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FRANCESCO TORNESELLO

LA STORIA DEL
MOVIMENTO DI
PSICHIATRIA
DEMOCRATICA
Università Milano Bicocca, 31 Marzo 2011
1) La contraddizione originaria
Tra la fine dell‟800 e gli inizi del „900 la Psichiatria vive una
sua grande stagione: dopo gli studi di Charcot sull‟isteria,
Freud avvia l‟elaborazione della teoria psicanalitica, ed
accanto a lui già si delineano altre importanti figure (Adler,
Jung); Watson e Pavlov, in contesti differenti,
approfondiscono gli studi sul comportamento; dopo
Kirkegaard, numerosi filosofi tracciano il percorso che, di lì a
pochi anni, darà vita alla fioritura del pensiero
fenomenologico; Kraepelin elabora il modello nosografico che
sopravviverà fino all‟avvento del manuale diagnostico DSM; da Mayer a Lombroso si inizia a sistematizzare la
Psichiatria forense, legandola alle teorie evoluzionistiche sociali, smussandone talvolta le estremizzazioni
spenceriane, altre volte facendole proprie. Appare quindi singolare che, proprio nel momento in cui tanti
fermenti fanno presagire un luminoso futuro per questa nuova scienza, finalmente liberata dalla sudditanza nei
confronti della Neurologia, un po‟ dappertutto, nelle nazioni industrializzate, si emanino leggi che, ponendo i
manicomi in un ambito più giudiziario che sanitario, di fatto emarginano la Psichiatria dal corpo medico.
Tutti i tentativi di interpretazione di tale fenomeno, pur partendo da diverse letture epistemologiche,
concordano su un punto: la Psichiatria si presta al controllo sociale, sia pure involontariamente o, addirittura,
in antitesi con alcuni filoni di ricerca (pensiamo alla psicanalisi), in quanto scienza che aspira ad occuparsi
dell‟uomo, dei suoi valori morali, dei suoi comportamenti, del suo essere membro di una società.
Paradossalmente, le teorie di studiosi come Lombroso, pur partendo da posizioni positivistiche di stampo
socialisteggiante, diventano il grimaldello per forzare questo passaggio.
Questo ci spiega sia l‟immensa popolarità di questo autore ai suoi tempi, sia l‟esecrazione successiva,
soprattutto dagli anni ‟60 in poi.
2) La legge del 1904
In Italia la legge sui manicomi è del 1904, con una
successiva legge nel 1910, cui è demandato un compito
regolamentare.
Cosa diceva la legge del 1904 lo sanno più o meno tutti:
chi, a causa di infermità mentale, fosse ritenuto persona
pericolosa a sé o agli altri, o di pubblico scandalo, poteva
essere ricoverato coattivamente in manicomio.
Tale “ricovero coatto” era determinato da un certificato
medico, redatto da un medico qualsiasi, in assenza
dell‟ufficiale sanitario, con successiva ordinanza
dell‟autorità di pubblica sicurezza: commissariato di P.S.,
carabinieri, oppure, nei piccoli centri, il sindaco.
Il ricovero durava 30 giorni, al termine dei quali si poteva
essere dimessi per “guarigione”, per “non competenza di
ricovero”, “in esperimento per miglioramento”, per
“affidamento ai familiari”, oppure si procedeva all‟
internamento definitivo.
L‟internamento definitivo comportava una interdizione di
fatto (ovvero senza processo) con nomina di un tutore,
nonché l‟iscrizione al casellario giudiziario.
Il giudice tutelare, cui veniva inoltrata la pratica, quasi
mai assumeva decisioni discordanti.
3) l’origine dello Stigma

Si comprende che quello che noi oggi chiamiamo


“stigma”, ovvero il pregiudizio e l‟emarginazione
nei confronti dei pazienti psichiatrici, più che dalla
malattia è derivato dalla legge.
Il matto, infatti, non era tanto –o soltanto- una
persona malata, ma, in base alla legge, un
individuo pericoloso, di condotta scandalosa,
giuridicamente incapace, suscettibile di recare
danno nel tempo ai familiari, mediante
quell‟iscrizione al casellario giudiziario, che
precludeva a figli e fratelli la carriera militare o nei
corpi di polizia o in magistratura e rallentava ad
libitum qualsiasi carriera pubblica, divenendo
anche un utile argomento da utilizzare in ambito
civile (ad esempio in diritto matrimoniale).
Insomma, se avere in famiglia un paziente
oncologico o cardiologico era “una croce” avere
un paziente psichiatrico era “una disgrazia”.
4) Il manicomio come l’Inferno di Dante

Il manicomio era un sistema estremamente chiuso,


secondo un modello che si riproponeva un po‟
dovunque.
Come ha notato A. Scala, la struttura del manicomio
era speculare a quella dell‟inferno dantesco.
In cima l‟osservazione, un po‟ come il limbo, dove si
trascorreva quel mese di ricovero coatto, al termine
del quale si decideva il destino dell‟individuo.
Se non si veniva dimessi, ma definitivamente internati,
si passava nei reparti per cronici (insomma, si
diventava cronici dopo 30 giorni di degenza !).
I reparti per cronici avevano una serie di
denominazioni: reparti per tranquilli, per lavoratori, per
gravi, per agitati, per cronici terminali.
E, come per i gironi danteschi, via via che la
connotazione si faceva più negativa, ci si allontanava
dal centro, e le strutture divenivano più grandi, più
degradate, più chiuse, più sporche, più violente.
5) Il perché della violenza

