indisporre i mitigati che aveva lasciato,
ma, soprattutto, non aveva capito l'intuizione profonda e il genio della riformatrice.
Fray Juan, invece, li conosceva bene. Aveva ascoltato Teresa e l'aveva apprezzata a
Valladolid. La sua logica, il suo senso della fedeltà, il suo carattei:e riflessivo gli
impedivano di seguire le deviazioni del suo superiore e le interpretazioni troppo larghe
che egli dava a un autentico ritorno alle origini.
« E un uomo di coraggio », scriveva la Madre a don Francisco de Salcedo, « che il Signore lo
faccia andare innanzi! » (Lettere 6.7.1568, p. 68).
Innanzi nel disprezzo! Già a Duruelo, ne era offerta l'occasione a colui che, con
passo così spedito, si accingeva a scalare la salita al monte Carmelo.
Non c'è alcun dubbio; per lo storico è cosa evidente e la riformatrice aveva visto
giusto: Fray Juati de la Cruz era e sarebbe stato per sempre il primo carmelitano
scalzo.
Ecco perché, a Valladolid, Teresa aveva spinto Fray Juan a fare strada, a insediarsi
per primo in quella stalla di Betlemme, a scegliere subito l'ultimo posto. La prodigiosa
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donna, la cui audacia aveva riformato il suo ordine, non aveva il minimo dubbio:
mai egli sarebbe stato escluso da quella preziosa abiezione.

Nei primi giorni di marzo del 1569, in piena quaresima, la Madre lasciava
Fontiveros dove aveva passato la notte presso le carmelitane calzate e se ne andava
verso Duruelo passando per la stessa strada che avevamo seguito il Maestro Daza ed
io. L'accompagnavano due mercanti « suoi amici », chissà forse Alcalà Galiano e Blas
de Medina (Fondazioni XIV, 6, p. 117).
Lungo la strada, le lagune che l'inverno aveva gonfiato d'acqua riflettevano un sole
primaverile. Qua e là, gridi di allodole che volteggiavano al di sopra dei campi di
grano in erba. Le encinas scuotendo la loro chioma bruciacchiata dal gelo si
riempivano di uccelli.
All'avvicinarsi del Rio Almar, le mule si trovarono in difficoltà e bisognò risalire
fino al guado, situato un po' al di là del convento, sull'altra riva. La Madre aveva
voluto questa deviazione. Curiosità femminile? Forse! Ma certamente, desiderio di
sapere se l'opera dei monaci contemplativi, ancora più importante dei monasteri di
religiose, si affermava (Fondazioni XIV, 12, p. 121).
Al suo arrivo, che emozione!
« Il padre Fray Antonio de Jesùs stava scopando davanti alla porta della cappella,
con quel viso allegro ch'egli ha sempre. Io gli chiesi: "Che cos'è questo, padre mio?
Dov'è andato a finire l'onore?". Mi rispose queste parole che esprimevano tutta la sua
gioia:
"Maledetto sia il tempo in cui vi feci caso!". Entrata nella piccola cappella, rimasi
sbalordita costatando lo spirito di devozione che il Signore vi aveva fatto fiorire. E non
ero io sola ad esserne impressionata, perché due mercanti miei amici che erano venuti
fin lì da Medina con me, non facevano che piangere. C'erano tante croci e tante teste
da morto! Non ho mai dimenticato una piccola croce di legno posta sull'acquasantiera,
alla quale era attaccata un immagine in carta di Gesù crocifisso che mi pareva ispirare
maggior devozione di qualunque raffinata opera d'arte » (Fondazioni XIV, 6-7, p.
117).
Strada facendo, la Madre ripeteva fra sé e sé la lettera che il padre generale le aveva
inviato in data 8 gennaio: « Desidero sapere se sono terminati i due monasteri di
carmelitani contemplativi per assistere i monasteri di religiose e aiutarle a conservare
lo spirito delle origini ».
La povertà del luogo era assoluta. Nel coro a malapena si poteva stare in piedi. Nei
due angoli che davano sulla cappella si trovavano due piccoli romitori riempiti di fieno
per proteggersi dal freddo, con il soffitto così basso che vi si poteva pregare soltanto in
ginocchio o seduti.
Ore canoniche, orazione notturna. La neve scivolava sul corpo dei monaci senza che
se ne accorgessero.
Andavano a predicare in un raggio di due leghe. L'ignoranza in quei « villaggi » era
grande e i monaci che all'inizio andavano scalzi con qualsiasi temperatura (Fondazioni
XIV, 8, p. 118) si erano acquistati molta stima.
Allegrezza, gioia degli inizi! « Non mi stancavo di ringraziare nostro Signore, con
un'enorme felicità interiore, sembrandomi di vedere dato inizio ad un'opera che
avrebbe apportato gran profitto al nostro ordine » (Fondazioni XIV, 11, p. 120).
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Nondimeno, accorta e ricca della sua esperienza, la fondatrice invitava quegli
intenditori di penitenze alla moderazione. L'essenziale - certo - è durare. Ora, ciò che è
eccessivo ha un tempo limitato.
Eppure, continuando il viaggio verso Avila, con i suoi due mercanti che dicevano
mirabilia di quella povertà, la Madre poteva esortare se stessa, come faceva in passato,
al Cammino di perfezione:
« Cerchiamo di somigliare al nostro Re, che non ebbe per casa se non la stalla di
Betlemme dove nacque e la croce dove morì. Erano, queste, dimore da cui trarre ben
poco diletto... Per tredici piccole povere suore... per tre monaci... qualunque angolo è
sufficiente... I veri poveri non devono far rumore... Sua Maestà ci tenga sempre con la
sua mano, affinche non venga mai a decadere fra noi la perfezione di povertà a cui ci
siamo votate » (Cammino Il, 9-11, p. 31s).

2 - Nella città di El Greco

Nuvole nere, un cielo plumbeo. Fra i campanili di Toledo, si erge il campanile della
cattedrale, sormontato dalla sua triplice corona, sotto una bufera di lampi e di tuoni.
Così, in quel tempo, Ei Greco dipingeva la città imperiale mentre, il 24 marzo 1569,
entravano dalla Porta di Cambròn tre povere carmelitane scalze.
Che cosa venivano a fare quelle monache, in quella città di 90.000 abitanti, con le sue
27 parrocchie, le sue 147 confraternite, i suoi 322 chierici in servizio presso la chiesa
primaziale?
Davvero, Madre, non trova che Toledo è già provvista a sufficienza: 24 monasteri di
suore, 12 conventi di monaci? Come potrebbe competere con le domenicane di Santo
Domingo ei Reai, che sono 140 e del più alto lignaggio? 75 circa alla « Madre de Dios
». Milieduecento religiose presenti in questa città: non èforse abbastanza?
Evidentemente, se cerca la povertà, perche non unirsi alle 36 beghine che a Santa
Maffa la Bianca, l'antica sinagoga, vivono del loro lavoro e di elemosine?...
Qui a Toledo è tutto un susseguirsi di processioni, novene, uffizi liturgici e, sotto l'apparenza della
devozione, s'intreccianosubdole rivalità, contese, litigi. Là dove scorre la grazia, si fa posto alle
diavolerie.
D'altro canto, i carmelitani hanno costruito da un pezzo un convento che domina il
ponte d'Alcàntara. La sua chiesa con la facciata dorica è una delle più antiche aperte al
rito mozarabico, la sua comunità è numerosa e ben avviata. Madre, nei passare, ha
guardato bene questo monastero? Fra meno di dieci anni, servirà da prigione a Fray
Juan de la Cruz.
Ma insomma, perché la riformatrice è venuta in questa « testa dei regno », in questo «
cuore di tutta la Spagna », come, nell'anno 1576, scrive Hurtado?
Non certo da sé, ma chiamata da circostanze eccezionali.
« Un mercante, uomo onorato e vero servo di Dio, il quale non aveva mai voluto
sposarsi » (Fondazioni XV, 1, p. 122), voleva fare un'opera buona prima di morire.
Dietro consiglio dei suo confessore gesuita, il padre Pablo Hernàndez, un tempo
confessore della Madre e suo assistente nella fondazione di Maiagòn, suggerì al
morente di fondare un Carmelo riformato in quei luogo in cui tanti conventi
rivaleggiavano in zelo per l'onore di Dio.
Il 31 ottobre 1568, Martin Ramirez, morente, affidava ai fratello Alonso, « uomo
veritiero, caritatevole e dotato di raro buon senso », l'incarico di condurre a buon fine
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l'impresa (Fondazioni XV, 1-2, p. 122s).
E che impresa!
Il buon Alonso lasciava la responsabilità di tutto al genero, Diego Ortiz. Questi aveva
studiato teologia e manipolava a piacere i cavilii procedurali, poneva condizioni
inaccettabili per la riformatrice, conquistava alle sue ragioni il suocero Alonso
Alvarez, cosicché le due parti, la fondatrice e i donatori, finirono col rompere ogni
trattativa (Fondazioni XV, 4, p. 123s).
In una lettera dell 9 febbraio 1569, la Madre lasciava capire ad Alonso che avrebbero
potuto essere « presi a sassate », lui e suo genero, occupandosi di fondare un convento
carmelitano: io si era visto ad Avila (Lettere 19.2.1569, p. 81).
Se la cavavano dunque a buon mercato! Teresa e le sue due compagne, invece, benché
stessero ritirate come in un monastero in casa di dona Luisa de la Cerda, erano cadute,
a loro insaputa, in un vespaio.
Toledo era allora senza arcivescovo. Mons. Carranza, lontano dalla sua diocesi,
cadeva sotto il rigore dell'Inquisizione. In sua assenza, due poteri si dividevano il
governo di quell'importante circoscrizione della Chiesa di Spagna: il capitolo
cattedrale e un laico, don Gòmez Giròn, il governatore, la cui funzione equivale-va
allora a quella di un vicario capitolare, oggi.
« Ottenere la licenza del re » sembrava facile a detta di Teresa (Lettere 19.2.1569, p.
81), ma conciliarsi ad un tempo canonici ed amministratore era come riuscire a deviare
il Tago. « Quando l'amministratore cominciava a cedere, i membri del consiglio ec-
clesiastico tenevano duro » (Fondazioni XV, 4, p. 124) e bisognava ricominciare tutto
da capo.
Chi mai tramava nell'ombra?
Ml'insaputa di Teresa, la nobiltà di Toledo, compresa la sua amica dona Luisa, faceva
lega contro di lei.
Si erano mai visti, nella magnificentissima città imperiale, dei mercanti che avevano il
patronato di un monastero? e proprio in quel quartiere San Nicola popolato da
commercianti e ad un tempo abitato dall'aristocrazia? Ma come? un esercente
qualunque, senza blasone, senza legami con alcuna famiglia di origine illustre,
avrebbe preteso di dare il suo nome a un convento, a una cappella in cui sarebbe sfilata
l'alta società di Toledo? Si era mai vista una simile audacia? In ogni caso, non la si
sarebbe vista mai. E maldicenze, mormorii, ingiurie, piovevano addosso
all'amministratore ecclesiastico affinché con tutte le forze mettesse il bastone fra le
ruote e si opponesse con ogni mezzo a quel disdicevole progetto.
Per fortuna, Teresa era avvertita, e da chi, o mio Dio!
« Il Signore mi disse: "T'ingannerai molto, figlia mia, se avrai riguardo alle leggi del
mondo. Fissa gli occhi su di me, povero e disprezzato dagli uomini. Per caso i grandi
del mondo saranno grandi davanti a me?" » (Relazioni VIII, p. 472s).
Poiché tutti l'abbandonavano: i mercanti, i nobili e gli altri, alla fondatrice non restava
che passare all'azione.
In primo luogo, era chiaro, bisognava parlare direttamente con il governatore e
ottenere da lui il permesso di aprire un convento:
« Io non sapevo che fare, perché, non essendo venuta per altro che per la fondazione,
capivo che ripartirmene senza aver fatto nulla, poteva dar luogo a molti spiacevoli
commenti...
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« Pertanto mi decisi a parlare con il governatore. Era l'8 di maggio, quarta
domenica di pasqua. Andai in una chiesa, che si trova vicino alla sua casa, e mandai a
supplicarlo di degnarsi d'accordarmi un colloquio. Già da più di due mesi si cercava di
ottenere il permesso e ogni giorno era peggio. Quando fui alla sua presenza, gli dissi
che era cosa ben strana che, essendoci donne le quali volevano vivere con grande
rigore, perfezione, clausura, coloro che, lungi dal sottoporsi ad alcuna esperienza di tal
genere, vivevano fra gli agi, volessero ostacolare opere volte a così gran servizio di
Dio » (Fondazioni XV, 5, p. 124).
Mai don Gòmez Tello Giròn, governatore dell'arcivescovado più potente di Spagna,
aveva sentito parlare un più rude e più limpido spagnolo!
Una simile requisitoria lo gettava sul banco degli accusati, senza che avesse il tempo
di rimuginare l'accusa.
Immediatamente, dette la sua autorizzazione, ma a una condizione: « Il monastero non
avrebbe avuto né rendite, né patrono, né fondatore ».
Ciò significava eludere per sempre le pretese della borghesia commerciale di Toledo,
troppo incline a voler soppiantare la nobiltà.
Nello stesso tempo, le carmelitane venivano ridotte alla miseria!
« Me ne andai piena di gioia, perché mi sembrava di aver già tutto, pur senza aver
nulla » (Fondazioni XV, 6, p. 124).
Cominciava il secondo atto di questa fondazione, pittoresco quanto era stato
drammatico il primo.
Teresa si trovò abbandonata. Il padre Hernàndez, al quale si deve l'iniziativa di tutto,
era scomparso, essendo stato nominato al collegio di Belmonte.
Con la famiglia fondatrice dei Ramirez, la Madre aveva « rotto le relazioni ».
Si era presentato, è vero, un altro mercante: Alonso de Avila, ricco di opere buone e di
generose intenzioni, ma si era ammalato (Fondazioni XV, 16, p. 130s).
Inutile avvertire la sua amica dona Luisa de la Cerda, abbastanza irritata per non
essere stata consultata a proposito di questa faccenda e umiliata di sapere che lei, la
fondatrice di Malagòn, veniva messa sullo stesso piano di un qualsiasi bottegaio. Si te-
neva quindi a distanza. Dignitosa, la Madre non le chiedeva nulla:
né consigli, né denaro.
Dato che aveva « tre o quattro ducati », tanto valeva spenderli e pensare a mettere su casa! Teresa
compra dunque « due tele dipinte per l'altare, due pagliericci e una coperta » (Fondazioni XV, 6, p.
125).
Il resto sarebbe pur venuto! « Por buena de Dios! ». « Per grazia di Dio! ».
Un giorno che Teresa assisteva alla messa a San Clemente, si presentò un povero
diavolo dal viso smunto, con i calzoni a brandelli. Si chiamava Alonso de Andrada,
aveva ventidue anni, era studente e morto di fame di professione. Un santo
francescano, Fray Martin de la Cruz, lo aveva mandato dalla fondatrice:
- Por Dios, vuoi metterti a disposizione di quelle suore e rendere loro servizio?
(Fondazioni XV, 7, p. 126).
Al vederlo, le compagne della Madre si misero a ridere. Con aria di sufficienza, Isabel
de Santo Domingo dichiarò:
- Non è adatto a trattare con carmelitane scalze!
- Vuoi star zitta? replicò Teresa; che cosa si potrebbe pensare di noi che somigliamo
a delle zingare?
Avvertito, Andrada si mise a cercare una casa per delle povere donne misere quanto
100
lui. Il mattino seguente, un tintinnio di chiavi fece voltare la Madre mentre
ascoltava la messa nella chiesa dei gesuiti.
- Ecco, la casa è trovata: calle Santo Tomé, proprio qui vicino. Venite a vedere, ecco le
chiavi!
Lo studente « assai povero » non aveva avuto difficoltà. In quel tempo Toledo si
spopolava per andare a guereggiare contro i Moriscos di Granata, sotto la guida del
fratello del re, don Juan de Austria, e le locazioni abbondavano.
Le suore non riuscivano a capacitarsi!
- Dobbiamo traslocare e sistemarci nel nuovo alloggio al più presto - dichiarò la
Madre... - D'altronde, Andrada, sarà facile per te: non abbiamo altro che due
pagliericci, una coperta, e due immagini!
« Alle mie compagne dispiacque che gli avessi detto questo e me lo rimproverarono,
temendo che, vedendoci così povere, non volesse più aiutarci » (Fondazioni XV, 9, p.
127).
Per quanto « angeliche » fossero, le scalze inciampavano ancora nei loro pregiudizi di
casta, di nobiltà.
Sul far della notte del venerdì 13 maggio, si formò uno sparuto corteo. Scendendo dal
palazzo di doha Luisa, le tre nuove inquiline e la loro importante mobilia arrivavano al
calle Santo Tomé, nella casa di dona Cecilia.
Sabato mattina, il priore dei carmelitani celebrava la messa al suono di un minuscolo
campanello.
Il monastero di San José di Toledo era bell'e fondato. Un mercante, Alonso Dàvila,
pagava con il suo denaro il fitto di un'altra figlia di mercante: dona Teresa de
Ahumada. Tutti e due discendevano da conversos e nelle loro vene scorreva sangue
ebreo.
Le suore mancavano di tutto. « Neanche qualche trucciolo di legno per arrostire una
sardina... ne trovammo un fascetto in chiesa, deposto da non so chi... » (Fondazioni
XV, 13, p. 129).
Di notte, quell'anno faceva freddo, anche nel mese di maggio.
Svegliata dal freddo, Teresa chiese che la coprissero.
Le rispose uno scoppio di risa:
- Madre, in fatto di coperte, ha addosso tutti i mantelli del convento!
Chi mai potrà cantare i benefici della povertà! « L'essere prive di ogni cosa mi
sembrava procurarci una soave contemplazione ».
Ma il denaro, i doni in natura, le relazioni affluivano; « mi pareva proprio d'essere
come una persona che, ricca di molti gioielli d'oro, se li vedesse portar via »
(Fondazioni XV, 14, p. 129s).
Le suore erano afflitte.
- Perché, che cosa avete? - chiedeva Teresa.
- Che dobbiamo avere, Madre? Ci sembra di non esser più povere (Fondazioni XV,
14, p. 130).
Così, Toledo, la magnificentissima città di cui Teresa era originaria, le riservava
un'amara umiliazione.
Come se quelle mura avessero conservato il ricordo della penitenza di suo nonno Juan
Sànchez, che, nel 1485, per ordine della santa Inquisizione, aveva percorso per sette
venerdì le chiese della città, coperto dell'infamante sanbenito.
101
Per di più, la nipote dell'ex commerciante di tessuti si vedeva introdotta da mercanti
simili a lui per fondare lì un monastero!
Le vie degli uomini non sono le vie di Dio. La nobiltà teneva il muso, il clero
strepitava, ma quella donna dal cuore evangelico scopriva i veri valori: « Da allora mi
crebbe il desiderio d'essere povera in sommo grado, e mi rimase il senso di una specie
di sovranità, che m'induce a non curarmi di cose che costituiscono beni temporali,
perché la loro mancanza fa aumentare i beni interiori... » (Fondazioni XV, 15, p. 130).
Nel profondo di questa miseria, la santa continuava a scoprire gli umili, di cui il
giovane Andrada diveniva il simbolo: « Mi sembra d'avere per i poveri assai maggior
compassione di quel ch'ero solita avere... Non mi destano alcuna ripugnanza, anche se
conversi con loro e li prenda per mano », scriveva nel 1562 (Relazioni Il, 4, p. 442).
1569! sette anni più tardi, in questa sfarzosa città, proprio uno squattrinato, facendo
eco alla sua pietà, scopriva l'alloggio che tutti le rifiutavano.
La santa Madre, finalmente provvista di un vero monastero, nella città dei suoi avi
gustava gioie profonde. « Questa casa promette di divenire importante », scrive nel
gennaio del 1570 a suo fratello Lorenzo a Quito... « Il clima di questi paesi è
ammirabile... Mi verrebbe voglia che vostra grazia si stabilisse qua... Sono quasi
quarant'anni che non godo tanta salute come ora, eppure vivo come le altre, senza
mangiar carne, tranne in caso di necessità » (Lettere 17.1.1570, p. 94s).
Rinvigorita? vivificata? dinamizzata? Toccando la sua terra natia, si sarebbe detto che
i suoi doni di scrittrice si ravvivassero, nello stesso tempo in cui El Greco trionfava
con i suoi quadri.
A Toledo, sette anni prima, aveva redatto il Libro della mia vita. Ora, spinta dai suoi
confessori, padre Domingo Bànez e padre Garcia de Toledo, offriva una seconda
versione del Cammino di perfezione, che le era richiesto dai suoi nuovi colombai.
Sempre a Toledo, nel 1577, il 2 giugno, Teresa cominciava la redazione del suo
capolavoro: il Castello interiore.
Veramente, quanti contrasti nel seno di una stessa città, nel corso di una stessa vita,
nell'interno di una stessa anima!
Toledo, cinta dall'allanie del Tago, stretta all'assalto del cielo intorno alla sua
cattedrale dalle cinque navate, squillante di scampanii e di preghiere, s'innalzava nella
gloria di una città eletta.
In fondo a una strada, dietro la grata di un convento, nelle ore profonde della notte, S.
Teresa d'Avila striava di fuoco il mondo e le sue passioni.

3 - Capricci di principe

- No, non è ragionevole accettare, senza esame, una monaca agostiniana di Segovia, in
un convento della riforma! E una vera e propria sciocchezza! E l'ho detto chiaro e
tondo a sua signoria.
Pronunziando queste energiche parole, il padre Domingo Bànez usciva con me nel
calle de la Imagen - via della statua della Vergine - ad Alcalà de Henares. Risalivamo
ora, sotto i portici, la via principale della città dove nacque Cervantes e in cui Cisneros
fondò un'università, così brillante nel XV secolo. Studenti e militari andavano e
venivano all'ombra delle volte, mentre il sole a strapiombo batteva implacabile sulle
piazze, sui vasti spiazzi davanti ai collegi, all'entrata delle chiese.
102
Alcalà, in estate, è. una fornace incandescente sulla triste pianura a sud
della quale si stende Madrid.
Avevo raggiunto il padre Bànez che quell'anno onorava con le sue lezioni la cattedra
di Cisneros. Siccome non eravamo lontano da Pastrana, lo avevo consultato su questa
fondazione della Madre che, come tutti sanno, ebbe inizi tempestosi.
- A proposito, senor, lei non conosce dona Ana de Mendoza y de la Cerda, moglie di
Ruy Gomez de Silva, principe di Eboli? Il nome di questo principe, come la sua storia,
illustrano il regno di Filippo Il. Ruy G6mez venne dal Portogallo con l'imperatrice Isa-
bella. Di media statura, con gli occhi vivaci, la barba e i capelli neri era uomo di
squisita cortesia e molto affabile. In un batter d'occhio si era conquistata la
benevolenza reale a tal punto che gli invidiosi dicevano ironicamente: « Parlate di
"Ruy" Gomez? dite piuttosto "Rey" (= il re) Gomez! ». Nei famosi consigli reali, che
si svolgevano sempre di notte, all'Escorial, Ruy Gomez trovava
un rivale sicuro nella persona del duca d'Alba. Quello che il suo concorrente chiamava
bianco, il principe di Eboli lo definiva nero, cosicché sua maestà il re cattolico era
addivenuto ad una spartizione: ascoltava volentieri il duca per gli affari di stato, la
guerra, il governo; ma preferiva di gran lunga il tatto, l'intuizione, l'abilità cortese del
principe per le relazioni diplomatiche. La fondatrice si destreggiava prudentemente fra
queste due personalità, rispettando la loro suscettibilità. "Cominciava allora la riforma
dei frati ed era utile, per ogni nostra occorrenza, avere il favore di Ruy Gomez, che
godeva di tanta influenza presso il re e presso tutti" (Fondazioni XVII, 3, p. 138).
« Perciò la santa Madre accettava di affrontare le collere di sua moglie, Ana de la
Cerda. Sposata a ventinove anni, aveva portato in dote il carattere insopportabile di
una figlia unica viziata da un'illustrissima famiglia. Questa donna cieca da un occhio
era nello stesso tempo un po' vipera e un po' gatta. Pia quando le girava, quando
assumeva atteggiamenti devoti, faceva pensare a una gatta che fa le fusa: adesso, le
occorreva, subito, a Pastrana, un monastero di carmelitane scalze, e uno dei più
austeri. Avrebbe così potuto offrire un esempio edificante nelle sue terre, ai suoi
dipendenti, e anche al regno cattolico del più cattolico dei monarchi. Ma insolente,
intrigante, seccante, irascibile fino al delirio, a corte era temuta da tutti per il suo
veleno.
« Immaginiamo la scena coloritissima che Ana de Mendoza fece al marito, nella sala
da pranzo che dava sulla piazzetta di Pastrana. Ruy Gomez rientrava dalla caccia. La
cena era servita. Stanca, incinta di colui che un giorno sarebbe stato nominato
arcivescovo di Granata, la principessa entrò, silenziosa. Dalla sua aria imbronciata, il
marito previde la burrasca e congedò la servitù. Non ci mancava altro perché si
scatenasse la sua rabbia:
« - Così, vostra signoria non si preoccupa troppo degli indugi che la santa di Avila pone nel fondare
un convento qui da noi! Da vari mesi, il mio segretario le rivolge suppliche incalzanti. Ho comprato
ai piedi del villaggio la casa destinata al Carmelo; i lavori sono cominciati, il contratto di fondazione
è pronto, ma io non ricevo che scuse e parole dilatorie. Mia cugina dona Luisa gode di maggiori
favori. Tutta Toledo sfila in casa sua per consultare questo nuovo oracolo: la Madre Teresa de Jesùs.
Malagòn, olezzante di sterco, ha il suo monastero debitamente fondato. A corte non si parla d'altro
che delle cerimonie che si sono svolte in occasione della sua istituzione. Ed io, principessa di Eboli,
moglie dell'amico del re, del consigliere di stato, del contador major di Castiglia, non ottengo nulla...
non sono tenuta in nessun conto. Di recente a Madrid, in casa della principessa dona Juana, sorella
del re, mi hanno presa in giro: l'aria di Pastrana non si addice alla santa!
« Dette queste parole, Ana cominciò a singhiozzare, a battere i piedi; poi, agitata da
103
una specie di follia, si mise a roteare nella sala. Calmo come al suo solito, Ruy
Gòmez, avvicinandosi, la prese fra le braccia e, con tono molto dolce, si batté il petto.
« - Vostra signoria voglia calmarsi! Riconosco di essere molto colpevole non avendo
prestato tutta la mia attenzione ai desideri di vostra grazia. Dirò a mia discolpa che
abbiamo discusso di affari gravi al consiglio, in queste ultime notti: la guerra dei Mori-
scos, la rivolta delle Fiandre che non si riesce a domare in alcun modo... Ma prometto
che farò subito tutto il possibile... Vediamo, mia cara, dove si trova adesso la santa
d'Avila?
« - A Toledo, senor, dove non si parla d'altro che dei suoi rapimenti e delle sue
profezie. E tutto questo scalpore, naturalmente, a gloria di mia cugina, dona Luisa, che
ne trae profitto per il lustro della sua casata e dei suoi figli. Io voglio che vostra
signoria la faccia venire subito qui. Per Dio, giuro che non toccherò questi piatti se
non la manda a chiamare seduta stante!
« Ruy Gòmez chiamò un servitore.
« Che il suo gentiluomo di camera e segretario andasse subito a trovarlo... Poco dopo,
una carrozza usciva dal palazzo, situato nel centro del villaggio e, risalendo la strada,
filava a tutta velocità verso Guadalajara e Toledo. Era l'antivigilia della pentecoste. Il
cocchiere portava un messaggio imperativo: all'istante, la Madre doveva lasciare la
città imperiale e recarsi a Pastrana. La principessa era là ad aspettarla, alla vigilia del
parto. Rifiutare di venire sarebbe stato recarle grave offesa (Fondazioni XVII, 2, p.
138).
« Vede, - osservava il padre Bànez - in quali mani cadeva la povera Madre!
Sovranamente libera, se fosse dipeso solamente da lei, non avrebbe mai ceduto ai
capricci dei potenti. Ma è una legge della grazia farsi strada in mezzo alle pietre e ai
rovi. L'avvenire della sua opera poggiava su persone discutibili quanto Ruy Gòmez e
sua moglie. Il Figlio di Dio, venuto sulla terra, si era comportato
meglio? Alla sua scuola, la santa del Carmelo imparava a far trionfare il bene nel
cuore stesso della mediocrità, e perfino del male. Le occorrevano, come vedremo, tutte
le astuzie e tutta la pazienza ispirate da un vero amore di Cristo. Ma di tutto questo,
- concluse il padre Bànez incontro al quale stava avanzando un gruppo di giovani
domenicani - parleremo un'altra volta ».

Effettivamente, tutte le campane e il campanone della cattedrale suonavano « a gloria


» « la pasqua dello Spirito Santo ». La città si riempiva di rumori agli angoli delle
viuzze, sulle piazzette, a Zocodaver. Quel pomeriggio, la processione sarebbe uscita
da San Clemente. Provatevi infatti ad immaginare, a Toledo, una festa di pentecoste
senza orifiamme, stendardi, ceri, statue solennemente portate, musiche e detonazioni!
Nel nuovo Carmelo di via Santo Tomé, sedendosi a tavola, la Madre gustava una gioia
pura: finalmente avrebbe « potuto gioire qualche momento con nostro Signore. Quasi
non poteva mangiare, per la felicità di cui l'anima si sentiva piena » (Fondazioni
XVII, 1, p. 137).
Suonarono alla porta. Isabel de Santo Domingo corse ad aprire: era il messaggero
della principessa di Eboli.
La Madre, come se avesse ricevuto una frustata sul viso, si presentò subito.
No! non poteva andare! Doveva rimanere a Toledo dove aveva ancora troppo da fare
per organizzare quel monastero fondato così di recente.
104
- Senor, vada a mangiare, porfavor; nel frattempo scriverò a sua signoria. Poi
ritorni a prendere la mia lettera di scuse.
Ma un'altra Signoria comandava a questa donna. Inginocchiata davanti al Santissimo
Sacramento, Teresa si sentì ordinare « che non doveva mancare d'andare a Pastrana,
che sarebbe andata per qualcosa di più importante della stessa fondazione e che
portasse con sé la regola e le costituzioni » (Fondazioni XVII, 3, p. 138).
Mai essere umano fu, in materia di rivelazioni personali, più diffidente di Teresa, che provava un
irresistibile bisogno di farsi controllare. Si andasse a chiamare il suo confessore, il padre Vi cente
Barròn, che conosceva così bene da quando l'aveva soccorsa al capezzale di suo padre
morente.
« Non gli dissi nulla di quello che avevo udito nell'orazione, perché in questo modo
resto sempre più tranquilla. Supplico solo il Signore di illuminare i miei confessori
conformemente a quel che possono capire in virtù di lumi naturali, e Sua Maestà,
quando vuole che la cosa si faccia, gliela pone in cuore » (Fondazioni XVII, 4, p.
138s).
L'austero domenicano valutò il pro e il contro: Ana di Eboli, Ruy Gòmez, il consiglio
reale, il re, l'avvenire della riforma del Carmelo.
La sua risposta fu: « Sì, deve partire ».
La sera del 10 giugno, la carrozza noleggiata dalla principessa scendeva l'ultimo
pendio che conduce al villaggio di Pastrana. Il sole al tramonto abbagliava i versanti
dei monti coperti di olivi e gettava oro nella Vega fertile; da questo fondovalle dove si
ammassano povere casupole intorno al palazzo del conte, non vi sono che giardini,
ruscelli e fogliame.
La dimora costruita dalla madre della principessa era di pietre quadrate, con vaste sale,
un cortile d'ingresso e un'ampia veduta, al di là della piazzetta, sul vallone.
Appena si aprirono le porte, dona Ana, coperta di gioielli, con un sorriso di trionfo
sulle labbra, comparve in cima a una scala e, scendendo con maestà, si avanzò per
stringere fra le braccia la carmelitana.
- Come sono felice di accogliere finalmente vostra reverenza! E una benedizione per la
mia famiglia e, in particolare, per il bambino che sta per nascere. Sia la benvenuta...
Ecco i vostri appartamenti, - diceva qualche minuto dopo alla Madre e alle sue due
compagne, mostrando con un ampio gesto una fila di stanze sontuosamente
addobbate... - Pastrana non è Toledo!
Poi, con un'aria d'intesa leggermente maliziosa:
- Ma certe località sono per le persone sante più accoglienti della città imperiale...
checché ne dica la mia venerata cugina Luisa de la Cerda!
La Madre ricevette la prima frecciata con il sorriso sulle labbra. Poi, quando la
principessa si fu ritirata:
- Figlie mie, se c'è una cosa che dobbiamo prepararci a perdere qui, è proprio il nostro
punto d'onore!
In effetti, venire a Pastrana significava entrare in guerra. Lungi dall'essere un luogo di
riposo, il palazzo si trasformò rapidamente in arena o in torneo. « Rimasi lì circa tre
mesi, durante i quali ebbi a soffrire molti travagli », scrive la Madre... e certo non
attenua i fatti (Fondazioni XVII, 13, p. 143).
« Ho visitato or ora la nostra futura casa, ai piedi del villaggio e devo confessare a
vostra signoria che sono molto stupita. Come potremo vivere in un convento così
105
stretto? Vostra signoria dimentica che le carmelitane non sono puri spiriti, che
sono fatte di carne e ossa e che devono vivere per sempre nel convento in stretta
clausura? ».
Prima costatazione: Ana de la Cerda voleva rivaleggiare con dona Leonor de
Mascarenas, ex governante del re, che aveva fondato a Madrid le francescane reali,
soggette a una regola durissima (Fondazioni XVII, 5, p. 139). Perché non riprodurre a
Pastrana ciò che veniva fatto a Madrid nella cerchia di sua maestà il re cattolico? E
dona Ana, ben nutrita, colmata di attenzioni, servita nei suoi appartamenti
principeschi, si dilettava al pensiero delle mortificazioni che alcune carmelitane elette
si sarebbero inflitte senza pietà, a sua gloria. Ah! non avrebbe mai lesinato sulle peni-
tenze imposte... agli altri!
- Voglio che il convento non abbia rendite; lo voglio, perché so che vostra reverenza
ha fondato su questo principio il suo primo monastero in Avila.
- Sì, - rispondeva la Madre - ma la città dei cavalieri è più grande di Pastrana. Lì vi
sono numerose famiglie nobili, abituate a fare l'elemosina ai conventi. Vostra signoria
non se ne offenda, ma a Pastrana non vedo che poveri « coltivatori » e pastori, i quali
traggono i mezzi di sussistenza dai loro magri campi e dalla bontà dei loro padroni.
- Per l'appunto, - rispose la principessa - io sono qui padrona assoluta. L'imperatore
Carlo V ha venduto alla mia signora madre questo villaggio e il suo territorio. Tutto
mi appartiene, « dalla foglia dell'albero fino alla sabbia del ruscello e dalla sabbia del
ruscello fino alla foglia dell'albero », come è specificato nel contratto. Se le monache
hanno fame, io stessa darò loro da mangiare, ma nelle mie terre non voglio monasteri
con redditi.
- Non dubito della munificenza di vostra signoria per la cui generosità rendo grazie al
Signore, ma, per consiglio ricevuto da teologi, non posso sottoscrivere simili
condizioni. Vostra signoria, Dio mi perdoni di parlarne!, potrebbe venire a mancare. I
suoi numerosi eredi si ricorderanno delle sue promesse? La prudenza non è mai
troppa. Non posso accettare questa fondazione. Vostra signoria fissi per iscritto
l'ammontare della rendita che vorrà concedere al convento! Così, se vostra signoria
non lo sa, ha fatto sua cugina dofla Luisa de la Cerda per la fondazione di Malagon.
Sentendo nominare la cugina, la principessa arrossì e andò in collera:
- Pastrana non è Malag6n, e la moglie del consigliere del re non è dona Luisa de la
Cerda!... Por Dios, non doterò mai la vostra casa.
In quel mentre, la porta si aprì, lasciando passare Ruy Gomez, il quale, « avveduto
com'era, indusse la moglie a rinunziare alle sue esigenze »; ma, appena placata una
tempesta, un'altra se ne preparava (Fondazioni XVII, 13, p. 143).
La faccenda della suora agostiniana che dona Ana voleva introdurre nel convento
carmelitano e che il padre Bànez disapprovò, segnò un'ultima vittoria della fondatrice
sui capricci della principessa. Ma, troppe volte vinta, l'illustre benefattrice preparava
una clamorosa rivincita.
Sdraiata su un grande catafalco, pochi giorni prima del parto, dofia Ana convocò
Teresa.
- Quanto mi è cara l'anima di vostra reverenza e quanto grande sarà la sua cura perché
mio figlio venga felicemente alla luce! Ho saputo da fonte sicura che vostra reverenza
ha presso di sé il Libro della mia vita, scritto per ordine dei suoi confessori. Nulla
potrebbe alleviare i miei dolori più che il permettermi di leggerne alcune pagine...
106
Oserebbe rifiutarmi questo favore?
La Madre si difese del suo meglio: questo libro interessava soltanto coloro che,
incaricati della sua anima, dovevano risponderne davanti a Dio e davanti alla Chiesa.
Quale interesse si sarebbe potuto trovare in resoconti spirituali scritti soltanto per i
confessori?
- Vostra signoria trarrebbe maggior conforto dal gustare qualche libro pio, come i
Moralia di s. Gregorio, che posso prestarle immediatamente.
Ma dona Ana non voleva capire questo discorso.
La sera, Ruy Gòmez andò a parlare a Teresa. Con squisita cortesia, le richiese il libro.
Sua moglie era profondamente angosciata e si sa bene quali pericoli corre una donna
in simili momenti. La carità della fondatrice avrebbe rifiutato questo sollievo a una
futura madre partoriente?
L'arringa fu ascoltata. Teresa cedette, a patto che solo i due sposi avrebbero letto il
libro. In caso contrario, ne sarebbero potuti nascere gravi inconvenienti per il Carmelo
e la sua riformatrice.
Già dall'indomani, la prima dama di compagnia ne dava pubblica lettura nell'alcova
principesca. Quanti scoppi di risa, esclamazioni, commenti nell'udire quella storia di
visioni, parole interiori, rivelazioni.
Le domestiche accorse dalla cucina, le cameriere, le guardarobiere se le ripetevano
bisbigliando confidenzialmente. « In verità, si erano mai udite simili stravaganze? ».
Dolorés, una servetta venuta dall'Andalusia, con un riso sornione, se ne andava
raccontando a chi voleva sentire:
- A Cordova, quando veniva condotta al rogo Magdalena de la Cruz,
quell'indemoniata, si dicevano di lei le stesse cose, proprio quelle che racconta la santa
di Avila!

Finalmente, è finita! Per il Carmelo di Teresa, Pastrana è soltanto un episodio tragico.


Il 10 aprile 1574, Juliàn d'Avila e Antonio Gaitàn vennero a portar via le tredici
monache alle prese con le persecuzioni della principessa; « come Davide che fuggiva
Assalonne », racconta il cappellano di San José; a prezzo di cinque giornate di
viaggio, per strade impervie e con tempo avverso, per condurle a Segovia.
Eccomi qui, seduto davanti a questa piccola grata del parlatorio, posta dalla santa
Madre, in questo minuscolo convento occupato ora dalle suore concezioniste.
Pastrana, in questa vigilia del 15 agosto, dorme sotto il sole del pomeriggio e la polvere dei secoli.
Ormai non è che un semplice villaggio riempito dal frastuono della prossima corrida. Il palazzo di
dona Luisa, cadente e d'aspetto miserabile, ha dimenticato i suoi fasti. Alcune vecchie sulla soglia di
casa, all'entrata del loro corridoio, respirano un po' d'aria fresca, mentre laggiù, dall'arena, arrivano
frammenti di musica.
Il silenzio conventuale mi impressiona. Questa grata immobile, dietro la quale si sono
dileguati tanti visi santi... Mi torna in mente allora una parola di Teresa, un grido
dell'anima: « Mio Re, fate che io non tenga più in alcuna stima le cose del mondo, o
tiratemi fuori da esso... Nulla può far vivere bene quest'anima fuori di voi; ormai non
vorrebbe più vivere in sé, ma in voi » (Vita XVI, 4, p. 144s).
Per muoversi in mezzo a tanti intrighi, per conservare la serenità, la fiducia, la chiara
visione della sua opera riformatrice nel cuore della giungla umana, Teresa doveva
davvero essere profondamente unita a Cristo, suo Signore e Amico!
Sovrana e libera, assillata dal capriccio dei principi.
107

4 - Fervore e furore a Pastrana

« Porta con te la regola e le costituzioni ». Era parola divina, sentita a Toledo, il giorno
di pentecoste del 1569. Il viaggio della Madre a Pastrana non consisteva nel soddisfare
il capriccio della principessa di Eboli. Altre erano le recondite intenzioni del Signore.
A Madrid, l'accoglienza fu calorosa.
Mloggiata nel convento delle francescane, vicino a dona Leonor Mascarenas, che
l'aveva « sempre trattata con molta benevolenza » (Fondazioni XVII, 5, p. 139), la
fondatrice vide sfilare tutta la capitale.
Ana de Mendoza aveva battuto la grancassa, sia per dare maggior lustro al suo
blasone: pensate un po'! la santa veniva a fondare un monastero da lei, a Pastrana; sia
per semplice civetteria femminile. Nel cortile del convento, le carrozze arrivavano e ri-
partivano. Il salone in cui la Madre riceveva era sempre pieno:
duchesse, marchese, contesse... L'aristocrazia spagnola, frivola, chiacchierona, devota,
curiosa, volteggiava intorno alla carmelitana dalle veste rattoppata e dal viso stanco.
- Cadrà in estasi? la mia amica Luisa me lo ha affermato...
- Devo sottoporle un grave problema: dicono che legga nei cuori...
- Ha profetizzato a Toledo. Mio figlio combatte ad Anversa, nelle Fiandre; uscirà
indenne dalla guerra? Ho un buon partito da presentargli a Tordesillas. Per S. Caterina,
che Dio mi esaudisca!
E dàgli a ciarlare, dàgli a spettegolare! Nell'ozio e nella mediocrità generale, la
presenza della Madre era l'avvenimento del giorno. Ahimè! La santa del Carmelo
deluse ogni speranza. La nuova capitale del regno, con le sue 35.000 anime,
cominciava a far parlare di sé. Da un semplice villaggio, si vedeva sorgere una città.
- Oh, - esclamava Teresa - quante belle vie ho visto a Madrid!
E la gente, al ritorno, si sedeva in carrozza, con la faccia accigliata e irritata:
- Questa è la santa di Avila? Tutto qui?
Ma la fondatrice, no, non era delusa. Dona Leonor le presentava due candidati per il
deserto, due italiani, due originali quant'altri mai, perché, checché se ne dica, la santità
non ha forse rasentato spesso la stravaganza?
Quante avventure aveva avuto il primo, Ambrosio Mariano Azzara, di cinquantanove
anni! Molto colto, ingegnere, uomo di grande ingegno, governatore della regina di
Polonia, falsamente accusato, gettato in prigione, ma senza cercare di discolparsi, que-
sto personaggio di tempra fuori del comune si era rifugiato nella solitudine del Tard6n,
presso Cordova.
In quella Tebaide, aveva incontrato un altro italiano di quarantatré anni: Giovanni
Narduch, divenuto Giovanni della Miseria. Dapprima francescano, inseguito dai
demoni e da voci che gli dicevano: « Va' in Spagna », aveva passato i Pirenei.
Andò pellegrino fino a San Giacomo di Compostella, quasi in estasi. « Gli sembrava
di avere delle ali ». Tornò nella Vecchia Castiglia e si fece eremita. Con abili dita,
scolpì una statua della Vergine che godeva fama di essere miracolosa. Tanta era la
gente che si recava all'eremitaggio, che egli fuggì altrove, prima a Salamanca, poi a
Palencia e vicino a Jaén. Spinto da un'altra voce che gli suggeriva di sottoporsi alla
regola dell'obbedienza, arrivò in un deserto chiamato el Tardòn, dove strinse amicizia
con il padre Mariano.
108
Due uomini davvero bizzarri, sempre in cerca di difficoltà, di vita eremitica e di
imprese.
Mariano veniva chiamato per irrigare, a partire dal Tago, la pianura di Aranjuez. Giovanni, sotto
l'alto patrocinio di Leonor de Mascarenas, prendeva lezioni di pittura nello studio del pittore Sànchez
Coello. Un giorno, a Siviglia, dipingerà quel ritratto della santa Madre che diverrà famoso.
Due eccentrici, senza dubbio, ma con quale fondo di generosità!
Dona Leonor parlò di loro alla fondatrice. Il padre Mariano desiderava molto
conoscerla. Partiva alla volta di Roma per ottenere un indulto allo scopo di continuare
una vita da eremita che il concilio di Trento non autorizzava.
La Madre gli mostrò la regola e le costituzioni manoscritte del Carmelo. Sognava una
cosa impossibile? Quei due uomini non cadevano forse provvidenzialmente dal Cielo
per fondare il secondo monastero di monaci autorizzato dal padre generale?
Il padre Mariano si ritirò nella sua cella per « pensarci quella notte ».
« Mi sembrò già quasi deciso, e capii che quanto mi era stato detto nell'orazione a
Toledo, "che sarei andata per qualcosa di più importante della fondazione di un
monastero di religiose", si riferiva proprio a questo ».
Il mattino seguente, l'ingegnere asceta era conquistato; « stupito dal repentino
cambiamento operatosi in lui, tanto più - anche ora a volte me lo ripete - a causa di una
donna » (Fondazioni XVII, 9, p. 141s).
Confidenza per confidenza, il napoletano raccontò che Ruy Gòmez aveva offerto a lui
e al suo compagno il romitaggio di San Pedro, sulle sue terre di Pastrana.
Presto, carta e penna! E Teresa scrive ai superiori del Carmelo perché permettano di
continuare nella Nuova Castiglia l'opera cominciata da Fray Juan e da Fray Antonio
nella Vecchia Castiglia. Con l'appoggio del vescovo di Avila, il consenso fu dato: «
Una fondazione in luogo così appartato non poteva essere loro di alcun danno »
(Fondazioni XVII, 11-12, p. 142s).
Alla fine di giugno, i due eremiti arrivavano a Pastrana, muniti dell'autorizzazione provinciale.
Veniva con loro un sinistro personaggio, Fray Baltasar Nieto, carmelitano dell'Andalusia, i cui
intrighi avevano sfidato, nel 1566, il padrè generale. La Madre lo conosceva come « assai buon
predicatore »; voleva diventare « scalzo ». La fondatrice « ne rese lode a Dio », senza sospettare il
deplorevole gioco al quale si sarebbe abbandonato un giorno quel monaco equivoco (Fondazioni
XVII, 15, p. 144).
Per grazia di Dio e del consigliere del re, Pastrana sarebbe divenuta il secondo luogo
della riforma maschile e, così vicino ad Alcalà, città universitaria, avrebbe attirato un
gran numero di candidati alla vita carmelitana.

