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LA POTENZA DEL VUOTO NELL’HAIKU

Antonella Filippi

C’è una parola in sanscrito, śunyātā (sanscrito शूनयता, giapponese: kū ), che significa “vuoto”,
“vacuità”.
La consapevolezza della Vacuità, del vuoto di ogni cosa, è una delle dottrine fondamentali nel
Buddhismo.
Questo concetto corrisponde alla insostanzialità (abhāva) dei fenomeni in quanto impermanenti
(anitya) e interdipendenti.
Ogni forma, esistenza o non esistenza, è vacuità e ogni vacuità è ognuna di queste. Così come recita
uno dei 38 sutra buddhisti (Prajñāpāramitā Sūtra), il più noto, il Prajñāpāramitā Hṛdaya Sūtra (Il
Sutra del Cuore della perfezione di saggezza): “Qui, O Sariputra, la forma è vuoto e il vuoto è forma;
il vuoto non differisce dalla forma, la forma non differisce dal vuoto; qualsiasi cosa sia forma, quella è
vuoto; qualsiasi cosa sia vuoto, quella è forma”, che non va intesa come identità, bensì come
l’includersi reciproco, il coesistere di fenomeni e vacuità. Il vuoto va pertanto pensato non come un
principio astratto o in qualche modo fondante, ma come co-appartenente al fenomeno.
Tutte le cose del mondo non hanno una propria sostanza e identità, sono libere e staccate da “essere in
sé”. Le cose cui noi pensiamo in modo fisso sono elementi che non hanno substrato e consistenza.
Sebbene le cose del mondo fenomenico sembrino essere reali, esse sono in realtà interamente vuoto.
Proprio per questo non bisogna legarsi alle cose, ma, al contrario, evitare l’inganno e sfuggire
l’illusione. La realtà stessa delle cose è vuoto (non essere), che è lo stato originale delle cose: śunyātā,
perciò, non significa “vuoto”, nel senso di nullità, non è nichilismo, ma comprende dentro di sé la
pienezza della realtà. Non significa che le cose non esistono, ma piuttosto che non sono altro che
apparenze. La vacuità non svuota le cose del loro contenuto: ne è la vera natura.
Sunyātā, ovvero il vuoto pieno di ogni cosa.
Cosa significa “vuoto”, se questo è pieno di ogni cosa? Il mondo orientale è di difficile comprensione
per noi occidentali abituati a pensare in termini duali, divisi in estremi opposti e inconciliabili (vero-
falso, bianco-nero,..), non esiste una terza possibilità.
Il determinismo scientifico ha dipinto un mondo in cui l’oggetto dell’indagine è immutabile e certo: il
mondo è un insieme prefissato di leggi meccaniche, indagabile con la logica e con la matematica
aristotelica, in cui ogni progresso è tale solo se la teoria riporta fedelmente il fenomeno osservato.
Henry Bergson (1859-1941), filosofo, chimico, biologo e premio Nobel per la letteratura nel 1928,
propone una visione della realtà a diversi livelli, distinguendo un livello profondo e un livello
superficiale della realtà. Per arrivare a intendere questo livello di realtà, occorre quello che Bergson
chiama intuizione, che coglie appunto la realtà nel suo profondo.
La percezione dell’uomo è infinita, senza confini, e si può accedere a stati di coscienza diversi, in cui la
durata è più o meno concentrata negli strati profondi; è come se il tempo fosse tutto al tempo passato e
presente ma anche, in qualche modo, al futuro, come se fosse tutto racchiuso in un punto, quasi si
trattasse di una eternità, un eterno “qui-e-ora”.
La fisica quantistica (la cui elaborazione è iniziata nella prima metà del XX secolo) ha rivelato che il
fenomeno osservato viene influenzato dall’osservatore, rendendo nulla la presunta oggettività
dell’osservazione. Il che implica l’esistenza di una relazione tra la coscienza dell’osservatore e quello
che viene osservato, una inter-relazione tra tutto ciò che compone ciò che siamo e tutto ciò che ci
circonda (a livello micro- e macrocosmico), di cui non siamo consci.
William Blake (1757-1827), poeta, pittore e visionario, scriveva: “Se le porte della percezione fossero
abbattute, ogni cosa apparirebbe come è, infinita.”
Bernie Glassman, maestro zen americano, matematico e ingegnere aeronautico, scrive: “(…) Un modo
per cogliere la vacuità è comprendere che ogni fenomeno è un concetto, costituito da altri concetti.
Quando eliminiamo i concetti, non resta niente. Ma possiamo anche considerare la vacuità senza
eliminare nulla. Possiamo vedere ogni cosa così com’è, anziché il suo concetto. Il concetto non è la
cosa. Se ci liberiamo di tutti i nostri concetti e di tutte le nostre idee, cosa resta? Il mondo così com’è;
ecco il significato di vacuità"

Tutta questa premessa per dire cosa?