La violenza in manicomio non derivava da crudeltà o sadismo


individuale di medici ed infermieri. La violenza era il corollario delle
motivazioni politiche e culturali che avevano determinato prima la
nascita di quelle istituzioni, poi la legge del 1904.
Senza voler scivolare in analisi superficiali e demagogiche, in realtà il
manicomio era una istituzione per poveri, a parte rare eccezioni . Come,
peraltro, erano quasi tutti gli ospedali di un‟epoca in cui la sanità di buon
livello era esclusivamente privata o, al massimo, collegata alle
università.
Da tempo i manicomi mettevano in pratica il cosiddetto “trattamento morale”, importato in Italia da Chiarugi,
sull‟onda delle teorie post illuministiche di Pinel ed Esquirol in Francia.
Ma, con il passare del tempo, il trattamento morale si andò sempre più configurando come un pesante
intervento pseudopedagogico condizionante, finalizzato al contenimento della alterità (diversità).
La legge del 1904 inasprisce tale concetto e ne opera una distorsione repressiva, sostituendo al concetto di
diversità quello di devianza.
E che il mandato della legge sia puramente repressivo, lo si capisce chiaramente nell‟aggiunta della dizione
“di pubblico scandalo” accanto al concetto di pericolosità, essendo lo scandalo un concetto estremamente
soggettivo: i comportamenti scandalosi non sono mai quelli di chi esercita il potere.
Lo si capisce ancora meglio dal dibattito parlamentare che accompagnò la legge, dalla volontà indefettibile del
ministro dell‟interno, Nicotera, dalle parole dell‟on. Bianchi (medico, gli fu intestato il maggior manicomio
napoletano): questa legge consentirà di ripulire le strade e le piazze del nostro bel paese dallo spettacolo
indecente di mendicanti, prostitute, sobillatori, che oggi le popolano e le deturpano.
Ma proprio l‟oggettività e l‟indifferenza di quella violenza la rendevano ancor più agghiacciante.
6) L’arretratezza scientifica della
Psichiatria manicomiale
L‟aver abbandonato di fatto il contesto sanitario per entrare
nell‟ambito della pubblica sicurezza è la causa dell‟arretratezza
culturale della psichiatria manicomiale: che è, in realtà, la gran parte
della psichiatria di quegli anni.
Al di là dell‟arretratezza della ricerca farmacologica dell‟epoca, gli
interventi terapeutici erano scarsissimi: paradossalmente anche
alcuni interventi terapeutici, oggi considerati inumani, ma all‟epoca in
gran voga (pensiamo all‟ESK) non erano molto praticati in manicomio.
Per strano che possa apparire oggi, l‟uso dell‟ESK, in gran voga nelle
cliniche private, era limitato ai soli reparti di osservazione, e neanche
dovunque.
Non aveva senso, infatti, investire denaro ed assumersi, comunque,
responsabilità certe e dirette, per una massa di persone nei confronti
delle quali non vi era alcun reale obbligo terapeutico, alcuna speranza di guarigione.
Il contenimento dei comportamenti allarmanti o della eventuale acuzie clinica era affidato a mezzi semplici,
ancorché estremamente violenti (soprattutto la contenzione fisica) e alla struttura stessa dei padiglioni
manicomiali.
Non entrano, ovviamente, in manicomio le nuove terapie psicologiche, a cominciare dalla psicanalisi.
Si assiste ad uno strano fenomeno, reso più evidente dal grande impulso che ebbe in quegli anni la ricerca
fenomenologico-esistenziale: gli stessi psichiatri che approfondiscono in maniera elevatissima la loro ricerca
teorica di comprensione della natura psichica dell‟uomo, se collocati all‟interno del manicomio non sanno in
alcun modo saldare la loro teoria con l‟operatività quotidiana.
7) Psichiatria e fascismo

D‟altra parte, il panorama politico italiano in


quegli anni è caratterizzato dal fascismo.
La repressione del dissenso, anche con la
segregazione e la violenza, è una realtà, non
dissimile dalla repressione di quella che oggi
noi chiamiamo diversità, allora devianza.
Il distacco della ricerca fenomenologica dalla
realtà degradata dai manicomi somiglia molto
all‟incongruenza di grandi artisti e uomini di
cultura che vivono e operano in un paese
artificiosamente ruralizzato, in cui le lancette
dell‟orologio della cultura di massa sono state
volutamente riportate indietro.
Tutto ciò induce una assuefazione silenziosa, una sorta di mitridatizzazione, alla violenza, anche
nei cittadini “onesti”.
Nato in epoca giolittiana, il manicomio si adatta perfettamente al fascismo: così perfettamente
da riuscire anche a sopravvivergli.
8) La Bella Addormentata
Come la principessa della fiaba, il manicomio
attraversa, in una sorta di sonno culturale e morale, la
guerra, la resistenza, la caduta del fascismo, la fase
costituente, la nascita della repubblica e l‟inizio di una
vita democratica.
In realtà, qualche timido tentativo di risvegliare la
bella addormentata viene fatto: di tanto in tanto
qualche intellettuale e qualche politico (soprattutto tra
gli azionisti) chiede al Parlamento di mettere in
agenda una modifica della legge del 1904, e così
qualche bozza di proposta di legge viene depositata
alle Camere.
Ma, come si dice in politica, ci sono altre priorità.
E non sono priorità da poco: dal suffragio universale (l‟estensione del voto alle donne), alle
norme sul diritto di sciopero e di sindacalizzazione; dalla ricostruzione industriale alla riforma
agraria. In un paese bisognoso di dare risposte ai “bisogni primari”, dopo una dittatura ed una
guerra catastrofica, non c‟era spazio per i diritti civili di categorie deboli: all‟epoca, deboli erano
in tanti. Quello che è triste è che quasi nessuno di quei progetti di riforma, ancorché fragili e di
poco respiro, nasceva in ambito psichiatrico: non solo il manicomio, ma anche la Psichiatria
italiana era una bella addormentata, in attesa di un principe che la risvegliasse.
9) The times they are a-changin’