« Ecco il vostro territorio », dichiarava Ruy Gomez indicando con il suo bastone dal
pomo d'argento tutto lo spazio intorno alla collina dove si ergeva il romitaggio di San
Pedro. La cima è tutta rotonda. Più giù si dividono tre vegas - « pianure coltivate »
-con le loro sorgenti, i loro ruscelli, i loro orti, i loro boschetti. Dondolio di pioppi, di
olivi, di pini. I quattro venti del cielo vi mescolano vari profumi, mentre il sole tinge di
rosa il monte su tutti i suoi fianchi, secondo l'ora del giorno. Aereo, isolato, acca-
rezzato dalla luce e avvolto dal silenzio... Che cosa si poteva offrire di meglio a quei
nostalgici della solitudine?
Subito, i due eremiti di professione decisero: la cappella servirà per gli uffizi; il
colombaio, situato all'estremità della collina, a picco sulle vegas, diventerà
l'infermeria; nella costa rocciosa che strapiomba sulla vallata verranno scavate grotte,
a mo' di celle.
109
Il 9 luglio 1569, nell'oratorio del palazzo, Mariano e Giovanni presero l'abito e la
cappa « confezionati dalla Madre »; ma la grande festa si celebrò il 13 luglio.
Ancor più che a Malagòn - è ovvio - l'avvenimento non poteva passare inosservato;
bisognava strombazzarlo. Dapprima il Santissimo Sacramento fu portato al Carmelo
delle monache, situato ai piedi del villaggio, poi la processione, ceri, statue, cavalli,
belle dame e tonache, si snodò su un buon chilometro fino al romitaggio San Pedro.
Paesaggio scintillante di sole, armonia dei pendii dove si sposano la terra bianca e il
verde degli alberi; pace solenne di quella prua altera, a picco sulla vega, mentre in
fondo a questo anfiteatro naturale, il palazzo principesco raccoglie casette e patios in
uno splendore ieratico. Chi poteva dubitare che la Madre fosse al colmo della gioia?
L'entusiasmo dei santi vola via, leggero, inconsapevole, su ali
di colomba. Un Altro abita in loro... non c'è quindi da stupirsi se, presto o tardi, la
malizia degli uomini si accanisce a crivellarlo di pietre.

In effetti, le delusioni e le contraddizioni non si fecero aspettare molto. Il padre


Antonio, che la fondatrice aveva fatto venire da Duruelo, nominò priore dei due frati
conversi, Mariano e Giovanni, il cupo Nieto. Intrigante, questi si era conquistata la
fiducia di Ruy Gòmez, ma non divenne mai uno scalzo e finì col diventare il
personaggio sospetto numero uno.
Nel 1577, all'epoca della grande tempesta contro la sua opera, la Madre scriverà al re:
« Supplico vostra maestà di prendere informazioni sulla vita di questo predicatore che
fu scalzo... »(Lettere 18.9.1577, p. 604).
Ingegnere, sterratore, fontaniere, Mariano non poteva dimenticare i suoi talenti e il suo
desiderio di superattività. Mancava l'acqua! Venne costruito un canale per prenderla al
villaggio e portarla fino in cima alla collina. Per recarsi dal colombaio al romitaggio,
bisognava arrampicarsi su un faticoso pendio: vennero sistemati dei gradini;
direttamente nel tufo furono scavati un refettorio e una cucina. In quanto alle grotte,
bisognava allargarle e aumentarne il numero. Con grande fragore di polvere da sparo,
si fece saltare la roccia.
« Si deve alla Provvidenza », scrive il padre Ruzola, « se non vi furono né morti né
crani fracassati!
Questi lavori degni del nostro moderno genio civile non bastavano a soddisfare lo zelo
dei due italiani. La regola del Carmelo prescrive « che bisogna meditare la legge del
Signore, giorno e notte »: per questo a Pastrana venne organizzata l'adorazione
perpetua.
I novizi affluivano, tanto la fama correva sulle ali del vento e sotto il patrocinio di Ruy
Gòmez.
Ma quale spirito regnava nella fondazione di Mariano? A un anno di distanza, il 7
luglio 1570, la Madre poté rendersene conto.
A Pastrana si leggevano i Padri del deserto e le opere di s. Giovanni Climaco. Come
venivano interpretate, alla santa collina, le prodezze di quei forsennati della penitenza?
«La discrezione è cosa di grande importanza per governare », aveva scritto la Madre
(Fondazioni XVIII, 6, p. 149). « Vorrei che adempissero la regola, cosa che dà già
molto da fare, e che attendessero al resto con moderazione » (Fondazioni XVIII, 7, p.
150).
Ahimè! nelle caverne di San Pedro, i frati si infliggevano percosse e torture. Digiuni e
110
discipline, piedi nudi, breve sonno su sarmenti e selci appuntite...
Nessuno più di Teresa ammirò le follie dei santi di un tempo:
« Il freddo, il caldo, i loro digiuni e la loro solitudine, senza avere nessun altro
per lamentarsi, se non Dio » (Cammino Manoscritto Escorial XVI, 4). Tuttavia, «
dobbiamo distinguere ciò che è da ammirare da ciò che è da imitare » (Vita XIII, 4, p.
117).
Frenesia nelle penitenze? Furia di autodistruzione? I carmelitani di Pastrana
chiamavano questi eccessi « follie d'amore divino ». Invano la Madre notava: «
L'eccesso di mortificazione si trasforma di solito in disgusto di ogni mortificazione »
(Cammino Manoscritto Escorial XV, 4).
Come avrebbe potuto la fondatrice moderare questo furore penitenziale?
Era donna, in un ambiente decisamente misogino. Richiamare quegli asceti alla
discrezione era come predicare al deserto. Non avevano forse corso lo stesso pericolo i
carmelitani di Duruelo, di Mancera? Chi mai aveva apportato la giusta misura a quella
« ascesi da bestie », se non Juan de la Cruz? (Notte oscura I, VI, 2, p. 392).
Egli, per fortuna, arrivava a Pastrana verso la metà di ottobre del 1570. Con
un'occhiata, considerò là situazione. Avrebbe voluto nominare un giovane padre
maestro dei novizi: Fray Gabriel de la Asunciòn, il quale, di salute robusta, d'aspetto
affabile, di temperamento equilibrato, prudente e spirituale malgrado i suoi ven-
ticinque anni, avrebbe potuto contrastare il fanatismo della comunità.
Ma quelle menti meschine e mediocri non sognavano altro che le loro grotte
trasformate in sepolcri, i loro cilici, le loro discipline e il loro cibo miserabile; di che
trasformare in Tebaide quel delizioso angolo della Nuova Castiglia, e definire come
autentico amore divino le stravaganze e i deliri dell'orgoglio e della stupidità.
Nell'aprile del 1571, Fray Juan de la Cruz fu nominato rettore del collegio dei carmelitani ad Alcalà
de Henares. Egli accoglieva i novizi, venuti da Pastrana per studiare, e rimediava con la sua
dolcezza, il suo senso del discernimento agli eccessi di una formazione così male orientata. Alle
porte di quel deserto, lui, « il piccolo Seneca », incarnava quella prudenza e quella discrezione che la
riformatrice aveva sempre desiderato per il suo ordine, ma che non aveva potuto far regnare fra gli
eremiti di San Pedro. « Teme che per il modo con cui si trattano i religiosi si debba presto finire col
distruggere ogni cosa » (Lettere 12.12.1576, p. 461).

Le grotte sono abbandonate da molto tempo, come pure il convento, e io sono qui, in
questa sera di agosto, seduto sul dirupo della roccia ai piedi della quale rinverdiscono
ancora pioppi, salici e olivi. Che silenzio profumato! Sulla mia testa, un melograno in
fiore, e già una melagrana in frutto. Come non pensare ai celebri versi del Cantico
spirituale e all'incomparabile mistico che lo scrisse:
« Quindi all'alte caverne Tosto il pie' porterem dell'alma Pietra, Ben profonde ed interne, Là entro
ne andrem poi L'umor suggendo de' granati tuoi » (Cantico spirituale, strofa XXXVII, p. 756).

Questa pietra è Cristo e queste caverne rappresentano i suoi misteri. Come arrivare ad
intenderli tutti, quando tanti santi dottori non sono riusciti in questa ricerca? Numerosi
ancora appaiono i semi di melagrana e delizioso il loro sapore.
Ah! se si fosse dato ascolto a quel maestro di saggezza, Juan de la Cruz, invece di
abbandonarsi a quelle assurde mortificazioni! Se si fosse cercato Cristo invece di
coltivare il gusto delle prodezze ascetiche! In poche parole, se l'autentico spirito del
Carmelo avesse permeato quei dittatori della santità, Pastrana sarebbe diventata una
sorgente, una stella, un simbolo della grazia.
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Come questo fiore di melagrano, di un rosso smagliante, che il soffio della sera
fa oscillare al di sopra della sterilità della roccia.

5 - La fondazione più costosa

- Ah! non mi dica che Salamanca, all'ora del tramonto, quando si attraversa il ponte
romano con i suoi 27 « occhi » sul Tormés, non è una meraviglia!
Il mio amico, il senor Serafin che è morto da poco - Dio abbia l'anima sua! - me lo
ripeteva come una cantilena. E non aveva peli sulla lingua:
- Toledo? Avila? Segovia? per menzionare soltanto località castigliane, una
porqueria, « un porcile »! Ma Salamanca, se penso alle sue due cattedrali incastrate
l'una nell'altra, alle facciate di San Esteban e dell'università, alla sua Plaza Mayor,
unica in Spagna... Lasciamo andare i suoi monumenti; per nominarli ad uno ad uno ci
vorrebbero parecchie pagine. Ma al crepuscolo le sue tinte pastello, il suo color ocra
dorata, il cui riflesso laccato incendia il fiume, copre di una patina i campanili, le torri
campanarie e le altre case, costringendovi, visitatori della sera, a rallentare il passo.
- Claro! senor Serafin! lei aveva ragione, soprattutto se si aggiunge che aleggia qui
un'aria d'intelligenza, di cultura e di operosità. Teologi, maestri di spiritualità, scrittori,
fino all'ombra severa di Fray Luis de Leòn sulla piazza dell'università, concorrono per
affermare che, se il classicismo nacque in Castiglia, è questo il luogo in cui si scopre
la sua culla.
- Malgrado il suo prestigio - riprese il padre Domingo Bànez - la fondazione di Salamanca fu la più
laboriosa per la santa Madre. « Il locale era assai umido e freddo e troppo grande ai fini di riuscire a
ripararlo. E il peggio era la mancanza del Santissimo Sacramento, il che, in così stretta clausura, è
molto sconfortante » (Fondazioni XIX, 6, p. 158).
Mentre entravamo nel convento domenicano di San Esteban, il padre fece una sosta,
parlando fra sé e sé, seguendo il filo dei suoi ricordi.
- Perché, ci si potrebbe chiedere, sono così bene al corrente di questa faccenda? Strano disegno di
Dio! Ero stato chiamato a tenere all'università la predica della traslazione di S. Gerolamo; era la
domenica 22 ottobre del 1570. Quest'occasione provoco l'incontro di due Gutiérrez: l'uno gesuita,
l'altro rispettabile padre di famiglia, entrambi responsabili, a titolo diverso, della venuta della Madre
nella città di Salamanca. Rettore della Compagnia di Gesù, il padre Martin Gutiérrez si era acquistato
qui larga influenza. Appena quarantaseienne, grazie al suo dinamismo, ai suoi doni di comunicativa,
alla sua alta personalità spirituale, aveva contribuito non poco ad accrescere il credito del suo ordine
in questa città universitaria in cui il gran numero di religiosi, di maestri brillanti, di studenti di ogni
paese, rendeva la concorrenza difficile. Da circa un anno, chiedeva con insistenza alla Madre di
fondarvi un Carmelo. « La città è povera, vive dei beni dello spirito; il monastero può sostentarsi
senza rendite, come ad Avila, e la propagazione del Carmelo sarà tanto maggiore in quanto più di
settemila studenti frequentano i corsi universitari. Il vescovo, don Pedro Gonzàlez de Mendoza, ha
per me sentimenti di grandissima fiducia e amicizia e accorda la sua autorizzazione » (Fondazioni
XVIII, 1-3, p. 146s).
« Il secondo Gutiérrez, di mestiere commerciante, si perde nell'ombra della storia;
eppure era uomo di grande valore e ottimo cristiano. Aveva dotato molto largamente
le sue sei figlie mandandole all'Incarnazione di Avila. Cinque di loro passavano alla
riforma e sarebbero divenute eccellenti carmelitane. Juliàn d'Avila venne dunque a
trattare questa fondazione. Da una signora imparentata con i Cepeda per parte del
cognato Ovalle, prese in affitto una casa, che era occupata da alcuni studenti. Era il
mese di settembre, epoca poco propizia per trovare alloggio in una città universitaria.
La proprietaria, per contratto, promise che l'abitazione sarebbe stata libera all'arrivo
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delle monache. Lei conosce la casa, contigua al monastero delle clarisse di
Santa Isabel e al rivo di San Francisco: niente di straordinario, né come alloggio, né
come posizione. Ma chi ha mai visto i poveri fare gli schizzinosi?... In quanto all'avvio
della fondazione, la Madre lo rievoca con parole vivaci e commosse ».

Partenza da Avila, la domenica 27 ottobre. Una sola compagna: Maria del Sacramento.
Inutile caricarsi di monache gemebonde!
Per una fondazione, così come per una campagna militare, non c'è bisogno di codardi
né di devoti in pantofole!
L'esperienza di Medina era bastata.
Le accompagnavano due carmelitani calzati.
Che tempo, Dio del Cielo, d'autunno, in Castiglia.
« Nel parlare di queste fondazioni, tralascio gli enormi disagi dei viaggi, per il freddo,
il sole, la neve che a volte non cessava di cadere tutto il giorno. Di quando in quando
ci smarrivamo, oppure mi accadeva di essere travagliata da forti mali con attacchi di
febbre... Per quel ch'io ora ricordo, non ho mai rinunziato a una fondazione nel timore
della sofferenza... appena mi mettevo in cammino, la fatica mi sembrava poca,
pensando chi fosse colui a servizio del quale si faceva il viaggio e considerando che
nella nuova casa si sarebbe lodato il Signore e vi sarebbe stato riposto il Santissimo
Sacramento » (Fondazioni XVIII, 4-5, p. 148).
Salamanca si trova soltanto a una giornata e mezzo di viaggio da Avila, ma in quali
condizioni! Cadeva una pioggia gelata; il fango arrivava fino alle assi della carretta.
Bisognò passare a guado un ruscello vicino a Santo Tomé de Zabarcos. Per colmo di
sventura, la Madre tremava di febbre. Verso sera, si fermò a Penaranda, in casa di don
Juan de Bracamonte.
Di prima mattina, traballante, il carro s'inoltrava sulla strada maestra, lungo il Tormes.
La nebbia autunnale avvolgeva mule, mulattieri, monaci ed equipaggio.
Verso mezzogiorno, la vigilia della festa d'ognissanti, il gruppo passava il ponte
romano ed entrava in città da una delle tredici porte: la porta San Polo. Mentre i
carmelitani raggiungevano il loro convento San Andrés, vicino al fiume, la Madre e la
sua compagna cercavano una locanda.
Nicolàs Gutiérrez venne a salutarla, portando cattive notizie. La casa, sì, era stata
affittata, ma gli studenti vi abitavano dalla festa di 5. Luca, giorno d'inizio dei corsi.
Decisione immediata: come convenuto, i giovani inquilini dovevano sgombrare l'alloggio prima
dell'imbrunire! Le suore sarebbero entrate soltanto sotto la protezione delle tenebre: maniera efficace
per evitare ogni scandalo (Fondazioni XIX, 2, p. 156).
Strepitando, sfasciando tutto, la genia studentesca sgombrò la vasta casa piena di
soffitte ma, bonacciona, si calmò quando seppe che il suo posto sarebbe stato preso da
suore, da penitenti. Uno degli sfrattati era don Juan Moriz, futuro vescovo di
Barbastro.
Quarant'anni più tardi, scrivendo al papa Paolo V per postulare 1° beatificazione
della santa di Avila, spiega che, avendo visto e conosciuto colei che aveva occupato il
loro alloggio, fu preso per sempre d'ammirazione per la « benedetta Madre Teresa de
Jesùs ».
La fondatrice possedeva soltanto quattordici ducati che subito destinò a comprare due
immagini di carta: una dell'Ecce Homo, l'altra della deposizione dalla croce. Per
primo, servire Dio, il Signore!
113
Al crepuscolo, mentre il campanone della cattedrale annunziava la festa di
ognissanti, le due suore s'introdussero nella vasta casa scalcinata. Era così sporca! I
giovanotti l'avevano lasciata in tali condizioni che « avemmo da lavorare non poco
quella notte »(Fondazioni XIX, 3, p. 156).
Il primo Gutiérrez, il laico, si era prodigato per trattare; era giusto che il secondo, il
gesuita, prestasse a sua volta tutto il suo aiuto. Dal collegio della compagnia furono
mandati due giovani religiosi con un carrettino pieno di tavole, due sgabelli, paglia,
due coperte e sarmenti.
Venne mandato a chiamare un falegname. Pedro Hernàndez ha raccontato il suo
intervento con molti particolari pieni di freschezza.
« Un religioso della Compagnia venne a bussare alla mia porta verso le 8 di sera, in
via de Gordo Lado.
« - Venga - mi disse.
« - Dove? - risposi; - a quest'ora non esco più.
« - Oh! Non è per fare una cattiva azione!... Alcune suore che vengono da fuori si
stanno installando vicino alla parrocchia di San Juan de Barbados. Bisogna che la casa
sia sistemata alla meglio per essere trasformata in convento allo spuntar del giorno.
« Andai dunque lì con i miei attrezzi; ci trovai la Madre Teresa e un'altra suora.
Bisognava chiudere alcune porte, aprire una finestra là dove sarebbe stata la cappella.
Aiutato dai religiosi gesuiti, ebbi da lavorare fino alle 4 del mattino!
Allora arrivò il padre Gutiérrez che celebrò la messa. Si prese quindi possesso del
monastero. Era il primo novembre del 1570, festa di tutti i Santi.
Grazie a Dio, non mancava il senso dell'umorismo sotto il cielo di Salamanca!
Le vicine clarisse di Santa Isabel facevano generose elemosine alle povere scalze, senza alcuna
gelosia né malanimo, come era avvenuto tre anni prima con gli agostiniani di Medina del Campo.
Ma la sera di quel primo giorno, festa di ognissanti, aspettando le nuove venute che la
Madre aveva mandato a chiamare da Valladolid, Medina ed Avila, le fondatrici si
ritrovarono come due erranti in quella vasta dimora. Al calar rapido, glaciale della
notte di novembre, con il vento che gemeva sotto le soffitte e sbatteva un'imposta mal
sistemata, Maria del Sacramento fu invasa da una paura irragionevole.
- Por Dios, Madre! Ci deve essere qualche studente nascosto lassù. Sento camminare...
Se ne sono andati così stizziti che non sarei affatto stupita se ritornassero a farci un
brutto scherzo.
« Ci chiudemmo a chiave in una camera. La buona paglia, offerta dai gesuiti,
costituiva un eccellente materasso. "Era ciò di cui io anzitutto mi provvedevo nelle
mie fondazioni, perché così non ci mancava un letto" (Fondazioni XIX, 4, p. 156). La
lampada disegnava ombre danzanti sul muro scrostato. Maria del Sacramento girava
qua e là gli occhi ingranditi dallo spavento. Il sonno cominciava a venire quando si
misero a suonare a morte le campane di San Juan, di San Marcos, di San Martin e
ancora più lontano... Era la notte dei defunti e tutti sanno che in Castiglia si suona "per
le anime dei morti" a ogni mezz'ora.
« Dissi a Maria:
« - Che cosa guarda? qui non può entrare nessuno!
« Mi rispose:
« - Madre, se io ora morissi, che cosa fareste voi, sola, qui?
« Questo, davvero, se fosse avvenuto, mi sembrava difficile da sopportare; cominciai a
pensarci un po' su e, insieme, ad aver paura, perché la vista dei cadaveri, sebbene non
114
mi spaventi, mi produce un certo cedimento di cuore, anche se non sono
sola... Il demonio aveva buon gioco per farci perdere la testa con timori puerili;
quando, infatti, vede che non si ha paura di lui, cerca altri ripieghi.
« Risposi alla mia compagna:
« - Sorella, quando ciò avverrà, penserò a quello che devo fare; ora mi lasci dormire.
« Siccome avevamo passato due cattive notti, il sonno ci tolse presto le paure »
(Fondazioni XIX, 5, p. 157).
Certo, questa fondazione di Salamanca si era realizzata facilmente, se si pensa alle
precedenti. Ma le condizioni della sistemazione risultavano deplorevoli.
A pochi passi si trovava il serbatoio d'acqua della città. Vicino alla porta scorreva il
rivo San Francisco: freddo, umidità. Ma il peggio era la mancanza del Santissimo
Sacramento.
Tuttavia, questa casa procurava grazie non comuni a quella donna di cinquantacinque
anni.
« Il mio confessore, il padre Bàfiez, si trovava a Salamanca ». Egli intervenne
efficacemente per la fondazione immediata di Alba de Tormes (di cui non parleremo
qui).
Si trovava lì anche il padre Martin Gutiérrez, rettore della compagnia. Al tramontar del
giorno, veniva nella minuscola cappella ad intrattenersi con la fondatrice,
accompagnato da un giovane religioso, Bartolomé Pérez de Nueros. I due interlocutori
prendevano così poche preoccupazioni nel parlare di Dio e dei suoi doni, che alcuni
frammenti di quella mistica conversazione giungevano all'orecchio del giovane
compagno. Martin Gutiérrez, uomo di animo grandissimo, così affabile, diveniva uno
di quei suoi maestri che la Madre ha tanto decantato e di cui apprezzava ancor più il
valore, dato il loro esiguo numero. Teresa stessa ha lasciato un'alta testimonianza della
qualità delle loro relazioni spirituali:
« Poiché ieri la signoria vostra se n'è andato via così presto ed io vedo come ella sia
troppo pieno di occupazioni perché io possa riceverne conforto, perfino quando è più
necessario, sono rimasta per un po' addolorata e triste. Vi contribuiva anche la
solitudine di cui ho parlato. Siccome, d'altronde, mi sembra di non essere attaccata a
nessuna creatura terrena, fui presa da un certo scrupolo, nel timore di cominciare a
perdere questa libertà. Ciò avveniva ieri sera. E oggi nostro Signore ha risposto ai miei
dubbi dicendomi di non meravigliarmi, perché, come i mortali desiderano avere com-
pagni con cui conversare dei loro piaceri materiali, così l'anima, quando c'è qualcuno
che la intende, desidera comunicargli le sue gioie e le sue pene, e si rattrista se non ha
con chi farlo. (E, parlando del padre Gutiérrez) aggiunse: "Egli ora segue la strada
giusta e le sue opere mi sono gradite" » (Relazioni XV, 4, p. 477).
Due anni dopo, il padre, in Francia, cadeva sotto i colpi degli ugonotti.
Spesso mi sono recato in questo primo monastero di Salamanca. Passata la prima
porta, si penetra sotto un portico a volta per arrivare alla seconda entrata. Uscendo
dalla penombra, si rimane abbagliati dalla vivida luce di un minuscolo patio. A destra,
cigola la catena del pozzo: l'acqua è così pura! Che fortuna per queste donne isolate
nella clausura e che simbolo! In fondo, a sinistra, si stendono le larghe foglie di un
fico.
Nel mese di gennaio del 1571, la fondazione di Alba de Tormes aveva accaparrato
la Madre. Per la festa della purificazione della Vergine, scrive Ana de Jesùs, la Madre
115
tornò a condividere con le sue compagne l'umidità e il freddo della casa degli stu-
denti.
Malgradq tante scomodità e la privazione della presenza del Santissimo Sacramento,
erano giorni di grazia.
« Considerando, sorelle mie, la stretta clausura, i pochi motivi di distrazione che
avete... mi sembra che possa esservi di conforto ricrearvi in questo castello interiore »
(Castello Conclusione, 1, p. 499).
Ricrearvi e condividere la vostra felicità.
Ana de Jesùs, ancora novizia e già nominata maestra delle novizie, incantava la
fondatrice per la sua intelligenza e i doni che riceveva da Dio. Il padre Gutiérrez, da
parte sua, la capiva perfettamente. Lunghe conversazioni, scambio di lettere. Teresa
gli mandava per iscritto i suoi resoconti spirituali. Proprio a uno di questi - il più
celebre - sto pensando, mentre, seduto nel minuscolo giardino, vedo il giorno
tramontare, il mirabile atardecer di Salamanca. Il fico, la sponda del pozzo, i pilastri
che attorniano il patio si tingono di colori rossicci.
Penso a quella sera di pasqua del 1571. Per la Madre, la tristezza e la solitudine si
erano prolungate fino all'ora stessa in cui i discepoli di Emmaus dividevano il pane
con il Risuscitato, nella gioia.
Isabel de Jesùs, una novizia da poco arrivata da Segovia, si mise a cantare un
cantarcillo popolare.

« Veante mis ojos, Dulce Jesùs, bueno... » « Quest'occhi miei ti vedano, o dolce Gesù buono, quest'occhi
miei ti vedano e dopo muoia! ».

« Essendo già in preda alla sofferenza, il canto mi fece una tale impressione, che le
mani mi si cominciarono a intorpidire...
Estatica, la Madre scivolò a terra come una morta. A fatica, attraverso la scala di legno
che ancora sale alla mia destra, fu trasportata nella sua cella, al di sopra del portico
d'ingresso.
« Rimasi con questa pena fino a stamattina, allorché, mentre ero in orazione, ebbi un
gran rapimento » (Relazioni XV, 3, p. 477).
Così, in questa casa lasciata sordida da una banda di studenti, intirizzita dall'inverno,
presentendo gravi preoccupazioni future, Teresa gustava a modo suo l'allegrezza
pasquale.
L'estasi confina con la poesia. Platone scrisse che la poesia è« cosa alata ». Così, al
termine del suo rapimento, Teresa, sotto l'influsso divino, buttò sul foglio alcune
strofe; il ritornello è divenuto popolare come quello del cantarcillo, ma il resto ha
origine diversa ed esprime tutto quello che accadde, in quel crepuscolo dorato, nel
patio dove s'innalzava il fico, vicino al pozzo dall'acqua pura.

« Vivo, eppur non vivo in me, aspettando sì alta vita, che mi è morte il non morire » (Poesie I, p.
583).

8
RITROVARSI

Che Teresa de Jesùs, ora carmelitana scalza, fondatrice patentata, ritorni


116
all'Incarnazione, che vi compaia non come semplice sottoposta, ma per
esercitarvi la carica suprema, che questa scelta non sia lasciata alle monache, ma
imposta da un'istanza esterna, che vi rimanga in linea di massima per tre anni di felice
direzione dando prova di tatto e di ferma volontà di risanare la situazione religiosa ed
economica di quella comunità troppo vasta, che infine vi insedi il migliore dei suoi
carmelitani contemplativi come confessore, Juan de la Cruz, tutti questi fatti, disposti
dalla Provvidenza, lasciano perplesso lo storico. Come se, a cinquantasei anni, il corso
della sua vita si vedesse improvvisamente fermato, bloccato; come se i suoi superiori e
Dio stesso si coalizzassero e le imponessero un'altra direzione, una seconda vocazione.
La casa in cui aveva passato ventisette anni della sua esistenza non era così cattiva
come alcuni hanno preteso. Vero vivaio di eccellenti monache, e cava da cui Teresa
estraeva solide pietre per la sua riforma. All'inizio, il padre generale aveva permesso
che ne venissero prese due, purché fossero volontarie; poi autorizzò la partenza di tutte
le candidate per una vita più riformata. Trenta-quattro di loro uscirono e si unirono alla
Madre fundadora.
Il monastero dell'Incarnazione risentiva, come tutta la Spagna, i duri effetti della situazione
economica. « Già precario alla morte di Carlo V (1558), lo stato delle finanze si degrada ancor più
sotto Filippo Il. I prezzi si sono quintuplicati in cinquant'anni ». Le guerre incessanti, la rivolta delle
Fiandre, dei Moriscos, la crociata contro i Turchi, le ambascerie costose, il denaro dato qua e là ai
principi cattolici o ai capi di leghe per indurli a ribellarsi contro il re di Francia, l'Inghilterra, la
Germania, le razzie di galeoni sui mari a beneficio dei Paesi Bassi emancipati dalla tutela spagnola;
infine, il gusto del lusso, del prestigio, della spesa, di un impero inebriato dalle proprie conquiste,
tutto quello sperpero schiacciava il popolo. Filippo Il aveva un bell'essere un « condannato alla
galera del potere », la sua galera faceva acqua da tutte le parti. Nessuna via d'uscita se non
l'inflazione, nuove imposte e, per il campesino - il contadino - un più duro lavoro su una terra ingrata
che non è mai stata favorita dalla natura.
All'Incarnazione, le cose temporali andavano molto male.
L'inverno del 1573, proprio quello durante il quale Teresa era priora, fu spaventoso.
Attraverso il tetto dalle tegole sconnesse, la tramontana gettava fiocchi di neve sulle
pagine dei breviari. Si usciva dal chiostro superiore, aperto ai venti della Sierra, e si
correva a riscaldarsi le dita intirizzite nella stanza comune dove qualche encina intera
bruciava in un monumentale camino; ma, lasciando quel tepore, il vento strappava di
botto quel po' di calore che ci si era conquistato. « L'aria sottile uccide un uomo senza
spegnere un candil », dice un proverbio castigliano.
Le suore mangiavano male. Quando si riusciva a cuocere un paio di rape inzuppate nel
pane nero era un festino.
Quando nevicava, i ladruncoli saltavano il muro della clausura e si introducevano per
saccheggiare le riserve di grano, di rape e di ceci.
Una suora munita di un archibugio vigilava all'angolo del chiostro superiore con
l'ordine di sparare sui ladri. Potete farvi un'idea dell'abilità di quel fuciliere in cornetta!
Più rumore che danno! Ma infine, a costo di numerose veglie e d'innocue detonazioni,
si riusciva alla meno peggio ad allontanare la gentaglia.
Quando la pancia è vuota, provatevi a parlare di spiritualità!
Nel novembre del 1571, Ana de Jesùs de Lobera, novizia venticinquenne a San José,
quella che la Madre chiamerà « la capitana delle priore », era tormentata da
un'invincibile fame. Ana de San Bartolomé chiese il permesso di offrirle qualche
supplemento di pane in refettorio.
Si, il temporale condiziona lo spirituale. Per riorganizzare a tutti i livelli
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quell'immenso monastero, mai terminato e veramente sovrappopolato, nessuno era
più adatto di colei che, malgrado la crisi, s'intendeva a meraviglia di fondare conventi
e di riuscire ad ogni costo a dar loro da vivere.
All'ingiunzione di essere priora, Teresa rispose, come sempre, affermativamente. Per
lei, era un principio di condotta:

(Che io sia come) « Giuseppe incatenato e d'Egitto viceré... Che volete voi da me, Signore? »
(Poesie Il, 10, p. 587).

Ora le catene erano più pesanti delle corone.


« A chi possiede Dio, nulla manca. Dio solo basta ».

1 - Tumulti per una priora

In quella sera di ottobre, nella casa del Maestro Daza, in compagnia di Francisco de
Salcedo, a via del Lomo, era quasi una cospirazione.
Passata la basilica di San Vicente, si varca la porta della città (ad Avila, ciascuna delle
nove entrate della città è protetta all'esterno da una chiesa). Si avanza in una via
lastricata; a sinistra, un'antica sinagoga dove, nel XV secolo, fu innalzato il secondo
monastero dell'Incarnazione, prima che questo fosse trasferito extra muros. Alte case
di pietra, alloggi di signori, di canonici. Là abitava il Maestro Daza, che aveva invitato
don Francisco per accogliermi.
- Come, - attaccò Daza - come far comprendere al nostro amico la nomina della Madre
Teresa, priora dell'Incarnazione?
- Bisogna riconoscere che questa faccenda somiglia ad una matassa di lana molto
ingarbugliata - rispose Salcedo.
- Eppure lei era qui, don Francisco, in quell'estate del 1572. Era stato appena ordinato
sacerdote, dopo la morte di sua moglie
- Dio abbia l'anima sua! - e celebrava la messa a San José. Molto spesso ha
somministrato la comunione alla Madre Teresa, l'ha incontrata, le ha parlato. Che cosa
ne pensa?
- Dal mio punto di vista - proseguì il « santo gentiluomo »
- per ritrovare il filo d'Arianna di questa storia complicata, bisognerebbe presentarla
come un lavoro teatrale. Ciascuno di noi ne racconterebbe un atto...
- Maestro Gaspar, por Dios! Lei è un iniziato quanto me. Cominci dunque!
- Vada per il teatro! E' una buona idea.
« Ebbene, dove mai si svolge il primo atto, se non nel convento di Medina del Campo?
La scena si apre su una controversia.
« Da una parte, la novizia Isabel de los Angeles, prima della sua professione, vuole
dare la sua immensa fortuna alle scalze. E' orfana; i suoi zii e le sue zie, in compenso,
sollecitano alcuni privilegi. Isabel e la comunità vi si oppongono. Il provinciale, Angel
de Salazar, appoggia i richiedenti. Prima questione!
« D'altra parte, lo stesso provinciale vuole imporre come priora dona Teresa de
Quesada, carmelitana dell'Incarnazione...
« Dicembre 1570. In fretta e furia, la Madre arriva da Sala-manca a Medina e fa
procedere alle elezioni. Dona Teresa non èeletta. Viene mantenuta in carica l'antica
superiora.
118
« Il provinciale interviene, impone la sua candidata come priora e, sotto pena di
scomunica - sì! dico proprio: sotto pena di scomunica - caccia la fondatrice ad Avila.
« Immediatamente, Teresa prende a nolo da un acquaiolo un mulo e ritorna alla città
dei cavalieri con il freddo e con la neve, in breve con le temperature e il tempo
meraviglioso che di solito regnano qui prima di natale. Ormai la Madre, fino alla fine
della sua vita, saprà come regolarsi nei confronti di Angel de Salazar: lo conterà fra i
nemici della riforma ».
- Secondo atto, ad Avila - spiega Salcedo. - E' pietoso e glorioso ad un tempo.
Anzitutto, Fray Angel procede alla visita canonica dell'Incarnazione il 7 maggio 1571.
La sua intenzione è chiara: imporre come priora dofla Teresa de Quesada, che le scal-
ze di Medina rifiutano. Giudichi che uomo era! Per non perdere la faccia, voleva fare
onorare ad Avila colei che era stata respinta a Medina.
« Che illusione, senor! Quelle dame, quelle gran dame dell'Incarnazione, non si
lasciano manovrare! Non si può imporre loro chi si vuole come superiora. Sovrane e
libere, esse rifiutano i maneggi del provinciale e rinnovano il mandato all'antica priora,
dona Ana de Toledo.
« Nel frattempo, arriva il commissario apostolico, Fray Pedro Fernàndez; i suoi poteri
comprendono tutti gli altri e li superano:
provinciali, superiori, semplici subalterni. Ha fretta soltanto di una cosa: fare
conoscenza con quella fondatrice di cui gli raccontano mari e monti, "Teresa de la
gran cabeza" - Teresa "dalla grande testa" - come la chiamava Isabel de Santo
Domingo.
« Il visitatore, è facile immaginarlo, fu subito conquistato!
"Molto prudente e colto", la forza del suo carattere e la sua calma gli valsero la fiducia
della riformatrice alla quale il provinciale si mostrava decisamente ostile.
« Teresa lo ha scritto chiaramente in una delle sue lettere:
"Ora egli è il nostro superiore, e la sua anima deve molto meritare innanzi a Dio"
(Lettere 26.6.1571, p. 115).
« Al termine delle loro conversazioni, apparve evidente che la cosa più urgente, per la
Madre, era di accettare il priorato di Medina, tanto quella comunità aveva sofferto a
causa degli intrighi di Angel de Salazar.
« Ma lo scaltro carmelitano stava macchinando un altro piano:
convincere il visitatore che la Madre doveva prendere in mano il priorato
dell'Incarnazione, dove era necessaria". Non si diceva perché. Dalle due visite
canoniche al monastero era risultato che tutto era in ordine. In realtà, il piano del
provinciale tendeva semplicemente ad impedire alla fondatrice di continuare la sua
opera di riforma, di estenderla, moltiplicando i nuovi conventi. Una volta rinchiusa
dentro l'Incarnazione, non ne sarebbe più uscita e ci si sarebbe sbarazzati per un pezzo
di quella monaca agitata.
« Il visitatore cedeva. Senza dubbio pensava al bene che ne sarebbe risultato per
l'Incarnazione se una suora di carattere e ricca di esperienza, in breve una donna santa
- una santità come la sua era evidente - venisse a prendere in mano la direzione di quel
monastero così vasto, così faticoso da mandare avanti, e che aveva certamente bisogno
di essere migliorato ».
- Certo, - sottolineava Daza; - quanti sentimenti differenti dovevano agitarsi nel cuore
della povera Madre così contesa! La volevano a Medina, dove c'era bisogno di
119
pacificazione, di speranza. Da sei mesi, la comunità non aveva più una priora...
D'altra parte, poiché il visitatore la voleva ora all'Incarnazione, perché resistere?...
A questo punto don Francisco ed io dovevamo prendere in considerazione un
avvenimento interiore il cui riflesso determinò una decisione per la fondatrice.
- Un giorno in cui stava raccomandando a Dio suo fratello Agostino, coinvolto in
pericolose avventure nel Cile, esclamò:
« "Se io vedessi, Signore, un vostro fratello in questo pericolo, che cosa non farei per
porvi rimedio?"... Il Signore mi rispose: "Oh, figlia mia! Le religiose dell'Incarnazione
sono mie sorelle, e tu indugi? Coraggio, dunque! Tieni presente che lo voglio io, e non
ècosa tanto difficile quanto ti sembra... non opporre più resistenza, perché il mio
potere è grande" » (Relazioni XX, p. 482). Comprendiamo tutti che, a partire da questa
parola, le cose si chiariscono per Teresa. Non ha forse obbedito sempre, con l'aiuto dei
suoi confessori, agli ordini del Signore?
- Si, - disse Salcedo - poiché era stata nominata priora di Medina, doveva anzitutto
andare a prendere laggiù possesso della sua carica. Al convento di via Santiago,
l'accoglienza del 1° agosto fu trionfale. Si voleva cancellare dalla sua memoria la
quasi espulsione che il provinciale le aveva inflitto un po' più di sei mesi prima.
- Con il freddo e con la neve, - aggiungeva il Maestro Gaspar.
- Viceversa, che emozione quando, il 6 ottobre 1571, il visitatore riuniva la comunità
per spiegare che, nel suo piano di riordinamento della provincia carmelitana, la nuova
priora di Medina doveva lasciare la sua carica per occupare quella dell'Incarnazione!
La Madre uscì dalla sala capitolare e, cadendo tra le braccia di una novizia, esclamò: «
Signore, Dio dell'anima mia, sono vostra ».
- Non dimentichi però - insisteva Salcedo - due punti che rivelano la profonda onestà
del visitatore domenicano: da una parte, dal mese di luglio del 1571, Teresa aveva
rinunziato solennemente alla mitigazione. Così, anche priora dell'Incarnazione, non si
sarebbe potuto ricuperarla. D'altra parte, per contrastare i maneggi del provinciale che,
con la sua nomina a quel grande monastero, voleva impedirle ormai di fondare altri
monasteri, Fray Pedro Fernàndez la nominava conventuale di Salamanca. Così la
fondatrice avrebbe conservato la sua libertà d'azione.
- Valgame Dios! - esclamò don Francisco che, per una volta, non capiva l'umorismo -
mi domando che cosa ricorderanno le generazioni future di questo inverosimile
pasticcio.
- Poco importa! malizia degli uomini, obbedienza dei santi, tutto favorisce il disegno
di Dio.
- Quello che abbiamo ora rievocato davanti a lei, senor, le servirà per capire il terzo
atto, il più memorabile, quello che rimane nella memoria di tutti gli abitanti di Avila,
perché fu nello stesso tempo spettacolare e scandaloso.
- Ah! si, - esclamò Daza - la volevano come priora all'Incarnazione? Ebbene, facciamo
un atto da priora! Da San José, dove stava in attesa della presa di possesso, la Madre
inviò un ordine:
« "Si dovevano scacciare tutte le persone secolari dal convento, altrimenti non sarebbe
venuta!".
« Le suore dell'Incarnazione obbedirono a bacchetta a questa ingiunzione: prova
irrecusabile che se, tra breve, Teresa sarebbe stata male accolta, non con lei ce
l'avevano, ma con il provinciale ».
120
- Nessuno dubitava - proseguì don Francisco - soprattutto la Madre, che
nella sua antica casa contasse numerose amiche. Trentaquattro suore ne erano uscite
per aiutarla nella sua riforma. Alcune erano ritornate nel loro primo monastero per
mancanza di salute, ma avevano conservato lo stile delle scalze: abiti grossolani,
alpargatas, orazione e mortificazioni. Se la Madre non fosse venuta, quante delusioni,
quanti rimpianti!
- Nondimeno, maestro Francisco, l'Incarnazi~ne organizza-va la sua difesa. Non si
voleva ricevere una priora imposta, e da chi, poi, gran Dio! da un provinciale subdolo,
intrigante, malevolo. Si sarebbe combattuto, così come un tempo la leggendaria dofia
Jiménez aveva difeso le mura della città. Figlie, zie, nipoti di nobili cavalieri, avevano
fatto appello ai loro amici. Tutti i caballeros e i magistrati montavano di guardia
davanti a quel convento trasformato ad un tratto in cittadella. Soprattutto - già lo si
sapeva - il provinciale, Fray Angel de Salazar, doveva leggere il decreto di nomina,
per ordine del visitatore. Ma questo non si sapeva!
- Lei può immaginare da ciò la solennità dell'avvenimento
- riprese Daza che, di mestiere predicatore, ritrovava l'enfasi olatoria. - Solennità del
giorno scelto: una domenica, il 14 ottobre 1571. Solennità della processione: partita da
San José, la Madre Teresa in cappa bianca, portando fra le mani una statuetta di s.
Giuseppe, avanzava, assistita dal provinciale e da altri due carmelitani.
« Solennità dell'ingresso: esso si fece attraverso la chiesa poiché, a destra del
comunicatorio, c'era una porticina, destinata alle sagrestane, che dava sul coro
inferiore.
« Solennità dello scontro: se fossero apparsi i Mori o i Francesi, non avrebbero
prodotto maggiore effetto! Le monache gridavano: alcune facevano appello ai
gentiluomini e ai magistrati appostati dall'altra parte del convento, vicino all'ingresso
regolare, ma che non accorrevano; le altre tenevano ferma la porta del coro perché non
venisse aperta dall'esterno.
« La Madre si era seduta su una pietra, di fronte alla chiesa conventuale. Calma,
serena, con la statuetta di s. Giuseppe fra le braccia, come custode.
« Urla, grida d'inferno. Dall'alto di un bastione, gli sfaccendati, i curiosi si accalcavano
in cerca di notizie. Allo stesso modo, da un punto situato a una certa distanza, el
Pradillo, la gente di Avila aspettava il risultato di quell'assalto o di quella rivoluzione.
« Sfondato lo sbarramento delle monache, forzata la porta, la Madre viene installata
sul seggio priorale.
« Il provinciale comincia allora la lettura della patente che nomina dona Teresa de
Cepeda y Ahumada priora del nobilissimo monastero dell'Incarnazione di Avila.
« La lettura è accolta da grida ed ingiurie.
« Protestano tutti; anche le amiche di Teresa voltano la testa verso il muro, non osando
guardare in faccia colei che amavano, ma che veniva loro imposta d'autorità.
« Il tono sale a tal punto che in un luogo così santo e su labbra così venerabili si ode
un crepitio di parole indecorose, oscene - dicono i testimoni - colte nelle locande di
don Chisciotte.
« Livido di collera il provinciale batte i piedi, cerca d'imporsi. Un nuovo scoppio di
grida, che per delicatezza è meglio non riportare, copre la sua voce.
« Facendo appello a tutte le sue forze, o alla sua astuzia, il padre Angel introduce
l'argomento di cui indovina l'efficacia:
121
« - Volete o no, signore, la Madre Teresa de Jesùs?
« - La vogliamo e l'amiamo - grida dona Catalina de Castro y Pinel.
« Te Deum laudamus...
« Il campo delle amiche si schiera dalla parte della Madre, anche se un gruppetto
continua a riflutarla.
«Ci s'impadronisce della croce della processione per introdurre la futura priora nel
monastero, ma, in un parapiglia generale, alcune suore riescono a farla cadere a terra».
- Come si comportava intanto la Madre? - chiesi.
- Ah! senor, ecco il miracolo! quel miracolo che, alla fine, placò tutto il convento, -
spiegò tutto animato don Francisco. - In mezzo a quei visi incolleriti, congestionati, la
santa Madre, tranquilla, padrona di sé, andava ad inginocchiarsi davanti al Santissimo
Sacramento. Con un gesto della mano, con una parola gentile, calmava questa o quella
suora furibonda. Chi ha detto: « I calmi producono la pace di cui risplendono »?
- Dove poteva attingere una così profonda serenità?
- Non c'è da dubitarne - rispose Daza. - Qualcun altro aveva posto in lei la sua
dimora...
« Inoltre, Teresa possedeva il senso critico della situazione; nessuno più di lei era
capace di smontarne le molle segrete.
«Sarebbe venuta sola? In un batter d'occhio, tutto tornò in ordine, ma le monache
dell'Incarnazione erano esasperate dai maneggi, dai trucchi del provinciale. Questi
aveva un bel sostenere che la nomina imposta era di competenza del visitatore, nessu-
no si lasciava ingannare. Di nascosto, Angel de Salazar aveva macchinato tutto e
nessuno voleva bere quel vino manipolato. La collera di quelle centocinquanta donne
era commisurata alla ripulsione innata per un'indebita ingerenza nei loro affari
interni».
- E la Madre?
- La Madre, quella sera, si raccolse in preghiera « come se fosse stata sul monte
Alverne », dichiara dona Francisca de Salazar. L'indomani mattina, con dignità e
semplicità, si avanzò per ricevere la comunione, « senza essersi confessata »,
andavano ripetendo decine di testimoni (Nei conventi femminili - chi potrebbe
negarlo? - queste cose vengono osservate e si risanno!); mentre le altre... restavano al
loro posto, mortificate e confuse.
- Ed ecco infine la cosa più bella - esclamarono quasi a una voce i miei due compagni.
- Racconti, don Francisco - insisteva il Maestro Daza - lei che è stato il primo ad
essere informato, ci racconti la scena del capitolo.
- Ebbene! - riprese Salcedo. - La Madre doveva ora prendere possesso del priorato.
« La sera seguente, tutto era pronto nel coro superiore.
« Le monache entravano l'una dopo l'altra. Entrava anche la Madre, in mezzo alla
lunga fila delle cappe bianche. Raccolta o distratta, raggiunse il suo stallo di un tempo,
come se fosse stata una semplice monaca.
« Arrivata al suo posto, scoppiò a ridere... e la comunità non fece certo fatica ad
imitarla!
« Nello stallo priorale - altro motivo di stupore - si trovava la statua di Nostra Signora
della Clemenza, nelle cui mani erano poste le chiavi del monastero. 5. Giuseppe, con
la bocca aperta -"il chiacchierone", come sarebbe stato poi soprannominato -occupava
il posto della vicepriora.
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« Seduta ai piedi di Nostra Signora della Clemenza, la Madre, con voce calma,
cominciò a dire:
« "Mie signore, madri e sorelle, l'obbedienza mi manda in questa casa per servirvi ed
esservi utile secondo tutte le mie possibilità. Per il resto, ciascuna di voi può
insegnarmi e correggermi. Vedete voi stesse, signore, quello che posso fare. Se
occorrerà che io dia il mio sangue e la mia vita, lo farò ben volentieri" ».
Nel pensiero di Teresa, la vera priora era realmente la Madonna. A lei, e a lei sola,
attribuirà lo stupefacente rinnovamento della sua antica casa.
Si poteva forse aspettare di meno dalla Madre di Dio?
Tuttavia, nessuno poteva mettere in dubbio che la Regina del cielo si fosse scelta « un
vicario » tutt'altro che mediocre. Alcune settimane di governo ne avrebbero fornito
una splendida prova.

