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Quando si toglie il rumore delle parole

Antonella Filippi

Come nasce un haiku? Come può essere definito quel momento in cui, tra i diversi strati dei pensieri
si fa strada il lampo sottile che porta a tradurre in parole, in 17 sillabe, la percezione profonda
dell’instabilità delle forme, dell’impermanenza di ogni cosa, dell’inesistenza di un tempo lineare?
Sabi, wabi, aware, yugen: queste parole giapponesi denotano i quattro stati d’animo fondamentali
del furyu, cioè del “gusto” proprio dello zen nella sua percezione dei momenti “senza scopo” della
vita.
La “vita senza scopo”, in un tempo senza tempo, è il tema costante di ogni tipo di arte zen, dalla
pittura alla poesia: tutti noi sperimentiamo, occasionalmente, questi momenti, ed è in tali
circostanze che afferriamo una visione fuggevole e intensa del mondo, che resta come un bagliore
inestinguibile nella nostra memoria e che cerchiamo di tradurre in parole per condividerla con i
nostri simili.
Perché scrivere un haiku, allora, e non una poesia secondo canoni “occidentali”?
Nell’haiku ciò che è più importante è il non-detto, è il vuoto tra le parole, il silenzio che permette a
chi lo legge di percepire la sensazione che esso evoca e di sentirla risuonare in sé, amplificata dai
riverberi della sua stessa memoria.
La meditazione porta a sedare il “rumore” nella mente, il continuo vocio di cui non ci rendiamo
neppure più conto, ma che non ci permette di ascoltare le istanze che arrivano dalle parti di noi
legate alla percezione profonda del nostro essere e dell’essenza di ciò che ci circonda.
Quando si toglie il rumore delle parole, il vuoto dei segni stabiliti per convenzione, resta l’essenza
delle cose, senza commenti, non c’è distinzione tra la mente e ciò che si sa e si vede, si può provare,
anche solo per un attimo, l’esperienza dell’essere connessi a tutto ciò che ci circonda, senza che il
tempo sia un limite.
L’haiku è legato alla percezione del tempo, del vuoto, all’equilibrare la forma con il vuoto, il detto e
il non-detto.
Anche nello zen Rinzai si fa l’esperienza della risposta percettiva, quando, nella meditazione, si
sente qual è la risposta giusta ai koan. La traduzione in parole di una percezione è estremamente
“spontanea e naturale”, quando si è in grado di accoglierla senza giudizi, tagli culturali, così com’è,
“qui e ora”.
E’ proprio il “qui e ora” la fatica più grande: se ci si ferma un istante a pensare risulta dalle
coordinate dei pensieri che non esiste altro tempo che questo attimo e che il passato e il futuro non
sono che astrazioni senza una concreta realtà.
Sembra che la nostra vita sia tutta passato e futuro e che il presente non esista, in quanto momento
mobile e fuggevole che collega passato e futuro e subito torna a essere passato, dandoci la
sensazione di “non avere tempo”, di un mondo che si affanna alla ricerca di un qualcosa che può
essere afferrato solo restando fermi.
Sono piuttosto il passato e il futuro a essere illusioni: il presente è eternamente reale.
La successione lineare del tempo è una convenzione del nostro pensiero, di una coscienza che
interpreta il mondo a piccole porzioni e chiamandole cose ed eventi.
Però, ognuna di queste interpretazioni esclude il resto del mondo e la coscienza riesce a conseguire
un tipo di visione approssimativa, superficiale, palese per il fatto che nell’essere vivente e
nell’universo le cose accadono tutte insieme e non una per volta.
Il tempo stabilito dall’uomo (inteso nella normale definizione “ristretta” adatta ai bisogni di
sicurezza della mente umana) e “l’eterno tempo” (inteso come tempo nella totalità delle sue
espressioni) non sono due cose diverse; il primo è un’attività specializzata del secondo: è
un’invenzione umana, dato che l’uomo non riesce a fare o pensare tutto in una volta e deve perciò
ridurre le esperienze, i pensieri, a unità facilmente assimilabili. Così la coscienza può afferrare il
presente solo cessando di afferrarlo.
Questo non accade se si sforza di concentrarsi sullo sforzo che fa, perché renderebbe il momento
ancora più elusivo e sfuggente.
Allo stesso modo divenire consapevoli di una percezione presuppone il non legarla ad uno scopo,
ma solo al “sentire”. In questo senso un haiku fa parte di una vita “senza scopo”, che non vuol dire
“senza significato”, ma senza fare di ogni istante dell’esistenza il mattone di una costruzione rigida
e soffocante, edificata su proiezioni mentali, preconcetti, difese, valori, ideali, opinioni su noi
stessi,.. accettati per convenzione e che negli anni diventano il nostro sarcofago. Ce ne rendiamo
conto molto bene quando leggiamo gli haiku scritti dai bambini.
Tutto è labile, fuggevole, non inquadrabile, e l’haiku rappresenta la levità, non la leggerezza, della
vita.
Esiste solo questo “ora”: non proviene da nessuna parte, non procede verso nulla; quando