Tra la fine degli anni ‟50 e l‟inizio degli anni „60 le cose
cominciano a cambiare.
E‟ vero che le psicoterapie non varcano le mura manicomiali, ma
sempre di più sono gli psichiatri che effettuano percorsi formativi
in tal senso, soprattutto psicanalitici.
Dopo una fase di stanchezza, la fenomenologia si afferma come il
fulcro della psicopatologia -al posto del modello schneideriano,
trionfante negli anni precedenti- grazie all‟opera di autori come
Callieri o Cargnello, e all‟entusiasmo di una nuova leva di
studiosi, legati al modello fenomenologico-esistenziale, ma con
un diverso background culturale e politico, come Franco Basaglia
e Sergio Piro.
Accanto al Bini e Bazzi, al Rossini e al Gozzano, molti specializzandi cominciano a formarsi sul
testo di Silvano Arieti. Vengono tradotti in italiano, e si diffondono rapidamente in Italia, due testi
fondamentali: “Classi sociali e malattie mentali” di Hollingshead e Riedlich, “Asylums” di
Goffman. Infine, avviene un fatto straordinario: nel 1963 Piro pubblica per la Feltrinelli “Il
linguaggio schizofrenico”. La lettura di base è ancora nell‟ambito fenomenologico, ma si sentono
gli echi di nuove idee, non solo culturali, ma anche sociali.
La straordinarietà non sta solo in questo, ma nel fatto che, per la prima volta dai tempi di
Lombroso, un testo di psichiatria italiano viene tradotto in molte lingue e diffuso a livello
mondiale. Se non si è ancora svegliata, la bella addormentata almeno sbadiglia; o sogna.
10) L’eclettismo conserva, ma non crea

Certo, il manicomio cerca di rimanere impermeabile a


queste novità.
La partita si gioca quindi a livello universitario.
In realtà, in quegli anni, la posizione ufficiale della
Psichiatria accademica non si discosta di molto da quella
manicomiale.
Con una eccezione: la nascita dei famosi poli “eclettici”,
ovvero le sedi universitarie in cui, in una sorta di dispotismo
illuminato, in qualche modo, se non si impone, certamente
si incentiva con forza una diversificazione dei saperi, al di là
dell‟imperante modello “organicista”.
Ma l‟eclettismo, si sa, è conservazione necessaria ed
importante dei saperi nei momenti di crisi, non origine di
nuove idee.
Quindi, nonostante gli sforzi degnissimi di personalità come Cazzullo, Sarteschi o
Reda, non è da qui che prenderà il via il cambiamento.
11) Il ‘68

Quando comincia a soffiare forte il vento del ‟68, le


crepe nelle mura manicomiali si fanno più evidenti.
Le analisi di Goffman sulle istituzioni totali si
sovrappongono alle idee della cosiddetta
antipsichiatria inglese (Cooper, Laing),
all‟esperienza goriziana, che comincia a
richiamare nuovi giovani medici da ogni parte
d‟Italia, e allo spietato atto di accusa di Michel
Foucault in “Sorvegliare e punire”, e tutto viene
mescolato nel gran calderone della protesta
antiautoritaria, con i primi embrioni di lotta per i diritti civili.
Ma, al di là di un forte e sacrosanto sentimento di rifiuto verso la più evidente forma
di autoritarismo insensato e violento –il manicomio- e contro la più evidente forma di
sanità classista, non si intravede il modo per far sì che quelle crepe si allarghino.
La ricetta sessantottina prevede che il manicomio cadrà –come le altre istituzioni di
classe- nel momento della caduta del “sistema”.
Perché il manicomio scompaia, invece, saranno necessari due elementi: la presa di
potere nei manicomi, l‟elaborazione di modelli ad esso alternativi.
12) L’inizio della fine

Gli equilibri di potere nei manicomi stavano già cambiando.