2 - Quotidianamente gran dama

Realista e pratica, la nuova priora affronta il primo problema:


la fame!
Il convento era così povero che forniva ai sudditi soltanto pane e carne.
Ottanta delle suore si dibattevano nella più nera miseria. La Madre si mise a dare a
ciascuna di loro un reale alla settimana. Infatti, anche se appartenevano a un ordine
monastico, quelle suore non avevano dimenticato che, discendendo d'alto lignaggio, la
loro miseria, spesso, non poteva fargli molto onore.
Alle monache indigenti, i cento ducati della duchessa d'Alba, le elemosine di
Francisco de Guzmàn, le somme inviate da suo fratello Lorenzo (la fortuna lo aveva
arricchito oltremare e Teresa gli rivolgeva incessanti richieste).
Da buona economa, ogni sera, la Madre teneva i conti, nei quali annotava tutto, dalle
più piccole offerte di denaro fino ai doni in natura: polli, verdura, frutta. Per venire in
aiuto a quel monastero affamato, il santo gentiluomo Salcedo saccheggiava i suoi
poderi e il suo orto.
Con un sorriso si dirà che per questa donna, nipote di un mercante ebreo, non era
difficile capire da chi avesse preso. Lei che aveva scritto ai commercianti di Toledo,
suoi benefattori:
« Dar a Dio del denaro è nulla e costa poco » (Lettere 19.2.1569, p. 81), era esperta nel
contare i soldi, sempre a beneficio dei malati e dei più abbandonati.
Che non si venisse a parlare di povertà « subita »! (Vita XXXV, 2, p. 318).
All'Incarnazione, era causa di tanti mali! Lo spettro della fame si profilava sotto i
chiostri? Ecco subito accordato il permesso di fuggire presso parenti o persone devote
che si sentivano onorate e protette dalla presenza di una monaca! Purché ci si
procurasse una compagna, la priora concedeva l'autorizzazione di uscire. Così si
riduceva la popolazione monastica. Di solito si contavano cinquanta monache fuori
delle mura: cinquanta bocche di meno da nutrire!
La priora stessa non voleva aggravare il bilancio con la sua presenza. Al fratello Lorenzo chiedeva
dei reali, domandando al monastero soltanto la sua razione quotidiana di pane (Lettere 4.2.1572, p.
123).
Ma dimenticheremmo la grande anima della riformatrice se la confinassimo fra i conti
e le pentole.
L'Incarnazione era un monastero; senza dubbio, meno austero, meno regolato dei
123
conventi riformati, ma tuttavia il Signore vi era lodato e servito in primo luogo.
Certo, Teresa avanzava in mezzo agli scogli. Un gruppo alquanto ristretto guidava la resistenza:
giovani suore, gran dame, spesso avviate sulla via stretta del Vangelo contro la loro volontà.
Bisognava fare i conti con loro: trattare con riguardo, esortare, affascinare per trascinare. Come
sappiamo, la Madre era dotata di una grazia squisita. La sua cultura religiosa,. la sua esperienza delle
vie divine, il suo amore ardente per Cristo le ispiravano in capitolo le parole, gli esempi, in breve il
dinamismo che stimola senza costringere.
Monaca a pieno titolo. La santità non ha mai lasciato inerti le buone volontà.
Alla sua scuola, ogni suora dell'Incarnazione ritrovava la preghiera, la sua profondità,
il gusto dell'opera di Dio. In quel tempo, la passione di Cristo andava di moda. Sparsi
nei chiostri, si incontravano più di dieci luoghi destinati a rievocarla: statue patetiche,
immagini, scene rappresentative. « La Spagna è sempre vissuta sotto il segno della
Redenzione ». Quale acqua pura scaturisce dalle piaghe del Salvatore! Per mancanza
di tempo durante il giorno, la Madre si alzava di notte per percorrere quelle stazioni.
Le migliori la imitavano.
A quella moltitudine di donne giovani, meno giovani, inclini alla toilette o al flirt,
bisognava ridare il senso di una vita di rinunzia.
Non c'era un abito uniforme: gli strascichi, le gonne, le cuffie colorate, gli anelli, i
braccialetti rivelavano le disparità e le differenze di condizione sociale. Per farsi
notare, ci si agghindava con i vestiti dei parenti defunti: zie, madri o sorelle. Nei giorni
di festa, si tirava fuori dai cassoni, per farne sfoggio, questa cacofonia di abiti, di
ornamenti, di fronzoli. Come se quella casa di Dio avesse presieduto a un perpetuo
carnevale!
Dalla città scendevano i gentiluomini sfaccendati; nei parlatori si tramavano strane
tresche. Certo, l'Incarnazione non era il convento più rilassato della Castiglia,
tutt'altro! Ma senza dubbio la priora, con il suo saio rattoppato, il suo velo
rammendato e ingiallito, i suoi piedi nudi, non poteva tollerare abusi così evidenti.
Come comportarsi?
« E' cosa degna di ammirazione il vedere come ciascuna arrivò ad amarla », scrive
Mana Bautista.
Ciascuna mangiava in quantità sufficiente, ciascuna ritrovava il gusto dell'avventura spirituale. Non
c'è quindi da meravigliarsi che alcune andassero a dichiarare alla Madre:
- Sarebbe bene che lei avesse le chiavi delle ruote del monastero e dei parlatori;
potrebbe così giudicare l'opportunità delle nostre visite.
Il padre Graciàn nota: « Era come consegnare le chiavi di quella cittadella dove il
demonio si era arroccato ».
Tutto ciò non poteva mancare di provocare gravi agitazioni nel monastero stesso e
soprattutto in città!
Un certo gentiluomo, stanco di sentirsi ripetere dalla portinaia che la sua dulcinea era
invisibile, fece chiamare la Madre alla grata e sfogò tutta la sua bile in termini più
degni di un corpo di guardia che di un parlatorio di convento. La priora lo ascoltò,
calma; poi, con tono signorile, rispose:
- Vostra grazia farebbe bene a desistere dalle sue importune assiduità... altrimenti ne
avvertirò il re.
Nessuno ha descritto la faccia del nostro Picaro mentre risaliva verso le mura, ma nei
salotti di Avila ci si ripeteva che era meglio non arrischiarsi all'Incarnazione: la Madre
Teresa de Jesùs aveva appoggi influenti. Che cosa sarebbe avvenuto se l'Escorial si
124
fosse intromesso? Il re, vestito di nero, molto cavilloso in materia di etichetta,
scherzava poco con la morale... almeno per gli altri.
Sotto quei vecchi chiostri l'amore di Dio e la santità suscitavano una nuova vita.
Un mese dopo il suo insediamento, Teresa poteva scrivere a dona Luisa: « Si è in
pace; e questo, grazie a Dio, è già molto... Le sorelle vanno già rinunciando ai loro
intrattenimenti e alle loro libertà... Di anima non mi pare di turbarmi in questa
babilonia: lo ritengo per una grazia di Dio » (Lettere 7.11.1571, p. 120s).
Tuttavia, tali cambiamenti non avvenivano senza fatica. Tre fattori opprimenti
rendevano la vita molto dura alla nuova priora:
la mancanza di mezzi economici, l'eccesso di lavoro, la cattiva salute.
Nel campo temporale, le sue qualità di organizzatrice, il gran numero delle sue conoscenze, la sua
fede invincibile nella Provvidenza - come abbiamo visto - sopperivano alla penuria. L'inverno del
1573 fu terribile per le suore, come lo era per tutta la gente contadina della Castiglia. Abbiamo già
detto che la Spagna sprofondava nel fallimento, in mezzo alle fanfare del secolo d'oro, come un
galeone carico d'oro che cola a picco in mari senza fondo.
Il travaglio della riformatrice nasceva dalla sua preoccupazione di riformare senza
imporre la riforma.
« Cambiare abitudini è una morte », scrive giustamente a dofla Luisa (Lettere
7.11.1571, p. 121). A questo compito sovrumano, all'inizio, faceva fronte tutta sola.
Teresa de Ahumada presiedeva al destino di dame dell'aristocrazia, le quali
s'intendevano a meraviglia per mantenere le distanze.
Ah! come paragonare l'essere priora all'Incarnazione con l'esserlo a San José? Laggiù,
in mezzo alle scalze, Teresa veniva chiamata « Madre », e lo era; qui, in questo
universo in cui non veniva dimenticata nessuna delle proprie prerogative, la chiama-
vano « signora priora » e come tale la trattavano.
Il suo dovere, il suo primo dovere, come aveva ella stessa più volte proclamato,
consisteva nel « servire » quelle signore.
Ora, quelle povere monache erano oppresse da debiti e da obblighi insopportabili!
Poco tempo fa è stata scoperta negli archivi la famosa dotazione di don Bernardo de
Robles.
Don Bernardo, una volta, aveva versato al monastero una somma considerevole di
maravedi e grazie a questo contributo era stato possibile terminare le costruzioni. Ma a
prezzo di quali obblighi! Tutte le notti, a turno, una suora, con un cero in mano,
doveva stare davanti al Santissimo Sacramento e pregare per il defunto.
La famiglia sorvegliava l'applicazione esatta del contratto.
Le suore facevano appello a Roma poiché, decisamente, quest'impegno era troppo
pesante: l'adorazione perpetua in notti gelide, sotto un tetto sfondato, con porte che
cigolavano, sbattevano al minimo soffio di vento, in una casa piena di malate,
tormentata dalla fame, resa ancor più gravosa dalle numerose assenze.
La Santa Sede autorizzava alcuni cambiamenti: alla fine della compieta, ogni sera,
bisognava recitare i sette salmi penitenziali, come se ogni suora non avesse già
abbastanza preghiere da dire!
Intelligentemente, la priora prese in mano la faccenda, negoziò con la curia romana e, da Segovia, il
17 settembre 1574, fece sopprimere con una semplice firma tutte quante quelle condizioni
opprimenti.

Nuova fatica.
125
Inchiodata all'Incarnazione dai doveri della sua carica, Teresa restava pur
sempre la fondatrice e la riformatrice di sette monasteri di scalze. Da Avila continuava
a dirigere, consigliare, animare quei colombai della Vergine, attraverso una
corrispondenza assidua, che divorava le sue notti troppo brevi. Ma non tutto si risolve
per mezzo delle lettere.
Il commissario apostolico ci teneva che la Madre restasse ad Avila, per paura di
vedere svanire in men che non si dica l'opera già compiuta. Provvidenzialmente, gli
amici della fondatrice l'aiutavano ad uscire dall'Incarnazione.
La duchessa d'Alba, dona Mana Enrfquez, chiedeva al re che le venisse mandata
Teresa. I suoi figli combattevano nelle Fiandre e aveva bisogno di consolazione.
In quel tempo, i grandi potevano tutto. Ecco dunque, quel 3 febbraio 1573, la
fondatrice di nuovo in viaggio. E' facile immaginare come ne approfittò per aiutare le
sue figlie di Alba e di Salamanca!
29 luglio 1573.
Le suore di Salamanca, rinchiuse nel loro convento umido come una cisterna e malate,
richiedevano il suo aiuto per un trasferimento. « Vedendo la loro virtù e le sofferenze
che pativano, il padre Pedro Fernàndez fece venire Teresa dall'Incarnazione ».
La Madre vi rimase fino a S. Michele, data in cui s’insediò il nuovo monastero. « La
cappella era del tutto nuova e le tegole così mal connesse, che vi pioveva dentro quasi
dovunque », ma, come aveva predetto Nicolàs Gutiérrez, il sole cominciò a splendere
su musicisti, predicatore, celebranti e devoti.
La casa era ottima, ma il propietario, don Pedro de la Banda, era un attaccabrighe e
uno zoticone. Tutto ricominciava a peggiorare quando si pensava di aver finito.
« Ciò ch'io so », conclude la Madre, « è che in nessun monastero di quelli che il Signore ha finora
fondato della regola primitiva, le religiose hanno passato, senza paragone possibile, tanto grandi
tribolazioni... Che una casa sia comoda o no, importa poco; anzi, è una gran gioia per noi trovarci in
una dimora dalla quale ci possono cacciar via, ricordandoci come il Signore del mondo non ne ebbe
alcuna » (Fondazioni XIX, 10-12, p. 1 60s).
Salamanca non fu la sola ed unica uscita da Avila.
Nel 1574, Segovia chiamava Teresa per una nuova fondazione. Nessuno poteva ormai
impedirle di continuare la sua opera. Prima che fossero passati tre anni dalla sua
nomina a superiora, a dispetto del provinciale, del commissario apostolico, la Madre
fundadora riprendeva il suo lavoro come se non lo avesse mai interrotto.
Tuttavia, il suo stato di salute continuava ad essere pietoso.
Il 7 marzo 1572, ella scrive: « Mi trovo così male in questo paese che non mi pare
neppure di esservi nata. Sarò stata bene, credo, un mese e mezzo, da principio... alla
quartana si aggiunsero i dolori di fianco... La quartana è scomparsa, ma ho sempre
un'altra specie di febbre... Inoltre mi tormenta assai un certo mal di denti che mi dura
da un mese e mezzo circa » (Lettere 7.3.1572, p. 127).
Questa malata cronica si confida soltanto con i suoi corrispondenti.
La novizia dofia Maria del Castillo dichiara che, malgrado la sua età e la cattiva salute,
non ci si accorgeva di nulla. Teresa osservava i digiuni e le austerità della regola
primitiva. Ana Maria Gutiérrez, che divideva con lei la sua cella, aggiunge che quando
stava molto male veniva gettato un leggero materasso sul suo pagliericcio, ma che
appena si sentiva un tantino meglio, lo faceva subito togliere.
Una sera, al momento di andare a letto, la Madre le confidò:
- Credi, figlia mia, che nostro Signore ha riversato sul mio corpo i tormenti del
126
Purgatorio.
Ana replicò:
- Madre, lasci che le imponga le sante reliquie.
Ma la malata aggiunse:
- Lasciami soffrire un po' di più!
Come l'apostolo, Teresa sovrabbondava di gioia nelle sue prove: « La febbre mi riprese prima di
natale con un gran mal di gola, sicché mi dovetti purgare e salassare due volte. Verso l'epifania fui
assalita dalla quartana... Considerando il gran bene che Dio opera in questa casa, mi sforzo di non
stare a letto che durante la febbre, la quale mi dura tutta la notte. I brividi cominciano a farsi sentire
verso le due, a poco a poco » (Lettere 4.2.1572, p. 123).
Come condurre a buon fine un lavoro così gigantesco con un corpo ridotto in così
cattivo stato? Ce lo possiamo domandare all'infinito... Dimenticheremmo forse l'eterno
paradosso cristiano, familiare a quelli che vivono il Vangelo in profondità? « Mi
vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di
Cristo... quando sono debole, è allora che sono lorte» (2Cor 12,9-10).
Bisognava davvero che la forza di Dio risiedesse in questa donna non comune, arrivata
quasi alla sessantina, oppressa da mali di ogni genere, a cui veniva imposto un carico
ben al di sopra dei suoi limiti.
Così il monastero dell'Incarnazione, testimone delle prime grazie mistiche, vedeva
un'effusione di favori straordinari che permetteva alla riformatrice di far fronte a una
situazione straordinaria. Il seguito della storia lo rivelerà e ci mostrerà nello stesso
tempo come i santi, anche se, al pari di noi, cozzano contro le difficoltà di questo
mondo, riescono tuttavia a vincerle e a trasfigurarle.

Sabato 19 gennaio 1572. Per tutta la giornata, la neve è caduta senza interruzione,
ricoprendo con un mantello di candida ovatta la città e le mura. Sotto il pallido
chiarore di una luce fioca, la città si erge, fantomatica.
Giù in basso, nel quartiere de los Ajates, il monastero stesso non è che una massa
nevosa in più. Il chiostro superiore somiglia ai sentieri della Sierra. Con scope di
ginestrone, due domestiche, instancabilmente, rimuovono la neve che la burrasca fa
cadere a profusione sotto il porticato.
Chi non ha visto Avila con questo tempo da cani non ha visto 'nulla, non sa nulla di
quel rigido compagno della città dei cavalieri, sua maestà l'inverno.
Tutto è fermo, insabbiato, mummificato, eternizzato dal silenzio e dal gelo.
Tutto... salvo la priora. Fin da stamattina, va e viene. Ah! quante leghe bisogna percorrere in quei
chiostri immensi, dal coro alla cella priorale, dalla cella alle infermerie, al capitolo, al refettorio, al
parlatorio infine!
Nel bel mezzo del pomeriggio, ha suonato una campana. Vanno a chiamare la priora:
Agustin, il « garzone » del « santo gentiluomo », porta tre sacchi di ceci e due cesti di
cavoli. Con il viso colorito dal freddo, soffiando sulle dita intirizzite, ha lasciato la
mula ferma all'entrata. Teresa ha avuto appena il tempo di salutarlo, d'invitarlo a
sedersi. Da suo padre, nella sua casa, ha imparato a parlare alle persone umili,
semplici.
- Aspetta, Agustin, adesso ti portano una bevanda calda col miele, mentre io butto giù
due parole di ringraziamento per il tuo padrone.
Banalità dei gesti nella più banale delle giornate, nel periodo più banale dell'inverno.
Ormai è calata la notte: dopo la frugale cena, terminata la ricreazione, si odono i lenti
127
rintocchi di compieta.
Nel coro superiore si accendono le lampade. Alla curva dei corridoi si vedono alcuni
punti scintillanti. Su una scala in cattivo stato, molte volte si è vista la priora stessa
ferma li ad illuminare il passaggio pericoloso.
Comincia la recita dei salmi, modulata da un centinaio di voci. Allora, chi lo avrebbe
potuto prevedere? Il cielo si aprì. Leggiamo il racconto della Madre:
« La vigilia di s. Sebastiano, il primo anno del mio priorato all'Incarnazione, nel
momento in cui cominciava la Salve Regina, vidi la Madre di Dio, accompagnata da
una gran moltitudine di angeli, scendere verso il seggio della priora, dov'è la statua di
Nostra Signora e collocarsi li. A quanto mi sembra, allora non scorsi l'immagine, ma
questa eccelsa Signora, che mi parve somigliare un po' al quadro regalatomi dalla
contessa; fu, però, una vista troppo rapida per poterlo precisare, essendo subito entrata
in una profonda sospensione. Mi sembrava di vedere angeli sopra la cornice dei seggi
e sopra gli appoggiatoi posti innanzi ad essi, non, però, in forma corporea, perché la
visione era intellettuale. La Vergine rimase lì tutto il tempo della Salve Regina e mi
disse:
"Hai fatto bene a mettermi qui; così mi troverò presente alle lodi che saranno rese
a mio Figlio, e gliele presenterò". Dopo questo, io rimasi nell'orazione che mi è
abituale, in cui la mia anima gode di stare con la Santissima Trinità, e mi sembrava
che la persona del Padre mi avvicinasse a sé e mi rivolgesse parole assai dilettevoli.
Fra l'altro mi disse, a dimostrazione di quanto mi amasse: "Io ti ho dato mio Figlio, lo
Spirito Santo e questa Vergine. E tu, che cosa puoi darmi? "» (Relazioni XXV, p.
484s).

3 - « Questo confessore che e' un santo »

« Lei potrebbe partire per Salamanca, don Julia'n, lunedì prossimo, con i mercanti di
lana. Parlerebbe da parte mia al padre Pedro Hernàndez, il nostro visitatore apostolico.
Gli spiegherebbe la nostra situazione: ogni seria riforma di questo monastero si rivela
impossibile finché non avremo confessori migliori dei padri calzati. So bene che fin
dalla fondazione essi sono accreditati presso questa casa, ma per il momento le cose
sono arrivate al punto che, dopo una settimana di sforzi in comunità, vedo le migliori
risoluzioni crollare poiché essi annientano in pochi istanti le volontà e le decisioni più
risolute. Vedo chiaramente che, a continuare così, costruisco sulla sabbia. Il padre
visitatore ci dia come padri spirituali degli scalzi, per esempio Fray Juan de la Cruz.
Allora potrei rispondere del progresso, nel Signore, di ciascuna delle mie consorelle ».
Così parlava la Madre, all'inizio di quell'estate del 1572, a Juliàn d'Avila, il fedele
cappellano di San José e il suo migliore portavoce, fatto venire al parlatorio del
convento...
« Nell'ottava della pentecoste il Signore mi fece una grazia e mi diede la speranza che
questa casa avrebbe fatto progressi, voglio dire le anime che ne fanno parte »
(Relazioni XXXI, p. 489s).
La cronista di quel tempo, la celeberrima Maria Pinel, fa un enfatico commento a
queste parole, attribuendolo alla santa: « In questa casa non mancavano mai anime che
piacessero a Dio. Per il momento, ce n'erano più di quattordici. Se Dio ne avesse
contate altrettante al tempo del diluvio, per riguardo verso questi giusti, non avrebbe
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mai distrutto il mondo sotto le acque ».
Ma c'erano persone capaci di disfare l'opera della riformatrice: erano nientedimeno che
i carmelitani calzati.
Il loro convento, costruito a ridosso delle mura della città, accoglieva una dozzina di
padri. Alcuni di loro scendevano ogni settimana a confessare le suore. Centottanta
monache da ascoltare! non era un lavoro da poco! Bisognava però che fosse compiuto
in maniera opportuna! Ora, in questo caso, l'influenza dei monaci ostacolava la buona
volontà della priora e delle sue sottoposte.
Realista, Teresa chiedeva dei veri religiosi: al visitatore, proponeva Juan de la Cruz,
né più né meno.
Il padre Hernàndez storse il naso, esitò. Mandando dei padri scalzi, non si sarebbe inimicati i
carmelitani di Avila? Dopo aver consultato il nunzio Ormaneto, il domenicano chiese a Fray Juan di
andare all'Incarnazione. Il santo arrivò verso la metà di settembre del 1572. Così, fin dal 27 di quel
mese, Teresa poteva scrivere a sua sorella Juana de Ahumada: « Fa un gran bene il carmelitano
scalzo che confessa qui. E' il padre Juan de la Cruz » (Lettere 27.9.1572, p. 139).
Togliere Fray Juan agli studenti carmelitani di Alcalà de Hènares, là dove poteva
correggere gli abusi, le deformazioni di cui, novizi, erano stati vittime alla Tebaide di
Pastrana, non significava forse compromettere l'equilibrio e il progresso dei
carmelitani contemplativi?
Certo, Teresa sapeva bene che Fray Juan lasciava lì un eccellente collaboratore: Fray
Gabriel de la Asuncin.
D'altra parte, Fray Juan non sarebbe rimasto ad Avila oltre la durata del suo priorato;
in altre parole: non più dei due anni che le restavano da compiere. Ora, la riforma
dell'Incarnazione, secondo lo spirito della mitigazione, era di grandissima utilità per la
riuscita dei conventi della prima regola. Non si costruisce una casa senza muratori né
manovali, anche se si è forniti di un architetto di valore.
Teresa costruiva. Dove avrebbe trovato le sue collaboratrici:
priore, vicepriore, maestre delle novizie, se non nel suo primo monastero?
Trenta monache e quattro secolari - ripetiamolo - accorsero dall'Incarnazione nei nuovi colombai
della Vergine. Otto soltanto ritornarono alla loro comunità d'origine, per mancanza di salute. Ciò non
toglie che l'opera teresiana non sarebbe mai sorta senza quest'apporto insigne. Il ruolo di Juan de la
Cruz non si annunciava superfluo.

Quando seppe che il nunzio Ormaneto inviava il primo degli scalzi come « vicario del
convento », la Madre riunì le monache in capitolo e, raggiante di gioia, dichiarò:
- Signore, vi do come confessore un padre che è un santo.
All'inizio, Fray Juan alloggiava presso i carmelitani, vicino alle mura. Perdeva molto
tempo a scendere. La stagione inclemente rendeva difficile il suo cammino e le
morenti rischiavano di rimanere prive del soccorso dei sacramenti. Nel gennaio del
1573, il visitatore apostolico rimase stupito del progresso spirituale della comunità.
Egli scriveva alla duchessa d'Alba: « Tutte le suore dell'Incarnazione vivono in uno
stato di pace e di santità altrettanto perfetta quanto le dieci o dodici del vostro
monastero di Alba de Tormes: la mia ammirazione e la mia felicità sono quindi gran-
dissime »
Decise dunque che per Fray Juan e il suo compagno venisse costruita a ridosso del
muro di clausura una casetta, che veniva chiamata « la casa de la torrecilla ». Piccola,
sul davanti aveva un patio con un muretto che si poteva facilmente scavalcare... Viveri
e cibo erano portati loro dal monastero.
129
In Avila, la gelosia e la cattiveria provocarono molti pettegolezzi a
proposito di quella casetta di monaci così vicina a un monastero di suore. Dopo la
cattura di Fray Juan, nel 1577, venne demolita per ordine superiore.
Ma per il momento, non siamo ancora a questo punto. A dir il vero, Fray Juan si
mostrava indifferente a tutte quelle chiacchiere monastiche e cittadine.
Era stato nominato confessore e avrebbe assolto il suo incarico senza timore
dell'accoglienza che avrebbe potuto essergli riservata né della diffidenza provocata
dalla sua qualità di scalzo.
Calmo, attento, autenticamente evangelico, egli riceveva chi andava a trovarlo.
Nessuno meglio di lui riusciva ad afferrare le discordie, le puerilità alle quali si
abbandonava quell'universo di donne, spesso costrette nella loro vocazione e tiepide
nel servizio di Dio.
Pazienza e comprensione. Con quella dolce « testardaggine » che più tardi gli sarà
rimproverata dai suoi persecutori di Toledo, Juan aiutava le coscienze a mettere in
pratica le esortazioni e gli ordini della priora.
Il suo disinteresse, il suo amore totale di Dio non lasciava nessuno indifferente. Ben
presto si poté notare un cambiamento:
- Che cosa fa a queste monache - gli chiedevano - per ottenere che facciano ciò che lei
desidera?
Ed egli replicava:
- Dio fa tutto; a tal fine ordina che esse mi amino.
C'era una giovane suora, graziosa, dalla voce deliziosa, ma decisamente maliziosetta.
Era stata soprannominata « Roberto il Diavolo ».
Aveva una certa paura quando andò ad inginocchiarsi ai piedi di quel confessore che
veniva ritenuto severo. Fray Juan si accorse del suo turbamento e, con voce dolce, le
raccomandò di non avere paura. Non doveva tremare pensando che « un confessore
fosse un santo ». Lui non lo era e in ogni modo, quanto più erano perfetti, tanto più
erano benevoli e meno si meravigliavano delle debolezze umane, poiché le
comprendevano dal di dentro, pur deplorandole più di quelli che non erano santi. La
nostra giovane, rasserenata, ritrovò la fiducia e cominciò ad accostarsi spesso al
confessionale di quell'uomo pieno di Dio che l'aveva subito capita.
Fray Juan de la Cruz non era l'essere « dagli occhi asciutti » di cui si è parlato con
tanta leggerezza. Pieno di misericordia, lo si poteva sorprendere ora intento ad
insegnare il catechismo ai bambini del quartiere de los Ajates; ora mentre pagava un
paio di scarpe ad una suora troppo povera, a piedi nudi, incontrata appena uscito dal
convento; oppure nell'atto di donare alle monache malate i piccoli regali che gli
venivano offerti.
La squisita delicatezza che mostrava nei suoi rapporti con tutti, si tingeva di maggior
tenerezza verso le persone ferite dalla vita. Ah! non aveva dimenticato il tempo in cui,
giovane infermiere, assisteva gli invalidi di Medina del Campo.
Quando penetrava nel chiostro per portare il viatico, venti sguardi lo spiavano. Dal suo
raccoglimento, dal suo modo di tenere il Santissimo Sacramento, si indovinava un
misterioso splendore. A donne che vivono sempre rinchiuse sfuggono poche cose;
meno che ad ogni altra alla priora, che lo conosceva da lungo tempo.
Teresa aveva cinquantasette anni e mezzo, Fray Juan trent'anni. Dal 1567, data del
loro incontro a Medina del Campo, i due santi non si erano più trovati di nuovo riuniti.
130
Lo furono qui, ad Avila.
Come accostare due personalità più simili e nello stesso tempo altrettanto disparate?
Da un punto di vista umano, li separava un abisso.
Teresa, alla soglia della vecchiaia, espansiva, sottile conoscitrice degli uomini e delle
cose, rapida nelle sue decisioni, entusiasta, eloquente, con l'anima a fior di pelle.
Impaziente di agire, considerando sempre il lato pratico delle cose e dandosi subito da
fare in tal senso. Temperamento da capo, molto umile e sottomessa ai suoi superiori,
ma anche libera, conquistatrice delle energie e dei cuori, un'appassionata, afferrata una
volta per tutte da Cristo e fermamente intenzionata a consacrargli il meglio di sé per il
più arduo dei combattimenti. Soldato per vocazione. Qualunque fosse la posta in gioco
nelle battaglie, l'essenziale per lei era « arrischiare la vita », guerreggiare:
« Non dormite or, non dormite, ché non c e piu pace in terra » (Poesie XXIX, p. 620).

Juan de la Cruz, al contrario, un silenzioso, un riservato. Padrone assoluto della sua


sensibilità che incanalava lucidamente verso Cristo, l'« Amato », e i poveri, sua vera
immagine. Parco di parole, misurato nelle effusioni, votato a vivere nell'ombra per
determinazione. Il meditativo della Sacra Scrittura, l'osservatore giudizioso delle
passioni, il cuore puro, completamente liberato da ogni traccia di egoismo. Simili
talenti, innati o acquisiti, gli conferivano un'apparenza di dialettico dello spirito,
inflessibile. Aggiungiamo che, malgrado la sua santità e la sua umiltà, conservava una
certa giovinezza e dunque un granello di severità. Abbattendosi su di lui con tutte le
loro forze, le prove non avrebbero tardato a perfezionare la maturità spirituale del
primo degli scalzi, mitigando le sue esigenze di santità con una pietà infinita per ogni
sorta di miserie.
Tuttavia, queste due anime immense si ritrovavano unite sul-l'essenziale: nella
comunione trinitaria, nella preoccupazione della fedeltà al Carmelo, in una non
comune passione di Dio e della perfezione. Mai Avila possedette nello stesso tempo
due personalità altrettanto rare, due luci altrettanto limpide, per dare alla Chiesa del
XVI secolo il suo insuperabile splendore.
Immediatamente, con la fede di una cristiana e l'umiltà della discepola, Teresa si
rivolse al nuovo confessore. Egli non la risparmiava.
Un giorno in cui si accusava di non averlo trattato con il rispetto dovuto alla sua
funzione, le rispose:
- Si corregga di questo difetto, figlia mia!
Nei suoi confronti, egli manteneva un certo partito preso di freddezza e di severità,
misto a una punta di umorismo.
Davanti alle suore, le disse:
- Madre, quando si confessa, lei si discolpa così garbata-mente!
In quell'ambiente chiuso e necessariamente teso, non si capì forse sull'istante che si
trattava di uno scherzo, si gridò all'umiliazione. Ma il giovane carmelitano sapeva che
cosa voglia dire parlare.
Per il resto, la Madre era entusiasta.
« A sentire Fray Juan rievocare i misteri della nostra fede, si vedeva con quale luce li
comprendeva e li penetrava: si sarebbe detto che li avesse sotto gli occhi ».
Ah! certo, non si era ingannata, sei anni prima, a Medina del Campo, quando aveva
presagito le alte promesse che portava in sé il figlio della povera Catalina de Yepes.
131
Oggi, Teresa amava ripetere:
- Tutte le cose che mi dicono i teologi, le trovo riunite nel mio piccolo Seneca.
Allora le grazie di Dio cominciarono a piovere su questi due santi provvidenzialmente
riuniti. Per lo meno, conosciamo quelle ricevute dalla santa Madre, poiché, in quanto a
Juan de la Cruz, il suo gusto invincibile del riserbo non ci ha illuminato molto sulla
sua radiosa ascesa.
«Mentre ero nel monastero dell'Incarnazione, il secondo anno del mio priorato, durante l'ottava di s.
Martino, nel momento in cui stavo per comunicarmi, il padre Juan de la Cruz che mi dava il
Santissimo Sacramento divise l'ostia per farne parte a una consorella. Io pensai che non lo facesse
per mancanza di particole, ma per mortificarmi, perché io gli avevo detto che mi piacevano molto le
ostie grandi, pur sapendo che ciò non ha importanza, dal momento che il Signore è tutto intero anche
in un minimo frammento. Ed ecco che Sua Maestà mi disse: "Non temere, figlia mia, che alcuno
possa esser causa di separarti da me", facendomi così intendere che la cosa era priva d'importanza.
Mi apparve allora mediante visione immaginaria, come altre volte, nel più intimo dell'anima, e,
porgendomi la mano destra, mi disse: "Guarda questo chiodo: è il segno che da oggi in poi sarai mia
sposa. Fino a questo momento non l'avevi meritato; d'ora in avanti avrai cura del mio onore, non solo
perché sono il tuo Creatore, il tuo Re e il tuo Dio, ma anche perché tu sei la mia vera sposa: il mio
onore èormai il tuo, e il tuo mio" » (Relazioni XXXV, p. 492s).
Per tutta la giornata, Teresa rimase « profondamente assorta ». Aveva ricevuto il
favore più insigne del matrimonio spirituale, all'ombra, per così dire, del suo primo
monaco scalzo.
Certo, la presenza di questo santo confessore, in poche settimane, aveva cambiato
l'atmosfera del monastero. Alla fine di gennaio del 1573, come abbiamo visto, il
commissario apostolico proclamava la sua ammirazione. La Madre aveva visto giusto,
pensò. Uno scalzo stava trasformando un convento di mitigate. Perché non inviarne
altri otto fra i carmelitani di Avila per occuparvi le cariche principali? Buona
intenzione che si sarebbe rivelata disastrosa all'epoca della grande crisi del 1579.
Fray Juan rimaneva l'uomo provvidenziale. La quaresima del 1573 si svolse con
fervore ancora maggiore. La Madre e il confessore marciavano in testa. Al di là delle
contraddizioni e di alcuni cattivi soggetti i cui raggiri riuscivano a turbare la comunità,
tutto il monastero si metteva al passo.
I problemi, le difficoltà assillavano i conventi della riforma. A Malag6n, bisognava
mandare una nuova priora; a Pastrana, dichiarazione di guerra tra la duchessa e le
carmelitane; a Alba de Tormes, contrasti in materia di contratti.
Non potendo uscire, tanto era accaparrata dalla direzione dell'Incarnazione, Teresa
inviava talvolta Fray Juan.
Come? a Medina, Isabel de San Jerònimo era « invasata dal demonio »? « Le mando - scriveva la
Madre - il santo Fray Juan de la Cruz a cui Dio ha dato la grazia di liberare gli ossessi dal demonio »
(Lettere 5.1573, p. 147).
Realista, il confessore « conobbe che non era posseduta dal demonio, ma che piuttosto
era malata di nevrastenia e mancava di criterio ».
Medina del Campo, poco dopo Segovia. Fray Juan è lì, sulle orme della fondatrice.
Compare appena quanto basta, il tempo di rendere un servizio, per trarsi subito in
disparte.
Ma Teresa non si sbagliava. Dopo Dio, sapeva bene a chi doveva attribuire il successo
di tanti sforzi.
Quattro anni più tardi, nel novembre del 1578, scriveva ad Ana de Jesùs, priora a
Beas, queste parole che equivalgono a un panegirico: « Il padre Fray Juan de la Cruz è
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uomo celestiale e divino... Da quando egli è venuto da codeste parti, io non ho
più trovato in tutta la Castiglia chi gli somigliasse a infervorarci nel cammino del
cielo. Non può credere come mi senta sola senza di lui! » (Lettere 11.1578, p. 771).
Congiunzione di due astri, di due santi, per appena ventiquattro mesi. Testimone di
questo incontro straordinario, l'Incarnazione, sotto l'incomparabile purezza del cielo di
Avila. Come potrebbe la città dei cavalieri non conservarne la traccia indelebile?
Nelle ore di raccoglimento, al calare del sole, o quando l'inverno accerchia le sue
mura, i suoi bastioni; quando in un convento lontano rintocca una campana, quando
un'ombra furtiva varca la porta San Vicente o s'introduce a San Pedro, un sussulto
segreto vi scuote: « Se fosse la santa Madre... se fosse il piccolo Seneca? »...
- Stia bene attento - mi diceva il padre Bànez - entrando nel parlatorio della Trinità,
all'Incarnazione, non vada a battere la testa contro il soffitto... come avvenne a Fray
Juan...
Pavimento di mattoni, muri appena intonacati, grata di legno, una ruota nell'angolo...
La Madre e Fray Juan s'intrattenevano sulle tre Persone divine.
La nipote di Teresa, Beatriz de Jesùs, che era portiera, cercava la priora per chiedere
un permesso.
Entrò alla chetichella, o più esattamente, dal. piccolo lucernario intagliato nella porta,
e sorprese la santa Madre sollevata da terra.
Dall'altra parte della grata, lo stesso avveniva al confessore.
A mo' di scusa, la santa disse - e vediamo il sorriso aleggiare sulle sue labbra -: « Non
si può parlare di Dio con il mio padre Fray Juan de la Cruz senza che vada in estasi e
vi faccia andare gli altri! ».
Era la domenica 17 maggio del 1573, festa della Santissima Trinità.

4 « A Segovia, c'era una signora... »

« A Segovia, c'era una signora, vedova del possessore di un maggiorasco, chiamata


dona Ana de Jimena. Era venuta una volta a trovarmi ad Avila ed era una gran serva di
Dio, che aveva avuto sempre la vocazione per la vita monastica. Pertanto, una volta
fatto il monastero, vi entrò » (Fondazioni XXI, 3, p. 172).
Eccellente domanda, ma la fondatrice aveva le mani legate: il visitatore apostolico le
aveva lasciato capire che bisognava sospendere ogni nuova fondazione. In tali
discorsi, si riconosce l'intervento del provinciale, il padre de Salazar, per il quale il
priorato di Teresa all'Incarnazione metteva un freno al progresso della riforma
carmelitana.
Il Signore prese in mano la cosa. Teresa si sentì obbligata a parlare con il padre
Hernàndez. Gli ricordò l'ordine del generale:
« Andare ovunque le veniva proposta una casa ». Segovia si presentava in
condizioni eccellenti. Già il vescovo e la città davano il loro consenso...
Ora, contro ogni aspettativa, il visitatore rispose « Sì » alla richiesta. Non restava che da organizzarsi
(Fondazioni XXI, 2, p. 17 1s).
Dona Ana de Jimena affittò una casa. Dopo l'esperienza di Toledo e di Valladolid, era
meglio affittare, prendere possesso, poi comprare. Del resto, come avrebbe potuto fare
la Madre: « Non avevo lì per lì neppure un centesimo » (Fondazioni XXI, 2, p. 172)?
Fin dal gennaio 1574, si dava l'avvio alla fondazione di Segovia. Il nono colombaio
della Vergine già si profilava sulla città dall'antico acquedotto.
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Con una sonora risata, don Francisco de Salcedo mi raccontava l'avventura. Juliàn
d'Avila gli aveva narrato la storia per filo e per segno, con mille particolari e un
briciolo di esagerazione meridionale, « donchisciottesca ». Ogni spagnolo che si
rispetti non ha forse l'estro del cavaliere della Mancia?
- Valgame Dios! - esclamò vivacemente Salcedo. - E' davvero la più strana delle
fondazioni nella più pacifica delle città. Un melodramma allestito in maniera
eccellente con assembramento, grida, polizia, alguacils (guardie) e prigione!
Ma non anticipiamo; anzitutto, il viaggio.
Partenza da Avila giovedì 18 marzo 1574, prima dell'alba. Alla porta di San José
l'equipaggio si preparava a partire.
Cinque monache, tutte scalze. Per la prima volta, la Madre non prendeva nessuno
all'Incarnazione. Isabel de Jesùs, la novizia che con il suo bel canto l'aveva fatta cadere
in estasi a Salamanca, una sera di pasqua, faceva parte del gruppo.
Era nata a Segovia; suo padre Andrés de Jimena, corregidor della città, aveva ottenuto
le autorizzazioni richieste.
Oltre Fray Juan de la Cruz e Juliàn d'Avila, c'era anche un nuovo personaggio:
Antonio Gaitàn, gentiluomo vedovo, di Alba de Tormes. Toccato dalla grazia, appena
morta la moglie, si era messo a servizio del Signore, divenendo collaboratore della
Madre. Appassionato di Dio, in coppia con Juliàn d'Avila, trasformava in
pellegrinaggi i suoi spostamenti.
Parlavano della Trinità, dell'orazione; le notti cattive, i giorni faticosi, la stanchezza,
mostravano che non ci si cullava nelle dolci illusioni (Fondazioni XXI, 7, p. 174).
Infine, un giovane di diciassette anni, una specie di cavalier servente, Gonzalez de
Ovalle, nipote della santa Madre.
- Andare da Avila a Segovia, lei lo sa, senor, non significa imbarcarsi per le Indie
Orientali. Percorso breve, ma sentieri da capre attraverso la Sierra de Guadarrama.
Fino a Villacastin si sale, si passa un colle e si avanza, beccheggiando nel vento, attra-
verso gli altipiani, finché la cattedrale di Segovia emerge su un orizzonte di montagne.
Era marzo inoltrato e già la primavera viaggiava nelle nuvole. Ma il suolo coperto di fango, di neve
sciolta, le buche impreviste, i blocchi di pietre scompaginati dall'inverno conferivano a quelld'
marcia di un giorno un andatura da epopea. Dal torrione castigliano emana sempre un'aria di nobiltà
e d'intransigenza.
Carrette cigolanti, sonagli di mule, grida degli arrieros; mentre, sotto i loro copertoni,
le suore recitavano le ore canoniche o si riposavano un po', Antonio Gaitàn e Juliàn
d'Avila discorrevano di spiritualità, e tutta quella mistica carovana avanzava attraverso
la Sierra, grottesca e grandiosa nello stesso tempo. La Spagna guerriera si emancipava
dalla dominazione della Mezzaluna, la Spagna avventurosa conquistava il Nuovo
Mondo, la Spagna contadina traeva da un suolo ingrato il suo pane e il suo spicchio
d'aglio; tutte quelle Spagne si concentravano nell'avanzata delle carmelitane, come
all'assalto di un alcazar.
« Hidalgo o cavaliere errante, povero soldataccio che trascina il suo spadone,
mulattiere che facendo schioccare la frusta descrive in aria dei segni, o canta al vento,
tutte queste figure diverse:
ecco il castigliano eterno o... vendo l'anima al diavolo! ».
Calata la notte, la comitiva si avanzava sull'ultimo pendio, fino alla porta
dell'Acquedotto. Certo, in marzo, il sole non drappeggiava di gloria il cielo, come
nella stagione estiva. Ma, per entrare nella città di Segovia, tutte le campane
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suonavano « a gloria »: da San Marcos a San Martin, da San Miguel all'alta torre
di San Esteban. Dimenticavo i tre conventi di francescane, i concezionisti, le
agostiniane e il monastero solenne e reale del Parral, occupato dai girolimini.
Sulla soglia della porta della casa presa in affitto, nel quartiere della parrocchia di San
Andrés, in via del Almuzara, dona Ana, « la fondatrice », aspettava le nuove venute,
con un mazzo di chiavi in mano.
Questa donna di quarantaquattro anni, abituata ad accudire alle faccende di casa, aveva
organizzato il necessario per sistemare una cucina, per poter dormire e per celebrare la
messa.
Con una lampada in mano, la Madre fece il giro dell'alloggio e subito distribuì gli
ambienti per trasformarlo in monastero.
Entrate di notte, alle carmelitane non restava altro che prendersi un po' di riposo per
poter festeggiare S. Giuseppe alle prime luci del giorno e porre il Santissimo
Sacramento.
A questo punto Juliàn d'Avila si dilunga su tutti i particolari in maniera ancor più
pittoresca della Madre fundadora.
- Ha l'autorizzazione scritta del vescovo? - aveva chiesto strada facendo.
- No, - rispose Teresa - ma ho la sua parola.
- Storie, Madre! Lei sa che le parole non valgono molto davanti alla giustizia...
- Stia zitto, don Juliàn; vuole forse mettere in dubbio la sincerità di monsignore Diego
de Covarrubias y Leyva, presidente del consiglio di Castiglia e del consiglio di
stato...? E poi, se manca qualcosa, San José provvederà! Ci ha forse mai abbandonato?
Le dico che domani, festa di San José, il monastero sarà fondato.
Chiuso il becco, Juliàn non poté far altro che tacere.
In effetti, allo spuntar di quel 19 marzo, una campanella che annunciava la messa
risuonò come una tromba di guerra. La gente entra, prega, commenta. Il quartiere è in
subbuglio.
Dopo l'eucaristia inaugurale, Juan de la Cruz celebrò la sua messa.
Venne a passare di lì il prevosto del capitolo, il nipote del vescovo: don Juan de
Orozco y Covarrubias. Vide una croce su un portone: una cappella era sorta durante la
notte, all'interno di un atrio.
- Di che si tratta? - chiese alle fedeli.
- E un nuovo convento di carmelitane venute da fuori, che si sono insediate proprio
stamattina.
Mandò allora un servitore a chiedere se poteva celebrare la messa. Gioiosamente gli
risposero di sì.
Ma ecco che nella strada risuonano alte grida. Una furia? Un uragano? Era il vicario,
Hernando Martinez de Hiniesta. Vedendo il prevosto all'altare, brontolò:
- Avrebbe potuto scegliere un posto migliore per dire la messa!
Gettando occhiatacce in tutti gli angoli, scorse Fray Juan che, tranquillo come se
niente fosse, continuava la sua preghiera.
- Chi ha messo lì « questo »?
Così dicendo, indica il Santissimo Sacramento.
- Toglietelo... Chi ha dato il permesso?... Sono ben deciso a mandarvi in prigione!
« In quanto a me », raccontava don Juliàn, « alla vista di quell'energumeno, ebbi il coraggio di
fuggire. Per fortuna, una scala mi offriva un riparo in fondo all'atrio. Giusto in tempo di nascondermi
li! ».
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« Il vicario non volle abbandonare la nostra chiesa senza lasciare un alguacii
(guardia) alla porta... ciò servi a spaventare un po' le persone che stavano lì »
(Fondazioni XXI, 8, p. 174).
La Madre conservava il suo sangue freddo. Sapeva di essere in regola. Le persone che
vivono nel silenzio indovinano molte cose. Teresa sarebbe venuta presto a sapere che
il capitolo dei canonici era in disaccordo con il vicario generale (così lo chiameremmo
oggi).
Quando questi vide all'altare il prevosto, suo nemico, la bile gli si agitò al punto di
farlo cadere nel ridicolo.
Il nostro vicario si mise dunque a percorrere le vie della città in cerca di un prete, al
quale comandò di dire la messa e di consumare il Santissimo Sacramento. Poi, con
rabbia puerile, cominciò a strappare i paramenti, gli ornamenti dell'altare e a mettere
sottosopra la cappella.
Le monache erano terrorizzate; Teresa restava calma. Ne aveva viste ben altre, nel
corso delle fondazioni. Una volta che la presa di possesso era fatta, « non dava mai
molta importanza a quel che poteva accadere; tutti i suoi timori erano prima » (Fon-
dazioni XXI, 8, p. 174s).
Come sappiamo, la Madre ritrovava dovunque vecchi amici o se ne creava dei nuovi.
« Credendo nei fiori, spesso, li si può far nascere ».
Dopo la messa di quel giorno memorabile, venne a trovarla il prevosto del capitolo.
Scoprirono di essere cugini. Tutto contento, don Juan promise il suo aiuto alle
fondatrici; sarebbe venuto a somministrare loro i sacramenti; si sarebbe dedicato
anima e corpo al Carmelo.
La sera, accorse alla grata il rettore dei gesuiti, il padre Luis de Santander. Aveva
conosciuto la Madre Teresa de Jesùs a Medina del Campo, al tempo in cui tutta quanta
la città dei mercanti parteggiava per la santa di Avila. Avrebbe subito difeso la sua
causa presso il vicario.
Infine, si presentò Andrés de Jimena.
- Bella storia! - esclamò. - E il suo servitore, Madre, che ha condotto tutte le trattative: con il
vescovo, con la città... Il vicario non è che un vanesio. Se reagisce e ruggisce, non c'è da stupirsi: non
manda giù di non essere stato preavvisato riguardo a questa fondazione.
- Quest'impresa - concludeva Juliàn - era opera di Dio. Ah, non era certo un affare di
donne!
Adesso, sarebbe stato difficile per il vicario sfuggire nel labirinto delle procedure.
Permise dunque « che si recitasse l'uffizio e si celebrasse la messa ».
Per salvare la faccia, « tolse alle suore il Santissimo Sacramento »... fino a quando non
avessero una casa comprata nella debita forma.
« Oh, Gesù » esclama Teresa. « Che fatica è quella di trovarsi fra tante contestazioni!
Quando già sembrava che si fosse concluso tutto, si era da capo; non bastava dar loro
quanto chiedevano; subito sorgeva un'altra difficoltà. Detto così, sembrava nulla, ma
farne la prova fu cosa dura » (Fondazioni XXI, 8-9, p. 174s).