Per parlare dell’importanza, della potenza, del vuoto nell’haiku (俳句 - hai, divertimento, passatempo,
svago + ku, frase, verso, strofa
Non è necessario essere filosofi o maestri zen per percepire che c’è ben altro di quello che ci viene
presentato e in cui viviamo immersi, che ci distrae dalla percezione sottile di ciò che è.
L’arte, e in particolar modo la musica e la poesia, può favorire un mutamento (per quanto temporaneo)
della nostra percezione della realtà, rivolgersi alla parte più profonda della coscienza, in cui l'Io o
coscienza di sé dirige la propria attenzione verso la coscienza universale. Si tratta di una esperienza
intuitiva dell'infinita e onnicomprensiva unità di tutto ciò che esiste. E’ la scoperta di un mondo al di là
delle apparenze ordinarie, in cui gli opposti cessano di esistere. Ed è anche l’esperienza che fanno
sperimentare le tecniche sciamaniche.
Nel suo significato metafisico più profondo, śunyātā , il vuoto, è il terreno primordiale, il perenne
punto di partenza di ogni processo creativo. È il principio di potenzialità illimitata. A livello
intellettuale śunyātā è la relatività di tutte le cose e di tutte le condizioni, dato che nulla esiste
indipendentemente, ma solo in relazione agli altri fenomeni e in definitiva a tutto l'universo.
L’haiku è la massima condensazione linguistica possibile di un attimo della vita che si percepisce
transitorio e relativo e il vuoto che vibra nell’haiku non è assenza e privazione, ma uno spazio di
pienezza, della pienezza dell’esistenza.
L’haiku non è un fotogramma di un momento di tempo in cui ha avuto luogo l’osservazione, che
risulterebbe statico, ma il bagliore di una realtà che giunge alla coscienza in modo più fluido e fa
percepire gli aspetti globali del tempo (passato, presente, futuro) e che non rende mai l’haiku obsoleto,
come accade per molta “poesia”.
Il vuoto nell’haiku è quello che ne dà la pienezza, le parole non dette, sottintese, immaginate, sono però
presenti nella coscienza, gli stacchi (kireji) fermano il respiro per permettere alla percezione di aprire
un multiverso di sensazioni, la brevità ha la forza del lampo, che rende visibili larghe parti del cielo
notturno per un solo secondo.
L’haiku fa appello al “tempo della coscienza” che, a differenza del tempo inteso come un susseguirsi di
fotogrammi correlati tra loro, è un’insieme di attimi non ben distinguibili, se non dal punto di vista
qualitativo, che per alcuni possono essere lampi di luce e per altri avere l’estensione di una vita.
L’haiku by-passa l’intelligenza, la razionalità, con cui si interpreta la realtà per dare spazio
all’intuizione, la parte istintuale dell’intelligenza, una “illuminazione” folgorante, immediata.
Nell’haiku i concetti e le parole (i mezzi con cui l’intelligenza comprende e descrive la realtà apparente
e superficiale delle cose) si trasformano in immagini, i modi con cui l’intuizione fa percepire la realtà
sostanziale del mondo.
Nell’haiku il yohaku (“spazio vuoto”, “margine”, inteso in senso lato come tutto ciò che ha raggiunto la
riduzione all’essenziale) va oltre la dimensione artistica, fino a coinvolgere anche la sfera
comportamentale, nel raggiungimento della semplicità assoluta
L’haiku è poesia quantistica.

In inglese, c’è un gioco di parole:


“Qual è il nome del miglior maestro Zen”
“M.T. Ness” (si legge come la parola “emptiness”, vuoto).

In giapponese, per dire “sì”, si dice “hai”. E noi potremmo dire, giocando con i suoni delle parole:
“Conosci il nome del migliore maestro di poesia?”
“Hai, Ku” (Si, Ku, il vuoto, l’haiku).

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