Molti medici, alla metà degli anni ‟60, cominciavano a
pensare ad una sindacalizzazione, e, se non era possibile
confluire nei sindacati medici già esistenti, stante la
dipendenza dei medici manicomiali non dagli ospedali, ma
dalle province, si pensa ad un sindacato ad hoc.
Nasce così l‟AMOPI, il primo sindacato degli psichiatri.
Negli anni tra il ‟68 e il ‟74 –anno di nascita di Psichiatria
Democratica- la funzione di quel sindacato verrà fortemente messa in discussione dalle
avanguardie “alternative”. Ma bisogna dare atto all‟opera di Eliodoro Novello –fondatore e primo
segretario di quel sindacato- che, incontrando l‟intelligenza laica del ministro della Sanità
dell‟epoca, il socialista Mariotti, proprio nel ‟68 farà inserire in una legge di riordino del sistema
sanitario quell‟articolo 4 che introduce il concetto di volontarietà per il ricovero dei pazienti
psichiatrici. Il primo muro era così caduto. Non è da sottovalutare neanche l‟ingresso nei
manicomi di nuove figure, sempre in conseguenza della cosiddetta legge Mariotti: psicologi e
assistenti sociali. In realtà, queste nuove figure, per esiguità di assunzioni e per mancanza di
chiarezza sul loro ruolo, di per sé incideranno poco sugli equilibri di potere.
Ma hanno effettuato percorsi formativi diversi, non hanno commistioni con il vecchio modello
organizzativo e, soprattutto, cercano di crearsi uno spazio ed un ruolo (inizia allora la querelle
psicologi vs psichiatri). Ciò non creerà nell‟immediato nuovi poteri, ma contribuirà a
destabilizzare i vecchi.
13) Gorizia!
Proprio la miopia di alcuni potentati universitari aveva spinto alcuni
dei giovani ricercatori di maggior valore fuori dall‟ambito
accademico. Per essi era stata utilizzata la strategia con cui
venivano compensati i ricercatori e gli assistenti senza prospettive
di carriera accademica: l‟affidamento della direzione di un
manicomio di provincia. In tal modo Franco Basaglia fu spedito a
Gorizia da Padova e Sergio Piro a Nocera Superiore da Napoli.
Tra i manicomi di provincia ce n‟erano alcuni che fungevano,
immancabilmente, da trampolino di lancio verso mete più
prestigiose, altri che erano binari morti, dove le carriere si
impantanavano e le menti si impigrivano.
Gorizia e Nocera Superiore appartenevano a questa seconda categoria, ma Basaglia e Piro erano
personalità non facilmente addomesticabili. Gorizia era una strana città, una città di confine, dove si respirava
ancora l‟anima più greve dell‟impero austro-ungarico, saldata ad un cattolicesimo conservatore e bigotto,
esasperato dalle bandiere rosse di Tito che sventolavano a pochi metri dagli orti e dalle vigne.
Intelligentemente Basaglia creò fin dall‟inizio un gruppo colto, forte e politicamente omogeneo. C‟era Pirella,
figura carismatica di intellettuale formato alla scuola politico-filosofica di Galvano Della Volpe; c‟era Jervis,
formazione psicanalitica, esperienza universitaria e, soprattutto, una grande esperienza “sul campo”, avendo
collaborato con Ernesto De Martino nella ricerca sul tarantismo salentino ne “La terra del rimorso”, la prima
grande opera di antropologia culturale in Italia; c‟era uno psicanalista come Risso, che aveva scelto
l‟esperienza goriziana piuttosto che una facile e remunerativa professione; c‟erano giovani come Slavich, e
importanti figure femminili, non solo mogli di alcuni di loro, come Franca Ongaro e Letizia Comba. Si era
voluto sterilizzare Basaglia spingendolo in un contesto che si immaginava di solitudine, ed era invece nato
quello che, in termini sportivi, si definirebbe un “dream team”.
14) Nascita della pratica antistituzionale
Il primo passo compiuto da Basaglia fu quello di rovesciare tre capisaldi
manicomiali: la violenza, la spersonalizzazione e la mancanza di “voce” degli
internati.
L‟umanizzazione servì a combattere il primo elemento: non più terapie inumane
come i coma o l‟ESK, abolizione della contenzione fisica, introduzione di norme
igieniche e di vita fin lì impensabili.
La formazione fenomenologica –nonché il contributo di psicanalisti come Risso
e Jervis- diedero luogo alla “ristorificazione” dei ricoverati, non come esercizio
anamnestico o terapeutico individuale, ma come prassi diffusa, tesa a ridare a
tutti ciò che avevano perduto: desideri, gioie, dolori, ricordi; insomma, la loro
storia. L‟assemblea fu l‟arma con cui scardinare il terzo elemento, quella
mancanza di “voce” che rendeva terribilmente soli e deboli i matti.
deboli i matti. Un‟assemblea che non era terapia di gruppo, ma momento di confronto e di liberazione,
strutturata in maniera paritaria, ancorché sapientemente, ma inapparentemente, condotta da Basaglia e dai
suoi collaboratori. Fin lì non ci furono problemi gravissimi; anzi, un bellissimo servizio di Zavoli per TV7, dal
titolo “I giardini di Abele” fece conoscere l‟esperienza goriziana anche ai non addetti ai lavori, suscitando
interesse e commozione. I problemi iniziarono quando cominciarono i permessi e le dimissioni, effettuati
utilizzando estensivamente le modalità dell‟affidamento e dell‟esperimento, che restituivano alle famiglie e
alle comunità d‟origine persone seppellite in manicomio da tempo immemorabile.
Anche in assenza di eventi avversi, la stampa locale soffiava sul fuoco della paura, e le pressioni di politici,
magistrati e forze dell‟ordine erano veramente pesanti. Il delitto commesso da uno di questi pazienti fu
l‟occasione colta al volo per porre fine alla direzione di Basaglia.
Ma la guerra era appena cominciata.
15) Gli strumenti del cambiamento
L‟esperienza goriziana, al di là del suo esito apparentemente
negativo, aveva delineato una delle due strategie di attacco al
manicomio, ovvero la presa di potere, al suo interno, da parte di
una generazione di medici che avevano l‟obiettivo di distruggere
quella istituzione. Restava da elaborare l‟altra strategia, ovvero
la creazione di modelli alternativi.
Tra gli anni ‟50 e gli anni ‟60 nasce la moderna
psicofarmacologia: dalla clorpromazina all‟aloperidolo, dalle BDZ
ai triciclici, finalmente sono utilizzabili farmaci di sicura efficacia.
La possibilità di usare questi farmaci, nonché l‟introduzione dell‟art. 4 –ovvero la volontarietà del
ricovero- modificano la gestione delle malattie mentali. Non è più necessario ricorrere al ricovero
coatto, ci si può ricoverare per curarsi, e non solo perché ritenuti giuridicamente pericolosi.
E quindi, si può anche scegliere dove curarsi: non più solo nei manicomi o nelle cliniche private,
dove diagnosi di comodo consentono ai malati ricchi –o disposti a spendere- di occultare in qualche
modo anche le più gravi malattie, ma anche nei reparti di neurologia degli ospedali, o
ambulatoriamente. Nascono in quegli anni gli ambulatori di Psichiatria dell‟INAM e delle altre mutue,
affiancati ai preesistenti ambulatori neurologici. Ma, da tempo, ci si è resi conto che l‟approccio
puramente medico e ambulatoriale, in psichiatria, ha il fiato corto.
Se “Classi sociali e malattie mentali” ha visto giusto, se la lettura degli antipsichiatri inglesi e di