La Madre fundadora portava dentro di sé un segreto.


Che cosa l'aveva costretta ad accettare con tanta facilità la fondazione di Valladolid, se
non il desiderio di trasferirvi le suore di Pastrana?
Laggiù gli avvenimenti erano precipitati. Tragici. Comici.
Il 29 luglio 1573, il principe Ruy Gòmez era morto. Ana di Eboli, sua moglie, in una
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crisi di misticismo iperacuto, decise di prendere immediatamente l'abito del
Carmelo.
Fray Mariano dovette spogliarsi del suo e darlo a questa novizia in lacrime e in trance,
lì, di punto in bianco, davanti al cadavere del suo amatissimo sposo. Che effetto a
corte!
Senza indugio, il padre Baltasar Nieto parti di notte per Pastrana. Alle due del mattino
bussava alla porta delle carmelitane per annunciare l'eroica decisione:
- Sua signoria, già rivestita dell'abito della Vergine, arrivava in carretta coperta ed
entrava in clausura accompagnata da sua madre.
- Gesù! - esclamò la priora Isabel de Santo Domingo: - la principessa in convento! la
casa è perduta!
Sorvoliamo su questo avvenimento e sulle sue conseguenze che provocarono molti
pettegolezzi a Madrid e altrove.
Antonio de Jesùs, chiacchierone secondo il suo solito, lo descrisse con tono frizzante
alla duchessa d'Alba, sua amica.
« La principessa d'Eboli, con il nome di Ana de la Madre de Dios, è entrata in
noviziato, incinta di cinque mesi. All'interno del convento, dà ordini e contrordini
come una priora. Esige che le monache le parlino in ginocchio e con il massimo
rispetto. Vostra signoria lo dica alla nostra Madre, se ancora non lo sa! ».
Già tutto il reame propalava la notizia e si smascellava dalle risa.
Questa buffonata giunse agli orecchi del re. Sua maestà scherzava poco in materia. Il
consiglio di Castiglia prescrisse alla principessa di uscire immediatamente dal
convento, di occuparsi dei figli e dell'amministrazione dei suoi beni: questo era il suo
dovere.
Ana di Eboli, dopo la sua crisi di mania monastica risolta per istanza superiore, si
inferocì ancor più, accanendosi contro le scalze.
Il seguito è noto: la loro fuga disperata in cinque giornate di viaggio, con la pioggia, la
neve e il vento, per raggiungere la fondatrice a Segovia.
Il mercoledì santo, 7 aprile 1574, Isabel de Santo Domingo arrivava giusto in tempo
per sapere che era stata nominata priora della nona fondazione, mentre le sue dodici
compagne venivano ad accrescere, in una sola volta, la piccola comunità.

- L'annoierei molto, sen or, se le raccontassi le trattative per riuscire infine ad


acquistare una casa - concludeva don Francisco.
Difficoltà infinite come sempre, avversari più numerosi che mai. Francescani,
canonici, mercedari, tutti, per bassi interessi, contendevano a Dio quella dimora.
A Teresa interessava finire prima di s. Michele. Effettivamente, questo desiderio si
realizzò. E subito, in fretta e furia, ritornò all'Incarnazione di Avila per portarvi a
termine, il 6 ottobre, il suo mandato di priora.
Frattanto, Segovia segnava un momento importante per la riformatrice che ricevette lì l'ispirazione di
separare calzati e scalzi in province indipendenti.
A nord della città, secondo un'antica tradizione, si venerava una grotta dove, il giorno
stesso in cui Teresa andava verso la città dei cavalieri, le apparve S. Domenico, il
padre dei predicatori, che le promise di « aiutarla molto ».
Risalendo verso Villacastin, la sera della festa di s. Michele, la Madre lasciava dietro
di sé un convento fiorente. Da ogni parte affluivano le vocazioni: ricco vivaio per la
futura fondazione di Beas.
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In quanto al suo soggiorno a Segovia, era stato percorso da segni, da incontri simili
al balenare di lampi sotto la nube.
Fray Diego de Yanguas, dottore in teologia al convento di Santa Cruz, andava a
confessarla. La conosceva da lunga data poiché, all'epoca della fondazione di San
José, in Avila, studiava a Santo Tomàs. Aveva allora ventitré anni. Di costumi austeri,
pieno di senno, il domenicano avrebbe continuato ad aiutarla « durante gli otto anni
che la separavano dalla sua morte ». Se rimpro-vereremo sempre a questo illustre
letterato di aver comandato a Teresa di bruciare le sue meditazioni sul Cantico dei
Cantici (ordine a cui ella obbedì immediatamente), ci rimane di lui una celebre parola
detta alla priora Isabel de Santo Domingo:
- Quando voglio raccogliermi in preghiera e prepararmi a celebrare la messa, prendo
quel brasero che è il Libro della mia vita e mi riscaldo al suo calore.

La Madre fundadora ha lasciato Segovia. Poteva immaginare che quattro anni più
tardi, proprio li, il suo « piccolo Seneca »sarebbe divenuto priore degli scalzi?
Ai piedi dell'Alcàzar, nell'antico quartiere ebraico San Marcos, vicino alla Vergine de
la Fuencila, Fray Juan aiutava muratori e novizi a costruire il convento. Pietre rosse,
quadrate, tagliate nel vicino sperone roccioso, di colore fulvo, simile ai tramonti nel
cuore dell'estate.
Tuttavia, il vero lavoro del priore non lo confinava nella cava di pietre o nel chiostro
dei frati.
Spesso, saliva al monastero delle carmelitane, dove venivano raccolte le sue ultime parole.
Nell'ascoltarlo, parecchie monache intuivano confusamente che quell'uomo era divorato da una
fiamma viva che avrebbe presto finito di consumarlo.
Oh! quante volte ho seguito il ripido sentiero che da San Marcos, il convento nella
parte bassa della città, conduce a San José, il convento situato nella parte alta! Sul
tardi, la valle dell'Eresma bagnava d'ombra i pioppi. Alla mia destra, l'Alcàzar si
affacciava sullo sperone della roccia, tozzo, con i suoi colori chiassosi e la sua falsa
aria di grandezza. Ma il più bello degli spettacoli si allestiva su in cielo, in
quell'azzurro di Segovia: una luce purpurea infiammava successivamente la città, le
chiese, i bastioni, la Sierra.
Anche lì, come ad Avila, due brevi incontri: lo spazio di una primavera, la Madre e il
suo « Senequito », Teresa e Juan, ma un fuoco così ardente che l'oblio, la « notte »
degli uomini, non riesce ad offuscarlo.

5 - Terre del Sud

A Malagòn, lunedì di carnevale, 14 febbraio 1575.


Al centro del villaggio c'è un viavai di lanterne. Il giorno non èancora spuntato. In
tutta fretta si finisce di coprire la quarta carretta. Don Juliàn d'Avila si affaccenda,
dandosi delle arie tipicamente ecclesiastiche. Vicino a lui, c'è un altro prete, Gregorio
Martinez. A poca distanza, Antonio Gaitàn, divenuto ormai l'uomo d'affari dei viaggi
carmelitani, sta discutendo con i mulattieri.
Ad una ad una, escono otto carmelitane velate; l'ultima è la Madre. Ha sessant'anni
esatti. Quelli che l'hanno vista, notano che si è incurvata: è alla soglia della vecchiaia.
« Durante la prima giornata di viaggio da Malag6n a Beas, avevo la febbre e tanti mali
messi insieme, che, considerando il cammino che ancora ci restava da percorrere e lo
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stato in cui ero ridotta, mi venne fatto di ricordarmi del nostro padre Elia, quando
fuggi da Gezabele, e di dire: "Signore, come potrò avere la forza di sopportare tutto
questo? Pensateci voi!". E' certo che Sua Maestà, vedendo la mia debolezza, mi tolse
di colpo la febbre e il male » (Fondazioni XXVII, 17, p. 234).
- Por Dios! - esclamò don Juliàn stropicciandosi le mani - nel paese della Mancia fa freddo come
nella nostra nuova città di Avila!
- Forse, - chiese ironicamente Antonio - preferirebbe partire per Beas sotto il sole di
luglio?
- Freddo o caldo, senor, è la stessa cosa. Tutto tempo in meno per il Purgatorio! Ave
Maria. In cammino!
E la prima carretta si mise in moto. La carovana usciva da Malagòn in direzione di
Manzanares, dove prese alloggio la sera.
L'indomani, le fondatrici si misero in viaggio verso l'Andalusia. D'inverno, il paese
della Mancia sembra ancora più squallido della Castiglia. Piatto come una focaccia,
piantato a ceppi di vite ancora tutti neri, inframmezzato da pascoli e da campi di
frumento, d'orzo, di avena, fugge all'infinito sino alla Sierra Morena, che 5 innalza
come una barriera. Ghiaccio e neve, strade erose, voli di corvi famelici su un cielo
cupo, locande così rare che la sera del primo giorno invano i due preti contrattavano
per comprare due uova alla Madre fundadora malata. La diplomatica Ana de Jesùs
riuscì a concludere questo acquisto come se si fosse trattato di un impresa gloriosa.
Al tramonto del secondo giorno, il sole risplendeva ad ovest, proiettando molto
lontano a sinistra l'ombra delle carrette. Mentre si scendeva, con grande stridio e sibilo
di assi, verso Valdepeflas, di fronte ai guidatori si ergevano le frastagliature della
Sierra Morena. Laggiù, in fondo in fondo, si stendeva la vallata del Guadalquivir, la
terra andalusa piena di misteri e di pericoli.
Ignara, la carovana delle fondatrici vi si avventurava, per andare incontro Dio sa a
quali prove!
Il terzo giorno, mercoledì delle ceneri, 16 febbraio, dopo la messa, si affrontava infine,
senza saperlo, la parte più patetica del viaggio.
Uscendo da Valdepefìas, Antonio Gaitàn aveva gridato:
- In cammino verso Torre de Juan Abad!
Il paesaggio cambia. Lentamente, si sale in mezzo ai lentischi, alle querce da sughero
e ai boschi cedui. Colline, montagnole, ecco le prime scarpate.
Dopo aver oltrepassato el Cerro de Candinolares, all'improvviso tutto si guastò.
Ana de Jesùs ci ha lasciato alcuni ragguagli pittoreschi su quello che accadde allora.
Rinchiuse sotto i teloni delle carrette, le suore sentivano discutere i mulattieri:
- Por aqui! No, caramba, por alli! (Da questa parte!... No, da quella!).
- Evidentemente - esclamava la Madre - questi uomini non sanno più dove sono né
dove vanno!... Preghiamo nostro padre San José di trarci d'impiccio e di rimetterci
sulla buona strada.
In effetti, la strada, apparentemente agevole, si snoda su dolci pendii; ma, ad un tratto,
inaspettatamente, sbocca a picco sui precipizi della Val-de-infierno.
« Dalla voragine - continua Ana de Jesùs - sali una voce d'uomo, una voce roca:
« - Attenti! attenti! dove andate?... siete perduti... state per precipitare dalle rocce!
« I mulattieri fremettero e si misero alla testa delle bestie i cui ferri raschiavano la
pietra.
« - Fermi!
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« - Che dobbiamo fare? - gridò Juliàn chino sul burrone.
« - Indietro; tornate indietro... troverete...
« Le carrette ritornano sui propri passi e finalmente si trova la vera biforcazione.
Antonio, seguito da un ragazzo, scende a precipizio sulle ripide scarpate. Dove si era
dunque nascosto quel pastore o quel contadino che, dopo aver fatto da cicerone
volontario, si era dileguato senza indugio? La Madre non aveva dubbi: a parer suo, si
trattava di un intervento miracoloso. A chi attribuirlo, se non a San José? "Hanno un
bel cercare", concluse; "non troveranno nessuno. E il mio padre San José!".
« In effetti, aggrappandosi agli arbusti, i due uomini erano scesi fino in fondo al
precipizio da cui si era alzata la voce. Fatica sprecata: non trovarono alcuna traccia
dello sconosciuto.
« Messe sulla strada giusta - continua Ana de Jesùs - le mule cominciarono non "a
camminare", ma "a volare". Quelle bestie che, se poco prima avessero fatto un passo
in più, ci avrebbero ridotto a pezzi, meno stupide di quanto si pensi, avevano sentito
l'angoscia dei loro conducenti. Ora, rassicurate, "volavano" ».
Con passo spigliato, seguivano adesso una strada pianeggiante, passavano senza
difficoltà il guado del Guadalimar. Possiamo ben crederlo: le monache non dovettero
lasciare le loro carrette... In fondo alla valle suonavano a festa le campane di Beas.
L'accoglienza fu grandiosa. In quel giorno delle ceneri, verso le 5 di sera, la città, con
una torre come unica guardiana, e il suo castello, senza bastioni né cerchia di mura, si
apriva alla fondatrice.
La primavera non era ancora arrivata a riempire di verzura i giardini della valletta. Qui
la bella stagione è ricca di acque fluenti, in mezzo ai canneti, alle coltivazioni ed ai
pioppi, mentre sullo sfondo centinaia di olivi si arrampicano sulle ripide colline
rossicce.
Alcuni cavalieri, avvertiti dell'arrivo della santa Madre, le erano venuti incontro,
meravigliati di costatare che le fondatrici giungevano prima del previsto. Una santa
furia sembrava trascinare le mule che erano in testa. Al guado di Guadalimar, già lo si
sapeva, non avevano lasciato ai viaggiatori nemmeno il tempo di scendere di carrozza.
Tra petardi, archibugi, impennate delle cavalcature, si costituiva una scorta intorno
alle quattro carrette misteriosamente coperte.
Tutta Beas, come per la Iena, muoveva all'assalto della chiesa parrocchiale, dove la
croce della processione e il clero in cotta aspettavano le religiose, venute dal di là delle
Sierre, per rispondere all'appello di due giovani signore qui venerate in sommo grado:
dona Catalina e dona Maria Godinez.
I fanciulli, con il naso in aria e le mani sui fianchi, rimanevano a bocca aperta a ogni
movimento delle carrette; le donne spiavano con lo sguardo per scoprire fra quei veli
ingialliti e rattoppati colei che veniva qui chiamata la « santa di Avila ».
Sì, la Madre dice la pura verità quando scrive: « Vi fu, in generale, molta soddisfazione; perfino i
bambini dimostravano, a loro modo, che quell'opera era gradita al Signore » (Fondazioni XXII, 19,
p. 187).
Il giorno di s. Mattia, giovedì 24 febbraio 1575, lo splendore di questa decima
fondazione si dimostrava all'altezza dell'accoglienza del primo giorno di quaresima.
A lungo, con evidente preoccupazione del particolare vissuto, la Madre Teresa
racconta la storia delle due benefattrici, nel suo libro de Le londazioni.
Orfane di padre e di madre, dona Catalina e dofia Maria avevano deciso di fondare un monastero. I
privilegi della loro nascita, la stima di cui godevano grazie ai loro genitori, la loro considerevole
140
ricchezza, ma soprattutto la generosità facevano desiderare loro la regola più perfetta. La
maggiore delle due sorelle fece un sogno premonitore: camminava per una strada assai stretta ed
angusta, fiancheggiata da burroni. Un frate scalzo, che le parve di riconoscere in Fray Juan de la
Miseria, le disse: « Vieni con me, sorella », e la condusse in una casa ove era un gran numero di
religiose, senz'altra luce che quella di certe candele accese ch'esse tenevano in mano (Fondazioni
XXII, 21, p. 187).
Ella ne parlò ad un padre della Compagnia che venne un giorno a Beas, il quale le
rispose che effettivamente si trattava della Madre Teresa e dei suoi colombai.
Sorvoliamo sulle infinite difficoltà per ottenere l'autorizzazione di fondare un
monastero: quelle terre appartenevano all'Ordine di Calatrava. Ma alla fine i dolci
ostinati, quelli che si ostinano per Dio, riescono sempre nelle loro imprese.
Le carrette delle fondatrici erano arrivate. Dona Catalina aveva riconosciuto - cosa
straordinaria! - ciascuno dei visi intravisti in sogno. Anche fra Juan de la Miseria che
sopraggiunse in seguito le era familiare: era proprio quello che aveva veduto.
Queste sante donne diedero tutti i loro averi ai poveri, conservando soltanto lo stretto
necessario per vivere e per dotare il Carmelo. Come mendicanti, chiedevano la grazia
di essere accolte in convento e, in quanto a Catalina, di essere ammessa come «
conversa ». Ci vollero tutta l'autorità del provinciale e l'ostinazione della Madre perché
non la spuntasse. Il giorno stesso della fondazione, « presero l'abito le due sorelle, con
gran letizia »(Fondazioni XXII, 20, p. 187). Il monastero di San José di Beas, situato
di fianco alla chiesa parrocchiale, sotto il priorato di Ana de Jesùs e con la venuta di
Fray Juan de la Cruz nel 1578, sarebbe divenuto un vivaio di sante e di personalità
luminose nel cielo della riforma.

In Andalusia, aprile diffonde già gli aromi dell'estate. Vite in fiore, olivi più verdi. Le
case cieche, chiuse dall'esterno, imbiancate al latte di calce; clematidi, gerani e
gelsomini dondolano al vento. Da tutti i villaggi andalusi emana un'aria di festa
perenne.
Anche nel minuscolo chiostro di Beas in cui mormora una fontana, in cui vasi di
fiori s'innalzano sui muri, aleggia un indefinibile incanto delle cose. Oh, come siamo
lontani dall'immateriale austerità della Castiglia!
Proprio allora entrò nella vita della Madre uno strano personaggio su cui la storia non
cessa di porsi domande: Fray Jerònimo Gracian de la Madre de Dios.
Giovane professo ventottenne, a Pastrana, nel 1574, aveva ricevuto dal commissario
apostolico per l'Andalusia, Francisco de Vargas, l'ordine d'introdurre la riforma
carmelitana nella regione del Guadalquivir. Divenne anche vicario apostolico.
Da Roma, il generale dei carmelitani, Rùbeo, censurava questa missione che non era
stata ordinata da lui. Nessuno ha dimenticato le difficoltà che questo superiore aveva
incontrato, appena dieci anni prima, in questa provincia.
Ma, sapendosi appoggiato dal re, dal nunzio e dal visitatore, Graciàn non si
preoccupava delle direttive né delle censure delle autorità romane.
Fondava il convento dei carmelitani scalzi a Siviglia, los remedios, e accettava il titolo
di vicario provinciale dei due rami del Carmelo. Dopo tutto, oltre i suoi illustri
appoggi, non aveva forse anche quello dell'arcivescovo di Siviglia?
Roma vegliava. Interferenza di competenze: la fondatrice, inquieta, cercava di ottenere
lumi dai teologi.
Le cose stavano a questo punto, quando Graciàn annunciò che sarebbe passato per
141
Beas, alla fine della quaresima, nel viaggio verso Madrid dove lo chiamava il
nunzio.
Verso la metà di aprile del 1575, si presentò dunque al Carmelo. Finalmente avrebbe
conosciuto quella fondatrice con la quale aveva avuto soltanto rapporti epistolari. «
Sugli affari dell'ordine, passati, presenti o futuri - scrive egli - sul nostro modo di
procedere secondo lo spirito, sulla maniera di alimentarlo, i nostri punti di vista
coincidevano perfettamente ». Furono venti giorni di fruttuosi contatti in un clima di
buona armonia e di autentica amicizia spirituale.
1112 maggio 1575, da parte sua, la Madre scriveva alla priora di Medina:
« E stato qui per più di venti giorni il padre maestro Graciàn, e l'assicuro che, nonostante gli abbia
molto parlato, non sono ancora riuscita ad apprezzarlo del tutto. Mi pare perfetto in ogni cosa, tale
che di migliori non potremmo a Dio domandarne. Quello che vostra reverenza deve ora fare con
codeste sue figlie è di supplicare Sua Maestà a darcelo per superiore. Allora potrei stare tranquilla sul
governo di queste case, perché non ho mai visto tanta perfezione congiunta a così grande soavità... »
(Lettere 12.5.1575, p. 217).
Stupore, sorpresa, interrogativi molteplici: tutti quelli che conoscono un po' la santa
Madre non hanno mancato di manifestarli a proposito del caso Graciàn.
Ora, a nostro avviso, la risposta si trovava in questa lettera e nel capitolo XXIII de Le
londazioni.
La fondatrice ha sessant'anni. Sente che il suo dinamismo èinvecchiato, come le sue
arterie; misura la sua solitudine. Da sola, regge tutto l'ordine.
Fra i carmelitani scalzi c e, e vero, Fray Juan de la Cruz. Ma, per ora, è un uomo
decisamente troppo spirituale; e poi, i loro temperamenti non coincidono molto.
In confronto agli altri monaci, la sua visione è realistica. C'è forse bisogno di ricordare
le stupidaggini, gli eccessi di Pastrana, la mondanità sempre persistente del padre
Antonio, le stravaganze di Mariano?
Chi? chi mai soccorrerà la povera vecchia?
Graciàn cade a proposito.
Uguale visione dei problemi; uguali temperamenti; ottimismo fondamentale; dono di
comunicativa; larghezza di orizzonti e audacia.
Questo monaco che non ha ancora passato i trent'anni, la Madre lo sa, è circondato da
nemici o, per meglio dire, da invidiosi. È viziato da troppi favori. Anche questo
quaresimale, per grazia dell'arcivescovo, l'ha predicato lui a Siviglia.
Il visitatore Vargas ha lasciato a lui la responsabilità d'introdurre la riforma in
Andalusia. E bello, giovane, predica in maniera mirabile, è affascinante.
Come potrebbe il padre generale dubitare di questa stella in piena ascesa? « Il padre
Graciàn è un angelo... se vostra signoria lo conoscesse, sarebbe molto contento di
averlo in figliuolo » (Lettere 18.6.1575, p. 223s).
Da parte sua, Teresa comincia col confessarsi al giovane carmelitano, senza avere l'intenzione -
come dichiarò - di fare di lui il suo confessore abituale. Per ispirazione del cielo, gli confidò in
seguito la sua vita interiore. In viaggio verso Siviglia, vicino alla città di Ecija, il lunedì di pentecoste
23 maggio 1575, fece voto di « fare tutto ciò ch'egli le ordinasse, purché non, fosse contrario
all'obbedienza a cui era già impegnata » (Relazioni XXXIX, p. 496).
L'autorità del padre Graciàn crebbe ancor più, in seguito a un errore... geografico! La
Madre era venuta a fondare a Beas sulla parola di quelli che le affermavano che questa
città si trovava in Castiglia. Per ordine del generale, poteva insediare i suoi conventi
soltanto in territorio castigliano. Ora, tre mesi dopo la fondazione, veniva a sapere che
questa regione apparteneva all'Andalusia.
142
Il padre maestro Graciàn, visitatore apostolico della provincia del sud,
diveniva dunqùe il superiore delle monache. Poteva ordinare altre fondazioni come
quella di Siviglia, cosa che fece subito.
La Madre si volgeva più volentieri verso Madrid, dove sembrava più urgente istituire
un Carmelo riformato. Esitava. Aveva delle ragioni per non recarsi nella città del
Guadalquivir.
Ora, in quel frattempo arrivava Mariano. Con entusiasmo, si mise a descrivere i
vantaggi dell'insediamento sivigliano. Si poteva partire senza il becco di un quattrino.
Le elemosine sarebbero affluite, tanto le strade di quella capitale erano inondate dalle
ricchezze. Per di più, l'arcivescovo, don Cristòbal de Rojas y Sandoval, desiderava
avere un monastero di scalze nella sua città episcopale. Tutte queste ragioni, esposte
alla grata di Beas, lasciarono le suore affascinate.
Il Signore, consultato per ordine di Graciàn, faceva propendere il cuore della Madre
per la fondazione di Madrid. In fondo alla sua coscienza, Teresa sentiva ancora
l'ordine del generale: limitarsi unicamente alle due Castiglie.
Ana de Jesùs, confidente della Madre, lo spiegò più tardi con estrema chiarezza: «
Non era quello il momento di entrare in Andalusia, ma, se il padre Graciàn lo voleva,
ebbene, le carmelitane vi sarebbero andate! ».
Intuitiva, con l'animo attraversato da presentimenti, Teresa capiva che un tale modo di procedere
avrebbe indisposto per sempre il generale contro gli scalzi. Gracian, un tantino troppo giovane,
impulsivo e ingenuamente ottimista, si lanciava alla cieca.
« Hai fatto bene ad obbedire, fece sapere il Signore a Teresa, ma la fondazione di
Siviglia vi costerà molto ».
Graciàn non aveva finito di scomparire dietro i picchi della Sierra Morena che scoppiò
il primo colpo di tuono, annunciatore del temporale. Valladolid e il vescovo, don
Alonso de Mendoza, avvertivano la fondatrice che l'Inquisizione ricercava attivamente
i suoi scritti.
Tutto era partito da Cordova, dove si stava esaminando un gruppo di visionari,
discepoli del maestro Juan d'Avila. Interrogati, essi avevano parlato delle visioni della
Madre Teresa de Jesùs. Appena fiutata la pista, la muta si metteva alla caccia. Ormai
l'Inquisizione non avrebbe più mollato la sua preda; per dodici anni avrebbe tenuto in
suo potere il Libro della mia vita. Dalle sue torri che, a Siviglia, dominano il ponte di
Triana, si accingeva a sorvegliare quella monaca castigliana, irrequieta ed inquietante,
che, con la scorta delle sue carrette coperte, veniva a portare una vaga dottrina
pestilenziale nel cuore della città di Ferdinando il Santo.
« Apprezzo ogni giorno di più - scrive Teresa al vescovo di Avila - la grazia fattami da
Nostro Signore nel darmi a conoscere il vantaggio delle tribolazioni; il che mi aiuta a
sopportare in pace la scarsa consolazione che trovo nelle cose della vita, che sono così
passeggere » (Lettere 11.5.1575, p. 214).
Simbolicamente, partendo verso il sud, la Madre dice graziosamente ad Ana de Jesùs:
« Scambiamoci le cappe, figlia mia; prendi la mia che è nuova e di buon gusto per te
che sei giovane. Dammi la tua, vecchia e sciupata; a me starà benissimo! ».

In piedi nel giardino di Beas, nella folle esuberanza dell'estate andalusa, ripeto due
nomi: Graciàn, Juan de la Cruz.
Tre anni dopo il passaggio del padre maestro Graciàn, arriverà Fray Juan, emaciato,
esangue, appena fuggito dal carcere di Toledo.
143
Mistero degli esseri. Graciàn, anche nel tempo in cui aiutava la Madre fundadora, si rivelerà
deludente. Come se Teresa avesse sperato troppo da quel giovane carmelitano. Come se, avendo il
doppio della sua età, avesse riversato su di lui la sovrabbondanza delle sue grazie e della sua
esperienza.
Juan, sperduto ne « la profondità della sofferenza », nell'aureola della luce del Cantico
Spirituale, frequenterà per più di un anno questo monastero, accorrendo ogni
settimana dal deserto di El Calvario.
Alzo gli occhi e guardo: sulla montagna di fronte, piantata in mezzo agli olivi, si
staglia in bianco, sulla terra rossa « la croce delle pene ».
Li andava a sedersi Fray Juan dopo quattro ore di strada. Questo canirnino, questa
croce sono più eloquenti di tanti discorsi.
A Beas, punto di partenza di una grande avventura.

9
«QUANDO IL VENTO ASCIUGHERA’ LE TUE LACRIME»

« Vidi una gran tempesta di tribolazioni: come i figli d'Israele furono perseguitati dagli
Egiziani, così dovevamo essere perseguitati noi » (Relazioni XXXVII, p. 495).
Queste parole potrebbero riassumere il periodo di quattro anni, dal 1575 al 1579, in
cui le persecuzioni si abbattono sulla Madre, sui suoi conventi, sui suoi scalzi, in breve
su tutta quanta la sua opera.
Sarebbe inùtile cercare qui un'analisi dettagliata di tutte le cause, talvolta sottili, di
quell'astio, di quelle sevizie. In quell'incrociarsi di autorità, di decisioni spesso
contraddittorie, a meno di essere un segugio della giurisprudenza, un perfetto
intenditore della storia religiosa spagnola, il lettore si perde.
Noi seguiremo soltanto i momenti culminanti di quella crisi, limitandoci a sottolineare
alcuni paradossi.
La Madre fundadora ha sessant'anni. Le restano sette anni di vita, quattro dei quali si
perderanno in tensioni ed in sofferenze di ogni sorta, nel corso di una vasta tempesta.
Assillata, talvolta stroncata, ella rimane tuttavia padrona di sé e dei suoi incomparabili
talenti. Proprio nell'imperversare della tormenta scrive il suo capolavoro: il Castello
interiore. Come spiegare il fatto che il disgusto, se non il logorio, non colpisca i suoi
doni più incontestati di scrittrice e di maestra di vita spirituale?
È questo il segreto della sua santità.
Parallelamente, Giovanni della Croce viene travolto, trasportato dallo stesso flutto.
Anche se non possiamo parlare molto di lui nei limiti di queste pagine, gli effetti sono
gli stessi che per la fondatrice. Il padre del Carmelo emerge dai marosi che dovevano
spazzarlo via ancora più luminoso e più dotto, purificato ed esaltato.
Le opposizioni concordemente schierate su un fronte unico nell'attacco contro la
riformatrice appaiono meschine, partendo spesso da personalità mediocri, le cui
vedute limitate rischiavano di inaridire la linfa evangelica della riforma carmelitana.
La loro violenza, tuttavia, non ferisce a morte la vitalità del Carmelo, non riesce mai a
spezzare le ali a quel pugno di sante che, in una decina di monasteri, vivono
integralmente la regola primitiva. Prova incontestabile che le intenzioni fondamentali
miravano giusto e che non potevano essere in alcun modo sminuite.
No, Teresa « non si lascia mai allontanare dalla speranza promessa nel vangelo »,
come scrive S. Paolo (Col 1,23). Al contrario, lucida, ferma, persuasiva in mezzo alle
144
nebbie che ottenebrano le menti migliori, non si stanca di raccomandare la
separazione dei due rami del Carmelo. Li è la salvezza e la fioritura della sua opera, li
e soltanto li. A una giovane pianta non occorre forse uno spazio libero per fiorire e
proliferare a modo suo?
Visitata dalla grazia di Dio, rassicurata da certezze che noi non conosciamo, la Madre
va avanti, come il suo carro di fondatrice quando al valico dei colli il vento delle
sierre, la pioggia, la grandine, la neve venivano a, batterne inesorabilmente i fianchi.
La sua costanza ci stupisce, il suo ottimismo ci sconcerta, la sua perseveranza ci
sorprende. Dove mai attinge tanta energia, quella sessagenaria, malata per vocazione,
povera donna sballottata, attaccata e dilaniata dalla giungla umana?
Nel febbraio del 1571, aveva ricevuto da Dio questa assicurazione: « Mentre vivi,
vedrai progredire molto l'ordine della Vergine » (Relazioni XIV, p. 476).
Ormai, sotto la raffica, altro non le restava che aspettare Colui che avrebbe asciugato
le sue lacrime.