cerchiamo di afferrarlo ci sfugge eppure è sempre qui e non possiamo sfuggirgli. Il presente è
l’essenza dell’oggetto, perché senza termini di confronto ogni oggetto perde la sua concreta realtà e
si fonde in ogni cosa: quando mancano i nomi il mondo non è più classificato entro limiti e confini.
Basta fare una semplice prova: scegliere a caso una parola e ripeterla molte volte; dopo un po’ il
senso comincerà a staccarsi dall’immagine e a divenire oggettivo; più avanti perderà anche il senso
del suono rapportato a se stesso.
Il mondo è infinitamente variabile e c’è difficoltà nell’evitare confusione fra la parola e i segni usati
per definirlo. Tutte le categorizzazioni del mondo concreto sono simboli astratti: “identità”,
“oggettivo”, “reale”,..: in termini di immediata percezione, quando cerchiamo di afferrare il nostro
mondo non c’è altro che la mente; quando cerchiamo di essere sicuri almeno di noi stessi non
troviamo altro che le cose.
Per un momento sembra di non avere una base per l’azione, la terra sotto le radici dei piedi per
spiccare il salto; eppure nulla è cambiato e quando capiamo che la base per l’azione è l’inazione, è
il sentire la fluttuazione e l’impermanenza, è il non ergersi contro l’inscindibilità dell’Io con la
mente e della mente con oggetti ed esperienze, il senso di isolamento soggettivo scompare e il
mondo non è più un oggetto incomprensibile.
Questa percezione a volte è il lampo che si traduce in haiku.
Abbiamo una visione ristretta del sapere umano, di tipo convenzionale, in quanto non sentiamo di
sapere veramente qualcosa se non possiamo rappresentarlo con parole o con segni (ideografici,
matematici, musicali,..).
Questa conoscenza è “convenzionale” perché è un fatto di convenzione sociale, come il linguaggio.
Per questo, abituati a rinchiudere oggetti e azioni nella rete mentale di parole e concetti, ci
adattiamo difficilmente all’apparente non-sense di un qualcosa di fluido e relativo come il tempo.
L’essere umano non può essere sicuro di niente, neanche di quello che mette in dubbio e spesso è
solo la percezione (ritenuta irrazionale) a darci, per un momento, il senso dell’assoluto e quando la
sensibilità incontra la percezione spesso nasce la poesia.
L’ego esiste solo in senso astratto, è un’astrazione delle memoria: il nostro nome è il suono, ma il
suono non corrisponde a quello che siamo. Non c’è scia che l’uomo lasci concretamente: il passato
da cui viene desunto il nostro Io scompare. In tal modo ogni tentativo di aggrapparsi al tempo o a
una reale personalità è destinato al fallimento.
Ogni attimo di tempo è contenuto e immoto: “Le cose passate sono nel passato e non provengono al
presente, e le cose presenti sono nel presente e non provengono dal passato” (Seng-chao, 384-414);
“La legna da ardere non diventa cenere, la vita non diviene morte” (Shobogenzo, Dogen Zenji, XIII
sec.).
Il potere apparente del pensiero e la debolezza della percezione fanno costruire simboli
indipendentemente dalle cose stesse: la convenzione sociale incoraggia la fissità delle idee perché
l’utilità dei simboli dipende dalla loro stabilità.
L’astrazione diventa una necessità per comunicare, dato che riduce le esperienze a unità abbastanza
semplici da poter essere comprese una alla volta. Così, la comunicazione attraverso segni accettabili
per convenzione ci dà una traduzione astratta “una cosa per volta” di un universo in cui le cose
accadono “tutte in una volta”, di un universo in cui la realtà oggettiva è labile e inafferrabile e
sfugge a una descrizione efficace.
“Il millepiedi era felice, tranquillo,
finché un rospo non disse per scherzo:
“In che ordine procedono le tue zampe?”
Questo arrovellò a tal punto la sua mente
che il millepiedi giacque perplesso in un fossato,
riflettendo su come muoversi”
(Lao Tzu, V sec a.C.)
Nei nostri pensieri c’è sempre uno sforzo, un arrovellarsi per capire, risolvere, comunicare,
frammentare: la poesia, come il sogno, ci presenta l’intuizione dell’insieme. La poesia è universale,
i simboli sono archetipi universali, la bellezza, la percezione sono universali. Le sovrastrutture
culturali sono i gradini, consumati da consuetudini osservate fino all’attrito, di una torre di Babele
che a ognuno di noi è stato insegnato a salire.
Ciò che caratterizza la vita è l’instabilità delle forme e l’uomo che cerca di imprigionare le forme
fluide nella sua rete di classi fisse e di identificare se stesso con queste forme di definizioni rigide e
vuote, si condanna alla frustrazione di chi cerca di raccogliere acqua con una forchetta. Ma quando
si comprende che ogni forma è vuota, il mondo formale diventa reale nel momento in cui non è più
trattenuto, in cui si cerca di non resistere al suo fluire.
Quando ne diveniamo consci, ecco nascere l’haiku.

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