Basaglia e Piro ha senso, allora il modello non può solo essere solo medico e ambulatoriale, ma
multidisciplinare, e prevedere qualcosa che, successivamente, chiameremo “presa in carico”.
In realtà, già negli anni ‟30, in Scozia, Adler aveva avviato una rete di interventi di prevenzione, cura
e, in qualche modo, riabilitazione, utilizzando intelligentemente i primi strumenti del welfare. Dagli
interventi nella scuola ai consultori di psichiatria, a strutture part time, simili agli attuali centri diurni, il
genio dell‟ ebreuccio dei sobborghi viennesi (come lo chiamava Freud) aveva posto le premesse per
un intervento molto vicino al concetto di igiene mentale, come poi si sarebbe detto. Per di più con una
evidente connotazione politica, come era quasi obbligatorio per il cognato di Trotzky. Come sia potuto
cadere nel dimenticatoio tutto ciò, è uno dei tanti misteri della storia di Adler. E‟ in Francia, agli inizi
degli anni ‟60, che nasce l‟idea di un‟assistenza psichiatrica “territoriale”, mediante la famosa
organizzazione “di settore”. Il concetto è semplice: dividendo il territorio nazionale, regionale e urbano
in settori, si organizza un modello di assistenza intra ed extraospedaliera, il cui obiettivo è quello di
fornire, alla popolazione di quella fetta di territorio, un servizio caratterizzato dalla multidisciplinarietà
e dalla continuità assistenziale. In Italia l‟esperienza del settore, avviata da Benassi a Reggio Emilia,
viene fortemente osteggiata. Dapprima dalla psichiatria manicomiale, che non vuole alcun
cambiamento, sicuramente pericoloso per il suo futuro. Poi anche dalla psichiatria antimanicomiale,
che nel settore vede (siamo nei paraggi del „68) un ipocrita tentativo di riproporre il controllo della
psichiatria sull‟individuo.
In realtà, il motivo è ben altro: la psichiatria antimanicomiale vuole gestire in prima persona anche la
futura assistenza territoriale, per assicurarsi la traslazione delle sue idee fuori dalle mura manicomiali,
stabilendo così un modello forte, un continuum teorico-pratico che, oltretutto, non consentirebbe mai
più la nascita di nuove forme istituzionali. E il settore questo non lo garantisce affatto, perché, quando
parla di continuum intra ed extraospedaliero, non specifica che l‟ospedale non dovrà essere il
manicomio. Non diceva neanche che dovesse esserlo, per la verità: ma erano tempi di scelte nette,
senza spazio per dubbi e sottigliezze.
16) Comunità terapeutiche si o no?
Ma non c‟è solo il modello territoriale da elaborare: c‟è anche la
necessità di ipotizzare un modello residenziale.
Comincia così, anche in Italia, il dibattito sulle comunità
terapeutiche.
La comunità terapeutica è un brevetto inglese, dove le prime
esperienze nascono negli anni della guerra ad opera di Maxwell
Jones.
Alla fine della guerra, e quando Maxwell Jones farà ritorno negli
USA, il modello entra in crisi.
Ma non si estingue, ed esperienze di comunità nascono un po‟ ovunque: a Milano, famosa
ancorché controversa, in quegli anni è quella di Villa Serena, con Diego Napolitani.
Ma è di nuovo in Inghilterra, con Laing, Esterson, Berke e Schatzman, che il progetto assume
nuova forma e nuovo impulso.
E‟ una esperienza nuova, tra l‟antipsichiatria e la filosofia e la mistica orientale; in alcuni casi
ancora molto comunità terapeutiche, in altri più “comuni”, nell‟ottica del tempo.
E, soprattutto, ciò che lascia perplessi anche gli osservatori più ben disposti, è la mitizzazione
del “viaggio” nella follia, fino agli estremi limiti, come rito di iniziazione e di teorica liberazione.
Nel suo famoso viaggio a Londra, a Kingsley Hall, Basaglia prende atto di questa realtà e, al di
là della stima per Laing, decide per una strada diversa.
17) Psichiatria antiistituzionale e politica
All‟inizio degli anni ‟70 il movimento antimanicomiale è ormai assai esteso:
comprende figure importanti della Psichiatria, nonché gran parte dei giovani
medici; alcuni assistenti sociali e psicologi; parecchi infermieri, soprattutto tra
quelli militanti in sindacati, partiti o movimenti di sinistra. Nella sua opera di
ricomposizione del magma del ‟68, la sinistra ufficiale, quella del PCI e della
CGIL, recupera molti dei contenuti delle teorie antimanicomiali.
Si delinea così, accanto alle vecchie dicotomie (organicisti vs psicodinamici;
manicomialisti vs antimanicomialisti) una nuova dicotomia (nuova in psichiatria,
vecchissima in politica) ovvero sinistra vs destra. Così si spiega il proliferare di
esperienze “alternative” nelle regioni e nelle province governate dalla sinistra, ma
si spiega anche il rapido impoverimento della ricerca e della sperimentazione, per
una sorta di sazietà sopraggiunta, riconducibile alla rapida acquisizione di posizioni di potere locale.
Nelle zone “rosse” i modelli non sono peraltro univoci.
C‟è il modello umbro, caratterizzato da grande efficacia (i manicomi umbri furono i primi ad essere
smantellati), da un buon lavoro di protezione ed assistenza dei pazienti dimessi e da un assoluto
understatement dei suoi protagonisti: i nomi di Boranga e Ciappi sono sconosciuti ai più. Il modello
emiliano appare fortemente istituzionale (nel senso delle istituzioni politiche e di governo locale). A
parte il periodo di notorietà dell‟esperienza ferrarese, sotto la direzione di Slavich, non ci sono
esperienze di richiamo nazionale, e tutto sembra avviarsi verso una integrazione dell‟assistenza
psichiatrica nei futuri servizi sanitari, con previsione di grande efficienza, ma con scarso rilievo nel
presente.
Il modello toscano è il più singolare. Intanto esso vede una guida politica forte e diretta, che
detta la linea e stabilisce le priorità. Ciò anche per la forte personalità di Bruno Benigni,
assessore regionale alla Sanità.
Ci sono (ancorché diverse tra loro) due esperienze esemplari (Arezzo e Volterra) e forti spinte
antimanicomiali a Firenze. Ma, nonostante ciò, i tempi e le priorità vengono decisi nelle stanze
della politica. Come dovrebbe essere, ma dopo che i tecnici hanno elaborato teorie e prassi.
Inoltre, in Toscana si crea un precedente pericoloso, a causa della tregua di fatto tra il governo
regionale, che avrebbe sposato la lotta al manicomio ed un modello di Psichiatria sociale, e
l‟Università di Pisa, che si avvia a diventare la roccaforte delle istanze contrarie a quelle idee.
In tal modo, le esperienze toscane avanzate sono costrette ad estremizzare la politicizzazione,
mentre alla Clinica Psichiatrica di Pisa viene riconosciuto, in esclusiva, il ruolo scientifico.
Il meridione, saldamente in mano alla D.C. e, spesso, con una forte anima di destra estrema, è
invece del tutto impermeabile al cambiamento, a parte la breve esperienza del gruppo di
giovani psichiatri (Ferrannini, Adamo, Petruzzellis e Calderaro) coagulati a Reggio Calabria
intorno a Scarcella. Per il resto, al sud i manicomi sembrano ancora forti ed inamovibili, e le
avanguardie antimanicomiali indulgono ad uno sterile massimalismo, che trova
compensazione alle insoddisfazioni del quotidiano in frequenti pellegrinaggi nei luoghi della
psichiatria alternativa.
18) I nuovi testi