1 - Il viaggio eroico

« Era tale la felicità di cui mi sentivo inondare il cuore che non finivo mai in quei
giorni di rendere grazie a nostro Signore, né avrei voluto far altro », scriveva Teresa in
quel mese di maggio del 1575 passato a Beas (Fondazioni XXIV, 2, p. 199).
Effettivamente, il padre Graciàn era arrivato « a tempo »; non per i conventi delle monache che,
grazie a Dio, andavano bene, ma per gli scalzi fra i quali sorgevano sempre più numerosi dissidi e
difficoltà.
« La situazione mi procurava una grande sofferenza ».
« Nostro Signore vi pose rimedio mediante il padre maestro Fray Jerònimo de la
Madre de Dios » (Fondazioni XXIII, 12-13, p. 197).
In questo contesto di gioia, malgrado le apprensioni della Madre, venne dato l'ordine
di partire per Siviglia. Poteva avvenire diversamente?
Dal giubilo all'abbattimento: « Non è un piacere con questi caldi passar l'estate a
Siviglia. Ma se piace al Signore di servirsi di me, non bado a nulla », scriveva la santa
al vescovo di Avila (Lettere 11.5.1575, p. 215).
Questa volta la partenza fu stabilita verso mezzogiorno. Era il 18 maggio 1575. Nei
quattro carri, la Madre fundadora aveva distribuito le migliori delle sue figlie: « Con
loro avrei avuto il coraggio di andare anche in terra di Turchi: non sarebbe loro
mancata la forza di patire per nostro Signore, o, meglio, gliel'avrebbe data lui ». Ne
avrebbero avuto bisogno, laggiù, sull'estuario del Guadalquivir, « con tutti i travagli
che si ebbero a soffrire »(Fondazioni XXIV, 6, p. 201).
Mentre venivano portate le ultime provviste d'acqua, accanto alle carrette aperte si
stringevano i tre scudieri. Li avete riconosciuti: Juliàn d'Avila, Antonio Gaitan e quel
buon prete della Mancia divenuto carmelitano sotto il nome di Gregorio Nacianceno.
Per quegli uomini della Spagna centrale, la marcia verso Siviglia rappresentava più
che mai una spedizione presso i Mori. Juliàn fremeva di gioia al pensiero di ciò che
avrebbe potuto raccontare alle sue sorelle quando, nel prossimo inverno, tornato alla
casa paterna sepolta sotto cumuli di neve, davanti ad un brasero scoppiettante di braci,
avrebbe rievocato quell'epopea.
Primo giorno: che incanto!
145
L'alta valle del Guadalquivir era profumata di rosmarino, di cisto e di gelsomino. Quegli odori
primaverili penetravano anche sotto i teloni. Per la siesta, si fece sosta in un boschetto in cui il canto
di centinaia di uccelli e la varietà dei fiori suscitavano nell'animo delle viaggiatrici le lodi di Dio.
Mai in Castiglia si respirano simili aromi in così splendidi paesaggi. La santa Madre godeva della
bellezza del cielo anche quando, la sera, per dormire non si poté offrirle altro che il freddo e duro
lastricato dell'eremitaggio Ji San Andrés, vicino a San Esteban.
« Delle cinquanta leghe che ci separavano da Siviglia - sottolineava Juliàn - ne
avevamo percorse appena cinque! E le migliori!
« L'indomani, vicino a Linares, all'uscita dalla Sierra Morena, ci imbattemmo in una
locanda e in certi energumeni, "i più malvagi che io abbia incontrati in vita mia". Alla
vista delle nostre tonache, ci coprirono d'insulti e di stupide battute. Se la presero in
modo particolare con Fray Gregorio, che sottoposero ad un'autentica stroncatura.
Impossibile chiudere loro il becco! Per fortuna, ignoravano che cosa si trovava nelle
nostre carrette. Se avessero saputo che c'erano delle monache!... Per amor del cielo,
èmeglio non pensarci. Dementi o ubriachi - ah! come sconvolge presto la mente quel
vino andaluso! - arrivarono a tirar fuori i loro pugnali e a bisticciare fra di loro. Ma,
per paura degli alguacils, si eclissarono alla chetichella. Buon per noi.
« Quando tirammo fuori le nostre provviste - oh, delusione!
- erano andate a male. In quanto a comprare dell'acqua, non ci potevamo neppure
pensare. Costava più cara del vino: ogni brocca valeva due maravedi'. E ogni suora ne
aveva ingoiato da sola il contenuto di parecchie!
«Meraviglioso viaggio annunciato sotto il segno della fame e di una sete
inestinguibile.
« Lasciamo Andùjar, Tra Espelùy e Mengibar, dovemmo attraversare il Guadalquivir
su una chiatta.
« Come caricare i carri?
« Per guadagnare tempo... e soldi, il traghettatore cominciò col far traversare le
carmelitane e alcune cavalcature. Quando la chiatta, carica di carri, iniziò il passaggio,
il cavo si staccò dalla riva mentre la corrente, molto violenta, trascinava il carico.
« Panico generale. Non portavamo gran che con noi. Mariano aveva deciso che a
Siviglia anche « la casa di Pilato », luogo di transazioni con le Indie, avrebbe riversato
i suoi tesori! Ma avevamo bisogno... di carri per arrivarci.
« Per fortuna, si riuscì a riacciuffare la corda, mentre la violenza del fiume sfidava tutti
i nostri sforzi. Intorno alla Madre, alcune suore, le più deboli, s'immergevano nella
preghiera. Vicino all'acqua, tutte le braccia disponibili tiravano sul cavo. Fatica
sprecata.
Fortunatamente un cavaliere, dall'alto di una torre vicina al traghetto, vide il nostro
affanno e inviò rinforzi, non senza aver imprecato contro monaci, preti e monache!
« Compassionevole, Teresa si rattristava per l'angoscia del barcaiolo. "Mi destò
profonda commozione un suo figlio, che ho sempre presente alla memoria. Poteva
avere, mi pare, dieci o undici anni, e quel ch'egli soffriva nel vedere il dolore del padre
mi faceva render lode al Signore" (Fondazioni XXIV, 10-11, p. 203).
« Bella lezione per quelli che s'immaginano che i mistici, col naso in aria, se la cavino
a buon mercato con la sofferenza dei poveri. La chiatta, trascinata lontano sul
Guadalquivir, portava via lo strumento di lavoro del buonuomo e di tutta la sua fa-
miglia.
« Terminato il dramma, all'ora in cui cominciano a brillare le prime stelle, la Madre
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sistemò la sua comunità sulla sponda. Ogni suora tirò fuori il breviario e
cantarono compieta aspettando che il cavaliere, mortificato delle sue parole scortesi, le
facesse condurre a una locanda di Espelùy.
« Venerdì 20 maggio, - continuava Juliàn - fino al pueblo d'El Carpio, annidato su un
monticello, a due tiri di balestra dal Guadalquivir, nulla di straordinario, se non che
entravamo a poco a poco nella gola del diavolo. Madre de Dios! non ho mai visto un
paese così fertile: olivi, viti, immensi campi di frumento! Una coltura subentrava a
un'altra coltura. Terra di abbondanza! Qui, Cibele elargisce i suoi doni, come dicevano
gli antichi ».
- E io - esclamava Antonio - che sudo sette camicie per far venire su due arpenti di
avena che il temporale devasta e che i corvi mi portano via!
Fertilità, abbondanza, ma a quale prezzo! Maometto, come dicono i Mori, arroventava
le sue fornaci.
Talvolta, in prossimità del fiume, i mozos gettavano secchi d'acqua sui teloni dei carri
per rinfrescare al di sotto le prigioniere di Dio. E le tele fumavano come mille demoni
aspersi di acqua santa.
La vigilia di pentecoste, il quarto giorno cominciò male. Per mancanza del necessario, i preti non
poterono celebrare la messa. Una cupa malinconia s'impadronì di don Juliàn, che non apriva bocca.
Per colmo di sventura, sulla strada di Cordova, la Madre fu assalita da un violento accesso febbrile.
Distrutta, tremante malgrado la canicola, con il viso cadaverico, si vedeva bene che non ne poteva
più.
Presto una locanda, ma che locanda!
« Trasportammo la Madre in una soffitta - racconta Maria de San José - dove, senza
dubbio, c'erano stati dei. maiali. Il tetto era così basso che non ci si poteva stare diritti
in piedi. Attraverso le tegole sconnesse, il cielo dardeggiava frecce aguzze ».
« Inoltre, - aggiunge Teresa con umorismo - la camera non aveva finestre, e se si
apriva la porta, il sole la inondava tutta. Dovete considerare che da quelle parti il sole
non è come in Castiglia, ma molto più molesto. Mi fecero coricare su un letto tale, che
avrei preferito sdraiarmi per terra, perché era tanto alto da una parte e tanto basso
dall'altra, che non sapevo come starci: mi sembrava fatto di pietre aguzze »
(Fondazioni XXIV, 8, p. 202).
Gli impacchi che le mettevano sulla fronte, più che recarle sollievo, la scottavano,
tanto era calda l'acqua!
Frattanto, al pianterreno, gli Andalusi si divertivano. Tamburini e nacchere ritmavano
danza su danza. Grida, bestemmie, oscenità, quando un bicchierone colmo di vino
interrompeva un fandango.
All'ora della siesta, la Madre, esausta, fu riportata nel suo carro e il gruppo ripartì sotto
le fiamme di Sodoma e Gomorra, non volendone mai più sapere delle locande di
Satana.
Quella sera, alle porte di Cordova, pernottarono nei carri, con i teloni leggermente
socchiusi. Dopo mezzanotte, il cielo concede un po' di riposo alla terra; la frescura del
mare risale il fiume mentre gli astri declinano. Alle tre del mattino, si respira.
Filosofa, Teresa ne trae una lezione per i malati. Si potrebbe rifiutare il diritto di
parlare a lei, il cui corpo tutto pienQ di dolori era divenuto il suo vero maestro di
saggezza? « A me è accaduto di avere un dolore assai forte in una parte del corpo, e
benché poi venissi attaccata da un altro non meno forte in un'altra parte, il mutamento
mi sembrava un sollievo. Così avvenne in questa circostanza... Piacque al Signore che
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il male non durasse che solo quel giorno » (Fondazioni XXIV, 9, p. 202s).
Pentecoste a Cordova! chi non se ne sarebbe rallegrato? Con i suoi 13.000 abitanti, le sue 132 torri, i
suoi due alcàzar, le sue 17 porte e la sua cattedrale, costruita al centro della più prestigiosa moschea
del mondo, la città di Cordova dava le vertigini. Aerea, intellettuale, dominata dalla fama dei suoi
dottori ebrei e musulmani, dal ricordo delle sue biblioteche, dai sogni dell'Islam e dalla multiforme
sapienza di Maimonide.
Lì soprattutto l'Inquisizione si mostrava cavillosa, inquietante, intrattabile. Lì,
Magdalena de la Cruz, strega, indemoniata, trafficante infernale, era stata devotamente
bruciata. Da lì era partito l'ordine d'indagare sugli scritti della Madre. Passando per
Cordova, la riformatrice sfiorava una trappola; ordinava perciò un attraversamento
mattutino.
Naturalmente, in un giorno di pentecoste, bisognava celebrare la messa. Non alla
cattedrale, in mezzo al capitolo dei canonici, ma in una chiesa di periferia.
- Ci venne indicato il sobborgo del "Campo de la Verdad". Ma, per recarvisi,
bisognava passare il grande ponte sul Guadalquivir, sovrastato dall'Alcàzar, sede della
santa Inquisizione.
« Ma v'era lì gran festa, essendo la chiesa dedicata allo Spirito Santo. Il corregidor
aveva quindi proibito il passaggio. Che fare? ».
- Andiamo a svegliarlo - esclamò Antonio - e chiediamo-gli un'autorizzazione.
La si ottenne infine, « con mille difficoltà », precisa Maria de San José.
Frattanto, mule, carri, monache e fondatrice sostavano sotto le finestre degli
inquisitori. I curiosi, i mercanti, i ragazzini già si radunavano attorno ai carri, cercando
di sollevare i teloni sotto i quali, mute, stavano stipate le suore impaurite.
Quando le vetture si ipoltrarono sul ponte, non riuscivano ad avanzare. Le assi,
fabbricate in Castiglia, erano molto più lunghe delle assi regolamentari dell'Andalusia
e urtavano contro i pa-rapetti.
Come fare?
Fu necessario segarle.
Per tre ore, si dovette quindi aspettare che il lavoro fosse finito.
Dall'altra parte del Guadalquivir, dàgli a scampanare! Si annunciavano la messa, la
predica, la processione e le danze, poiché, in quel paese senza malinconia, petardi,
tamburini, nacchere e balletti accompagnavano la discesa dello Spirito Santo.
« A quella vista provai una gran pena - ci confida la Madre;
- a mio parere, era meglio andarcene senza ascoltare la mes~a che entrare in quella
baraonda. Il padre Juliàn d'Avila non la pensò allo stesso modo, e siccome egli è
teologo, dovemmo aderire al suo parere » (Fondazioni XXIV, 13, p. 205).
- Ah! sì - continua il cappellano di San José - da quando Cordova è Cordova, mai
pentecoste fu celebrata con tanta solennità: prendevano parte alla processione laici,
clero e anche... alcune monache! questo spettacolo era più attraente di tutto il resto!
In grande cappa bianca, con il velo calato sul viso, le sette carmelitane fecero colpo, « come se li
stessero per entrare i tori » (Fondazioni XXIV, 14, p. 205).
Juliàn celebrò in fretta la messa e somministrò la comunione alle suore.
Male gliene incolse! Il parroco, con il flato mozzo, strapazzava il sagrestano:
« Chi mai aveva permesso a quel prete di installarsi all'altare, nella sua chiesa, in un
giorno di festa, senza il suo permesso? ».
Aspettò il malcapitato cappellano alla porta d'uscita, investendolo con un profluvio di
argomenti teologici, canonici, minacce di denuncia.
148
Tante storie, tanto chiasso, tante infrazioni, proprio a due passi
dall'Inquisizione! Ce n'era abbastanza perché la Madre si sentisse la terra scottare sotto
i piedi. Lasciando che Juliàn se la svignasse sotto la collera clericale, ella stessa dava
ordine agli Arrieros di sferzare le mule e di sfidare il diluvio di fiamme che, a
mezzogiorno, divora in quel paese uomini, bestie e campi.
Trovammo un po' d'ombra sotto il ponte del Guadajoz; con una certa difficoltà, poiché
un branco di porci occupava quella striscia di terra al fresco!
« Con qualche bastonata e un po' di grida, cacciai quella razza malefica », raccontava
Antonio.
« Grazie a quell'apprensione, mi andò via del tutto la febbre », conclude la Madre
(Fondazioni XXIV, 13, p. 205).
Strana pentecoste, a dir vero, nelle pianure di Cordova! Quel ricordo sarebbe rimasto
per sempre incancellabile.
L'indomani, lunedì 23 maggio, i viaggiatori videro profilarsi all'orizzonte una città con
le sue mura, il suo alcàzar, in riva a un fiume.Buenos dias, sen or, - gridò Antonio
-incontrando un coritadino che portava una cesta di cipolle sul capo. - Che città
èquesta?
-Ecija, senor, per servirla. Una delle più belle dell'Andalusia, con le sue sette porte e i
suoi cavalli di fama mondiale. Ma anche... con il suo caldo. State per entrare ne « la
padella per friggere » dell'Andalusia, la sarten de Andalucia.
Intorno a Ecija erano situati sette eremitaggi. La Madre chiese di fermarsi a quello di
Santa Ana. Gli avvenimenti tumultuosi della vigilia spingevano la fondatrice a cercare,
quel giorno, dopo la messa, un po' di raccoglimento.
Si rinchiuse nella sagrestia dove, come racconta ella stessa, cominciò col ricordarsi di
una grazia ricevuta a San José, in un giorno di pentecoste (Vita XXXVIII, 9, p. 352).
Pensando al dono dello Spirito Santo, si chiedeva come fargliP cosa gradita: non trovò
di meglio che fare voto di obbedienza al padre Gracian. Era combattuta da forti
ripugnanze. « Non credo di aver fatto mai nulla nella mia vita... che mi sia costato
tanto, nemmeno la mia professione ».
« M'inginocchiai e promisi di fare per tutta la vita quanto egli mi dicesse » (Relazioni
XL, 7, p. 500).
Maria de San José spiega che la Madre rimase sola fino alla sera. Questo episodio, senza dubbio, le
pesava molto.
Si avvicinava Siviglia: la prova suprema. Teresa era assalita da mille presentimenti. La capitale del
Guadalquivir le appariva ora come un tranello, ora come una trappola, un tribunale o una prigione.
Per fortificarla, Dio la invitava ad andare avanti come una cieca. Non si era messa fuori strada di
propria volontà: aveva obbedito. La sua obbedienza era ormai consacrata da un voto. Dio ne avrebbe
avuto gloria...
Fu deciso dunque di restare ancora un altro giorno.
Il viaggio aveva procurato sofferenze, difficoltà, emozioni in gran quantità.
Solo il Signore conosceva il seguito.
Nel cuore del silenzio e della preghiera, l'acciaio dell'anima si ritempra, come le spade
e le daghe di Toledo nelle acque del Tago.
Per arrivare a Siviglia restavano ancora da percorrere quindici leghe, ossia una
giornata e mezzo di viaggio.
A mezzogiorno, il gruppo raggiunse la Venta de Andino, un po' prima di Carmona.
« A pranzo furono servite delle sardine, ma così salate - racconta Maria de San José -
149
che tutti smisero di mangiare, non avendo acqua per bere ».
Avevamo lasciato il carro della Madre su un mucchio di detriti. Il sole ci batteva sopra
con forza e la terra infuocata rinviava il calore.
Come fanno le pecore in estate, così le suore accorsero intorno a Teresa, formando con
le loro cappe una specie di tenda per proteggersi dalla canicola.
Frattanto, all'interno della locanda, soldati e arrieros mangiavano, battevano sul tavolo
e bevevano copiosamente. L'atmosfera si riscaldava. Piovevano imprecazioni,
bestemmie, frasi lascive, mentre un vino bruciante sprizzava dai botijos in quelle gole
insolenti. « Mai si vide fra i cristiani gente più abominevole ». Alla fine del pasto,
tirarono fuori pugnali, coltelli e spade.
Il motivo della battaglia era quanto mai devoto: qualcuno aveva osato insultare la «
Macarena », la venerata Vergine di Siviglia, pretendendo che fosse meno bella e
potente di Nostra Signore di Guadalupa. Non ci voleva altro per sguainare quaranta
spade e sparare qualche colpo di archibugio.
Sbigottite, le suore credettero che fosse giunta la loro ultima ora. Ma la Madre
conservava la sua imperturbabilità.
-Questi uomini hanno bevuto - disse - lasciate fare a me.
Uscì. Quando apparve quella donna anziana, quella monaca poveramente vestita, ma i
cui tratti riflettevano la forza e la dolcezza, si fece un improvviso silenzio. Le bastò
pronunziare una parola e subito l'assembramento si sciolse come neve al sole... Ah!
questo sole, parliamone dunque!
Il 10 luglio seguente, la Madre scriveva ad Antonio Gaitàn:
« Qui fa un certo calduccio... ma si sopporta meglio che non il sole dell'osteria di Albino » (Lettere
10.7.1575, p. 234).
Il giorno seguente, verso mezzogiorno, apparve una torre prodigiosa. Era la Giralda, il campanile
massiccio, traforato, a losanghe, della cattedrale di Siviglia, « la regina delle cattedrali ». Man mano
che si andava avanti, cambiava colore; dal bianco opaco, passava all'ocra quando, sul fare della sera,
la comitiva entrò finalmente dalla Porta reale nella città di s. Ferdinando il Pio. « Per quanto ci
affrettassimo, non giungemmo a Siviglia che il giovedì precedente alla festa della Santissima Trinità
(26 maggio), dopo aver sofferto nel viaggio un caldo tremendo (nove giorni di cammino) »
(Fondazioni XXIV, 6, p. 201).

In una serata fuori del tempo, mi ritrovavo nel patio degli aranci, vicino alla Mezquita
di Cordova, il cortile della moschea-cattedrale.
Finemente ciarlieri, Ali, Bichara commentavano, frammisti al mormorio delle fontane
e al fruscio delle acque che ricadevano nelle vasche di marmo, i mille e uno
avvenimenti del giorno e della vita. Mai ho ritrovato un'aria così impalpabile, una luce
dalle onde così impercettibili, se non quando l'autunno inoltrato comincia a
raggiungere i Paesi Bassi. È la stessa limpidezza, la stessa trasparenza, salvo che le
rive del Mare del nord avvolgono con un sottile velo di nebbia le luminescenze
pomeridiane.
Cordova, città dello spirito, della filosofia e della lingua. Lì l'inverno è dolce, gustoso
come un succo di arancia. Nella vampata dell'estate, le sue porte, la sua moschea, i
suoi interni chiusi offrono un'ombra misericordiosa.
Due razze, due temperamenti, due credenze si sono affrontati.
Intellettuale, sensuale, tutta espressa in finezza, in digressioni e in sottigliezze, come
questa civiltà del sud avrebbe potuto sopportare l'asprezza, la violenza, la laconicità
delle due Castiglie, in breve, l'implacabile logica della croce?
150
Teresa, le sue carrette, le sue monache, non venivano soltanto come intruse, ma,
paradosso vivente, rigettavano, senza immaginarselo, la sapienza dei sapienti e una
certa arte di vivere, che mal si adattava alle Beatitudini.
Se l'affrontamento fu violento, non dobbiamo accusarne soltanto l'astio dei carmelitani
calzati, la cavillosa Inquisizione.
Con il suo abito di bigello e le sue alpargatas, la castigliana testimoniava di un altro mondo, rude,
incompatibile, quello di un Amore che fa impallidire gli altri amori.
Ali, con la mano abbandonata sotto la carezza dell'acqua, nel profumo saturo
dell'estate, noncurante e pervaso di grazia orientale, mi rivelava la chiave dell'enigma
citando i versi di un poeta:
« Cordova, lontana e straniera... Non ti meravigliare se una donna di Castiglia,
intransigente, immateriale non vi si è mai potuta adattare! ».

2 - Il fuoco di Siviglia

« Madre, - diceva Maria de San José - quelle signore che, accogliendoci, sono
scomparse come fantasmi non appena hanno aperto questa casa, non ci hanno lasciato
troppo sprovviste. Certo, l'alloggio è piccolo e, malgrado l'estate, molto umido. Ma ci
sono materassi, una stuoia in fibra di palma, un tavolino, una padella per friggere, una
o due lampade ad olio, un mortaio per pestare il grano, un paiolo, qualche brocca,
alcuni piatti... Questa fondazione non si preannuncia troppo male e, con tutte le
elemosine promesse dal padre Mariano, non mancheremo dell'essenziale ».
Ma, prima che finisse la giornata, si presentavano alcuni vicini, l'uno per reclamare il paiolo, l'altro le
lampade. E così via... Portarono via tutto, anche la corda del pozzo.
Siccome si erano dileguati anche i pagliericci, le carmelitane godettero della suprema comodità:
dormire sulla nuda terra!
Il menu era intonato con l'arredamento: pane, mele, talvolta cotte o in insalata. In quanto al fuoco,
bisognava cercare negli angolini i pezzetti di corda o di stoppa per accenderlo e mantenerlo.
La Madre non parlerà mai di questa estrema miseria. Basta una semplice allusione.
« Per le povere scalze, poco tempo prima sembrava che non ci fosse neanche l'acqua, benché il fiume
ne abbondi » (Fondazioni XXV, 12, p. 216).
Altre preoccupazioni tormentavano la fondatrice. Ma... « siamo più amici dei diletti che delle croci »
(Castello, Terze dimore I, 9, p. 297).
Un giorno, il padre Mariano pretendeva di essere munito dell'autorizzazione
dell'arcivescovo. Tuttavia, tardava a celebrare la messa. Teresa sospettava che ci fosse
sotto qualcosa. Un'altra volta, dichiarava, senza aver l'aria di tenerci, che sarebbe stato
bene accettare delle rendite.
« Madre de Dios! avevo fondato conventi con rendite in poveri villaggi come
Malag6n, Pastrana... Ma, a Siviglia, dove l'oro scorreva a fiotti, conveniva davvero
pensarci? Non avevamo portato altro con noi all'infuori dei vestiti che indossavamo,
qualche cuffia e le tele per coprire i carri. Pagato il viaggio, grazie ai prestiti di
Malagòn e di San José d'Avila, mi era rimasta solo una bianca 1 Bisognava inoltre
offrire ad Antonio Gaitàn e a don Juliàn il necessario per il ritorno » (Fondazioni
XXIV, 17, p. 207)... Insomma, perché l'arcivescovo rifiutava il permesso di celebrare
la messa?
Eppure don Cristòbal de Rojas Sandoval era un sant'uomo. Venuto dal vescovado di
Cordova, fin dal 1572 convocava un sinodo per fare applicare a Siviglia i decreti del
concilio di Trento. Prelato riformatore, si era subito rallegrato dell'arrivo degli scalzi e
151
aveva loro offerto come convento l'eremo di Nostra Signora de los Romedios.
Impossibile trovare lungo il fiume un posto migliore, né migliori vantaggi poiché,
generosi verso la Vergine, i Sivigliani facevano piovere le elemosine come petali di
fiori il giorno della festa del Corpus Domini. Quando battelli, galeoni, semplici barche
passavano davanti al santuario, tutta la gente di mare salutava con petardi,
acclamazioni e fanfare « Maria Santisima ».
Così generoso con i monaci, perché don Cristòbal non accoglieva le carmelitane
della Madre Teresa?
« Siviglia, - pensava l'arcivescovo - possiede 24 conventi di suore, senza contare le
case di convertite e le recluse. Tutti questi monasteri hanno grandemente bisogno di
essere riformati. Vi disperderò le monache della Castiglia, e così verrà risanata la vita
religiosa! ».
Ma - è facile indovinarlo - non era questa l'intenzione della fondatrice. Non le
restava che ritornarsene da dove era venuta.
Tuttavia, le sarebbe dispiaciuto lasciare Siviglia dove, più che mai, s'imponeva la
presenza delle scalze.
A malincuore, l'arcivescovo permise che si celebrasse la messa il giorno della
Trinità, senza suonare campane e neppure metterne, ma era già cosa fatta! Questo
significava condannare il nuovo Carmelo a perdersi nell'anonimato perché, senza una
campana che annunciasse l'uffizio, chi avrebbe mai potuto immaginare la sua
esistenza? (Fondazioni XXIV, 18, p. 207s).
Da Madrid, Graciàn scriveva all'arcivescovo una lettera dopo l'altra per deciderlo a
far visita alla fondatrice; sapeva infatti che, una volta stabilito il contatto, sua
eccellenza sarebbe stato subito ben disposto, rapito, conquistato. Al contrario,
beninteso, Maria-no raccomandava a Teresa di non scrivere all'arcivescovo per
esporgli le proprie lagnanze. Sua signoria tardava, delegava uno dei suoi familiari,
manteneva le distanze. Chi potrà mai spiegare i capricci dei grandi che si credono
servitori di Gesù Cristo?
Finalmente, di lì a venti giorni, in gran pompa, sua grandezza si presentò al
parlatorio di via de las Armas. Con la sua bella franchezza, la riformatrice non gli
nascose il torto che egli arreca-va al monastero. Sorpreso da un linguaggio così
schietto, al quale le sottigliezze sivigliane non lo avevano abituato, monsignor Cri-
stébal le disse « di fare quel che volesse e come volesse » (Fondazioni XXIV, 20, p.
209). Si sapeva bene da un pezzo quanto questa santa, semplice come una colomba ma
abile come un serpente, fosse esperta nel dosare l'amore di Dio e la diplomazia.
Chi, - vi domando - chi ha mai resistito alla Madre Teresa?
Da allora in poi, don Crist6bal fece scorrere sul Carmelo un fiume di generosità. Da parte sua,
ogni mese, arrivavano alla ruota del convento denaro e pane. Quando fu solennemente inaugurato il
monastero, il 3 giugno 1576, presiedeva egli stesso e dava all'insediamento delle carmelitane uno
splendore degno di Siviglia, poiché, in quel paese in cui le donne si adornano all'orientale, non si può
fare nulla sotto il manto della discrezione (Fondazioni XXV, 11, p. 215).

Conquistata la benevolenza episcopale, un altro problema preoccupava la Madre


fundadora.
Malgrado le affermazioni di Mariano - « numerose vocazioni assai ben dotate aspettavano le
scalze! » - nessuno le conosceva né andava a visitarle; per di più, la Madre era malata, e le altre
duramente provate dal clima.
152
A dire il vero, la solitudine delle fondatrici proveniva da un 'incompatibilità di
temperamenti. Checché ne dica Teresa, le postulanti non erano scoraggiate né dall'austerità né dal
rigore della regola, ma da certe difficoltà a dialogare (Fondazioni XXV, 2, p. 210s).
Siviglia è quasi femminile, gioiosa, esuberante; vestite di seta, sfoggiando cappellini, mantiglie,
gonne a ruota, ostentando un contegno affettato, le ragazze di questo paese non sembravano
abbastanza serie agli occhi delle Castigliane. A Siviglia, di giorno, di notte, si danza. Basta uno
zufolo, una chitarra all'angolo di una via, perché si organizzi un fandango. Il problema principale
èquello di trovare tempo a sufficienza per danzare, profumarsi, imbellettarsi e sedurre.
D'altra parte, provatevi a enumerare le ricchezze di questa città. Armatori, commercianti,
banchieri, trafficanti, la popolazione di un grande porto improvvisamente aumentata, arricchita dal
prestigio delle Indie Orientali. Nessuno oserebbe negare davanti a Dio che le sue vie, le sue botteghe,
perfino le sue chiese pullulino di gentaglia poco raccomandabile. « A Siviglia, - commentava Miguel
de Cervantés - tutto si compra, anche il Santissimo Sacramento! ».
Se Teresa, al tempo dei suoi quindici anni, fosse capitata nel mondo delle sue /erias, delle sue
processioni e delle sue feste continue, senza dubbio ci si sarebbe trovata bene e a proprio agio come
un pesce nell'acqua. Ma veniva lì con i suoi sessant'anni passati, la sua vita austera, la sua esperienza
delle doppiezze del cuore e delle sue vanità. Troppo santa per un'umanità troppo umana.
Lo confessa ella stessa: si sentiva vile, trasformata da quel clima umido, torrido, da quella
sensualità a fior di pelle. Il coraggio le veniva meno, così come si dissolve ogni energia sotto un sole
infiammato, mentre il sudore vischioso copre le membra e indebolisce il minimo sforzo, anche prima
dello spuntare del giorno (Fondazioni XXV, 1, p. 210). Paese d'inferno, collera del diavolo, valle di
tutte le tentazioni: ecco descritta l'Andalusia e la sua capitale agli occhi delle Castigliane.
Ahimè! lo proclamavano troppo ad alta voce, quelle carmelitane, con un fondo di rigidezza e di
aggressività così maldestra che la sensibilità andalusa ne sarebbe rimasta per sempre ferita. Si faceva
il vuoto intorno a quelle donne venute dal nord, troppo consapevoli, malgrado la loro evidente
santità, di essere riformatrici di un popolo decisamente dissoluto.
Alla fine, tuttavia, diverse postulanti bussarono alla porta. Beatriz de Chaves, penitente del padre
Graciàn, sulla quale la Madre non lesina gli elogi (Fondazioni XXVI, p. 2 l8ss), poi altre due suore,
Margarita Ramirez e Ana Sànchez.
Ma l'avvenimento sensazionale fu l'entrata di una « beghina, messa sugli altari da tutta la città».
Persone di riguardo vennero in parlatorio a perorare la sua causa: Madre, se non la prende, si priva di
un'autentica serva di Dio. - Si chiamava dona Maria del Corro, di età matura, devota,
altamente stimata da alcuni rinomati direttori spirituali. Entrando in convento,
s'immaginava di godervi della stessa fama di cui godeva nei circoli sivigliani e, quindi,
degli stessi riguardi. Aveva un'arte meravigliosa per scusarsi di tutto: « Ah! no, non
poteva mangiare i piatti della cucina del convento: era malata! ». Oppure: « Non era il
modo di nutrirsi in questo paese ». « Lo facevo osservare alla Madre - nota Maria de
San José -ma mi rispondeva che bisognava pazientare, che col tempo si sarebbe
adattata. E le permetteva di confessarsi da sacerdoti della città ».
All'improvviso, senza avvertire nessuno, lasciò la comunità, portandosi dietro un'altra novizia
dello stesso stampo. Era il mese di novembre del 1575. Per giustificare la sua partenza, diceva peste
e corna delle carmelitane e concludeva con un sospiro di tristezza: « Quelle donne hanno dei modi
d'alumbrados (falsi mistici) ».
La grande sivigliana, delusa più di se stessa che delle suore, rimuginò la sua vendetta, d'accordo
con il suo confessore: una denuncia nella debita forma.
Non c'era che da avvertire l'Inquisizione!
Trentacinque anni senza rivedersi.
Ora, ritornava in Spagna quel fratello diletto, Lorenzo de Cepeda. Era già sbarcato a Sanlùcar.
Il 12 agosto 1575, Teresa scriveva alla sorella Juana, con grande gioia: « I suoi fratelli sono già a
Sanlùcar: Lorenzo, Pedro, a cui è morta la moglie... il buon Jerònimo de Cepeda è morto come un
santo nel Nome di Dio... Mi dicono che saranno qui entro due o tre giorni. Godo per loro nel farmi
trovare così vicina, e ammiro la Provvidenza di Dio nel condurmi ora qui quelli che mi parevano così
lontani » (Lettere 12.8.1575, p. 237s).
153
Effettivamente, attraverso la grata del parlatorio, non finivano più di guardarsi: i
capelli imbiancati, le rughe sul viso e tante sofferenze patite, l'uno e l'altra. Invecchiati, così lontani
dall'infanzia...
- Juana, mia moglie - spiegava Lorenzo - ci ha lasciati per il cielo, a Quito, il 14 novembre 1567.
Ho dunque voluto tornare in Spagna e ho chiesto al re un permesso di due anni. Abbiamo avuto sette
figli. Tre sono morti alla nascita; durante la traversata, Esteban ci ha lasciato. Aveva dodici anni; Dio
abbia pietà di lui!
Così dicendo, Lorenzo si asciugò una lacrima.
- Ma ecco Francisco, a quindici anni già un gentiluomo in erba; Lorenzo, di tredici
anni, che somiglia a sua madre; Teresita, con i suoi nove anni compiuti, che, come già
vanno dicendo, è il ritratto vivente di sua zia.
Teresa non credeva ai suoi occhi.
Così, su quella terra inospitale, in quella città piena di traffici, di piaceri e di
peccati, in cui contro di lei si coalizzavano tante forze oscure, il Signore le mandava
Lorenzo, il fratello preferito. Non gli restavano che cinque anni di vita, ma li impiegò
magnificamente a servizio di sua sorella e della riforma.
Le elemosine cominciavano ad affluire al povero monastero di via de las Armas.
Sul libro dei conti, si legge un primo versamento dii 3.600 maravedi, seguito poco
dopo da un altro, di 52.200 maravedi.
Maria de San José chiama Lorenzo il « secondo fondatore della casa di Siviglia ».
Avrebbe davvero meritato il titolo di « carmelitano ».
Arrivava malato, e la Madre si preoccupava molto per la sua salute. « E così
virtuoso e così gran servo di Dio, che se anche non fosse mio fratello, non potrei fare a
meno di amarlo. Ha un'anima molto bella » (Lettere 28.8.1575, p. 240).
Lo avevano ben capito le carmelitane che, attraverso Maria de San José, lo
definirono « mente acuta e cuore generoso ».
Se Pedro de Ahumada, con i suoi cinquantaquattro anni, non sembrava provenire
dalla stessa famiglia - vedovo taciturno, ebbe la velleità di diventare gesuita, ma la sua
« mania monastica » non ebbe e non avrà seguito (Lettere 10.4.1580, p. 931)
-Lorenzo, invece, si convertì ad un'autentica vita spirituale.
Si mise alla scuola della sorella maggiore, la santa fondatrice. Malgrado la sua
ricchezza, trovandosi in una situazione di relativa povertà, corse a Madrid a perorare i
suoi diritti, chiedendo che venissero riconosciuti i servigi che aveva reso al re e al
reame. Ma Filippo Il aveva altre preoccupazioni, e il tesoro pubblico oneri troppo
pesanti perché venisse gratificato quel gentiluomo, valoroso combattente nelle lotte
d'oltremare. Sia pure! perisca la riconoscenza con i suoi ducati sonanti!
Le feste di natale del 1575 riunirono tutta la famiglia a Siviglia. Juana e il marito, Juan
de Ovalle, si recarono in Andalusia. Nelle sue lettere (Lettere 30.12.1575, p. 263ss), la
Madre parla di questa gioia e del buon accordo che regnava fra tutti. Questo ci
rassicura sui sentimenti familiari di una donna di cui erano ben note la riservatezza e la
severità quando si trattava dei rapporti delle monache con la loro parentela.
« Ancora, Terecia, narraci un'altra storia di Indiani, oppure ricomincia il racconto della tempesta ».
Lo si crederebbe? La figlia di Lorenzo entrava in convento. La cosa sorprende le nostre menti
moderne. Non c'è nulla da dire per giustificare l'entrata nel Carmelo di quella bambina, nipote della
Madre fundadora, che più tardi farà professione a San José di Avila. In quel tempo, divertiva le suore
con il suo accento esotico e l'arte di raccontare le sue avventure nel paese di Quito. Si sapeva
perfettamente da chi aveva preso...
La sua vocazione al Carmelo sembra non aver posto alcun problema, ma, vivace e
154
intransigente - simile in ciò alla Madre -si oppose spesso a sua zia. Decisamente,
quei Cepeda, chi sarebbe riuscito ad ammansirli?
L'arrivo di Lorenzo, l'entrata di Terecia - come l'aveva soprannominata la comunità
contraffacendo il suo accento di laggiù
- segnavano una tappa. Il nuovo convento emergeva dalla miseria e dall'anonimato.
Illustri personaggi s'interessavano alle scalze. Il priore dei certosini, don Hernando de
Pantoja, nativo di Avila, era andato a far visita alla riformatrice. Lui, che non usciva
mai, era stato visto in via de las Armas. Presentandosi con le braccia cariche di doni,
quel santo uomo accreditava le Castiglia-ne forestiere di cui tutta la città avrebbe
presto sentito parlare, e come!

Al crepuscolo di Siviglia, tutto s'illumina dall'alto.


Non parlo della Giralda, la mirabile torre della cattedrale, immenso pistillo d'oro
al sole della sera, circondato come una grandiosa corolla da terrazze, tetti e palazzi
già invasi dall'ombra.
Voglio rievocare i giardini di Murillo, indugiare con lo sguardo sugli alti rami delle
palme dove vibrano onde di luce, mentre al di sotto la giungla floreale sprofonda nelle
tenebre.
Quale simbolo di questa fondazione difficile, nella più difficile delle città! La Madre
ha qui sofferto, faticato, pianto, più che in ogni altro luogo; qui ha iniziato uno strano
calvario. Fray Juan de la Miseria ha tradito il suo pennello quando ha solcato di rughe,
deformato il viso, ombreggiato con le occhiaie le pupille leggermente sporgenti della
riformatrice?
Teresa consumava le sue ultime forze nel faticoso lavoro delle fondazioni, ma per
farne « scaturire quale splendore! ».
« Se ci riflettete bene, - scrive parlando del Carmelo di Caravaca, fondato nel 1576 senza che la
Madre vi andasse personalmente - vedrete che queste case, per la maggior parte, non sono state
fondate dagli uomini, ma dalla mano potente di Dio, e che Sua Maestà si compiace grandemente di
far progredire sempre le sue opere, se non manchiamo di corrispondergli. Come pensate che una
donna dappoco come me, soggetta ad altri, senza avere neanche un soldo né alcuno che la favorisse
di qualche soccorso, potesse essere capace d'intraprendere cose tanto difficili?... Non ègiusto, da
parte nostra, menomare in nulla la sua opera, dovesse pur costarci la vita, l'onore, il riposo... La vita,
infatti, è vivere in modo da non temere la morte né qualunque evento del mondo, godere di questa
continua allegrezza ch'è ora in tutte voi, e di questa prosperità, a cui nessuna è pari, che consiste nel
non aver paura della povertà, anzi, desiderarla... Piaccia a Sua Maestà di proteggerci sempre, e darci
la grazia di non. mostrarci ingrate verso tanti favori ricevuti! Amen » (Fondazioni XXVII, 11, 12,
16, pp. 231-234).

3 - Come Davide innanzi all'arca

A Valladolid, avevo ritrovato il padre Domingo Bàfiez. Eravamo usciti insieme fino
all'università Santa Cruz. A quell'ora in cui la siesta spopolava le vie, il piccolo
giardino con le sue ombre e la sua fontana ci offriva, al di là del patio principale, un
luogo, un istante di calma e di pace. Seduto presso la vasca della fontana, lo stavo ad
ascoltare, mentre il suo abito bianco si rifletteva, come chiazza spezzata, in mezzo alle
ninfee.
- Ero qui, nel nostro monastero di San Gregorio, negli anni 1575-1576, quando fui
chiamato all'Inquisizione. Da Cordova e da Siviglia era arrivato un incartamento.
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Naturalmente, trattava delle "visioni" della Madre Teresa de Jesùs. S'indagava
sul « libro » che aveva scritto. Poiché l'avevo ascoltata ad Avila e a Salamanca, il
tribunale sollecitava una mia censura scritta. La redassi. Lei sa come è stata poi
pubblicata, nel corso delle diverse edizioni delle sue opere. Ma il problema si
inaspriva terribilmente poiché, al di là dei sospetti inquisitoriali, si manifestavano i
prodromi di una crisi da cui la riforma carmelitana stava per essere tremendamente
scossa.
- Confesso di aver cercato molte volte - dissi - di trovare il bandolo di questa matassa,
senza riuscirvi completamente. Sono sicuro che, trovandosi fuori della mischia, lei
potrebbe spiegarmene i fatti più salienti.
- Claro, senor', mi ci proverò volentieri.
« Dovremmo parlare anzitutto di un conflitto di giurisdizione.
« Da una parte, il padre generale dei carmelitani, Rubeo, sostenuto dal capitolo
generale, aperto il 22 maggio 1575 a Piacenza; dall'altra, il padre Graciàn, protetto dal
nunzio Ormaneto, e per tutto dire, dal re, del quale suo fratello era il segretario.
« A Piacenza, Graciàn è attaccato. I carmelitani calzati, in Andalusia, non sopportano
la sua ingerenza. La Madre fundadora calunniata, "dietro informazioni di persone
faziose", e imputata di due colpe molto gravi". Teresa parla nelle sue Fondazioni
(XXVII, 19, p. 236) di questi intrighi di cui è perfettamente informata.
« Frattanto, il padre Rubeo e i membri del capitolo ottengono da Roma
l'annullamento dei poteri dei visitatori apostolici e, quindi, del padre Graciàn.
« Il nunzio, vedendo che la riforma della Madre era compromessa, chiede alla Santa
Sede nuovi poteri e nomina Graciàn visitatore di tutti i carmelitani e le carmelitane
della Castiglia e dell'Andalusia.
« Il 12 agosto 1575, Teresa scrive a sua sorella Juana: "Ventura più bella non ci poteva
capitare" (Lettere 12.8.1575, p. 239).
« Poiché l'autorità del papa è superiore ad ogni altra, nessuno può dubitare che Graciàn
e la fondatrice fossero dalla parte della ragione.
« Del resto, non vi furono problemi per le visite che il padre Graciàn fece nei monasteri della
Castiglia. A detta della Madre, "anche Seneca", Fray Juan de la Cruz, si mostrò contentissimo. "Dice
di aver trovato nel suo superiore più di quanto poteva desiderare. Non fa che ringraziarne il Signore"
(Lettere ottobre 1575, p. 252).
« Ma, per l'Andalusia, le cose andavano diversamente!
« Lei sa, sen or, le enormi difficoltà che il padre generale incontrò presso i carmelitani
di quella provincia nel 1566. La situazione non era molto cambiata, ma la nomina del
padre Graciàn come visitatore dei due rami dell'ordine portava al colmo l'esasperazio-
ne dei calzati andalusi.
« Lei conosce la Madre.
« Consigliava la prudenza: "Se non si sottomettessero, ecco un mio parere: non lanci
scomuniche senza aver prima esaminata bene la situazione" (Lettere novembre 1575,
p. 260).
« Mariano, sempre eccessivo ed esaltato, consigliava la maniera forte. Il 21 novembre 1575, il padre
Graciàn, accompagnato dal padre Antonio, si presentò al convento dei calzati di Siviglia. Venne letto
il breve che incaricava il visitatore. Grida, tumulto, subbuglio. I monaci richiudono le porte sugli
intrusi. Qualcuno corre a raccontare alla fondatrice che Graciàn era stato ucciso. Grande turbamento
di cui il Signore la rimprovera: « Donna di poca fede! ». Il visitatore è sano e salvo. Ma alla fine, di
fronte alla cattiva volontà dei calzati, si dovette arrivare alla scomunica.
« Il visitatore riorganizza la casa, la provincia, fa e disfa i priori. Da parte loro, gli
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scomunicati replicano con una campagna di calunnie.
« Lei sa, senor, come sono gli uomini quando le passioni si esasperano:
« "Come!", andavano strepitando, "Graciàn non è che uno zimbello nelle mani di una
donna!". E aggiungevano un mucchio di scandalose sciocchezze contro la Madre
fundadora.
« "No! Teresa non era certo donna da prendersela per le maldicenze. Quanto più
queste erano grossolane e oltraggiose, tanto più rideva della mia angoscia", raccontava
Graciàn.
« Ma, in segreto, la Madre scriveva alla priora di Valladolid:
"Non abbiamo più testa per far canzoncine... Preghiamo molto per nostro padre
perché oggi una persona grave ha detto all'arcivescovo che può anche essere ucciso"
(Lettere 30.12.1575, p. 268).
« Ho sempre ammirato la maestria e il senno dimostrato dalla santa Madre in questo
ginepraio di difficoltà, - concludeva il padre Bànez. - Ella insorge contro Mariano le
cui topiche hanno complicato tutto. Invita Graciàn a spiegarsi con il generale. Equi-
librio, moderazione, visione realistica delle cose; anzitutto, amore della pace.
... Ah! se l'avessero lasciata fare! ».
- Eppure, credo di sapere, padre, che questa povera donna cadde proprio nella più
completa disgrazia.
- Sì, rispose il domenicano. - Ella stessa scrive al padre Rubeo: "Ho saputo del decreto con il
quale il capitolo generale mi ordina di scegliermi un monastero e di non uscirne più... l'assicuro che
non solo starei volentieri in un monastero, come ben mi conviene per avere un po' di pace e di
tranquillità, ma, se sapessi di farle piacere, accetterei con gioia di passare in carcere tutto il resto
della mia vita" (Lettere gennaio 1576, p. 274ss). In effetti, era condannata a non fare altre fondazioni
e a rinchiudersi definitivamente in un convento scelto come sua dimora. Sarebbe partita subito, ma
era inverno e la fondazione di Siviglia non era ancora terminata. Malgrado ogni ordine contrario; il
padre Graciàn, che aveva ogni potere, le ordinava di restare nella capitale andalusa.
« Donna straordinaria, sen or, lo deve ammettere, e mi permetta di aggiungere questo
particolare: mentre il cielo crollava su di lei e la sua opera era compromessa, vengo a
sapere dalla priora di Valladolid, Maria Bautista, sua cugina, che la Madre si interessa
della salute di me, Domingo Bàfìez, che "si preoccupa che io sia ben coperto e che la
incarica di trasmettere tanti saluti da parte sua al suo umile servo" (Lettere 30.12.1575,
p. 268).
« Deve riconoscere che un simile disinteresse non è molto comune, nemmeno nei
conventi! ».

Il padre s'immerse in un improvviso silenzio. Si udiva soltanto il mormorio


dell'acqua nella vasca della fontana dove si agitava, rapido, un insetto. Lo seguimmo
con lo sguardo, così come si prolunga un pensiero, mentre, di fuori, dalla piazza Santa
Cruz, saliva il grido di un mulattiere.
- E in tutta questa faccenda - interruppi - quale fu il ruolo dell'Inquisizione?
- Questo è un altro discorso. Quando ritornò dalla Castiglia, il padre Graciàn mi
raccontò che un inquisitore suo amico lo aveva avvertito: si stavano Iramando
gravissime accuse contro la fondatrice. Siviglia era in subbuglio. Era stata da poco
condotta al patibolo dona Catalina, di cui tutti celebravano la santità, ma che era
soltanto una povera visionaria...
« "La Madre mi sconcertava", mi spiegava il visitatore, "poiché, quando parlavo di
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tutte le accuse alle quali era fatta segno, si stropicciava le mani per il piacere e
ripeteva: Taci, padre. La santa Inquisizione si preoccupa della fede. Non darà noie a
chi la possiede quanto me!
« Oppure, aggiungeva: "Dio voglia che ci brucino tutti per amore di Cristo! Non
temere: in materia di fede, per grazia di Dio, nessuna di noi è in difetto. Piuttosto
affrontare mille morti!".
« Non perdette mai la sua serenità.
« A questo proposito, la priora di Valladolid mi ha citato spesso un brano di una sua lettera: "Non
valse a farmi perdere la pace neppure il pensiero del gran danno che ne poteva venire a tutte le nostre
case. Gran cosa è la sicurezza di coscienza e la libertà di spirito" (Lettere 29.4.1576, p. 286s) ».
- E il padre Graciàn - chiesi - che cosa pensava di tutte queste accuse?
- Por Dios! - mi rispose il padre Bànez capì l'errore che aveva commesso, a Beas,
costringendo la Madre a recarsi a Siviglia per fondarvi un monastero e vedeva
chiaramente come l'avrebbe pagata cara. Il Signore ne aveva avvisato la fondatrice.
- Ma per venire al nocciolo del problema, quali erano le colpe di cui l'Inquisizione
accusava la santa di Avila?
- Ne ho appreso il tenore da una nota firmata da due teologi di Siviglia, i licenziati
Carpio e Pàramo. La Madre e le sue figlie erano sospettate "d'illuminismo" e di
"pratiche estranee alla fede cristiana". Sarebbero cadute in superstizioni e abitudini
simili a quelle degli illuminati dell'Estremadura. Il loro monastero non sarebbe stato
altro che una conventicola di eretici.
« Si sapeva bene da chi partiva questa marea di sospetti. Anche la Madre lo sapeva: si trattava
proprio di dofia Maria del Corro, "la novizia uscita di monastero" (Lettere 29.4.1576, p. 286), le
cui deposizioni provocarono l'arrivo dell'Inquisizione al Carmelo.
« - Padre, - mi confidò il padre Gracian - immagini la mia emozione quando, verso la
metà di febbraio del 1576, vidi la via de las Armas, che è molto ampia, affollata da
mule, cavalli, alguacils. La gente si ammassava; gli ultimi si alzavano sulla punta dei
piedi per godersi lo spettacolo. Avevano visto sventolare lo stendardo
dell'Inquisizione. Gli inquisitori interrogavano, frugavano. Fra poco sarebbero uscite,
quelle monache forestiere, venute dal di là della Sierra e sarebbero state condotte a
Treiana, con le mani incatenate.
« Un ciabattino, con il grembiule rialzato, dava il tono:
« - Ve l'ho sempre detto io: la sventura viene dal nord!
« - Dove sono stati bruciati più eretici, se non a Valladolid?... Qui, la terra andalusa è
terra di Maria, tierra de Mar(a, e brucia i piedi del demonio.
« Nel parlatorio, i giudici proseguivano l'interrogatorio. Un cancelliere annotava:
« - E esatto che sospendiate le monache per le mani e i piedi e le battiate a colpi di
verga? (Lettere 29.4.1576, p. 287).
« - Perché, al momento di ricevere la comunione, vi passate i vostri veli? (nessuno
sospettava il vero motivo: le suore non ne avevano abbastanza).
« - Perché, dopo la comunione, vi voltate dall'altra parte, con la testa contro il muro?
« Gli inquisitori non sapevano quanto il sole fosse molesto. Le carmelitane ricevevano
la comunione in un patio in cui il riverbero dell'estate era insopportabile.
« Eccole, quelle famose cerimonie cabalistiche di cui la fallita novizia si faceva beffe.
« Si riferivano poi altre accuse più indecenti che davano mordente alla requisitoria.
« In realtà, gli inquisitori si resero conto ben presto che le accuse della denunciante
erano farneticanti. Ma i tempi erano agitati; gli illuminati di Lerena avevano fatto
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molto parlare di sé; infine, quel monastero povero, in uno dei più bei
quartieri di Siviglia, aveva un'apparenza miseranda ed era abitato da donne forestiere!
« Del resto, siccome non c'è voce senza fondamento, nel Carmelo si trovava
effettivamente una malata, Isabel de San Jer6nimo. Si racconta che il fuoco di Siviglia
avesse eccitato l'immaginazione di questa povera esaltata. La novizia respinta aveva
sporto denuncia nello stesso tempo contro di lei e contro la fondatrice ».
- Ma, serior, - interruppi il domenicano - quale è la comunità di uomini o di donne in
cui non si possa rilevare un punto debole?
- Teresa non si lasciava ingannare da quella « malinconica »(così la chiama) e
consigliava: « Converrà comandarle di mangiar carne per alcuni giorni, dispensarla
dall'orazione... è d'immaginazione così fervida che crede di vedere ed udire tutto
quello che medita » (Lettere 23.10.1576, p. 399).
« Tuttavia, a Siviglia come altrove, i teologi vollero sincerarsi della verità. La santa
veniva accusata di visioni, difatti straordinari riportati nel Libro della mia vita. In quel
tempo, io, Domingo Bàùez, avevo questo famoso libro nelle mie mani.
« Fu dunque prescritto a Teresa d'intrattenersi con tre teologi gesuiti: i padri Enrique
Enriquez, Rodrigo Alvarez e Jorge Mvarez. Il secondo, Rodrigo Alvarez, confessore
di tutta Siviglia, si mostrava il più incredulo sul conto della fondatrice.
« Lei ha letto, sen or, le relazioni IV e V, scritte nel 1576 e avrà di certo notato la
maestria di cui dà prova la santa Madre. Maneggia già la penna con la quale, un anno
dopo, redigerà il Castello interiore.
« I censori designati poterono, con loro grande stupore, vedere la lista di confessori,
maestri spirituali, teologi e santi presso i quali aveva cercato lumi, critiche,
approvazioni: da Juan d'Avila a Francesco Borgia, da Pedro d'Alcàntara a Baltasar
Alvarez. Impressionato da questi testimoni di così alta classe, il padre Enriquez diede
il proprio consenso totale »...
La campana della vicina cattedrale annunziava l'uffizio dei canonici. Capii che il padre
Domingo Bànez stava per lasciarmi poiché, consultore all'Inquisizione, professore
incaricato, non gli piaceva perdere tempo.
- Potrebbe lei - chiesi - dare una conclusione a questa prima fase della crisi di cui fu
teatro Siviglia?
- Senza esitare, senor. E la più commovente, se non la più sorprendente. Leggerà
queste righe nel capitolo XXVII de Le bndazioni. La santa ha appena ricordato le
censure di cui è stata vittima al capitolo generale dei carmelitani e i provvedimenti
decisi contro di lei: « Vi dico, sorelle, che tale notizia non solo non mi rattristò, ma mi
procurò tanta gioia, che ero fuori di me. Per conseguenza, non mi stupisco di quel che
faceva il re David, precedendo l'arca del Signore, perché anch'io non avrei voluto fare
altro, essendo tale la mia felicità da non sapere come dissimularla » (Fondazioni
XXVII, 20, p. 236s). E evidente che le pene non appesantivano questa donna, ma
rendevano anzi il suo piede così leggero, che era dominata da un solo desiderio: come
Davide, danzare di gioia innanzi all'arca.