Nonostante questa frammentazione, si è


ormai strutturata una cultura ufficiale
antimanicomiale: pensiamo alle opere di
Basaglia, “L‟istituzione negata”, “Che cos‟è la
Psichiatria?”, “Crimini di pace”; quelle di Piro,
come “Le tecniche della liberazione”
(indimenticabile la dedica “al lupo cattivo”) e
“Il caso particolare della Psichiatria”; o la
produzione internazionale, da “Sorvegliare e
punire” di Foucault a “Il borghese e il folle” di
Szasz.
Da non dimenticare, infine, l‟importante funzione dei “Fogli di informazione”, il
periodico diretto da Tranchina, organo ufficiale della psichiatria alternativa. La
buona abitudine di dedicare via via un intero numero alla presentazione di una
esperienza locale fu veramente meritoria, e la fine di questa pratica non giovò al
movimento.
19) Nascita di Psichiatria Democratica
Fino agli inizi del ‟74 la psichiatria antimanicomiale aveva una
connotazione movimentista.
I partecipanti a quel movimento rifiutavano non solo l‟adesione alla
società scientifica (la SIP) -che, per parte sua, non seppe in alcun
modo aprirsi alle nuove idee e sposò, almeno ufficialmente, la causa
manicomiale- ma anche la militanza in partiti storici e nei sindacati di
categoria. La persistenza di un‟ottica movimentista, che prevedeva
anche estremizzazioni ideologiche, come il rifiuto di assunzione di
responsabilità nelle aborrite istituzioni manicomiali (citiamo per tutti Antonietta Bernardoni ed il suo gruppo
modenese), metteva in crisi la strategia basagliana della presa del potere manicomiale per scardinare
dall‟interno l‟istituzione, guidarne la transizione e traghettare la Psichiatria verso una nuova legge ed un nuovo
modello assistenziale. Le stesse parole d‟ordine del movimento, prima fra tutti il riconoscimento reciproco tra
“compagni” che ponevano alla base della loro lotta al manicomio la lotta di classe, faceva temere una
vocazione minoritaria e scollegata dall‟operatività nelle istituzioni. D‟altra parte, c‟era già un esempio
illuminante, quello di Magistratura Democratica, nata anch‟essa come movimento dal magma del ‟68, ma
divenuta presto una realtà istituzionale forte e significativamente presente (non a caso partecipante alle
associazioni di categoria ed inserita, con sua rappresentanza, nel CSM) capace di dare rappresentatività e
sostegno ai giovani e meno giovani magistrati che stavano mettendo in crisi, dall‟interno, un sistema
giudiziario grevemente colluso con il potere politico ed economico. Non a caso, nella riunione che si tenne
nella primavera del ‟74 a Bologna, la presenza di Accattatis, segretario nazionale di Magistratura Democratica,
contribuì notevolmente a determinare la scelta di darsi un modello organizzativo di associazione e non più di
movimento. La presentazione ufficiale di Psichiatria Democratica, alla fine di giugno di quello stesso anno, nel
congresso istitutivo a Gorizia, fu trionfale. La scelta di Gorizia, dove tutto era cominciato, non fu certo casuale.
20) Che fare?
Alla metà degli anni ‟70 Psichiatria Democratica è una realtà
pienamente alternativa alla SIP.
E il termine “alternativa” ha perduto il primitivo significato eversivo o
rivoluzionario, per assumere un significato di contrapposizione
paritaria. Se, infatti, la SIP detiene il potere universitario, Psichiatria
Democratica ha ottenuto il potere nei manicomi. Non in tutti i
manicomi, certamente, ma laddove si ha esposizione mediatica,
peso culturale e politico. E, anche dove ufficialmente non detiene il
potere, riesce a condizionarlo, se adeguatamente sostenuta dalla
politica: ed è il caso di molti ospedali in Emilia e Toscana, o di molte
realtà del nord.
La sua morte, nel 1980, non ci ha consentito di avere una risposta.
E a questo punto, come avviene in tutte le rivoluzioni, si pone la domanda storica: che fare?
Ovvero, rafforzare le situazioni di potere consolidato e la nuova nomenclatura del potere di Psichiatria
Democratica, oppure accendere nuovi fuochi rivoluzionari, non solo in Italia, magari a livello planetario, e
favorire la nascita di nuove leaderships? Pur dando grande visibilità all‟esperienza triestina e tenendo ben
stretto il governo di P.D., questa era la posizione di Basaglia, che io definisco trotzkista o guevarista, in
contrapposizione con i suoi collaboratori triestini o i vecchi compagni come Pirella, che si muovevano in
un‟ottica stalinista, cioè di rafforzamento del potere nella sicurezza. L‟andata di Basaglia a Roma somiglia
molto a quella che, anni dopo, farà Giovanni Falcone: non solo per seguire da vicino l‟iter della nuova legge,
ma anche per un tentativo di sganciamento dai vecchi compagni, non necessariamente per una rottura
insanabile, ma forse per una sorta di messa alla prova delle reciproche posizioni.
La sua morte, nel 1980, non ci ha consentito di avere una risposta.
21) Finalmente la 180!
Nel frattempo, il 15 maggio 1978 veniva promulgata la
nuova legge, la 180.
Fu una legge che ebbe una lunghissima gestazione, ed
una conclusione precipitosa.
Mentre le commissioni parlamentari esaminavano il testo
di legge, era pendente un referendum indetto dal partito
radicale, in merito all‟abrogazione tout court della legge
del 1904. Qualora il referendum avesse avuto esito
positivo, si sarebbe creato un vuoto di potere e di
assistenza che, se poteva entusiasmare le frange radicali
del movimento, preoccupava terribilmente chi aveva deciso di farsi carico, sia pure in un‟ottica
nuova, del problema della salute mentale.
Come racconta Vincenzo Macrì, oggi procuratore nazionale antimafia, in due notti, presso la
sua abitazione, si sciolsero frettolosamente i nodi giuridici della nuova legge, in un‟operazione
che a molti apparve di compromesso.
Soprattutto il TSO e l‟ASO sembrarono, alle avanguardie del movimento, un tradimento di dieci
anni di lotta al manicomio.
Ma l‟alternativa a non “tradire” dieci anni di lotte sarebbe stata ignorare 70 anni di storia,
psichiatrica e giuridica: e su quell‟ignorare sarebbe potuta naufragare la legge. Pur con alcuni
punti deboli e qualche genericità di troppo, la 180 è stata davvero una buona legge.
E se i punti deboli e le genericità non sono stati quasi mai corretti (l‟unica seria integrazione è
nella legge 6 del 2004, o dell‟amministrazione di sostegno) non è stato per un dettato intrinseco
della legge, ma per l‟ideologizzazione eccessiva con cui, da una parte e dall‟altra, ad essa ci si
è accostati.
Comunque, con l‟entrata in vigore della 180 la funzione storica del manicomio era veramente
finita, anche se si dovette aspettare la finanziaria del ‟94 per porre fine all‟equivoca
permanenza dei “residui manicomiali”.
Così pure cessava il ricovero coatto, come atto di pubblica sicurezza: il TSO, comunque lo si
giudichi, è innegabilmente un atto sanitario.
Finiva lo sconcio dell‟iscrizione al casellario giudiziario, anche se, nonostante ciò, lo stigma
sarà duro a morire.
Nel dicembre dello stesso anno la 180 veniva inserita nella 833, ovvero la legge di riordino del
Sistema Sanitario Nazionale.
Prendevano quindi vita i nuovi servizi territoriali ed ospedalieri: non più per scelta di politici
illuminati, ma come obbligo istituzionale per tutte le Regioni.
Come essi avrebbero poi operato, quale sarebbe stato lo “stile di lavoro”, di quali e quanti
mezzi avrebbero usufruito, quello era un altro problema.
22) Grandezza e limiti della Psichiatria Umanistica

Resta ora da fare una valutazione su quella che si chiamò prima -e


giustamente- psichiatria antimanicomiale, poi democratica. La scelta
antimanicomiale non era una scelta legata solo all‟esistenza del manicomio:
questo lo si vide subito e lo si capì meglio dopo. Era una scelta insieme
etica, politica e culturale.
Era il rifiuto di una scienza asservita ai poteri forti, che si prestasse a
nascondere le disfunzioni del corpo sociale sotto l‟etichetta della malattia
mentale. La dicotomia era se ottenere il riconoscimento della dignità della
malattia in quanto tale, o sostenere la sua negazione in chiave sociologica.
Questa scelta, come vedremo più avanti, fu in qualche modo fatta, in favore della seconda ipotesi
Ma, cacciata dalla porta dell‟ideologia, la prima ipotesi si riaffaccerà costantemente dalle finestre della
quotidianità. Anche se, sull‟onda del ‟68, si usarono parole e slogan marxisti, il movimento era in realtà
la riproposizione di un nuovo umanesimo, una propaggine del pensiero illuminista.
Questo ci fa comprendere la trasversalità dei consensi, che andavano dalla sinistra estrema e militante
ai cattolici post-conciliari, fino ai liberali della borghesia illuminata. E ci aiuta anche a comprendere
come mai, in una società che non aveva realmente rimosso lo stigma e il pregiudizio, pure si fece
strada l‟idea –unica al mondo- di una nazione senza manicomi. Questo è il grande valore
dell‟esperienza antiistituzionale, che nessun tentativo revisionistico potrà mai cancellare. Ma i limiti, nel
movimento, esistevano. L‟idea basagliana di “mettere tra parentesi la malattia” era giustissima, non
solo nell‟ottica manicomiale. L‟etichetta diagnostica condizionava la vita delle persone in maniera
assurda; il fatto di contenere, quasi naturalmente, nel giudizio diagnostico una valutazione di
inguaribilità giustificava l‟abbandono e il nichilismo terapeutico.
E spesso, dietro le diagnosi, c‟erano davvero storie di vita sofferente, drammi personali,
familiari o sociali. Ma c‟era anche, tante volte, il nocciolo duro della psicopatologia individuale:
che poteva essere messo tra parentesi, ma non rimosso.
Che richiedeva, in qualche modo, soluzioni individuali e non generalistiche: casa, lavoro,
assistenza, socialità.
E questo Basaglia e Piro, che venivano dalla fenomenologia, in realtà lo sapevano bene.
Un loro limite fu il non aver mai voluto affrontare il problema della cura dell‟individuo, facendosi
scudo dell‟idea di curare il sistema, nel timore di fornire, altrimenti, una sponda alla vecchia
psichiatria della delega e del nascondimento.
Chi non lo sapeva, spesso, era la nuova leva di giovani psichiatri, che avevano snobbato la
formazione universitaria, un po‟ perché la trovavano vecchia e non sintonica con la cultura del
tempo nuovo, molto per una lettura forse superficiale, forse fideistica, dei testi sacri, da
Foucault a Laing, da Basaglia a Szasz.
Ma la generazione di mezzo, quella che a metà anni ‟70 navigava tra i 30 e i 40 anni, il
problema se lo poneva. Lo si vide con chiarezza al congresso di P.D. ad Arezzo, nel ‟76,
quando la lista che faceva capo a Jervis, il cui manifesto elettorale era la riscrittura di una
nuova psicopatologia e di un nuovo modello terapeutico, fu ad un passo dallo scalzare dai
vertici dell‟associazione il gruppo storico.
Fallì questo tentativo e fallì anche l‟ipotesi di Jervis, che si esaurì nella pubblicazione di un
“Manuale critico di Psichiatria” ampiamente insoddisfacente.
23) La fine del movimento
Se formalmente tutti si richiamavano ai principi goriziani e triestini,
quando poi cominciarono ad attivarsi i servizi territoriali, dove
quotidianamente ci si confrontava con richieste di aiuto e di
assistenza, ognuno cercò di arrangiarsi, in una sorta di eclettismo
fai da te.
Chi aveva fatto training psicoterapeutico, utilizzando le
psicoterapie; i più utilizzando i farmaci.
Ma sempre in una condizione equivoca: si utilizzava uno
strumento, ma se ne ridimensionava il valore ed il significato, secondo una gerarchia di valori culturali
che poneva al primo posto la politica. Questo fu un errore, perché consentì alla parte avversa,
ancorché sconfitta sul campo, di prendersi una clamorosa rivincita: quella di accreditarsi come
“scienza”, contrapponendosi alla eccessiva politicizzazione e al sociologismo dei riformatori.
Quanti danni abbia fatto tutto ciò lo avremmo valutato solo alla fine degli anni ‟80, quando esplose in
maniera evidente la controrivoluzione biologistica, gestita dalle aziende farmaceutiche e dai loro
tecnici di fiducia. Una controrivoluzione che conquistò in breve molti cuori, soprattutto di giovani
psichiatri: non solo con la seduzione dei megacongressi e del turismo parascientifico, ma anche dando
certezze. Certamente non dimostrate, né popperianamente falsificabili, ma capaci di dare una rotta
alla navigazione teorica e pratica degli operatori.
La successiva ribellione a questa restaurazione di fatto non si limitò al vecchio movimento alternativo,
ma coinvolse questa volta anche la SIP, non più ridotto di notabili e baroni, ma luogo dove confluivano
molti ex giovani che avevano vissuto l‟esperienza di lotta al manicomio,
o la militanza in P.D., ed ora arrivavano a posizioni di potere e visibilità nelle società
scientifiche, come Ferrannini, Munizza etc.
C‟è poi da considerare il ruolo che ebbe, negli anni di presidenza della SIP, Piero Scapicchio.
Proveniente dalla sanità privata (il famigerato manicomio della Divina Provvidenza di Guidonia),
uomo di potere, è stato abilissimo traghettatore delle nuove idee nella fase post 180, quando la
morte di Basaglia sembrò vanificare tutta la storia degli ultimi anni.
Quando ormai la SIP –e le società scientifiche da essa derivate- avevano scelto l‟appartenenza
al nuovo modello di assistenza, senza più distinzioni tra mondo accademico e Servizi Sanitari,
allora la funzione storica di P.D., in quanto rappresentanza di una teoria-prassi alternativa al
sistema, era veramente terminata.
Mantenere in vita quel movimento, e gli altri da essa poi derivati, in quel gioco cannibalico che
contraddistingue spesso la sinistra culturale e politica, non solo non aveva senso, ma
introduceva paradossali elementi di conservatorismo in quello che era stato un movimento
rivoluzionario.
Che poi queste residuali frange “rivoluzionarie” possano essere state utili a politiche nazionali e
regionali, qua e là per l‟Italia, nell‟ottica della politica dell‟annuncio e della chiacchiera, e quindi
ancora utili al potere di singoli individui, ha scarso significato reale.
Ma questa, ormai, è storia dei nostri giorni.
24) Alla fine dell’arcobaleno