Verso le due del mattino, il 4 giugno 1576, la Madre lasciava Siviglia. Il giorno
precedente, l'arcivescovo stesso aveva tenuto ad inaugurare il nuovo monastero di via
de la Pajeria, in mezzo alle solennità e all'entusiasmo popolare abituali in Andalusia.
Con grande stupore della Madre, quando tutto fu finito, alla presenza dei religiosi e dei
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confratelli, il signor vescovo si mise in ginocchio « davanti a questa povera
donna » e le chiese la sua benedizione.
Adesso si procedeva gaiamente verso Almodòvar, grazie a una vettura noleggiata da
don Lorenzo de Cepeda.
- Ebbene! - esclamò Lorenzo - che ànno ha passato a Siviglia? E arrivata li come
una forestiera; vi è stata trattata ingiustamente, sospettata. La festa di ieri, la
contentezza dell'arcivescovo, la casa assai comoda e bella, i molti amici lasciati sulle
rive del Guadalquivir dimostrano che non ha seminato in un suolo sterile.
- Taci, Lorenzo! - replicò la Madre. - « Sia benedetto colui che ha fatto tutto ciò!...
Piaccia a Sua Maestà di proteggerci sempre, e darci la grazia di non mostrarci ingrate
verso tanti favori ricevuti! » (Fondazioni XXVII, 16, p. 234).

4 - « Nella Trinità, a Toledo »

Salire dalla fornace andalusa alla città imperiale, emergere dai suoi calori soffocanti,
dalle sue esalazioni, dalle sue mollezze, per scoprire, alta, placida sullo sfondo del
cielo, la città del Tago, è come andare in un altro universo.
Ci sono altri inferni, altri luoghi putridi e inabitabili, in quell'anno 1577 in cui la
persecuzione contro la riforma si accanì in maniera più perfida sulla fondatrice e sulle
sue opere.
Non mi sono mai aggirato per Toledo, di primo mattino o nel breve crepuscolo,
senza rievocare quel tempo di sofferenze e di gloria che visse qui la santa di Avila.
Non posso risalire, dalla Puerta del Sol, quella via Nunez de Arce, un tempo via «
Torno de las Carretas », passare davanti al secondo Carmelo della Madre, senza
ricordarmi quel periodo di circa tredici mesi in cui ella vi si prodigò (giugno 1576-
luglio 1577).
Era la sua « prigione » d'elezione, poiché il capitolo generale le aveva ordinato di
scegliere un monastero e di non uscirne più.
Sospetta, quasi sottoposta a mandato d'arresto: c'era di che annientare una donna meno
forte che quella sorella di hidalgos e di soldati. Pretendono di fermare la sua opera,
ma, per quel che la riguarda, nulla le impedirà di continuare.
Sono dieci anni che dofla Luisa de la Cerda ha promesso un convento normalmente costituito a
Malag6n, ma non ha ancora fatto onore alle sue promesse. Il provvisorio si sta prolungando
all'infinito! La priora, Brianda de San José, è malata, laggiù nella disagevole casa della Mancia. « E
un male pericoloso, e verremmo a perdere in lei il miglior soggetto dell'ordine » (Lettere
15.6.1576, p. 299).
Adesso, la fundadora si stabilisce a Toledo e non pensa di uscirne « fino a quando
dona Luisa non abbia meglio sistemato il monastero » (Lettere 15.6.1576, p. 300).
« Cerco intanto di vedere come condurre a termine la faccenda di Malagòn », scrive 1'
11luglio 1576 a Maria de San José, a Siviglia. Il 5 agosto seguente, con
l'amministratore di dona Luisa, firma l'avvio dei lavori del nuovo Carmelo.
Stabilitasi per qualche tempo a Toledo, invece di smettere la sua attività, la
raddoppia. A Siviglia, aveva aiutato il padre Graciàn a redigere le costituzioni degli
scalzi. Nel mese di agosto del 1576, termina, sempre per il visitatore apostolico, i suoi
consigli per la « visita delle scalze ». Un piccolo libro che « sembra insegnato da Dio
» (Lettere agosto 1576, p. 324).
Ed ecco che sempre lo stesso visitatore le ordina di continuare a raccontare le
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fondazioni. Teresa scrive al fratello Lorenzo di inviarle da Avila carte e
appunti per poter proseguire il lavoro. Finì questa parte de Le londazioni con il
capitolo XXVII, il 14 novembre 1576, come afferma ella stessa (Fondazioni XXVII,
23, p. 239).
Non le restavano che quattro capitoli da redigere per terminare il racconto della sua
opera... come i giorni della sua vita.
Por Dios! come si trova bene a Toledo! Questa casa, dotata di un patio e di due
giardini, nell'estate arida, ma con le mattinate fresche, le fa bene. « Ho una celletta
assai graziosa ed appartata con una finestra sul giardino. E non sono assediata da
troppe visite » (Lettere 24.7.1576, p. 319).
« Se non avessi tutte queste lettere che non finiscono mai!...
Parliamo dunque di queste lettere!... Per questo solo periodo di un anno molto pieno,
ne contiamo almeno 96, ma pensiamo che alcune si siano smarrite.
Due anni più tardi, a Salamanca, si sentirà la Madre lamentarsi con la sua infermiera e
segretaria analfabeta, Ana de San Bartolomé:
« Ah! se tu sapessi scrivere, mi aiuteresti a rispondere a questa corrispondenza! ».
Effettivamente, stava divenendo un incubo per la fondatrice:
in primo luogo, le faccende della riforma. La situazione è sempre più complicata; i
volponi stanno in agguato da ogni parte. I suoi messaggi rischiano di essere
intercettati; perciò ella adotta un linguaggio sibillino. « Matusalemme », è l'amico
sicuro, ma molto anziano: il nunzio Ormaneto. Le « aquile »: gli scalzi. Le « farfalle »:
le scalze. I « gatti »: i calzati. « Pablo »: Graciàn. « Angela »:
Teresa stessa. « Giuseppe »: Nostro Signore.
Da ragazza, Teresa ha apprezzato troppo i romanzi dall'intreccio complicato per non
assaporare un reale piacere a muoversi in questo paesaggio verbale colorito e
misterioso.
Uscita dalle complicazioni di giurisdizione e di governo, ella deve affrontare piccoli
particolari: la purga della priora di Siviglia, il tessuto delle tuniche, il pagamento del
corriere e le doti delle postulanti. Vuole sapere « per filo e per segno » tutto ciò che
succede: non per mania di controllare tutto, ma perché sente quanto la sua opera,
ancora fragile, rischia il naufragio, soprattutto a causa dei venti di tempesta che
scuotono l'ordine.
Si badi, per esempio, alla selezione delle postulanti. Teresa scrive a Mariano:
« Da noi le monache, dovendo essere in poche, conviene che siano ben scelte. Se con alcuna finora
non siamo state tanto esigenti - e dico solo con alcuna - ci siamo poi trovate così male che abbiamo
deciso di stare più attente per l'avvenire » (Lettere 21.10.1576, p. 382).
Il pericolo, agli inizi, proviene dagli eccessi e, talvolta, dalla mancanza di giudizio.
Dall'Incarnazione - chi lo avrebbe creduto? - si è trapiantata l'usanza di « dare uno
schiaffo a un'altra » e di « darsi pizzicotti ». Strana maniera di far praticare la
penitenza! La fondatrice lo proibisce: « Esse non sono delle schiave. La mortificazione
non deve ad altro servire che al profitto delle anime »(Lettere 11.11.1576, p. 425).
Costante rimane in lei la cura d'insegnare. Suo fratello Lorenzo si è posto sotto la sua «
direzione ». « Dormire almeno sei ore. Evitare le penitenze troppo severe. Non portare
mai il cilicio durante il sonno. Soprattutto curare la salute! ». Ha il diritto di parlare, lei
che vive in stato di perpetuo disfacimento fisico.
In ogni cosa, misura, moderazione. Forma purissima dell'amore di cui l'umiltà regola e
armonizza le esigenze.
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Graciàn stesso riceve un avvertimento: esagera. L~a\ \ ~nire lo rivelerà sta
andando al di là delle norme della saggezza. « Io non so perché vada in cerca di altri
travagli quando Dio gliene manda già tanti nei viaggi che fa elemosinando. Par quasi
che abbia sette vite, e che sciupata una, ne possa cominciare. un'altra » (Lettere
novembre 1576, p. 446).
Ah! Teresa non si crede di certo superiore alle altre. « Comincio ora a far la monaca », scrive a
Maria de San José (Lettere 19.11.1576, p. 433).
Teme forse di dare un'impressione di superiorità? Leggiamo in una sua lettera al
fratello Lorenzo: « Ora non ricordo più nulla! Testa di fondatrice che sono! » (Lettere
2.1.1577, p. 492).
In realtà, la testa la fa davvero soffrire.
« Raccomandi a Dio la mia povera testa che è ancora ammalata » (Lettere 28.5.1577,
p. 577). Tuttavia non si risparmia. Due giorni dopo natale, nella gelida cella di Toledo,
confida: « Saranno presto le due, le due di notte dico e non posso dilungarmi » (Lette-
re 27.12.1576, p. 479).
Ma il coraggio del suo cuore, l'ardore dei suoi affetti dànno a quel povero corpo
decisamente sfinito un ritorno di vigore: le missive delle sue priore, in particolare
quelle di Maria de San José, non saranno mai troppo lunghe. « M'inondano di così
gran gioia »(Lettere 9.9.1576, p. 340).
A chi non vorrebbe « aprire anche il cuore »? (Lettere 20.9. 1576, p. 350).
Sempre viva fu la sua partecipazione alle preoccupazioni per la Chiesa, il vescovo di
Segovia, il nuovo primate di Toledo, i grandi del regno. « Si preghi ora per don
Giovanni d'Austria che èpartito in incognito per la Fiandra sotto il nome di un
domestico fiammingo » (Lettere 2.11.1576, p. 407s).
Non si stancherà mai di esprimere la sua riconoscenza per il tonno arrivato fresco da
Siviglia, via Malagòn, l'acqua di fiore d'arancio, la sargia per gli abiti. Viva, presente,
precisa, attenta agli altri. Alla priora di Caravaca confida: « Godo immensamente nel
sapere che codesta casa sia così fresca e che non soffrano più come l'anno scorso. Se il
Signore lo volesse, vorrei venire costi a passare con lei qualche giorno. Così le lettere
e gli affari mi lascerebbero in pace e sarei felice d'essere vicina a codeste anitrelle e a
codesti corsi d'acqua » (Lettere 2.7.1577, p. 583).

Per il momento, non è in stato d'animo incline alle canzoni o alle bucoliche!
Dobbiamo riconoscere che non è molto interessante riprendere in continuazione il
racconto di quegli intrighi, di quei contrasti d'interessi. Ma la Madre fundadora,
malgrado le sue larghe vedute e la sua alta ambizione spirituale simboleggiata dal
belvedere toledano da cui sorveglia le forze contrapposte e i loro conflitti, si sente
presa ella stessa in questo turbine. Enorme appare la posta in gioco: l'avvenire della
sua opera.
Si, Graciàn è malvisto a Roma: è giovane, inesperto. È sconfessato dal suo generale,
dal capitolo, dal cardinal Filippo Buon-compagni, nipote del papa e protettore del
Carmelo; suo unico sostegno rimane il vecchio nunzio Ormaneto. Fa allora la sua
comparsa in Spagna il padre Tostado, vicario generale dei carmelitani. Sorvegliare,
contraddire, infine relegare Graciàn: questa èla sua missione. Riesce a circuire il
nunzio e a dichiarare che Graciàn è rimosso dal suo incarico di visitatore.
Il 17 giugno 1577, durante la notte, si spegneva Ormaneto. Teresa riassume con
chiarezza la situazione: « Sappia - scrive alla priora di Caravaca, Ana de San Alberto -
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che è morto il nunzio e che il padre Tostado è già a Madrid come vicario
generale, nominatovi dal reverendissimo nostro padre. Il re non gli ha ancora
permesso di cominciare la visita, ma non sappiamo come si andrà a finire » (Lettere
2.7.1577, p. 584s).
Come accreditarsi a corte, ottenere il consenso di sua Maestà il re cattolico, in poche
parole, eliminare per sempre Graciàn? Questa è la preoccupazione del padre Tostado.
Un aiuto insperato gli giunge da parte di Baltasar Nieto, personaggio losco, intrigante
e disonesto. Abbiamo visto questo carmelitano andaluso eletto priore di Pastrana dopo
aver condotto una vita scandalosa presso i calzati del Guadalquivir.
Il 29 agosto 1577, entra in carica a Madrid un nuovo nunzio:
Felipe Sega. Il padre Tostado si affretta a raccontargli i suoi dispiaceri e tutti e due
si accordano per tentare con ogni mezzo di ottenere dalla corte pieni poteri sugli
scalzi.
Frattanto, Dio ordina alla Madre di far passare il primo convento della riforma, San José d'Avila,
dalla giurisdizione del vescovo a quella dell'ordine come tutte le altre fondazioni (Fondazioni
Epilogo, 1-2, p. 320). Era un bene, come dimostrerà l'avvenire. Perciò, alla fine di luglio del 1577,
Teresa partì da Toledo per vivere cinque mesi molto difficili nella sua città natale. La tempesta
arrivava al parossismo.
Teresa stessa scriveva in una sua lettera: « Quelli che vogliono godere di Colui che
ha voluto la sofferenza devono passare attraverso simili prove ».

Alta gabbia stellata, la notte di giugno a Toledo si riempie del mormorio del Tago,
perché, spente le luci del giorno, cessato finalmente il suono dei campanoni e delle
campane, rientrata la folla nelle proprie case, nell'aria notturna si leva soltanto il rumo-
re del fiume e il canto dei mulini. Nel monastero di San José, una cella è ancora
illuminata. Seduta per terra, su una piastra di sughero, con un foglio posto su un
panchetto di pietra, sotto la finestra - il poyo - la Madre inizia una grande opera, il suo
capolavoro: il Castello interiore.
« Comincio oggi, giorno della Santissima Trinità dell'anno 1577, in questo monastero
di San José del Carmine, a Toledo, dove sto presentemente »...
Dio sa - lo abbiamo ricordato in breve - se la situazione dell'ordine appare difficile.
Anche la salute non va affatto bene!
« Quanto alla mia testa il miglioramento che provo è nel sentirmela non tanto debole,
almeno da permettermi di scrivere e di lavorare un po' più del solito, ma il ronzio che
vi sento è sempre il medesimo e molto penoso... » (Lettere 28.6.1577, p. 581).
Con la Madre, sappiamo bene come regolarci quando si tratta di sofferenze fisiche.
Se si scansa il lavoro « un giorno perché abbiamo mal di testa, il giorno dopo perché
siamo stati male; i tre giorni successivi per paura di stare male », non si intraprenderà
nulla! (Cammino, manoscritto Escorial XVI).
D'altra parte, la riformatrice è mossa da una forza: la forza dell'obbedienza che può appianare cose
all'apparenza impossibili (Castello, Prefazione, p. 259). A richiesta di Graciàn e per ordine del dottor
Velàzquez, allora suo confessore, Teresa si mette all'opera. Quando lascerà Toledo, alla fine di luglio
del 1577, avrà composto fino al capitolo IV della quinta dimora. Ad Avila, in ottobre e novembre,
terminerà il suo lavoro. Secondo la testimo nianza di Maria de San Francisco, la Madre rispondeva
gentilmente a chi veniva ad interromperla: « Si sieda un momento, hermana. Mi permetta di annotare
quello che mi ha suggerito nostro Signore, per paura che me ne dimentichi ».
Quando tutto fu terminato, la vigilia della festa di S. Andrea, il 19 novembre 1577,
Teresa oserà scrivere al padre Gaspar de Sala-zar: « Questo libro è molto migliore,
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perché non vi si vede che Dio » (Lettere 7.12.1577, p. 620).
Così, tutto cominciava a Toledo, la città dei suoi padri, nelle ore più buie della sua
vita, le più mature e le più serene della sua santità.

Allo spuntar del giorno, sono andato a sedermi su quella parte delle mura di Toledo
che domina il ponte d'Alcàntara, proprio vicino al convento, oggi distrutto, dove Juan
de la Cruz fu tenuto prigioniero per la sua fedeltà all'Ordine del Carmelo. Nel vasto
silenzio del giorno nascente non ancora profanato dai turisti, ho ripreso il modesto
quaderno in cui alcune citazioni riassumono per me « le dimore ».
Ah! chiedo perdono agli intenditori e ai sapienti! Come potrebbero ritrovare in alcune
brevi frasi l'affiato e lo slancio di questo capolavoro? Ciascuno legge con le proprie
pupille, l'occhio attento al particolare che lo colpisce, all'arabesco verbale, a quel
balenio di daga che nel castigliano di Teresa rivela tutto il suo fuoco.
« Che cosa possiamo fare noi per un Dio così generoso che èmorto per noi, che ci ha
creati e ci mantiene in vita? » (Castello, Terze dimore, I, 8, p. 296).
« La nostra cura sia solo quella di camminare in fretta per vedere questo nostro
Signore » (Castello, Terze dimore, Il, 8, p. 302).
Ora, l'unione divina - la cui sete è il segno innegabile che già possediamo in certo qual
modo ciò che ricerchiamo - questo « tempio di Dio », questa « sua dimora, in cui solo
lui e l'anima gioiscono l'uno dell'altro in un profondissimo silenzio » (Castello,
Settime dimore, III, 11, p. 485) devono essere la meta agognata di ciascuna delle
nostre esistenze.
Cosa strana! Proprio dalla dimora più alta, là dove risiede il Cristo Sposo, s'irradia un'impalpabile
luce che illumina il nostro cammino, così come l'alta torre della cattedrale di Toledo che s’innalza
nell'azzurro, scintillante dell'acciaio della sua triplice corona, è un punto di riferimento nel dedalo
delle vie, delle salite, dei vicoli della città.
In definitiva, una sola ambizione ci trascina: « Accrescere l'onore e la gloria di Dio ».
Il resto, tutto il resto non ha alcun valore, nemmeno « la vita che si darebbe assai
volentieri » (Castello, Settime dimore, III, 2, p. 481).
Insomma - già la luce del giorno abbaglia la città imperiale!
- non ci vengano a parlare di una ricerca dell'intimità divina al solo scopo di un
godimento egoistico. Il « matrimonio spirituale », se non fosse che questo, meriterebbe
le peggiori accuse. « La beatitudine di queste anime consiste nel tentar di aiutare in
qua~Q.he modo il nostro Dio crocifisso, specialmente quando vedono fino a che punto
sia offeso e come pochi cerchino davvero la sua gloria »(Castello, Settime dimore, III,
6, p. 482).
L'importante, prima di tutto, è « cercare sempre nuove opere » (Castello, Settime
dimore, IV, 6, p. 492). « Marta e Maria devono procedere insieme, perché si possa
ospitare il Signore... Come avrebbe potuto dargli il cibo Maria, sempre seduta ai suoi
piedi, se sua sorella non l'avesse aiutata? E dargli cibo per il suo nutrimento è
procurare in tutti i modi di guadagnare anime affinché si salvino e lo lodino
eternamente » (Castello, Settime dimore, IV, 12, p. 495).
Così, all'apogeo della sua vita spirituale, Teresa si mostra quale, per un atavismo del
sangue, per un dono della grazia, si era rivelato un tempo, in questa stessa città, suo
nonno Juan Sànchez.
No! non si perde nelle complicazioni di una pseudo-spiritualità, ma si rivela
sanamente cristiana. La Chiesa minaccia rovina da ogni parte; l'ordine da lei riformato
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deve contribuire a consolidarla. Al di sopra di tutto, l'onore di Dio e la salvezza
degli uomini richiedono uno sforzo instancabile. « Se per recarsi da un paese ad un
altro possono bastare otto giorni, vi sembra logico percorrere il cammino in un anno?
Non sarebbe meglio compierlo difilato? »(Castello, Terze dimore, Il, 7, p. 301s). «
Fissate il vostro sguardo sul Crocifisso e tutto vi sarà facile » (Castello, Settime
dimore, IV, 8, p. 493). « Sapete in che cosa consiste essere davvero spirituali? Farsi
schiavi di Dio » (ibidem).
Ebbene! - esclamerà qualcuno - questa parola suona male per persone bramose di
libertà quali siamo noi tutti.
Ma questa schiavitù è nobiltà per chi « s'impone di amare alla follia ».
« Ritengo impossibile che l'amore, quando c'è, si contenti di rimanere stazionario »
(Castello, Settime dimore, IV, 9, p. 493).
Sì! questa donna è « folle ». La parola ritorna sotto diverse forme, qua e là. E Teresa
parla, in una pagina celebre, delle mortificazioni della Maddalena, il cui ardore « le
impediva di rendersene conto » (Castello, Settime dimore, IV, 13, p. 496).
In realtà, la Madre del Carmelo sa benissimo, nella sua follia ragionevole, quello che
dice. Giunta al tramonto della vita, per lei tutto è sintesi. Le sue esperienze molteplici,
i suoi incontri con le grandi personalità spirituali del suo tempo, il crogiolo delle
prove, il moltiplicarsi di grazie straordinarie le conferiscono una maestria incontestata:
ella insegna con chiarezza la via della più alta santità.
Denuncia le astuzie diaboliche. Il demonio intiepidisce la carità, consiglia l'abbandono
dell'orazione, « che è la porta per entrare nel castello » (Castello, Seconde dimore, 11,
p. 289). L'egoismo, l'orgoglio, la sensualità seguono i suoi passi, anche nelle cose
sublimi, come, per esempio, quei « "contenti" nella preghiera che non dilatano il
cuore, anzi ordinariamente sembrano stringerlo un po' » (Castello, Quarte dimore, I, 5,
p. 310).
Infatti, per « fare grandi progressi in questo cammino e salire alle dimore a cui
aspiriamo, il nodo della questione non sta nel pensare molto, ma nell'amare molto »
(Castello, Quarte dimore, I, 7, p. 311). E Teresa indica i veri segni dell'amore: cercare
di contentare Dio in tutto, fare ogni sforzo possibile per non offenderlo, pregarlo per il
trionfo costante dell'onore e della gloria di suo Figlio e per l'incremento della Chiesa
cattolica (Castello, Quarte dimore, I, 7, p. 311).
Realismo dunque, cristocentrismo assoluto, serenità e sicurezza in un insegnamento
senza dubbio molto classico, ma sottolineato da esclamazioni celebri: « Senza la
grazia, l'anima non è che un brutto verme », « muoia, muoia questo verme! »
(Castello, Quinte dimore, Il, 6, p. 345). Allora verrà fuori da questo bozzolo « una
farfallina bianca, assai graziosa » (Castello, Quinte dimore, Il, 2, p. 343): l'anima
trasfigurata in Dio.
Di queste trasformazioni dell'amore, senza soffermarci - per quanto magnifiche
siano - sulle rievocazioni delle esperienze più elevate, la Madre parla con grande
comunicatività. I suoi doni di scrittrice, le sue immagini, la vivacità del suo stile, la
sua arte di trascinare i cuori superano di gran lunga ciò che le offre la sua personalità
eccezionale. Quando, nelle Seste dimore, parla di una « anima piena di sole », senza
immaginarselo, descrive proprio la sua (Castello, Seste dimore, I, 10, p. 374).
A Siviglia, aveva acquisito inoltre il sentimento di una « dignità sovrana ». Non in
virtù dei propri meriti, ma perché, fidanzata con il Cristo, sapeva che egli le dava «
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tutti i travagli e i dolori che aveva sofferti, in nome dei quali poteva pregare
il Padre come se fossero suoi » (Relazioni LI, p. 506).
Forse scopriamo qui una delle fonti del Castello interiore.
L'audacia stessa del suo proposito: pervenire all'unione più intima con la Trinità,
deriva dalla certezza di poter disporre a suo piacimento di tutti i beni di Dio in Gesù
Cristo (Castello, Seste dimore, V, 6, p. 408). A partire da questo indicibile possesso,
tutto è possibile a chi crede e ama...
Ai miei piedi, il mezzogiorno sfolgorante spazzava il ponte d'Alcàntara. Il Tago
scorreva, polverizzando in un rapido fruscio la luce, l'acqua, i profumi, simboli di
Colui che mai occhio umano ha veduto.
Ecco quello che andavo qua e là raccogliendo, nell'aria di Toledo e nell'incomparabile
capolavoro delle « dimore ». Là dove tutto era cominciato, il 2 giugno 1577, giorno
della festa della Trinità.

5 - La notte volge alla fine

In piedi sulle mura, di fronte all'Incarnazione, il Maestro Gaspar Daza e io


restavamo silenziosi. Sia che le cose gli vadano bene, sia che gli vadano male, Gaspar
non è loquace. Si potrebbero cercare a lungo i motivi di questa « taciturnità ».
Meditativo? forse. Questione di temperamento? senza dubbio... Comunque sia,
tacevamo da una buona mezz'ora, quando il mio compagno esclamò:
- Un'elezione combattuta... Ah! seùor, sarebbe sorpreso di conoscere i pensieri che
stanno sfilando nella mia mente... No! contemplando questo monastero, non penso alle
grazie straordinarie ricevute laggiù dalla santa Madre!
E, con un ampio gesto, abbracciava il convento, la sua alta chiesa, i suoi giardini, il
suo vasto muro di clausura.
- Penso a quella combattuta elezione dell'ottobre del 1577, a « quello scandalo »,
come scriveva la santa al re Filippo Il (Lettere 4.12.1577, p. 615), che ha fatto parlare
le cronache della nostra buona città di Avila per parecchi mesi... Teresa de Ahumada
non fu davvero una cittadina riposante. Per una ragione o per l'altra, governatori,
autorità, monaci o monache non hanno mai smesso di litigare riguardo alla sua
persona. Pochi mesi prima della sua morte, quest'ultima storia dimostra in maniera
evidente che ogni discepolo del Vangelo finisce presto o tardi col somigliare al suo
Maestro, divenendo un « segno dì contraddizione ».
- Sì - disse - ho letto la lettera del mese di ottobre del 1577 nella quale la Madre
racconta questi avvenimenti alla priora di Siviglia, ma confesso, una volta ancora, di
perdermi nel dedalo delle loro motivazioni.
- Per l'appunto, sen or, abbiamo qui una prova flagrante delle complicazioni di questa crisi, che
raggiunge il suo culmine in quell'autunno del 1577. Rientrata a San José dal mese di luglio, la
riformatrice ne diviene il testimone più qualificato. I suoi amici, fra i quali ero io, fanno dieci volte al
giorno il percorso tra i due conventi per trasmettere informazioni e messaggi. Riprendiamo i fatti per
filo e per segno. Nell'autunno del 1577, dona Juana del Aguila la Minor terminava il periodo del suo
priorato. Durante i tre anni trascorsi, tutto si era svolto nel migliore dei modi. La santa Madre non
governava più, ma Fray Juan rimaneva sempre lì. Grazie a un eccellente confessore, continuava il
rinnovamento intrapreso da Teresa. Tuttavia, il passaggio della santa aveva lasciato non poche
nostalgiche. Ah! se almeno la Madre potesse ritornare!... Le viene comunicato il desiderio di molte:
che assuma di nuovo la carica. Teresa ne informa il padre Graciàn, che vi si oppone formalmente
(Lettere 6.9.1577, p. 601). La Madre è malata; la sua testa è ridotta in frantumi. « Non ho proprio
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nessuna voglia di vedermi in quella baraonda, soprattutto con la poca salute che ho e che
maggiormente là si guasterebbe » (Lettere 10.1577, p. 609). Frattanto le cose sono molto cambiate
nell'ordine dal 1571, quando la riformatrice era stata eletta priora nel suo antico monastero. Adesso è
screditata presso il suo superiore generale. Il padre Tostado, vicario apostolico per il Carmelo spa-
gnolo, unisce tutti i suoi sforzi: vuole distruggere la riforma teresiana e fa sapere a chiare note che
non accetterà mai che si affidi il priorato alla fondatrice. Da parte sua, Teresa raccomanda alle suore
di non votare in suo favore. I problemi economici rimangono sempre scottanti. Con piena
conoscenza dell'ostilità dei superiori nei riguardi dell'eletta del loro cuore, le suore voteranno per lei.
Teresa, che non è ingenua, potrebbe anticipare quello che scriverà nel 1581, un anno prima della sua
morte, quando verrà eletta priora di San José: « Le monache mi hanno eletta unicamente perché prese
dalla fame » (Lettere 8.11.1581, p. 1117). « La natura - leggiamo nella stessa missiva - è stanca
soprattutto per essere priora in mezzo a tante difficoltà » (ibidem).
- Ma come si svolsero - chiesi allora - queste famose elezioni all'Incarnazione?
- Qualsiasi famiglia di Avila glielo potrebbe raccontare. Basterebbe interrogare
Francisco Vela, Antonio Ordònez, Pedro Orejon, tutti imparentati come padre, fratello
o nipote, con le vittime di quel giorno memorabile.
« Il provinciale, il padre Gutiérrez, carmelitano calzato, era arrivato ad Avila con pieni poteri. Il
padre Tostado gli aveva ordinato di scomunicare chiunque avesse dato il voto alla Madre Teresa. Nel
momento in cui tutti i calzati facevano fronte contro la riforma, era impensabile che la responsabile
di quel maledetto ritorno alla regola primitiva divenisse superiora del più importante monastero di
carmelitane calzate allora esistente in Spagna. Il provinciale era abile. Dichiarò, prima del voto,
l'interdizione formale di eleggere "qualcuno che non appartenesse alla casa". Ma le amiche della
Madre pensavano che essa, "professa in quel convento dove era vissuta tanti anni, non era una
straniera. Non vi aveva forse lasciato la sua dote? Calzati e scalzati erano ancora riuniti in una stessa
provincia". Spuntò il giorno del 7 ottobre, data scelta per la nomina della priora. Su 98 votanti, 54
dettero il voto alla Madre, 34 a doùa Ana de Toledo, candidata dei carmelitani calzati; gli altri si
dispersero. Secondo le costituzioni, risultava eletta Teresa. Dalla sua poltrona di cuoio, il provinciale
contemplava con amarezza il suo fallimento. Ad ogni voto in favore d'eììa Madre che gli veniva
consegnato, il padre Gutiérrez le scomunicava e le malediceva; stropicciava la scheda, la tempestava
di pugni, oppure, dicono alcuni, "con una grande chiave", e la buttava sul fuoco (Lettere 22.10.1577,
p. 608). Aveva tenuto lontani dallo scrutinio i confessori scalzi del monastero, Fray Juan e Fray Ger-
màn, sostituendoli con padri del suo ramo. Uno di loro cercò di sobillare dona Isabel Arias perché
cambiasse parere, ma di fronte alle sue resistenze, la trattò "peggio di una sguattera". Chi era dunque
scomunicato? nessuno lo avrebbe saputo, se le suore sostenitrici della Madre non si fossero
chiaramente manifestate. Libere da ogni timore, affrontarono l'ira del provinciale. Il giorno seguente,
questi "tornò per invitarle ad una seconda elezione, ma esse risposero che non occorreva, perché
l'avevano già fatta" (Lettere 10.1577, p. 608). Fuori di sé, il padre Gutiérrez le scomunicò di nuovo e
fece eleggere, dalle 44 che restavano, un'altra priora. Il padre Tostado confermò l'elezione. Le suore
dissidenti dichiararono che avrebbero obbedito alla seconda eletta soltanto in qualità di vicaria e
fecero sapere al visitatore apostolico che volevano sempre la Madre Teresa, e nessun'altra. Il padre
Jer6nimo Tostado rispose con un rifiuto. Vede dunque, sen or, la strana situazione di quelle povere
suore. Non potevano più ascoltare la messa né recitare l'uffizio. Era loro vietato andare al coro, anche
soltanto per una preghiera personale. Non potevano confessarsi né parlare con i loro parenti (Lettere
10.1577, p. 608) ».
- Mi sembra davvero eccessivo - esclamai.
- Certo, ha ragione. Ma in quel tempo si maneggiavano scomuniche e censure con
sorprendente leggerezza: un canonico veniva a parlare in coro durante la recita
dell'uffizio? il prevosto lo espelleva per una settimana. Un cantore, un sagrestano
mancava un giorno ai suoi doveri? veniva censurato con un'ammenda. Nondimeno -
osservai - la Madre scrive a Maria de San José: « Le voglio raccontare una cosa avvenuta qui
all'Incarnazione, così iniqua che non credo se ne possa vedere di peggio... è una cosa che disgusta, e
tutti ne sono indignati » (Lettere 10.1577, p. 608s). - E soprattutto - continuò Daza - invece di
placarsi, si andava aggravando man mano che passava il tempo. La Madre moltiplica le sue istanze a
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Madrid presso Alonso de Aranda, incaricato d'affari delle monache dell'Incarnazione. « Per
carità, veda se vi può essere qualche espediente per farle assolvere o dal padre Tostado o dal
provinciale, o, se occorre, dal nunzio... Non si può permettere che rimangano a lungo così » (Lettere
10.11.1577, p. 6 12s). Verso la fine di novembre del 1577, entrava nel parlatorio dell'Incarnazione
Fray Hernando Maldonado, priore dei carmelitani calzati di Toledo. In nome del provinciale, veniva
ad assolvere le suore scomunicate. Ne assolse alcune, poiché non tutte si presentarono, ma, il giorno
seguente, tutte reclamavano la Madre Teresa come priora e manifestavano il loro desiderio di
continuare a difendere il loro diritto presso il consiglio reale: non erano forse state screditate in città?
A questo punto, il priore di Toledo le scomunicò di nuovo.
« Chi mai poteva sostenere le ribelli nella loro ostinazione, se non i confessori, Fray
Juan de la Cruz e Fray Germàn de San Matfas? Non avevano essi organizzato una
campagna preelettorale in favore della Madre? Che fare quindi?
« Di notte, i due monaci sono trascinati via dalla casetta accanto all'Incarnazione, e
condotti in città prigionieri nel convento dei calzati. Informata, la Madre reagisce con
forza e scrive subito la sua indignazione al re Filippo Il. "Il nuovo venuto, il padre
Maldonado - è il colmo! - ha portato via i loro confessori; si dice che è stato fatto
vicario provinciale forse perché è più bravo degli altri a fare dei martiri. Ha
imprigionato i confessori in un monastero dopo aver sfondato le porte delle loro celle
ed essersi impossessato delle loro carte... Non è a dire la mia pena al pensiero di quei
padri fra quelle mani... Preferirei piuttosto saperli schiavi dei Mori, presso i quali forse
troverebbero maggiore pieta... Se non ci viene in aiuto vostra maestà, non so come
andremo a finire, perché ora sulla terra non abbiamo altro appoggio che nella maestà
vostra" (Lettere 4.12.1577, p.615ss)... Bisognerebbe continuare a raccontare molte
altre peripezie per arrivare alla regolarizzazione della situazione nel mese di marzo del
1578... Ma certo, sen or, non è questo che le interessa... Indovino i suoi pensieri ».
- Sì - dissi - sorvolo volentieri su quei conflitti di giurisdizione che hanno
caratterizzato la Spagna nel XVI secolo: il papa, il re, i superiori generali, i visitatori
apostolici. Chi potrebbe dipanare facilmente questa matassa ingarbugliata a bella
posta?...
Poco importa, tutto sommato! noi cerchiamo soltanto di afferrare un profilo di santa,
una donna straordinaria, Teresa de Jesùs, la cui saggezza, il cui senso dell'umorismo e
lo stupefacente buon senso hanno oltrepassato le maglie inestricabili di questa rete. Mi
meraviglio soltanto di un contrasto commentato con molta sagacia da Maria Pinel,
celebre memorialista dell'Incarnazione nel secolo seguente: nel 1571, un visitatore, un
provinciale impongono Teresa come priora. Ma alcune delle monache la rifiutano ed
entra nel suo antico convento in mezzo al tumulto. Nel 1577, la maggioranza delle
suore la reclama, ma visitatore e provinciale lo proibiscono. Deve riconoscere,
Maestro Daza, che c'è davvero di che essere meravigliati.
- Por Dios, senor, è verissimo. Ma chi ha detto: Questa generazione è simile a quei
lanciulli che bisticciano sulle piazze... Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue
opere (Mt 11,16.19)? Vera figlia del Vangelo, la Madre Teresa era respinta soltanto da
quelli che per mancanza di acume non potevano discernere i segni irrecusabili della
sua santità. Adesso che si avvicinava l'ora della sua morte, tutti, in certo qual modo, se
la contendevano...
In quel momento, la nebbia leggera che copriva il monastero si dileguò
all'improvviso. La lunga massa degli edifici, il campanile, la torre quadrata, le fronde
dei giardini emersero immobili, gloriosi, come un reliquiario dorato sul fianco
settentrionale della città dei cavalieri.
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- Ammiri l'Incarnazione! - esclamò Gaspar Daza. - La santa Madre ripeteva
che l'amava come una madre. Teresa le rimase inviolabilmente attaccata, sia quando la
umiliava, sia quando la esaltò.

Ridiscendemmo dalle mura e, risalendo la città dalla porta San Vicente, eravamo
adesso davanti al collegio San Gil dei gesuiti. Mla nostra destra si ergeva la sede della
casa di dona Guiomar; incassate fra le strade, s'innalzavano le mura di San José.
Come parlando fra sé, il Maestro Daza esclamò:
- Strano, quell'anno 1577! Il cielo e l'inferno vi si mescolano come non mai.
All'Incarnazione, 54 monache sono scomunicate a causa del loro attaccamento alla
Madre.
Proprio qui, a San José, nel corso delle fredde notti di novembre, Teresa termina il
libro Castello interiore.
Laggiù, nel vasto convento cadente, una parte della comunità è allontanata dalla
chiesa, dalla preghiera, dai sacramenti.
Qui, in questa alta cella, sotto il cielo di Avila purificato da tutti i venti dell'inverno,
quella mistica dell'unione a Dio termina questo « gioiello in cui non si vede che Dio »
(Lettere 7.12.1577, p. 620). Nel 1662, il licenziato don Juan de Còrdoba scriveva da
Siviglia a suo padre: « Ogni volta che leggo uno degli scritti di questa santa, desidero
essere buono ».
Laggiù, nella notte dal 3 al 4 dicembre di quel terribile anno, i carmelitani calzati
s'impadronirono di Fray Juan de la Cruz e di Fray Germàn per condurli dapprima in
prigione ad Avila e poi, il giorno stesso, il primo a Toledo, il secondo a San Pablo de
la Moraleja.
Qui, la notte di natale, scendendo per il mattutino da una scala un po' ripida, la
Madre cadde pesantemente e si ruppe il braccio sinistro.
Tutti questi avvenimenti drammatici lasciavano prevedere un altro anno di
sofferenze.
Il 1578 ne avrebbe visto l'apice. Fino ad agosto, Fray Juan de la Cruz sarebbe stato
rinchiuso nella sua prigione toledana e, ancor più, in un immenso oblio di tutti. Gli
amici della corte e il re tacevano. Soltanto la Madre si preoccupava del suo « piccolo
Seneca ».
« Dio tratta terribilmente i suoi amici. E non c'è da meravigliarsi, perché ha trattato così anche suo
Figlio » (Lettere 1.3.1578, p. 661).
E il Signore non risparmiava la sofferenza a Fray Juan.
« Non so proprio spiegarmi perché non ci sia alcuno che voglia occuparsi di quel
santo » (Lettere 19.8.1578, p. 736).
Il Signore non risparmiava neppure la riforma, né la riformatrice. Nel mese di
ottobre del 1578, il nunzio Sega sottometteva gli scalzi ai provinciali calzati di
Castiglia e di Andalusia. Il 20 dicembre, veniva emanata una sentenza contro il padre
Graciàn. La santa Madre si preparava a passare natale nel pianto.
Si, si sarebbe riparlato di quella vigilia di natale del 1578, in cui vennero notificati alla fondatrice
tutti i provvedimenti presi contro la sua opera, i suoi collaboratori, in particolare il padre Gracian, e
lei stessa.
Fu una mattinata da giudizio universale: magistrati, teologi e gentiluomini che si
trovavano lì erano spaventati da un modo di agire così poco religioso, e io ero molto
afflitta ».
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Avrebbero forse scomunicato anche lei, lei che si era logorata oltre ogni
misura per il suo ordine? Volevano forse condurla in un altro monastero e trattarla
come, a Toledo, si erano accaniti contro Juan de la Cruz?... Che importava!
Coraggiosa e battagliera, Teresa riassume assai bene il suo stato d'animo con queste
parole alle carmelitane di Siviglia:
« Coraggio, coraggio, figliole mie! Ricordiamo che il Signore non dà mai
tribolazioni superiori alle nostre forze... Preghiera, preghiera, sorelle mie!... Presto il
mare inghiottirà coloro che ci fanno la guerra, come avvenne del re Faraone, per
lasciar libero il popolo di Dio. Mlora, vedendo i vantaggi della passata tribolazione,
sentiremo il desiderio di tornare a soffrirla » (Lettere 31.1.1579, p. 784s).

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LA LUCE SI LEVA SULLA SERA

L'antica « capitale » dei duchi d'Alba flammeggia nel tramonto autunnale. Certo,
Alba de Tormes è molto decaduta dal suo passato splendore. Solo una torre e alcuni
edifici, scampati ai furori degli eserciti di Napoleone, s'innalzano sullo sfondo del
cielo rosso violaceo. Le facciate bianche e i tetti scuri si arrampicano sulla altura dove
si elevano i resti della fortezza.
Ma non sui fasti del passato indugia lo sguardo. Il Tormes dalle sponde pianeggianti
trascina le sue acque. Lassù, nella Sierra de Gredos, l'ho visto in estate scorrere con
candidi bagliori; qui, non convoglia altro che fuoco. Il fondo della valle, i pioppi fre-
menti, le terre arate di recente mescolano le tinte ocra, gialle e porpora ai flutti rapidi
del fiume. A strapiombo, il Carmelo riflette dall'una o l'altra delle sue finestre le braci
che il vento disperde lontano lontano, al di là dei monti.
Quale gloria prodiga la natura su questo povero villaggio, ogni volta che il 15
ottobre riporta l'anniversario del trapasso della santa Madre! 1
A nostro giudizio, sarebbe dovuta morire a Salamanca, a Toledo, o in Avila, sua
patria.
Ma il ghiribizzo della giovane duchessa d'Alba che non voleva partorire senza la
presenza della santa al suo fianco e il misterioso disegno della Provvidenza volevano
che la sua ora si compisse qui, su queste terre del Tormes, all'ombra di uno di quei
grandi di Spagna che l'avevano talvolta aiutata, spesso contrastata, e per il capriccio
dei quali rendeva infine la sua anima a Dio.
Cadeva, con le armi in mano, l'infaticabile fondatrice.
Da quando, il 1° aprile 1579, il nunzio Sega aveva liberato i carmelitani scalzi
nominando un vicario provvisorio per la riforma, ella aveva ripreso nuova vita. Le
molteplici prove subite non avevano alterato per nulla il suo brio, la sua presenza di
spirito, il suo buon senso. La sua santità veniva pubblicamente acclamata.
Sia che bisognasse darsi da fare a Palencia, a Soria, a Burgos, sia che il suo cuore
progettasse più che mai un insediamento a Madrid, la sua contagiosa intrepidezza si
propagava a quanti le stavano intorno.
Tuttavia, ormai non era più che una « vecchietta ». Il suo braccio sinistro invalido le
dava particolarmente fastidio. Ricorreva in continuazione ad Ana de San Bartolomé, la
sua infermiera così discreta ed efficace che « l'assisteva meglio di molte suore corali ».
« Forte come una quercia, dolce come un angelo », raccontano le cronache del tempo,
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la giovane suora divenne, fino alla sua morte, il sollievo delle sue sofferenze e la
testimone del suo coraggio spirituale.
Lucida fino alla fine sulle esigenze della riforma, Teresa lottò contro i compromessi
e le debolezze. A San José, per esempio, Juliàn d'Avila, per indulgenza, favoriva la
rilassatezza. « Dio ci liberi dai confessori troppo anziani! »: la santa Madre non cedeva
in nulla riguardo all'ideale che Cristo le aveva tracciato con il ritorno alla regola
primitiva.
Sarebbe eccessivo dire che la cosa andasse a genio ai suoi amici più devoti. Don
Alonso de Mendoza, divenuto vescovo di Palencia, dichiarò un giorno in un accesso di
collera: « La Madre èterribile. Vuole che noi tutti la serviamo e non vuole dare
nessuna soddisfazione ai suoi amici ».
Ostinazione senile? diranno le lingue acide; mancanza di arrendevolezza?
criticheranno gli altri.
No! fino alla fine, questa donna visitata dalla grazia di Dio restava dolce, paziente,
obbediente, ma non voleva rimanere mvischiata nelle tergiversazioni della fiacchezza
e della trascuratezza.
Così, camminando verso Burgos sotto piogge torrenziali, il gruppo scese di vettura.
- Camminiamo - esclamò la Madre - su questo piccolo sentiero tutto bianco!
Ahimè! non era altro che argilla appiccicosa, fango vischioso e molle come semola,
su cui era impossibile avanzare.
- Ahi! che peccatrice sono! La strada mi sembrava buona... Così devono essere le
vie di questo mondo!
Nondimeno, arrivava al termine della sua ultima tappa, tranquilla e padrona di se
stessa. La meta tanto desiderata, « vedere Dio », era raggiunta. Altri dovevano adesso
continuare la sua opera!
Non le restava da acquisire che una scienza: « saper morire », così come aveva
saputo vivere.
Tali sono gli ultimi mesi, gli ultimi istanti che vogliamo ora scoprire.

1 - Nove poverelle di Dio

Quando arrivammo in casa di don Francisco de Salcedo, Juliàn d'Avila ed io lo


trovammo a letto.
- Bendito sea Dios! (Dio sia benedetto!) - esclamò nel vederci, mentre si
allontanava discretamente Dolòres, una lontana parente che si era messa al servizio del
« santo gentiluomo »divenuto prete dopo essere rimasto vedovo... - Non potevate
venire in un momento migliore. Ho redatto il mio testamento e ho donato, voglio che
lo si sappia!, tutti i miei beni al convento di San José... L'inverno passato è stato duro
per me e la prossima estate non sarà migliore... Non ne vedrò la fine - concluse, mosso
da un sicuro presentimento. Morì infatti il 12 settembre di quel 1580...
- Ma, por Dios, non è questa la ragione della mia gioia. Ho ricevuto una lettera
importante da Ana de San Agustin. So che mi racconta la fondazione di Villanueva
de la Jara, nella prima domenica di quaresima di quest'anno... Don Juliàn, por favor,
ce la potrebbe leggere?
Il cappellano di San José non si fece pregare. Anch'egli era invecchiato e perciò il
non poter più partecipare all'epopea della santa Madre gli era molto penoso. Per
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consolarsi, andava qua e là, sollecitando lettere, apprendendo particolari, fissando
avventure nella sua memoria.
Era un vero castigliano quel buon cittadino di Avila. Aveva lasciato la sua città soltanto al
servizio della santa, e la sua immaginazione viaggiava volentieri con le nuvole e il vento, al di là
della Sierra e delle province. In quel tempo in cui le informazioni erano rare e sempre in ritardo sugli
avvenimenti, un don Chisciotte si risvegliava anche nel cuore dello spagnolo più misurato, pur se
tonsurato, sempre avido di prodezze e difatti straordinari, per dare mordente agli avvenimenti
quotidiani. Don Juliàn prese dunque alcuni fogli e, dopo essersi schiarita la voce, cominciò a leggere.
Ogni tanto s'interrompeva per fare commenti e osservazioni:
maniera assai modesta, ma reale, di prolungare le storie di cui - ahimè! - non era
potuto essere protagonista.
Villanueva de la Jara: da tre anni, nove povere giovani donne chiamavano la santa
Madre. Invano! Anche il padre Pedro Fernàndez aveva consigliato di rifiutare, almeno
finché calzati e scalzi non avessero avuto province separate. Un giorno, a Malagòn, al
momento di ricevere la comunione, la fondatrice sentì queste parole: « Teresa, con
poveri pescatori ho fondato la mia Chiesa ». Da quell'istante, la sua volontà fu chiara,
poiché il desiderio del Signore appariva evidente e diveniva inutile che il padre
Antonio e Fray Gabriel, priore de la Roda, convento situato a tre leghe da quella città,
dessero il loro caloroso appoggio.
« Partimmo da Malagon il sabato avanti la quaresima del 13 febbraio 1580. Piacque
a Dio di darci un tempo splendido e di farmi sentire così bene che mi sembrava di non
essere mai stata ammalata » (Fondazioni XXVIII, 18, p. 248).
- Ah! - sospirava Juliàn - non era come al tempo della partenza per Beas,
pressappoco nella stessa stagione, ma con quale freddo e in che pessime condizioni!
Questo nuovo viaggio prese subito l'andamento di una marcia trionfale.
In quel paese, i carmelitani scalzi erano conosciuti, apprezzati, amati.
Ma come? La loro fondatrice passava di lì! La santa di Avila, quella « vecchietta »
di cui dicevano che, sempre malata, febbricitante, tossicolosa, le bastava intraprendere
una nuova iniziativa al servizio della Chiesa per guarire come per incanto.
A vederla sulle strade, sui carri, in una casa nuova, ciascuno diceva: si è tolta la sua
cattiva salute, così come ci si toglie un indumento bagnato, ed eccola che lavora, che
lavora come non mai per servire Dio.
- Anch'io - commentava don Juliàn - quante volte ho visto la Madre guarita all'improvviso, e
guarire a sua volta quelli che dovevano assisterla. Mai un male, qualunque fosse, l'ha fermata quando
era in gioco l'onore dell'Altissimo o quello della sua Chiesa. Nemmeno lei ne dubita, don Francisco.
Il malato annuì, mentre la lettura continuaya con entusiasmo.
A Villarubia, un ricco contadino aveva raccolto i suoi figli e i suoi generi, venuti da
ogni parte, intorno a una tavola imbandita per salutare la santa Madre. La fondatrice
non volle fermarsi, ma il patriarca non la lasciò partire senza che rivolgesse qualche
parola a tutti i suoi discendenti e accettasse di benedirli.
A Socùellamos, patria dei conti de Tendilla (uno di loro, don Luis, fu il difensore
degli scalzi durante la bufera), l'affluenza apparve tale che la Madre diede l'ordine di
porsi in cammino di notte, tre ore prima dell'alba.
Ed ecco che il terzo giorno di viaggio, un avvenimento contribuì ad accrescere la
fama della carovana. Di prima mattina, ci si accorse che si camminava con un asse
rotto.
Si gridò al miracolo.
Mentre a Villarrobledo veniva riparato il carro, e la Madre e le sue compagne si
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riposavano in casa di una pia signora del posto, le voci sparse a proposito della «
vettura rotta » si diffusero al punto che bisognò piazzare due alguacils alla porta
perché la fondatrice potesse ristorarsi.
Fatica sprecata!
La gente saltava dalla finestra per poterla contemplare lo stesso.
Bisognò mettere due o tre persone in prigione e così si poté avere un po' di pace.
La notte le indusse a fermarsi nella locanda di Santa Marta, a due leghe da la Roda.
Qui, accadde un fatto strano, come racconta Ana de San Agustin. « Mi trovavo con
Ana de San Bartolomé nella stessa camera della santa Madre.
«L'infermiera si svegliò all'improvviso: si percepiva una musica dolcissima, quale
era impossibile udirne in un luogo simile.
« - Ascolta - mi disse Ana svegliando anche me.
« Con le mie orecchie sentii molto chiaramente quei suoni accompagnati da parole.
« Senza alcun dubbio, questa fondazione era gradita al Signore! ».
- Ah! sì, - commentava don Juliàn, - molte volte Ana de San Bartolomé mi ha
raccontato fatti del genere, soprattutto alla fine della vita della santa.
Il cielo la chiamava già a sé.
Sulle rive dello Jucar s'innalzava il convento de la Roda, fondato nel 1572 dalla
celeberrima dona Catalina de Cardona.
Come a Pastrana, Mariano vi aveva costruito sotterranei e grotte, poiché l'eremita
del Tardòn non aveva mai dimenticato sotto la tonaca la sua vocazione d'ingegnere
civile.
La fondatrice rievoca con gioia l'accoglienza di tutti quei monaci che, in cappa
bianca, uscirono in aperta campagna, per ricevere la loro Madre.
« Io rimasi profondamente commossa - scrive Teresa - parendomi d'essere ai tempi
felici dei nostri santi padri. Sembravano, in quel campo, bianchi e profumati fiori...
« Entrarono in chiesa cantando il Te Deum. L'ingresso della chiesa è sottoterra, e
sembra una grotta, che ci facevà pensare a quella del nostro padre Elia... Ebbi, però,
gran dolore che fosse già morta la santa, dona Catalina, di cui nostro Signore si era
servito per fondare quella casa... Un giorno, dopo essermi comunicata in quella santa
chiesa... mi apparve questa santa donna in visione intellettuale..., circondata da angeli.
Mi disse di non stancarmi di quanto facevo, ma di proseguire nella fondazione di
questi monasteri... » (Fondazioni XXVIII, 20.36, pp. 249.257).
Quattro giorni di riposo a la Roda, il tempo di avvertire Villanueva de la Jara. I
frati carmelitani ne approfittarono per parlare alla riformatrice.
Rievocarono vari atti di Fray Juan de la Cruz e le mostrarono alcuni suoi scritti, che
la santa apprezzò molto.
Esultante, dichiarava:
- Un giorno, le ossa di questo piccolo uomo faranno miracoli.
Ora, non restava che da procedere all'ingresso solenne.
Domenica 21 febbraio, le campane di Nuestra Seflora Santa Marfa suonavano a
festa all'ora della messa grande.
A partire da la Roda, tutta la contrada, più variata che le pianure della Mancia, faceva festa alle
monache. Lì la terra si stende in lontananza, rossa, color rosso sangue. Grano e avena spuntavano;
basse sul suolo, germogliavano le viti. Sulla cima di dolci colline, ondeggiavano pini a ombrello,
mentre i pendii si coprivano di olivi.
Come il paesaggio, così anche la popolazione della Mancia ègentile e aperta.
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Da ogni parte, carrette e vetture convergevano verso Villanueva e,
soprattutto, uno sciame di fanciulli incappucciati - poiché faceva freddo - scorrazzava
incontro alle carmelitane.
Alla vista del corteo, si tolsero i cappucci, s'inginocchiarono e formarono una
gesticolante scorta fino alla chiesa già gremita di gente.
Te Deum, corale, organo, nulla mancava a quel ricevimento, mai conosciuto altrove.
Appena finita la messa, venne organizzata una processione. Tutte le autorità
terrestri e celesti del villaggio si affollavano per accompagnare il Santissimo
Sacramento e le monache al convento di Santa Ana dove le attendevano le nove
sorelle.
Stendardi, fiaccole, canti, scoppi.
Erano stati eretti altari ove i partecipanti alla processione si fermavano di tanto in
tanto. Sembrava il giorno della festa del Corpus Domini a Toledo.
« Eravamo comprese di gran devozione, come anche di veder innalzare da tutti lodi
al gran Dio che portavamo con noi, per amore del quale si rendeva tanto onore a sette
povere piccole scalze li presenti » (Fondazioni XXVIII, 37, p. 259).
- Ahimè! - ripeteva Julian - perché non partecipavamo anche noi a un simile
tripudio? Per quanto mi riguarda, io ho conosciuto soltanto entrate notturne nella città
in cui ci stabilivamo, prese di possesso clandestine, una ridicola campanella per
annunziare la prima messa... Infine, - sospirava - tutto è perfetto, poiché Sua Maestà
ha così permesso.
- Ben detto! - concluse don Francisco con voce stanca - purché Dio sia contento!...

Chi erano dunque quelle nove donne, nove « sante sorelle »(Fondazioni XXVIII, 11, p. 245)
entrate insieme in un romitorio della città di Villanueva de la Jara dedicato a S. Anna? Le autorità
municipali, il parroco, don Agustin Ervias, dottore in teologia della diocesi di Cuenca, avevano
insistito presso la fondatrice perché accettasse nell'Ordine del Carmelo quelle nove giovani donne
consacrate a Dio (Fondazioni XXVIII, 8, p. 243s).
Si sa che Teresa, ella non lo nasconde, aveva rifiutato di accogliere quest'offerta di
fondazione. Abituate al loro modo di vivere, sarebbe stato possibile per quelle
religiose diventare delle vere carmelitane? si sarebbero potute adattare ad un altro
sistema di vita? In questo campo, il passato si era mostrato ricco d'insegnamenti e
d'inviti alla prudenza. Ma - come sappiamo - il Signore sconvolgeva certe vedute
troppo umane; non solo illuminava la fondatrice, ma capovolgeva la sua volontà.
« Il meglio per noi... e soffrire, e, fissi gli occhi all'onore di Dio e alla sua gloria,
dimenticarci di noi stessi » (Fondazioni XXVIII, 16.18, p. 247s).
Si! era veramente l'Onnipotente che aveva spinto nove donne analfabete a riunirsi a
Villanueva, nell'unico intento di servirlo.
Stavano lì, riunite presso la porta d'ingresso, quella famosa prima domenica di
quaresima, 21 febbraio 1580, ad aspettare colei di cui invocavano la venuta con
preghiere e digiuni reiterati.
Non portavano ancora un abito particolare, sperando di ricevere quello del
Carmelo.
« Malconce » - che impressione per Teresa, sempre così accurata nella pulizia! - «
emaciate » per « la vita di dura penitenza da esse condotta » (Fondazioni XXVIII, 40,
p. 260).
Una dopo l'altra si presentarono alla santa Madre. All'inizio, erano cinque, nobili,
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ma povere: Maria Sanz, Lucia Sanz, Catalina de la Panila e Elvira Garcia.
Desiderando dedicarsi a Dio, avevano preso possesso di una casetta vicino al romitorio
di Sant'Anna. Avevano un'unica ambizione: la speranza di vedervi fiorire una casa
consacrata alla Vergine.
Si unirono a loro un'amica, Ana Denya, venuta con le sue quattro figlie, poi una
beghina di cinquantasei anni, Maria de Jesùs. Quest'ultima era esperta nel filare il lino
e iniziò le sue compagne a tale arte. Potevano così guadagnarsi la vita senza chiedere
l'elemosina.
Infine, un'assidua visitatrice, Angela de Alcanavate, prometteva di entrare se la
santa Madre venisse a fondare un monastero.
La vedova morì. Rimasero soltanto due delle sue figlie: Ana e Catalina Denya.
All'arrivo della santa di Avila, erano in tutto nove, nove poverelle di Dio.
La loro vita ci sembra sconcertante. Non avendo alcuna cultura spirituale, servivano il Signore a
modo loro. Quelle che ne erano capaci leggevano alle altre gli scritti di Fray Luis de Granada e di
Fray Pedro d'Alcàntara. In quanto ai breviari, li avevano ricevuti in dono da certi preti dei dintorni
che si erano sbarazzati dei loro vecchi libri. Se la cavavano così male, impegnando molte ore a
leggerli stentatamente, che Fray Antonio de Jesùs, quando le conobbe, le iniziò all'ufficio di nostra
Signora (Fondazioni XXVIII, 42, p. 261).
Si potrebbero fare commenti senza fine su quelle povere donne, sperdute nella
campagna della Mancia e nella loro maldestra buona volontà.
Digiunare sette mesi all'anno, il resto del tempo cuocere il pane, nutrirsi di frutti del
giardino, lavorare con le loro mani, impiegare il poco denaro che guadagnavano a
pagare i messi che mandavano alla santa Madre affinché acconsentisse infine a fon-
dare un monastero presso di loro, pregare senza posa: la domenica e le feste, tutto il
giorno; ecco l'essenziale delle loro attività.
La fondatrice temeva di certo quelle autodidatte della vita monastica, senza alcun
dubbio traumatizzate dalle prodezze penitenziali della loro troppo chiassosa vicina,
Cat~ina de Cardona... Con suo grande stupore, Teresa trovò una docilità illimitata,
poiché la loro santità e la loro virtù non avevano ùulla di posticcio. « Mi è sembrato
ben più gran tesoro la presenza nell'ordine ditali anime che non ricche rendite, e spero
che questo monastero abbia vita prospera » (Fondazioni XXVIII, 39, p. 260).Tutte
presero l'abito del Carmelo come al tempo della fondazione di Beas, il giorno di San
Matias, il 25 febbraio 1580.
Con la testa in cielo e i piedi sulla terra, la Madre passò subito all'organizzazione di
quella dimora angusta, mal disposta e sporca.
Tutte le suore non avevano per dormire che due casette. Come praticare la
solitudine così cara al Carmelo? Per l'estate, le novizie si costruirono celle di frasche
coperte di paglia. Solo la luce entrava dalla porta perché ciascuna potesse attendere al
suo lavoro. Durante l'inverno, una grande stanza venne divisa con delle coperte.
La fondatrice pagava di persona. La sporcizia sembrava essere l'alto privilegio di
quelle sante religiose. Benché non potesse servirsi che di un solo braccio, Teresa si
armava di una scopa, toglieva immondizie e polvere, oppure si affaccendava attorno
alle pentole e serviva in refettorio.
Quelle povere donne avevano paura che la Madre se ne ripartisse « alla vista della
loro povertà e della ristrettezza di quella casa », ma, con il suo senso acuto dei veri
valori, Teresa rispondeva:
- Non sono venuta a cercare ricchezze, ma virtù: di questa dobbiamo vivere.
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Le anime semplici hanno sempre ricevuto i favori del cielo; per loro Dio
moltiplicava i miracoli.
- Quanta farina rimane? - chiese la priora alla fine della quaresima.
- Madre - rispose una suora - non ci capisco niente. Nella cassa c'erano sei fanegas
di farina. Ogni giorno, vi abbiamo attinto per la comunità e i frati carmelitani di
passaggio. E ne resta altrettanta!
Mai il frutteto diede tante pere e mele come in quell'anno. Le mangiavano crude,
cotte. Bisognò ricorrere ad alcuni uomini che, entrando nella clausura, aiutassero a
coglierle.
In questa atmosfera da fioretti, la vita a Villanueva si svolgeva fervente e gioiosa.
In paese correva voce che a Santa Ana c'era una « santa ».
Da ogni parte, venivano a pregare la Madre, come fece una certa Ana Lòpez, che
metteva al mondo bambini nati morti.
Un giorno, arrivò nel bel mezzo della ricreazione. Le suore protestarono: la Madre
stava per lasciarle. Accidenti ai seccatori!
- La mia ricreazione - disse Teresa - è consolare gli afflitti.
Ed ecco che dà alla suora portinaia la sua cintura di cuoio:
quella povera donna la metta, abbia fiducia in Dio e Dio la esaudirà!
Evidentemente la famosa cintura fece il giro del paese, seminando guarigioni.
Era urgente tornare a Toledo. La Madre ebbe appena il tempo d'indicare il modo di
sistemare il convento. Si sarebbero seguiti i piani osservati a Malagon; Ana de San
Agustin arrivava da lì e si sarebbe occupata di sorvegliare il cantiere.
Ritornando in mezzo alle vigne, su quelle strade di terra rossa dove la pioggia getta
qua e là distese di cielo, la santa di Avila poteva scrivere: « Quelle sorelle vanno molto
bene, e spero che nostro Signore vi sarà servito fedelmente » (Lettere 3.4.1580, p.
927).
A Toledo l'aspettava un colloquio importante. Non avrebbe lasciato la città
imperiale senza aver incontrato il primate di Spagna, il grande inquisitore,
nientedimeno che il cardinale Quiroga in persona.
La Madre non nascose che lo scopo di questa visita era il permesso di fondare un
monastero carmelitano a Madrid. Ma una felice sorpresa commosse la riformatrice, a
detta del padre Graciàn come del padre Ribera.
- Sono molto felice di conoscerla - dichiarò il primate alla Madre in presenza di
Graciàn. - Lo desideravo da molto tempo. Troverà in me un sacerdote sempre pronto a
favorirla. Alcuni anni fa, venne presentato all'Inquisizione uno dei suoi libri (il Libro
della mia vita). E stato sottoposto a un severo esame. Io l'ho letto per intero: contiene
una dottrina sicura, vera e di grande vantaggio. Può riaverlo quando vuole... Le
accordo il permesso di fondare un monastero a Madrid e la prego di raccomandarmi
sempre al Signore.
Quale gioia profonda per questa figlia della Chiesa il sapere che non vi era in lei
traccia di eresia né d'illuminismo! E questa gioia le veniva data in quella stessa città di
Toledo dove suo nonno aveva fatto pubblica penitenza, proprio davanti agli
inquisitori.
Giorno memorabile quel 6 giugno 1580 in cui ricevette sì alta approvazione.
Villanueva, le sue beghine, e soprattutto, a tre leghe, la grande ombra inquietante
della Cardona e le sue mortificazioni spettacolari.
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La città del Tago, il grande inquisitore, supremo guardiano della fede in quei
reami.
La Madre si è sempre mossa in mezzo agli abissi.
Questo ci fa amare ancora di più l'umile grido che leggiamo nel capitolo XXVIII, in cui Teresa
racconta questa tredicesima fondazione, la fondazione delle nove poverelle di Dio.
« Non vi è nessun paragone possibile tra noi due, Catalina de Cardona e me... tutta
la mia vita se n'è andata in desideri, cui non sono seguite le opere. Mi sia d'aiuto la
misericordia di Dio, in cui ho sempre confidato per i meriti del suo santissimo Figlio e
della Vergine nostra Signora, di cui porto l'abito per la bontà del Signore »
(Fondazioni XXVIII, 35, p. 257).

2 - « Non sono più utile in questo mondo »

In piedi, nel chiostro della cattedrale, in compagnia del padre Bànez, guardavamo le
cicogne che volando descrivevano larghi cerchi sul cielo di giugno. La loro agilità, la
loro grazia, le loro ali candide come neve ci affascinavano.
- Dio sembra averle liberate dalla loro pesantezza in questo azzurro in cui l'estate
castigliana fa sfoggio di tutto il suo splendore, - disse...
Palencia! « La gente è della migliore indole e della più grande elevatezza di
sentimenti ch'io abbia mai visto », scrive la santa Madre (Fondazioni XXIX, 11, p.
269).
E tuttavia, in quel giorno della festa dei santi Innocenti del 1580, Teresa arrivava li
con un corpo logoro, stremato dalla vecchiaia. A Valladolid, si era creduto che stesse
per morire (Fondazioni XXIX, 1, p. 264).
- Ormai - continuava Graciàn - dimostrava tutta la sua età, mentre fino ad allora,
malgrado le sue infermità, aveva conservato un aspetto ancora giovanile.
- Tuttavia, - dissi - a otto leghe da Valladolid, questa fondazione non rappresentava
un'impresa difficile.
- Senza dubbio - replicò Bànez - la strada non era lunga; nondimeno Palencia si
trovava in condizioni molto difficili. In un documento di quel periodo si legge: «
Questa città è una delle più povere di tutto il regno. Da ogni parte, a centinaia, gli
infelici accorrono qui a mendicare elemosine, chi al vescovo, chi alle chiese. Cinque
monasteri di monache vi soffrono la fame ». I vescovi, compreso quello che chiamò la
santa Madre a fondare un monastero, Alvaro de Mendoza, fuggivano quella miseria
cronica.
A Palencia, preferivano di certo Valladolid, dove la corte si trasferiva di tanto in
tanto. Per quarant'anni, non risiedettero più di quindici giorni di seguito in quella
disgraziata città. Si capisce quindi la reazione del corregidor don Francisco de Ocio,
all'annunzio di un nuovo insediamento monastico. Infuriato, davanti al padre Graciàn
esclamò: « Suvvia, padre, faccia quello che chiedono i fondatori, don Suero e
compagnia: la Madre Teresa de Jesùs deve essere proprio munita di una provvisione di
consiglio reale di Dio poiché, contrariamente alle nostre decisioni, dobbiamo fare ciò
che le pare e piace ». In realtà, adesso, né la povertà né le autorità municipali
fermavano la Madre, ma le era d'ostacolo la sua salute logorata. Si sentiva così debole,
così prostrata, che « tutto le sembrava impossibile » (Fondazioni XXIX, 3, p. 265).
« Per incoraggiarla, il padre Ripalda, gesuita, passando per Valladolid, le disse:
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"Madre, questa pusillanimità è un effetto della vecchiaia!". Spiritosamente, Teresa
replicò: "Ora sono più vecchia, eppure l'alacrità non mi è mancata!".
« Tutti la spingevano a partire per Palencia: il padre Baltasar Alvarez, provinciale
di Toledo, suo antico confessore, la priora di Valladolid, e soprattutto il suo vecchio
amico don Alvaro de Mendoza che, da Avila, era divenuto vescovo di Palencia.
« Ma Teresa osservava: "Ero inceppata o dal demonio o - come ho detto - dalla
malattia" (Fondazioni XXIX, 5, p. 266).
« Chi, se non il Maestro di tutto, spezzò questi ceppi?
« Un giorno, dopo la comunione, nostro Signore le disse: "Di che temi? Quand'è
ch'io ti sono mancato? Io sono oggi quello che sono sempre stato; non lasciar di fare
queste due fondazioni" (Palencia e Burgos) (Fondazioni XXIX, 6, p. 267).
« Ancora una volta, l'ispirazione divina si riconosce dai suoi effetti. Per Teresa,
ogni intervento dall'Alto si traduce in un ritorno di forza e di combattività. Spesso,
questa trasformazione avviene dopo la comunione ».
- A tale proposito, mi sembra di ricordare, padre, ciò che raccontava in quel tempo
Fray Diego de Yepes.
- Certo - riprese Bànez - la storia è sulle labbra di tutti. Ecco le parole di Yepes: « Mi è capitato di
somministrarle due volte la comunione, quando aveva il viso scoperto. Mentre si avvicinava, con i
tratti terrei, per ricevere il Santissimo Sacramento, vidi il suo volto divenire bellissimo e traslucido.
Mi apparve in una così grande maestà che fui preso da rispetto. La seconda volta, malgrado i denti
guasti, neri e marci, il suo alito odorava di muschio ». Nel 1603, Fray de Yepes scrisse queste cose al
papa Clemente VII sollecitando la sua beatificazione.
- Questi fatti straordinari - dissi - si possono ammettere o contestare, ma, in conclusione, siamo
costretti ad accettare l'affermazione della santa: « Si vedrà così che spesso non sono io ad agire in
queste fondazioni, ma colui che può tutto » (Fondazioni XXIX, 5, p. 266).
Tanto la prima fondazione, in Avila, era passata sotto silenzio, altrettanto, per le
insistenti sollecitazioni dello stesso vescovo, amico della Madre, l'inaugurazione della
nuova casa di Palencia fu simile a una solenne intronizzazione.
Don Alvaro arrivò il 24 maggio 1581, la vigilia della festa del Corpus Domini e « stette da noi
tutto il pomeriggio » (Lettere 25.5.1581, p. 1066).
Venerdì 26 maggio, le parrocchie della città, il capitolo, tutti gli ordini religiosi e la
folla accompagnarono le carmelitane al loro nuovo monastero. Ministri, cantori,
orifiamme, stendardi e croci, che avvenimento e che corteo!
Il vescovo in persona prese il Santissimo Sacramento nella chiesa di San Làzaro
per portarlo all'altare maggiore di Nuestra Senora de la Calle. « Credo che il Signore,
quel giorno, in tale città fu molto lodato » (Fondazioni XXIX, 29, p. 278).
In realtà, non fu facile per la fondatrice trovare la volontà di Dio, anche in quel
paese pieno di così brava gente che, a parer suo, « di fronte a una simile carità
sembrava di essere ai tempi della Chiesa primitiva » (Fondazioni XXIX, 27, p. 277).
La sera dei santi Innocenti, le nuove venute si erano sistemate in un locale
provvisorio della via de Mezorqueros. Secondo la tattica teresiana, il padre Porras
aveva celebrato la messa prestissimo e in gran segreto, il 27 dicembre, festa di san
Davide.
Precauzioni inutili!
Non solo vi andava subito il buon vescovo Alvaro, ma anche il capitolo dei
canonici. Tutta quanta la popolazione si rallegrava dell'arrivo delle carmelitane
(Lettere 4.1.1581, p. 1066).
I fondatori, i coniugi Suero de Vega ed Elvira Manrique, ottimi cristiani, andavano a far visita alla
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Madre e parlavano di preghiera. Portavano con sé i loro figli di tre e quattro anni. Mentre i
genitori conversavano di argomenti spirituali, i bambini, impazienti, giocavano a nascondino con lo
scapolare della santa.
- Mamma, - gridava uno di loro - questa « signora suora »ha un buon odore, non
voglio uscire da sotto questa stoffa.
La cronaca aggiunge che, rivolgendosi alla madre del piccolo Giovanni, Teresa
profetizzò:
- Signora, questo bambino, lo voglio per il mio ordine.
In effetti, egli divenne Fray Juan de la Madre de Dios.
Ma lasciamo questi « Fioretti »!...
Bisognava trovare ad ogni costo una casa da comprare.
Prima proposta: prendere alloggio vicino al romitorio di Nostra Signora della
Strada, al centro della città. I canonici amici, Reinoso e de Salinas - mai, nel corso di
una fondazione la Madre ebbe rapporti così cordiali con il capitolo! - auspicavano
questa sistemazione. Ma il prezzo delle due case contigue alla cappella venne elevato
di botto ad una cifra tale che bisognò rinunciarvi.
Nel mese di febbraio, Teresa scrive: « Preghino il Signore a fàrci trovare una buona
casa, perché il romitorio non ci piace »(Lettere febbraio 1581, p. 1017).
Seconda proposta: la casa appartenente a un certo Tamayo, in via Don Pedro, vicina
a quella dei suoi benefattori Suero de Vega. I canonici insistettero perché la Madre
uscisse e andasse a visitarla.
« Benché questa costruzione non mancasse di grandi inconvenienti, ci passammo
sopra, decise a prenderla. Scrivemmo quindi, per il contratto, al proprietario assente
(Fondazioni XXIX, 15-16, p. 271s).
Tuttavia, la Madre spiega: « Il giorno dopo, durante la messa, mi venne un gran
timore di sbagliare... Appena fatta la comunione, udii le seguenti parole, che mi fecero
decidere fermamente a lasciare la casa che avevo in vista e a prendere quella di nostra
Signora: Questa ti conviene... Essi non sanno quanto io sia ofleso in quel luogo. Il
monastero vi porrà efficace rimedio. Mi venne in mente che potesse essere un
inganno, sebbene non ci fosse ragione di crederlo, riconoscendo io bene dagli effetti
operati in me che si trattava dello spirito di Dio. Aggiunse allora subito: Sono io
»(Fondazioni XXIX, 18, p. 272).
- Come vede - faceva notare il padre Bàfiez con il quale rievocavamo quelle tergiversazioni - la
santa Madre, da donna assennata, impiegava tutta la sua intelligenza a ricercare la volontà di Dio
attraverso i grovigli umani. Dobbiamo riconoscere che era portata a cavillare. - Poi, sorridendo,
aggiunse: - Era, sì o no, figlia di converso?
Ma soprattutto sensibile alle pressioni dello Spirito, appena esso interviene, Teresa
si sottomette, da vera discepola, conoscendo per esperienza i suoi frutti di pace, di luce
e di decisione. Sano comportamento di una cristiana che sa bene, nell'assetto del Re-
gno, a quale Signore deve sempre fare riferimento.
Si osservi tuttavia la sua prudenza.
Dopo essersi comunicata, Cristo le parla... Non si tratta forse di un inganno?
Fa chiamare il suo confessore, il canonico Reinoso; « molto saggio, oltre ad essere
un gran santo, e, benché giovane, capace di consigliare bene in qualunque circostanza
». Teresa si spiega, gli spiega tutto. Il sacerdote rimane perplesso. Che cosa diranno in
città, poiché l'affare era già concluso?
La Madre suggerisce di aspettare il ritorno del messo inviato al proprietario
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Tamayo; poi si vedrà.
« Da parte mia speravo che Dio avrebbe rimosso ogni difficoltà ». Era già stato
pattuito un prezzo alto. Adesso, Tamayo, volendo ricavare il massimo guadagno,
esigeva altri trecento ducati: era davvero troppo. Per la Madre e il suo confessore, la
scelta era chiara: a qualunque costo, si doveva comprare la casa vicina al romitorio di
Nostra Signora. Dio e gli uomini avevano deciso così.
E la riformatrice esulta per ragioni del tutto soprannaturali:
« Il fatto principale è che in essa si serve nostro Signore e la sua gloriosa Madre »
(Fondazioni XXIX, 23, p. 275).
Palencia era una città di transazioni, come Medina del campo. Di lì passavano i
commercianti in viaggio verso il Portogallo o verso le Fiandre. Ogni giovedì accorreva
gente da tutta la provincia per un mercato molto ben fornito. Nostra Signora della
Strada, al centro della città, attirava devoti, ma anche furfanti di ogni risma, e i
pellegrinaggi, come le feste del Dio d'Israele al tempo dei profeti, divenivano
divertimenti del diavolo. In quel luogo, il Carmelo avrebbe assunto tutto il suo
significato: alto punto di vedetta di Dio sul tumulto umano e il suo peccato. « Ci
rallegriamo di poter rendere qualche servigio alla Vergine nostra Madre, Signora e
Padrona » (Fondazioni XXIX, 23, p. 275).
« Sia benedetto per sempre colui che mi ha dato luce a questo riguardo, come me la dà
ogni volta che riesco a fare qualcosa di buono, perché io sono stupita ogni giorno di
più della mia inettitudine in tutto. E non si deve pensare che questa sia umiltà, ma una
costatazione che ogni giorno diventa più chiara. Sembra volontà del Signore ch'io e
tutti riconosciamo ch'è solo lui a compiere queste opere » (Fondazioni XXIX, 24, p.
275s).

Palencia, oltre alla sua accoglienza, alla sua cordialità, alla sua popolazione
generosa, preparava una gioia grandissima alla fondatrice. « Mentre ero a Palencia,
Dio volle che si facesse la separazione dai calzati degli scalzi, i quali venivano a
formare una provincia a parte, ch'era quanto desideravamo per la nostra pace e
tranquillità » (Fondazioni XXIX, 30, p. 278).
Era questione di buon senso: due ritmi, due stili di vita, due ispirazioni! Certo, la
riforma carmelitana, da parte dei monaci, aveva dato adito ad alcuni errori. Era vivo il
ricordo di Pastrana e delle sue eccentricità. Ma, come conservare il vino nuovo in otri
vecchi? E l'opera della santa di Avila spumeggiava come un vino di primissima
qualità; sottometterla all'antica osservanza, significava annacquare un vino ottimo e
trasformarlo in vinello.
Ventidue monasteri della riforma, trecento frati, duecento monache. Perché i monaci
calzati tenevano tanto a mantenere sotto la giurisdizione di un unico provinciale
uomini e donne, in apparenza simili, ma fondamentalmente diversi, sui quali avevano
lasciato un'impronta indelebile personalità originali quanto la Madre Teresa e Fray
Juan? Gelosia? desiderio di dominio? paura che un giorno, il ramo riformato più forte,
più numeroso, fosse preso da capricci riformistici? Non cerchiamo di sapere...
Una cosa è chiara: il 22 giugno 1581, il papa firmava un breve che poneva calzati e
scalzi sotto la giurisdizione di provinciali diversi.
A chi era dovuta questa decisione di Roma, se non al « nostro santo re, don Filippo »,
come scrive la Madre? « Per mezzo di lui nostro Signore ha condotto le cose a tanto
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buon fine. Se non fosse stato per lui, il demonio era ricorso a tali artifizi, che
ormai la nostra opera sarebbe crollata » (Fondazioni XXIX, 31, p. 279).
Gli esperti della storia spagnola possono storcere il naso. Fino alla fine dei secoli, si
cercherà di capire il figlio di Carlo V, l'enigmatico signore dell'Escorial, sua maestà il
re cattolico Filippo 11.11 suo carattere chiuso, il suo gusto dell'intrigo, la passione di
governare ogni cosa da sé, una fede sicura, ma un temperamento da inquisitore, tutto è
stato detto su di lui. E tuttavia il personaggio sfugge, senza lasciarsi afferrare da noi,
sperduto in fondo alle gallerie e ai corridoi del suo palazzo-monastero.
Qualunque cosa si possa dire della sua persona, Filippo Il sostenne la riforma. Non ha
mai incontrato la santa di Avila. Nel 1569, tornando dalla fondazione di Toledo e
passando per Madrid, ella gli aveva rivolto, tramite la propria sorella, la principessa
dona Juana, un monito misterioso: « Di' al re che si ricordi del re Saul ». Sua Maestà
aveva manifestato il desiderio di fare la sua conoscenza: « Non potrò dunque vedere
questa donna? »... Ma la Madre si era eclissata.
Dopo tutte le persecuzioni subite, era chiaro che il padre Tostado, visitatore della
Spagna, e il nunzio Sega, parente del papa, desideravano l'estinzione degli scalzi.
Filippo Il redasse dunque una lunga nota che comunicò alla Santa Sede. Da parte sua,
auspicava la separazione delle province. Il suo desiderio era un ordine.
Dal suo canto, la riformatrice non rimaneva inoperosa. Inviava a Roma il priore di
Mancera, Juan de Jesùs Roca, e quello di Pastrana, Diego de la Trinidad. Sotto diversi
travestimenti, essi giunsero alla sede della cristianità e si procurarono grandi amici fra
i cardinali.
Frattanto si teneva il capitolo generale dei carmelitani, il 6 maggio 1581. Con il nuovo
superiore generale, appoggiato dal nunzio Sega, veniva fatta pressione sul santo padre
perché si opponesse al parere di sua maestà il re cattolico. Ma i due scalzi
manovrarono abilmente, mentre le preghiere della Madre e delle sue figlie facevano il
resto. Senza avventurarci in complicazioni che non sono per noi molto interessanti,
ricordiamo che giungeva da Roma il breve, un breve « molto ampio » di separazione,
ad Alcalà si teneva un capitolo di scalzi e il padre Graciàn veniva nominato
provinciale (Fondazioni XXIX, 30, p. 278s).
Esultante, la Madre trae insegnamento da questi avvenimenti:
« Chi verrà dopo di noi, trovando tutto sistemato, non lasci mai indebolire in nessuna casa la
perfezione, per amore di nostro Signore. Non si dica di essi ciò che si dice di certi ordini, cioè che gli
inizi sono stati lodevoli. Noi cominciamo ora. Procuriamo di cominciare sempre e d'andare innanzi di
bene in meglio. Badate che, servendosi di ben piccole cose, il demonio apre la breccia attraverso cui
passano quelle assai grandi. Non ci accada mai di dire: "Questo non ha alcuna importanza; sono tutte
esagerazioni". Oh, come tutto è grave, figlie mie, quando si cessa di andare avanti! » (Fondazioni
XXIX, 32, p. 279s).
A Palencia, durante la settimana santa del 1581, la fondatrice si fece tradurre il breve,
che era molto lungo, e lì, in quella città dove aveva ricevuto in parlatorio innumerevoli
visitatori, - (« Io non c'entro per nulla, se non per lo scalpore che desta Teresa de Jesùs
») - lì ella lanciò quel grido, segno che la notte stava ormai per cadere:
- Si, Signore, non sono più utile in questo mondo; potete prendermi quando vorrete.

3 - Sotto il diluvio: ultima fondazione

« Entrammo a Burgos in mezzo alle acque - dichiara Ana de San Bartolomé - le strade
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sembravano dei ruscelli ».
Era un venerdì, l'indomani della conversione di s. Paolo, il 26 gennaio 1582.
Il provinciale, il padre Graciàn, volle che le fondatrici andassero alla cattedrale a
venerare il « santo Crocifisso ». Tutta Burgos sfilava, proprio il venerdì, davanti alla
singolare scultura. Quella testa che ricadeva sul petto, con il collo su cui si
delineavano i nervi e le vene, i suoi capelli, la sua bocca... Si raccontavano cento
leggende su quel sacro legno, sulla flessibilità della sua carne, la naturalezza della sua
capigliatura e delle sue unghie che sembravano crescere sull'immagine stessa dell'«
uomo dei dolori ».
Malata, febbricitante, con un ascesso alla gola, la santa Madre poteva contemplare
quella santa effigie, simile a quella della sua vita che si stava spegnendo.
Ogni uomo, ogni donna, vedendo il suo viso livido, il suo corpo incurvato, poteva
capire che quella quindicesima fondazione era la sua ultima impresa.
In effetti, Teresa dedicò ad essa un lunghissimo capitolo, dopo di che non dovrà far
altro che chiudere il suo libro e aspettare la morte (ne era stata misteriosamente
avvertita a Toledo nel 1569 (Relazioni VII, p. 4721), prima della fine di quell'anno
1582, iniziato nelle sofferenze.
Al tramontar del giorno, le suore furono accompagnate in casa di dona Catalina de
Tolosa, all'altro capo della città, vicino ai contrafforti del castello e non lontano dalla
parrocchia di San Gil.
Nel vasto camino era acceso un gran fuoco. La Madre e le sue figlie, inzuppate fino
alle ossa, si misero lì davanti ad asciugarsi. Attraverso le fiamme danzanti, Teresa
rivedeva gli ultimi avvenimenti come una fantasmagoria.
Certo, non era venuta a Burgos, capitale della Vecchia Castiglia, per un colpo di testa.
Era stata chiamata da una santa vedova, Catalina de Tolosa, la quale, per quattordici
anni, aveva accolto sotto il suo tetto la prima fondazione dei gesuiti. Quattro delle sue
figlie erano entrate al Carmelo: due a Valladolid, altre due a Palencia. L'arcivescovo
don Cristòbal Vela, nativo di Avila, era il nipote del padrino di Teresa e, su richiesta
del suo amico don Alonso de Mendoza, vescovo di Palencia, aveva promesso di ac-
cogliere con benevolenza le carmelitane.
Tutto si annunciava sotto buoni auspici: un vescovo favorevole, una donatrice
generosa, conoscenze nel consiglio della città.
Tuttavia, Teresa si era mostrata ricalcitrante. Burgos, nel nord della Spagna, appariva
favolosamente lontana. La Madre se ne era già accorta e aveva sottolineato questa
sensazione quando, appena sei mesi prima, aveva fondato nella stessa regione il
convento di Soria.
A Burgos si trovano due cose: la cattedrale e il freddo. Quel « freddo » - la parola è
ripetuta più volte nel capitolo XXXI de Le fondazioni - la Madre lo temeva... Aveva
dunque deciso di mandare in sua vece la priora di Palencia, quando il Signore le
dichiarò: « Non badare al freddo, ché io sono il vero calore. Il demonio impiega tutte
le sue forze per impedire quella fondazione: impiega tu le tue, da parte mia, per farla, e
non mancare di andar lì di persona, perché la tua presenza sarà molto utile
»(Fondazioni XXXI, 11, p. 296).
Non ebbe freddo; « a dire il vero, non ne ho sofferto più di
quando stavo a Toledo », ma tutte le cateratte del cielo si aprirono sulla spedizione.
Il suo abito di grossolano bigello fumava davanti al fuoco, mentre si consumavano
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enormi tronchi di querce. Le suore, an- ch'esse sfinite, tacevano, e intanto davanti
ai suoi occhi danzavano immagini di grazia e di spavento.
Erano partiti martedì 24 gennaio. Suero de Vega e sua moglie, i loro benefattori di
Palencia, li avevano scortati per una mezz'ora circa.
- Avrei voluto tanto vedere il viso della santa! - disse Suero al padre Gracian.
Ed egli ordinò alla Madre di togliere il velo che le celava il volto. Il brav'uomo si
avvicinò allo sportello; la Madre gli parlò gentilmente e lo abbracciò, mentre il buon
caballero piangeva di gioia come un bambino.
Primo ostacolo: i carri affondavano nel fango. Bisognò scendere, staccare i cavalli.
Le monache sguazzavano, con le alpargatas che restavano appiccicate alla terra
argillosa.
Seconda avventura: nel seguire uno stagno, la mula del padre Gracian si chinò per
bere.
Grida di donne: dove è andato a finire il nostro padre? non lo si vedeva più... è
scivolato... è annegato...
La Madre si rassicurò soltanto quando, attraverso il telone, intravvide il provinciale,
placido, tranquillo, passare vicino a lei per superarla.
Pioveva, pioveva sempre quando, venuta la sera, la comitiva varcò la porta di una
locanda. Bella dimora! nemmeno un letto da offrire alla Madre che batteva i denti per
la febbre.
- Piove e continuerà a piovere per un bel pezzo. La luna nuova - commentavano i
pastori, i bovari, i passeggeri... - Se continua così, non avremo bisogno di scendere a
Santander per navigare sul mare Cantabrico!
A quei ricordi, il viso di Teresa si contraeva. Davanti ai viaggiatori, nel luogo
chiamato i pontones si era aperta « un'enorme quantità d'acqua senza strada né
imbarcazione » (Fondazioni
XXXI, 17, p. 299).
In effetti, alla confluenza dell'Hormazas e dell'Arlanzon, il ponte di legno era sommerso e si
poteva avanzare soltanto ritrovando la strada con un bastone, sotto le acque. « Bastava il minimo
scarto perché andassero perduti nel diluvio mule, carri, monache, provinciale e fondatrice ».
Ma il Signore aveva raccomandato di non avere paura.
La Madre, ad occhi chiusi, rivedeva quei flutti giallastri che trascinavano tronchi
d'alberi. Sentiva fischiare un vento d'inferno che scuoteva le cime spoglie dei pioppi e
ricacciava indietro, sotto una raffica più violenta, un volo di corvi sinistri che
gracchiavano in modo lugubre.
Nella locanda fervevano i commenti:
- Quelle donne erano pazze!... E un bel pezzo che le autorità comunali di Burgos
hanno denunciato la pericolosità del passaggio dei pontones: taglia la strada reale
proveniente da Valladolid, e mette in pericolo carri, equipaggi e cavalli... ma nessuno
vi ha posto rimedio.
Per giunta, erano capitati loro « carrettieri giovani e poco attenti » (Fondazioni
XXXI, 17, p. 299).
E Teresa si ricordava.
Come aveva potuto lei, così vecchia, così malata, esclamare:
« Coraggio, figlie mie! Qual sorte più bella che morire per Gesù Cristo ed essere
martiri per suo amore? ».
Chi le avrebbe guidate in quella via torrenziale? Tutti avevano rifiutato... A forza di
183
ducati, riuscirono a convincere il locandiere:
avrebbe aperto lui la marcia.
Le carmelitane si confessarono e chiesero la benedizione della santa Madre.
Aveva fatto bene? in ogni caso, era stata la prima ad avanzare. Per i testimoni, che
impressione faceva quella vettura che beccheggiava sulla rapida corrente? se la mula
di testa si fosse impaurita, se una ruota del carro fosse slittata a destra o a sinistra...
Sì, ma la Madre sapeva in chi aveva riposto la sua fiducia. Come l'arca di Noè, tutte
le vetture erano passate...
Adesso, il fuoco si stava smorzando. Tuttavia, Teresa si sentiva male, così male...
Invece di darle sollievo, quel braciere aveva aumentato le sue sofferenze.
L'indomani - immobilizzata, anchilosata, distrutta - non riusciva ad alzarsi dal letto.
Quel giorno, tut~a Burgos - amici, ufficiali municipali, cano nici avvertiti dai loro parenti o
conoscenti di Palencia - cominciò a sfilare davanti a una finestra con grata vicino al suo giaciglio
(Fondazioni XXXI, 20, p. 301).
Don Pedro Manso de Zùniga, commosso di « potersi intrattenere con una santa e
amica del Signore », si sentiva « venire meno per il rispetto ». Non avrebbe mai
dimenticato la convinzione che aveva acquisito: senza alcun dubbio, « la Madre
Teresa de Jesùs era una grande colonna nella Chiesa di Dio ».

Se tale era l'opinione dei suoi visitatori, la stessa cosa non poteva dirsi
dell'arcivescovo! Dopo i torrenti del viaggio, una sottile pioggia di collera, di
diffidenza, di sospetti, di persecuzioni sarebbe caduta, per lunghe settimane, sulle
nuove venute, da parte di un uomo da cui nessuno se l'aspettava: sua signoria don Cri-
st6bal Vela, arcivescovo illustre dell'illustrissima città del Cid.
Benché dovesse soffrire molto a causa di sua signoria, Teresa racconta i suoi scontri
con un certo umorismo, un sorriso che vorremmo far nostro.
Nativo di Avila, colmato di titoli, diplomato a Salamanca, titolare di una cattedra a
Escoto, decano del capitolo di Avila, quel brillante ecclesiastico, prima vescovo delle
Canarie, era stato promosso nel 1580 alla sede di Burgos. Aveva ricevuto il pallio
dalle mani di don Alonso de Mendoza che, su richiesta della Madre, gli domandò il
permesso di fondare a Burgos un carmelo riformato.
Nell'euforia di un buon pasto, sua grandezza glielo concesse molto volentieri. Ma
quando il 27 gennaio, di buon mattino, il padre Graciàn, ancora sfinito e infangato dal
viaggio, si presentò a chiedere una benédizione per il nuovo convento, don Cristobal
fu preso da un terribile accesso d'ira.
- Ma come! la Madre era venuta a Burgos, e, per giunta, con un gruppo di monache!
Mai, mai egli aveva voluto una cosa simile!
Del resto, la città non sapeva che farsi di tanti monaci, fraticelli e suore. Non ne aveva forse già
abbastanza? Il monastero de las Huelgas attirava le migliori ragazze della nobiltà spagnola. Non si
ingannava il popolo che diceva scherzando: « Se il papa dovesse prendere moglie, non potrebbe
sposare che una badessa de las Huelgas ».
E poi, c'era « Miraflores, la più fiorente e la più ricca certosa del regno ».
- Eppure, - replicava Gracian - don Alonso de Mendoza ci ha dichiarato che vostra
signoria voleva un carmelo riformato nella sua diocesi.
- Sia pure! - rispose don Cristòbal, imbarazzato che gli venissero ricordate le sue
promesse... - ma non subito.
La Madre sarebbe dovuta venire sola per negoziare. Non ci si impone, si propone. E
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Dio decide... Vale a dire: « Io decido, poiché io lo rappresento... ».
Poi, battendo sul tavolo:
- Non hanno una casa propria, non hanno rendite?... Ebbene, non darò mai
l'autorizzazione... Se ne tornino indietro!...
Le gocce di pioggia tambureggiavano a gara sui vetri del palazzo episcopale. « Con
quelle strade così buone e con quel tempo così bello! » commenta ironicamente Teresa
(Fondazioni XXXI, 21, p. 302).
Ecco le nostre suore chiuse in casa di dofla Catalina, condannate a uscire la
domenica e i giorni di festa per ascoltare la messa. Bisognava poi trovare cappe e
scarpe, poiché il diluvio continuava sempre. Nel vedere quelle monache agghindate
come è facile immaginare, alcuni si ribellavano contro l'arcivescovo, conoscendo la
sua animosità; i più ridevano e motteggiavano. Un giorno che la Madre evitava una
pozzanghera, una comare ce la spinse dentro gridando:
- Lasciate passare la santa!
Gli amici della fondatrice soffrivano di fronte a tanta ostinazione.
- Monsignore, - dicevano a don Crist6bal - in casa di dona Catalina c'è una grande
sala in cui per quattordici anni i padri della Compagnia di Gesù hanno celebrato la
messa all'inizio della loro fondazione. Permetta che venga ripresa questa santa
tradizione.
- Storie! - ripeteva l'arcivescovo. - Le carmelitane vanno in parrocchia e dànno di
certo un buon esempio alla gente.
Inutile dire che per tutto il sànto giorno tali malignità venivano riferite alla Madre.
Al padre Pedro della Purificaciòn ella rispondeva:
- Ah! no! sua signoria non mi vuole male. E ministro di Dio e lo Spirito Santo si
serve di lui per il mio bene e la mia salvezza. Mi creda, padre, la migliore battaglia per
guadagnare il cielo è la pazienza nelle prove.
Ma era spiacente di far perdere un tempo prezioso al padre provinciale e di essere a
carico dei suoi amici.
La Madre stava un po' meglio. L'ascesso alla gola era scoppiato, e così poteva
ingerire cibi triturati. Decise dunque di recarsi dall'arcivescovo. Nel frattempo, le
suore avrebbero pregato e si sarebbero date la disciplina.
Sua grandezza sorrise lievemente vedendo una sua concittadina... Teresa de
Ahumada, sua parente. Ricordi, gioie, lutti... Dapprima parlarono di vari argomenti,
ma s'imbronciò appena la povera donna sollecitò il permesso di celebrare la messa e di
fondare il Carmelo.
- No, no e poi no!
Era proprio duro come i sassi della sua città natale!
- Monsignore, le mie consorelle non smettono di pregare e darsi la disciplina
durante tutto il nostro colloquio, perché sia volto alla gloria di Dio e al bene delle
anime.
- Ne sono molto lieto, - replicò il prelato. - Fanno opera santa... Ma mai, lo ripeto
ancora una volta, mai darò questa autorizzazione.
Alla fine, la Madre riuscì ad ottenere una lieve speranza:
- Se un giorno fosse riuscita a mettere insieme 40.000 duca-ti, vale a dire quindici
milioni di maravedi, per comprare una casa, allora egli avrebbe dato il suo consenso!
Sua grandezza pensava di mettere le suore davanti ad un ostacolo insormontabile,
185
ma gli amici del canonico Salinas « si offrirono a far da mallevadori e Catalina
de Tolosa, da parte sua, ad assicurare la rendita della fondazione » (Fondazioni XXXI,
23, p. 303).
Tutto andava dunque per il meglio.
Monsignore fece sapere che bisognava demandare la questione al vicario che
avrebbe sbrigato subito la pratica.
Dopo un mese arrivò la risposta: negativa. Sua grandezza aveva compassione di noi.
La casa dove stavamo e di cui facevano dono era troppo umida; ci saremmo buscate
una malattia mortale.
Inoltre, la strada era troppo rumorosa. C'erano poi altre difficoltà per la sicurezza della rendita. In
poche parole, ci ritrovavamo al punto di partenza (Fondazioni XXXI, 25, p. 304).
C'era aria di disperazione. Le suore piangevano. Il padre provinciale si scoraggiava. Inoltre, i
confessori gesuiti di dona Catalina la rimproveravano: aveva destinato i suoi beni alla Compagnia
dopo la sua morte. Come osava dunque favorire quelle carmelitane avventuriere? La povera vedova
usciva dal confessionale prostrata.
« Mentre eravamo in questa afflizione, - continua la Madre - nostro Signore mi disse queste parole:
"Ora, Teresa, tieni duro!" ». - Riparta! - suggeri la fondatrice al padre provinciale -Vada a predicare
la quaresima a Valladolid. Dio ci aiuterà (Fondazioni XXXI, 26, p. 305). Senza dubbio quella
gran dama si sentiva più a suo agio da sola: tanta gente scalpitante, schiamazzante
intorno a lei le toglieva la sua libertà d'azione. Acuta, perspicace, accorta, aiutata dalla
grazia, capace di mandare giù tutti i soprusi, avrebbe condotto a buon fine quella
fondazione, poiché Dio lo voleva.
Il provinciale e i suoi amici rifiutarono di lasciare le infelici monache in una casa privata. Esse si
trasferirono dunque nell'ospedale della Concezione: lì, avrebbero potuto assistere ogni giorno alla
messa senza dover girare per le strade.
Alloggiate sotto il tetto, le carmelitane divennero presto causa d'inquietudine per un'inquilina vicina
di piano, una vedova che vi abitava soltanto sei mesi all'anno. Furiosa per quella vicinanza
monastica, non solo chiuse la porta a chiave, ma, per giunta, la fece inchiodare all'interno. Infine
andò raccontando a destra e a manca che quelle intruse, a lasciarle fare, avrebbero finito con l'«
appropriarsi dell'ospedale » (Fondazioni XXXI, 27, p. 305).
Bisognò dunque promettere, davanti a un notaio, che le suore sarebbero rimaste soltanto fino a
Pasqua, dopo di che, con le loro povere masserizie, avrebbero sgombrato.
Il giorno della festa di s. Mattia, il 23 febbraio 1582, le nuove venute occupavano dunque due stanze
e una cucina sotto il tetto, con una tribuna della chiesa, dall'alto della quale seguivano la messa.
Dofla Catalina accorreva quasi ogni giorno dall'altro capo della città, carica di provviste, bersagliata
anch'ella da frizzi e da critiche: « Eccola che dà da mangiare alle monache, ma rovina i propri figli »
(Fondazioni XXXI, 30, p. 307).
Frattanto, Teresa non restava immersa nelle sue preoccupazioni o rapita in preghiera. La tribuna dava
sulla sala in cui venivano ricoverati gli uomini, nella parte settentrionale dell'edificio. Gemiti e fetore
riempivano i locali troppo angusti nei quali -come avveniva quasi sempre in quel tempo - mancavano
le cure, l'igiene, le visite.
La Madre, sempre malata, scendeva, assistita dalla sua infermiera. Ogni volta portava qualcosa: un
giorno, alcune arance che le avevano offerto e che aveva nascosto nelle sue maniche, un altro giorno,
un po' di limoni. La sua figura diventava popolare. Gli infermi l'aspettavano, la reclamavano: « Dove
è la santa? ». Quando se ne andava, si alzava un coro di lamenti.
L'ospedale dava asilo ad altri ospiti molto inquietanti: topi e insetti parassiti di ogni specie
infestavano quei luoghi. Malgrado la sua estrema povertà, la Madre amava più di chiunque altra la
pulizia. Quale dovette essere dunque la sua repulsione nel vedere pullulare i pidocchi!
Frattanto, la casa, la famosa introvabile casa fu finalmente trovata da un amico di Graciàn, il
licenziato Aguiar, e comprata a buon prezzo, la vigilia della festa di s. Giuseppe. Era un ottimo
affare, all'uscita settentrionale della città, sulla strada che porta alla certosa di Miraflores, un luogo di
delizie, « così per il giardino, come per il panorama e le acque » (Fondazioni XXXI, 39, p. 312).
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Avvertito, l'arcivescovo si rallegrò molto e, volgendo a proprio profitto le difficoltà che
aveva accumulato da diverse settimane, 5 'inorgoglì: « Vedete bene che avevo ragione a non darvi
l'autorizzazione! » (Fondazioni XXXI, 40, p. 312).
Tuttavia, continuava a rifiutarla: che? le suore avevano messo fuori un inquilino!... Come? la Madre
aveva fatto mettere una grata senza parlargliene!...
Nuove tergiversazioni di sua grandezza. Bisognava fare ancora alcune scritture con Catalina de
Tolosa. Nonostante in quella casa vi fosse una cappella in cui gli antichi proprietari facevano cele-
brare, la messa, don Cristòbal rifiutava il suo permesso alle carmelitane.
Che cosa lo tratteneva?... Che cosa lo irritava?...
Andava spesso al nuovo convento. Un giorno, chiese alle suore una giara d'acqua fresca, racconta
Ana de San Bartolomé. Teresa gliela offrì con un regalino che aveva ricevuto:
- Madre, mi ha fatto un bel dono. In tutta Burgos non ne ho ricevuto mai uno così
gradito, poiché viene dalle sue mani.
La Madre replicò: Anch'io vorrei ottenere un permesso da vostra signoria... Ma sua
grandezza era davvero irremovibile quanto le mura di Avila, la sua città natale. Allora
la fondatrice, non sapendo più a che santo votarsi, si rivolse a don Alvaro de Mendoza.
Intervenisse lui, poiché i due vescovi erano così amici...
Dopo una mossa falsa, la lettera decisiva arrivò, e don Cristòbal Vela cedette. A dir
vero, per le funzioni della settimana santa del 1582, le povere donne dovettero ancora
uscire e andare in parrocchia. Il giovedì santo, la Madre, poco svelta nel cedere il
posto, fu urtata da una megera e cadde. Si rialzò ridendo, e le suore si rasserenarono
insieme a lei.
Domenica di pasqua, lunedì, martedì... l'autorizzazione, attesa da due mesi e
finalmente promessa, non arrivava ancora.
Le figlie di Teresa erano al colmo dello scoraggiamento e Catalina de Tolosa se ne
andava, inconsolabile, ripetendo che sarebbe tornata soltanto quando la fondazione
sarebbe stata fatta...
Proprio in quel momento entrò un caballero, Hernando de Matanzas. Prima di aprire bocca, si
mise a scampanellare a più non posso. Le monache, piangendo di gioia, capirono che la messa poteva
essere finalmente celebrata e che il monastero di San José e di Santa Ana de Burgos, per la grazia di
Dio e per la benevolenza di sua grandezza l'arcivescovo di Burgos, era fondato!

Quest'ultima fondazione sotto il diluvio, nel cuore di una delle più famose città della Spagna,
rimane un simbolo. Tutta una città si agita: dai fruttivendoli ambulanti fino al padrone di casa, l'arci-
vescovo, il vicario generale, il consiglio della città, la polizia. La vecchia fondatrice dedica le sue
ultime ore di vita a descrivere questo mondo eterogeneo con grande vivacità di stile e in questo,
anziché sembrare un'agonizzante, può rivaleggiare con Cervante~. Ma soprattutto, ella domina
dall'alto la mischia con il suo umore costante, il suo senso dell'umorismo, il suo cuore traboccante di
delicatezza, la sua inalterabile fiducia in Dio. Così i cinque campanili della cattedrale di Burgos
s'innalzano svelti nell'azzurro, al di sopra dei tetti, dei palazzi, delle vie accalcate vicino all'Arlanzòn.
La cosa più sorprendente rimane la sua serenità, la sua arte di scusare, in modo
particolare quel prelato enigmatico la cui ostinazione non cessava di farla soffrire. Più
tardi, egli confesserà che temeva di discorrere a quattr'occhi con la fondatrice. Aveva
paura di sentirla parlare delle sue esperienze mistiche: chi poteva assicurare che non
provenissero dallo spirito maligno? Teresa gli parlò della sua vita di preghiera, della
sua esperienza di Dio. D'allora in poi, don Cristòbal si mise a venerarla.
Così, di fronte a quella monaca il cui viso livido e l'andatura vacillante lasciavano
presagire una prossima fine, nessuno poteva restare indifferente. In certo qual modo,
molto modestamente, si poteva dire di lei ciò che si dice del Signore che ella serviva.
Mentre il vescovo di Palencia, don Alvaro, il suo amico di un tempo, interveniva
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presso don Crist6bal, con il rischio di mettersi per sempre in urto con lui, il
dottor Manso faceva notare alla Madre « che se la morte di nostro Signore aveva reso
amici quelli che prima non lo erano, lei, invece, aveva reso nemici loro due
»(Fondazioni XXXI, 43, p. 315).
Non tardarono a sorgere altre difficoltà che non staremo qui a raccontare.
Mentre un giorno la Madre se ne preoccupava, dopo la comunione, il Signore le
disse: « Di che temi? E cosa ormai finita; puoi ben andartene » (Fondazioni XXXI, 49,
p. 319).
Ormai, sarebbe stata breve la tappa, dalle rive dell'Arlanz6n alle sponde del Tormes,
lo spazio di una breve estate e poi sarebbero giunte la morte, la vita, la gloria.

4 - Ultime pene

Staccarsi da Burgos non era stato facile. Colei che vi era entrata sotto le trombe d'acqua, all'inizio
dell'anno 1582, se ne andava quel 26 luglio sotto un sole splendente. Dovunque i mietitori
lavoravano alacremente. La vettura della Madre scendeva le rive dell'Arlanzòn dove volava qua e là,
come una freccia azzurra e rossa, un airone. L'Arlanzòn! Quante storie aveva provocato! Era stato li
lì per sommergerla due volte: prima, alla sua venuta all'epoca del diluvio d'inverno; poi, la notte del
23 maggio quando, uscendo dal suo letto, aveva devastato e distrutto una parte considerevole della
città del Cid: il ponte di pietra di Santa Maria, palazzi, conventi. Chi aveva resistito a
quell'inondazione di fango, di sassi convogliati, di alberi sradicati? Solo le carmelitane, appollaiate
nella stanza più alta del monastero, prosternate davanti al Santissimo Sacramento dalle 6 della
mattina fino alla metà della notte seguente. - Uscite! veniamo a prendervi! - avevano gridato
loro da una barca. Ma la Madre aveva rifiutato.
Corsero all'arcivescovado a spiegare il pericolo al quale si esponevano quelle
monache per la loro ostinazione.
- Lasciate Teresa de Jesùs... Ha un salvacondotto speciale. Uscirà quando vorrà -
aveva risposto l'arcivescovo.
A mezzanotte, le acque cominciarono a calare. Il carmelo, con le mura crollate,
l'interno devastato, le porte infrante, presentava uno spettacolo da fine del mondo. Ma
il prestigio della fondatrice risplendeva per tutta la città. Dall'arcivescovo all'ultimo
dei bottegai, andavano raccontando che se Burgos non era stata sommersa sotto le
acque, lo si doveva al fatto che la santa aveva « legato le mani di Dio ».
Ricostruire, organizzare... e già la preoccupazione di fondare un monastero a
Madrid la spingeva ad abbandonare questa città (Lettere 6.7.1582, p. 1211).
Partendo, lasciava amici laici, monaci e preti inconsolabili, e - come sempre accade all'avvicinarsi
della morte - parole che si imprimevano nel ricordo tanto più fortemente in quanto la sua scomparsa
le rendeva immortali.
Prese congedo dal suo confessore, il dottor Manso, dicendo « che se ne andava per
morire ».
Fray Pedro de la Purificaciòn, nominato priore del collegio carmelitano di Alcalà,
riferiva a quanti volevano ascoltarlo una riflessione di quella donna della quale sempre
più si dichiarava « figlio ».
In parlatorio si era presentata una signora adorna di sontuosi gioielli:
« Credimi, padre, - bisbigliò Teresa sorridendo - da quando nostro Signore Gesù
Cristo mi ha concesso il favore di visitarmi e di mostrarsi a me con il Padre Eterno e lo
Spirito Santo in una bellezza e in uno splendore così grandi, l'ho talmente presente agli
occhi della mia anima, che nulla di terrestre può appagarmi: tutto mi sembra sgraziato
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e brutto. Nulla mi soddisfa, se non il vedere con lo sguardo interiore le anime
rivestite dei doni di Cristo ».
Il giorno della sua partenza, Aguiar l'accompagnò per un tratto fino al monastero di
Santa Clara. Perdeva molto quel dotto caballero, che si era dato anima e corpo
all'opera della riforma. Arrogante, autoritario, mordace, egli si era improvvisamente
trasformato. Quelli che lo frequentavano attribuivano tale trasformazione al contatto
della santa Madre. Stava ad ascoltarla per lunghe ore, ammirando la sua dolcezza, il
distacco da se stessa con il quale rievocava le sue fondazioni, le sue sofferenze e le sue
continue malattie. Più tardi, riconosceva che « le ore del giorno in cui s'intratteneva
con lei passavano senza che se ne accorgesse; quelle della notte, nella speranza di
rivederla ».
Così sballottata nella sua vettura, la fondatrice, accompagnata da Ana de San
Bartolomé e dalla nipote Teresita, si allontanava sulla strada reale, verso sud.
Lasciava ricostruita e senza problemi di avvenire quella casa che l'Arlanz6n aveva
quasi demolito. « Nulla le mancava », aveva profetato. E la città, gentilmente loquace
e dotata di senso umoristico, scherzava: « Una carmelitana scalza gode di una vita
assai migliore dell'infanta dofla Isabel, la figlia di sua maestà il re cattolico! ». Ma la
priora Tomasina Bautista replicava: « Sarebbe bene pensare che l'infanta conduce una
vita santa quanto quella di una carmelitana scalza! ».

Sulla strada di Palencia, Teresita, la nipote della Madre, tàceva, e il suo silenzio era
motivo di preoccupazione per la zia.
Bisognava tornare presto ad Avila per farle pronunciare i voti. Orfana di padre e di madre, entrata
giovanissima nel Carmelo di Siviglia, quella ragazza di sedici anni era ancora molto infantile e
Teresa, in una delle sue lettere, scrive: « Quantunque assai buona, è sempre una bambina » (Lettere
14.7.1582, p. 1214). Passava attraverso varie alternative. A Burgos, per gelosia, aveva creduto che
venisse preferita a lei Elenita, la figlia di Catalina. Per dispetto, avrebbe scelto un ordine più « aperto
». Nei confronti della Madre era talvolta aggressiva. Il suo carattere, formatosi sotto i tropici, ne
conservava al tempo stesso la fiamma e l'estrema fragilità. Fino all'ultimo respiro, la santa sarebbe
stata in pensiero per quella figlia di Lorenzo, il fratello prediletto.
A Palencia, in parlatorio, l'aspettava un monaco biancovestito: Fray Juan de la
Cuevas. In nome del re, aveva presieduto ad Alcalà il capitolo di separazione tra
calzati e scalzi: la fondatrice doveva fargli una domanda urgente. Si trattava dell'uomo
in cui, fin da Beas, ella aveva riposto la sua fiducia: del provinciale, il padre Jer6nimo
Graciàn de la Madre de Dios.
Dopo la predicazione della quaresima a Valladolid, si era recato a Burgos, dove
aveva costatato il pieno successo della fondazione e presieduto all'elezione della
priora: Tomasina Bautista.
Il 7 maggio 1582, partiva, senza pensare che non avrebbe mai rivisto la riformatrice.
Por Dios, in tutta sincerità, che cosa pensa vostra reverenza del padre Graciàn? -
chiese Teresa al frate predicatore. Fray Juan espresse tutta la sua ammirazione, ma
anche le sue riserve. Il padre non accettava aiuti né consigli. Gli venivano rimproverati
il suo autoritarismo e i suoi comportamenti arbitrari; si metteva in urto con molte
persone. Che cosa era andato a fare in Andalusia? si chiedeva in segreto Teresa. « Non
basta a togliere la mia pena la frequenza con cui lei mi scrive » (Lettere 1.9.1582, p.
1233).
Per giunta, pensieri, preoccupazioni di ogni specie piovevano come grandine sulla
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povera vecchia. Da Alba, da Salamanca, da Toledo, arrivavano brutte notizie. Si
sarebbe detto che si stessero fendendo le mura della sua riforma.
Ma condurre sua nipote ad Avila per la fine di settembre le sembrava il dovere più
urgente; poi, si sarebbe pensato al resto (Lettere 1.9.1582, p. 1237).
Il 25 agosto 1582, lasciava la sua buona città di Palencia, la cella fresca e piacevole
dove, malgrado « il caldo terribile », aveva potuto ripigliar fiato (Lettere 9.8.1582, p.
1224).
Il suo progetto era sempre lo stesso: risalire al più presto sull'altopiano, al suo primo
colombaio di cui era priora, in quell'eminente città di Avila nella quale aveva
consumato la maggior parte della sua vita.
Certo, era assillata dalla professione della nipote, ma forse anche dal misterioso
richiamo della morte. Le restava appena poco più di un mese di vita!
Nel piccolo parlatorio di Valladolid, venne assalita da una furia, una donna di
quarantaquattro anni, dona Beatriz de Castilla y Mendoza, suocera di suo nipote, don
Francisco de Cepeda, il figlio di Lorenzo. « Molto sangue blu nelle sue vene e tutto il
furore spagnolo nelle sue collere ».
Don Lorenzo, morendo, aveva concesso nel suo testamento ampi privilegi al
convento di San José d'Avila. Dofla Beatriz impugnava le disposizioni del defunto.
Affrontava la Madre, « vecchia e stanca », con tutta la foga del suo carattere e le
astuzie che le suggeriva l'interesse. Faceva intervenire alcuni avvocati che, a detta di
Ana de San Bartolomé, ingiuriarono la fondatrice con parole sgarbate: Lei ha la fama
di essere buona... ma molte persone di mondo valgono più di lei e dànno un esempio
migliore. La Madre rispose con grande pazienza: - Dio renda a vostra grazia il favore
che mi fa! Manca Bautista, la priora di Valladolid, era sua nipote. Dona Beatriz la
guadagnò alla sua causa, insieme a Teresita, la futura professa di Avila. Tutto il
parentado faceva lega contro Teresa che, da sola, difendeva la volontà del defunto e i
diritti del Carmelo.
La partenza da Valladolid fu infiorata di parole particolarmente piacevoli!
- Vada via e che Dio la protegga!
E ad Ana de San Bartolomé che varcava la porta d'uscita, la priora dichiarò
bruscamente:
- Se ne vada e non ritorni più da queste parti!
Era un sabato, il 15 settembre 1582, « il giorno triste » della Madre Teresa. La
mattina, aveva scritto: « Siamo in partenza per Medina... ». Terminava la sua lettera: «
Già siamo a Medina. Vi ho trovato tanto da fare che ho appena il tempo di dirle che
abbiamo fatto buon viaggio » (Lettere 15.9.1582, p. 1247s).
Tuttavia, nel lasciare quella città dove era stata ricevuta con tanta freddezza, si era
mostrata più affettuosa del solito. Non amava le effusioni femminili che si ripetevano
al momento delle sue successive partenze, ma quest'ultima volta salutò e baciò
amorevolmente ciascuna delle monache. La commozione, però, non le avrebbe fatto di
certo dimenticare il significato della sua riforma e i suoi addii risuonano come ordini
di combattimento.
« Si guardino dal compiere gli esercizi della religione per abitudine, e cerchino di
far atti eroici, ogni giorno più perfetti. Procurino d'aver grandi desideri, ché molti sono
i vantaggi che ne derivano, anche se non si possono attuare » (citato in Opere, p.
1765).
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Già le torri di Simancas si profilavano all'orizzonte. L'aria di settembre, più
fresca, ammassava grosse nuvole simili a mandrie di montoni. Qui, l'inverno accelera
il passo, appena l'estate volge alla fine.
La santa Madre si disinteressava del paesaggio, pur così nobile e riposante.
In mezzo a tante angherie, era angustiata da una lettera ricevuta di recente, quella di
Fray Antonio de Jesùs, vicario provinciale, il sostituto del padre Graciàn partito per
l'Andalusia.
Il padre Antonio spiegava che la giovane duchessa d'Alba, dofla Maria de Toledo y
Colonna, stava per partorire. Per la vecchia duchessa, alla quale Antonio era legato da
particolari vincoli di amicizia, sarebbe stato di gran conforto che la santa assistesse
alla nascita del nipotino. Alla lettura di quest'ordine, la Madre non riusciva a
nascondere la sua contrarietà. Alcuni amici intervennero per dissuaderla dal recarsi ad
Alba. Fra gli altri, la sua cara amica, dofla Maria de Mendoza, sorella del vescovo.
Teresita, sua nipote, racconta di averla udita confessare che « mai in vita sua
un'obbedienza le era costata tanto ».
Da Tordecillas a Medina, la strada si snodava in mezzo alla meseta, salendo e
scendendo lievemente. Incrociavano greggi che rientravano dalle Sierre e pesanti carri
di granoturco. Talvolta una vettura rapida, il corriere del re o dame della corte in
viaggio verso Madrid le sorpassavano, nascondendo la strada sotto una nuvola di
polvere. Già si sentiva il campanone della collegiata; la città delle grandi fiere si
avvicinava.
Scendendo dal carro, la fondatrice si ripeteva che, dopo aver rapidamente sistemato le sue
faccende, si sarebbe potuta recare direttamente ad Avila, giacché nella sua lettera il padre Antonio
spiegava che la futura madre, la duchessa d'Alba, era ancora soltanto all'ottavo mese. Da Avila,
poiché così le veniva imposto, Teresa sarebbe ritornata per presiedere. a quella nascita principesca.
Ma a via Santiago tutto si metteva male. Un ordine perentorio attendeva la
fondatrice: bisognava partire al più presto per Alba de Tormes. Entrando nel suo
secondo Carmelo, Teresa fece un'osservazione alla priora, Alberta Bautista. Di solito
molto obbediente, questa volta, offesa, ella si ritirò nella sua cella, lasciando le
viaggiatrici senza cena.
L'alba del mercoledì 19 settembre si levava su una fredda pioggia. La carrozza
ducale si avanzava alla porta del monastero. Fray Antonio de Jesùs e Fray Tomàs de la
Asunciòn, montati su mule, si presentavano per accompagnarla.
Quando Teresa uscì, incurvata, con il passo incerto, appesa al braccio della sua
infermiera, il vice-provinciale stentò a riconoscere colei che, quindici anni prima, lo
aveva accolto alla grata di quel parlatorio, in quella stessa città di Medina del Campo.
Il suo viso era più bianco del velo, gli occhi cerchiati, le rughe profonde, il respiro
ansimante. Lui, pur essendo, come diceva Teresa, un « vecchietto », saltellava, grasso
e fresco. Il pensiero di servire la casata d'Alba, di ritrovarvi antichi cortigiani, suoi
amici, di partecipare, in certo qual modo, all'onore di una nascita principesca, lo
colmava di vanità.
Ah! non aveva un po' di pietà per quella monaca anziana, colpita da malattia
mortale! - Ne abbiamo per un giorno e mezzo di viaggio, - esclamò dottamente il vice-
provinciale - ma le mule sono di buona razza e la carrozza è ben molleggiata.
Tuttavia!...Riversa su un sedile posteriore, con il viso esangue, le palpebre chiuse,
senza dire una parola, la santa Madre era al limite dello sfinimento.
Avevano dimenticato di prendere le provviste: l'ora del pranzo passò senza
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mangiare nemmeno un boccone. La comitiva, che non aveva cenato la sera
precedente, né sgranocchiato una qualsiasi cosa durante la mattinata, era tormentata
dalla fame.
Il padre Antonio, avvicinando la sua cavalcatura allo sportello, chiese alla Madre:
- Che cosa c'è? perché non dice nulla?
- Mi perdoni, - gemette la fondatrice con voce esausta -voglio molto bene alla
duchessa, ma non ho il coraggio di sentirmi dire che ha le doglie e supplico il Signore
che quando arriveremo sia già finito tutto.
Nel mese di settembre la notte cala presto. Si avvicinavano a un minuscolo pueblo,
Aldeaseca de la Frontera, non lontano da Peflaranda de Bracamonte, e si accinsero a
cercare una locanda.
Frattanto, per la prima volta, la santa Madre si lamentava:
- Trovatemi da mangiare... sento che non ce la faccio più.
« Mi restavano alcuni fichi secchi - continua Ana de San Bartolomé... - Glieli diedi.
Chiamai un servitore, gli offrii quattro reali perché mi trovasse due uova, a qualunque
prezzo.
Egli corse da una casa all'altra, ma il villaggio era così povero, che ritornò a mani
vuote.
« Quando vidi che tutto il denaro del mondo non avrebbe potuto procurarmi un po'
di cibo per sollevarla; quando guardai quel viso senza vita e le toccai le mani brucianti
di febbre, mi sembrò che il cuore mi si spezzasse e mi misi a piangere: la santa Madre
stava morendo sotto le mie mani e non potevo portarle aiuto. Dolce come un angelo,
mi disse: "Non piangere, figlia mia, poiché Dio vuole che così sia... Non ti
preoccupare. Questi fichi sono buonissimi. Quanti poveri vorrebbero poterli gustare!
Credimi, sono molto contenta" ».
Mentre soffriva di mortale spossatezza, su un giaciglio di fortuna, tra le undici e
mezzanotte, a cinque leghe da lì, ad Alba, nasceva l'erede dei duchi.
Un messo fu inviato nella notte incontro ai viaggiatori.
Quando la Madre fu informata del lieto evento, con il suo solito senso
dell'umorismo, mormorò:
- Bendito sea Dios! Dio sia benedetto! Non avranno più bisogno... della santa!
Non era quindi più necessario recarsi dalla duchessa. Teresa avrebbe diretto i suoi
passi verso Avila, verso la sua culla, che sarebbe divenuta la sua tomba.
Ma una voce misteriosa le parlava attraverso gli avvenimenti. Tutti i vincoli di amicizia e di
parentela erano spezzati. Graciàn era lontano, sulle rive del Guadaiquivir; Lorenzo, il fratello predi-
letto, morto. E gli altri: monache, monaci, per i quali - lo sapeva bene - stava diventando un
personaggio incomodo, una vecchia ingombrante, la fondatrice, tutta quella geute non si curava
molto della sua presenza.

Il richiamo della solitudine

Sì, sarebbe andata ad Alba de Tormes. Come una forestiera...


Seguivano adesso il rio Almar, avvolto da un velo di nebbia.
Lì, verso mezzogiorno, la comitiva trovò un gruppo di casolari rifornito meglio di
Aldeaseca e poté approvvigionarsi. « Dio del cielo! cavoli cotti, conditi con molta
cipolla ».
La Madre ne mangiò lo stesso, racconta la sua infermiera.
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Verso le sei di sera, tutte le finestre del castello erano illuminate. Mentre la
città esultante festeggiava la nascita del piccolo duca, con grande fragore di sonagli la
carrozza entrava in Alba de Tormes.
La porta del Carmelo si aprì per lasciar passare un povero corpo che doveva essere
sostenuto da ogni parte:
- Dio misericordioso, figlie mie, - esclamò Teresa - non ho più nemmeno un osso
sano.
La priora la supplicò di coricarsi. I suoi indumenti erano pieni di sangue. Il medico
che era stato chiamato scrollò il capo, senza lasciare alcuna speranza a chi lo
interrogava.
Lassù, nella cella dal pavimento chiaro, le suore si prodigava-no a cambiarla,
mettendole biancheria pulita. La Madre amava tanto la pulizia! Come mi sento stanca!
- mormorava. - E da tanto tempo che non mi sono coricata così presto! Lei che, ogni
sera, non si metteva a letto prima di mezzanotte. Nel corridoio, in ginocchio davanti
alla porta della Madre, Ana de San Bartolomé cercava di cogliere un respiro
ansimante, irregolare, doloroso. Lo sapeva bene, quella figlia di contadini, così dolce,
così affettuosa: l'ora era arrivata, la santa Madre si era coricata per morire.

5 - « E giunta l'ora di vederci! »

Sarebbe dunque morta ad Alba de Tormes, il 4 ottobre 1582, alla stessa ora in cui,
nel palazzo ducale, veniva celebrato il battesimo del neonato.
Dalla piattaforma su cui si erge l'alta torre del palazzo-fortezza, lo sguardo
abbraccia i tetti scuri sparpagliati nel villaggio. Il Carmelo non si distingue in nulla
dalle altre case, se non per il muro di clausura su cui dondolano viti vergini e alberi da
frutto.
Sarebbe morta, ma non senza lottare. Sfinita dalla stanchezza, svuotata del suo
sangue da un cancro all'utero, questa figlia di Dio avrebbe vinto un'ultima battaglia:
quella della lucidità al servizio del suo ordine.
Il 21 settembre, il giorno dopo il suo arrivo, si alzava a fatica per andare a ricevere
la comunione. Appoggiata sulla sua infermiera, avanzava con difficoltà, visitando il
monastero, rendendosi conto di tutto.
Ricevette la fondatrice Teresa de Laiz, moglie del maggiordomo principale dei
duchi, Francisco Velàzquez. I due coniugi non avevano avuto figli. Misteriosamente
avvertiti da un sogno, avevano fondato un Carmelo nel 1571, al tempo del soggiorno
della Madre a Salamanca.
In seguito, le cose si erano guastate. Teresa de Laiz, la fondatrice esigente, spilorcia,
parlava molto, e parlava a vanvera. Era molto temuta; tanto che nel suo monastero -
come le aveva scritto Teresa (Lettere 6.8.1582, p. 1222) - « temo che nessuna vorrà
essere priora: tutte cercano di sottrarsene ».
In quei giorni, per l'appunto, si svolgevano le elezioni priorali. 1~er compiacere la
moglie del maggiordomo, fu nominata priora una ragazza del paese, Inés de Jesùs, che
andava molto d'accordo con la scomoda patronessa del convento. In quanto a lei,
giovane superiora di trent'anni, aveva mal sopportato un tempo i rimproveri della
Madre. Così, si vendicò isolando la malata in clausura; nessuno la rivide più, se non il
medico e i confessori.
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Tuttavia, la sera del giovedì 27 settembre, la campana della ruota annunciò il rettore di
Salamanca, il carmelitano Fray Agustin de los Reyes che, in nome della priora di quella città, veniva
a parlare con la santa Madre per l'acquisto di una nuova casa. Costava molto cara, più del
ragionevole; a detta di tutti era follia pagare tanti maravedi. La priora di Salamanca, Ana de la Encar-
naciòn, tergiversava, giocava di astuzia, cercava aiuti.
- È un intrigo del diavolo - esclamò la Madre... - La priora ha tanta voglia di quella
tetra casa che le dà alla testa.
La discussione continuò per tre lunghe ore.
Alla fine, contando sulla stanchezza della sua interlocutrice, Fray Agustin voleva
strapparle il suo consenso:
- Madre, è già tutto fatto; non si può tornare indietro. Vostra reverenza abbia pietà
delle sue figlie e non le schiacci!
Teresa si raddrizzò e, ritrovando il suo vigore di un tempo:
- Come! figlio? Affare concluso? mai e poi mai! Non si farà e non si metterà mai
piede in quella casa, poiché non è questa la volontà di nostro Signore!
Il giovedì seguente, senza sapere né come né perché, racconta Fray Agustin, il
progetto andava in fumo. Eppure, ci stavano lavorando da quattro o cinque anni!
Nessuno ne parlò più e, di certo, mai si mise piede in quella casa.

Che cosa faceva, adesso, ad Alba, la povera vecchia? L'erede dei duchi era nato, una
priora era stata eletta. Non doveva forse avere cura d'anime in Avila? Il padre
provinciale dell'Andalusia le aveva ordinato di ritornare a San José. Teresita doveva
presto pronunciare i voti. Mentre rientrava nella sua cella, nella fresca notte di
settembre, tutti questi pensieri turbinavano nella mente della Madre...
- Ana, - disse all'infermiera accasciandosi sul suo giaciglio
- fammi questo piacere. Appena vedrai che sto meglio, trovami una vettura qualunque,
mettimici dentro e partiamo per Avila!
Una sola volta venne chiamata in parlatorio; vi scese barcollando. Era sua sorella
Juana, la moglie di don Juan de Ovalle che l'aveva tanto aiutata per la fondazione del
primo monastero. Ad Alba, Juana veniva disprezzata perché era povera. « Dio lo per-
mette, è un vero martirio », aveva scritto Teresa il 28 marzo 1581.
Adesso, due delle figlie di don Alonso si ritrovavano. La maggiore, Maria, era
morta da molto tempo, vittima di un marito impossibile. Juana e Teresa si guardavano
in silenzio, uniche superstiti di quella numerosa famiglia.
La storia non ha conservato nùlla del loro ultimo colloquio.
Quando l'infermiera entrò per riaccompagnarla al suo letto di malata, la Madre
sussurrò:
- Figlia mia, è arrivata l'ora della mia morte.
Calava la notte. Teresa si mise a pregare.
La mattina del 2 ottobre, il padre Antonio entrò per ascoltarla in confessione, poi si
inginocchiò:
- Madre, chieda al Signore di non prenderla ancora e di non toglierla dal mondo così
presto.
- Taci, padre. Proprio tu dici queste parole? Io non sono più utile in questo mondo.
Arrivò il medico, don Francisco Ramirez. Sconcertato da quella malata dal viso
esultante di felicità, non sapeva che cosa ordinare.
- Mettetele delle ventose. Fatele succhiare un bastoncino di liquirizia!
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In ogni modo, il medico prescriveva di trasferire la malata in una camera in
basso, esposta a mezzogiorno, riscaldata dal sole di autunno.
La santa era stata appena sistemata al pianterreno, quando fu annunciato l'arrivo
della duchessa madre, dofla Maria Enffquez. Le infermiere le avevano somministrato
proprio allora un medicamento nauseabondo. Disastro! il contenuto della fiala si
sparse sul letto. La Madre se ne afflisse: era conveniente ricevere in tal modo sua
signoria?
- Non si preoccupi, Madre, è profumato con « l'acqua degli angeli », acqua di fiore
d' arancio - replicarono le suore.
In effetti, un odore dolcissimo aleggiava nella cella.
La malata rispose:
- Dio sia benedetto, figlia mia! Rimetti, rimetti le coperte. Non ci devono essere
cattivi odori che diano fastidio a dofla Maria... avrei preferito che non venisse adesso.
La principessa entrò, sedette, voleva abbracciarla.
- No, eccellenza! - supplicava la morente. - C'è un così cattivo odore!
Ma la visitatrice rispose:
- Ma niente affatto! C'è profumo di acqua di fiore d'arancio, un odore buonissimo!
Il breve colloquio ebbe un intermezzo misterioso, a detta di una nipote della
duchessa.
- Vuole molto bene a suo marito? - chiese per tre volte la santa.
Due mesi dopo, l'lì dicembre 1582, il duca d'Alba, don Fernando, moriva a Lisbona.
La mattina di mercoledì 3 ottobre, Jerònimo Hernàndez, giovane chirurgo di ventotto anni, venne
per ordine del medico a salassare la Madre e a metterle delle ventose. A partire da quel momento,
Teresa non cessava di recitare i versetti del salmo Miserere.

« Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi. Crea in me, o Dio, un cuore
puro. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito ».

Alle cinque di sera, chiese il viatico a Juana del Espiritu Santo, sua antica compagna
dell'Incarnazione ed ex-priora. Juana le rispose di aspettare un altro giorno, ma la
malata insisté con forza.
Quelli che le stavano attorno, infatti, non si rendevano conto che la morte si
avvicinava a grandi passi.
Mentre Fray Antonio le portava il Signore, Teresa supplicò fra le lacrime: Figlie e
signore mie, perdonatemi il mal esempio che vi ho dato e non imparate da me che sono stata la più
grande peccatrice del mondo, colei che ha osservato peggio di tutte la regola e le costituzioni. Vi
prego per amor di Dio, figliole mie, di osservarle con la maggior possibile perfezione e d'obbedire ai
superiori (citato in Opere, p. 1766). Nel vedere le suore in ginocchio intorno al suo letto, giungendo
le mani esclamò: - Sia benedetto il Signore che mi ha condotto in mezzo a voi! Alla vista
del Santissimo Sacramento, si sollevò dal letto inginocchiandosi con un'agilità
stupefacente, visto che ci volevano due suore per girarla sul suo giaciglio. Bisognò
impedirle di alzarsi completamente.
Tutti i testimoni raccontavano con parole maldestre il cambiamento che avveniva in
lei: « Un viso bellissimo », « un viso ringiovanito e ardente ».
Juana del Espiritu Santo ed Ana de San Bartolomé sostenevano la Madre tra le loro
braccia.
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« Mio Signore e mio Sposo! È giunta l'ora tanto desiderata. Finalmente è giunta
l'ora di vederci. Mio amato, mio Signore È giunta l'ora di partire. È giunta l'ora.Sia
fatta la vostra volontà! Sì, è giunta l'ora che io lasci quest'esilio e che la mia anima
goda di voi, che ho tanto desiderato! ».

Il padre Antonio dovette ordinarle di tacere, poiché la sua esaltazione poteva sfinirla.
Dopo la comunione, rese grazie al Signore di averla fatta figlia della Chiesa. Diceva
anche che sarebbe stata salvata dal sangue di Gesù Cristo e chiedeva alle sue
consorelle di aiutarla ad uscire dal purgatorio.
A varie riprese ripeté:
- Infine, o Signore, io sono figlia della santa Chiesa.
Alle nove di sera, chiese l'Unzione degli infermi. Mentre il padre Antonio terminava di
darle l'olio santo, le domandò:
- Madre, se nostro Signore viene a prenderla, che cosa vuole che facciamo? desidera
tornare ad Avila o rimanere qui?
Fino ad alcuni giorni prima aveva tanto sperato di rivedere la sua città natale, di
riprendersi in quell'aria vivificante, stimolante, così diversa da quelle basse valli del
Tormes dove si respira a fatica.
Dove avrebbe potuto riposare Teresa d'Avila attendendo la risurrezione se non in
Avila, sacro reliquiario di tante grazie, testimone delle sue prime opere?
A tali parole, ricorda Ana de San Bartolomé, il viso della moribonda si velò di
tristezza. Rispose:
- Gesù! Bisogna fare una simile domanda? Padre mio! Ho forse una casa che mi appartenga?... Non
mi daranno qui un po' di terra? Juana, che la sosteneva, approvò:
- Sì, sì, Madre, poiché nostro Signore non ha avuto una casa quaggiù, nemmeno vostra
reverenza deve averne~
Dandole un colpetto sul braccio, la Madre concluse vivamente:
- Lasciate stare!
Nella notte dal 3 al 4 ottobre la Madre fu assalita da crudeli sofferenze.
La mattina del 4, festa di s. Francesco, si girò sul fianco, con un crocifisso in mano, in
profonda preghiera. Dal viso bellissimo erano sparite tutte le rughe, e Dio sa se erano
numerose!
Non parlava, ma si mostrava presente a tutto ciò che accadeva intorno a lei.
Ana non la lasciava; le portavano quello che era necessario.
Siccome Teresa teneva gli occhi chiusi, il' padre Antonio le disse:
- Madre, por amor de Dios, ci guardi!
« Verso sera, - continua la sua infermiera - il padre mi ordinò di andare a mangiare
qualcosa. Mentre uscivo dalla cella, la Madre mi cercò con lo sguardo. Il padre le
chiese se mi voleva. Con un segno disse "sì". Mi richiamarono. Appena mi vide, sorri-
se. Con grazia, mi prese con le sue mani, posò la sua testa sulle mie braccia e rimase
così fino all'ultimo respiro ».
Tutta la comunità, il padre Antonio de Jesùs e il padre Tomàs de la Asunciòn erano
inginocchiati nell'angusta camera.
Una meravigliosa bellezza rivestì il volto dell'agonizzante che, a detta di un testimone,
divenne « come un sole ardente ». Emise tre gemiti appena percettibili e rese l'anima
al suo Signore. Il corpo cominciò a diffondere un profumo straordinario.
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Erano le nove di sera.
A sua insaputa, Teresa aveva descritto la propria morte nel Castello interiore (Settime
dimore III, 1,15, pp. 480.488).
« La nostra farfallina ormai è morta, felicissima d'aver trovato riposo, e Cristo vive in
lei.
« Sia per sempre benedetto e lodato da tutte le sue creature! Amen ».

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