Questa è la cronaca storica del grande


movimento di Psichiatria antimanicomiale, dagli
albori fino ai giorni nostri.
Ma la storia non può limitarsi solo al racconto
dei fatti: la storia è anche composta dalle vite
delle persone che, di volta in volta, la
attraversano.
Da qui la scelta di scrivere un libro che
raccontasse tutto ciò “dall‟interno”, sotto forma di
cronaca familiare e non di cronaca ideologica.
Il libro è “Alla fine dell‟arcobaleno”, di cui ora
andremo a vedere un booktrailer che prova a
dare volti e voce a quelli che sono stati,
nell‟anonimato, i veri grandi protagonisti di tutto
ciò.
Se, dopo aver visto il booktrailer, avrete voglia di
parlare anche del libro, lo farò volentieri. .
GRAZIE PER LA VOSTRA ATTENZIONE
FRANCESCO TORNESELLO, psichiatra, è nato a Maglie nel 1945. Dal 1972 al 1978 ha lavorato presso
l‟ospedale psichiatrico di Volterra, partecipando alle esperienze più avanzate di operatività antimanicomiale.
Nel 1974 è tra i fondatori di Psichiatria Democratica, a Bologna.
Dopo una breve parentesi presso l‟O.P. di Nocera Inferiore inizia a lavorare nel Salento, come responsabile
dei centri di salute mentale di Lecce e poi di Maglie. Dal 1993 al 2003 è primario del reparto di psichiatria
dell‟O.C. di Casarano. Dal 2004 al 2007 (anno in cui si colloca in pensione) è direttore del dipartimento di
salute mentale della ASL LE2.
Ha pubblicato sulle principali riviste italiane (Sapere, Psichiatri Oggi; La rivista di Servizio Sociale,
Neopsichiatria, Il ruolo terapeutico, Fogli di informazione, nps, etc). Attualmente presta consulenza alla
coop. sociale l‟Adelfia di Alessano, per la quale ha curato la produzione del lungometraggio “Juliet: tutti
sulla stessa barca” regia di G. De Blasi, che ha partecipato a numerosi festival ed è stato selezionato per i
David di Donatello.
Nel 2010 ha pubblicato il Libro Alla fine dell’Arcobaleno- piccola cronaca familiare di un viaggio attraverso le
istituzioni psichiatriche. Controluce – Edizioni BESA.
Alla fine dell’arcobaleno rappresenta una cronaca – definita cronaca familiare e non ideologica – di un
viaggio attraverso le istituzioni psichiatriche italiane dagli anni Settanta alla fine degli anni Novanta.
Nei quattro capitoli si raccontano le storie di alcuni “pazienti” conosciuti sia in manicomio che nei servizi
territoriali. Ma, attraverso la narrazione autobiografica, il libro è anche la storia di una generazione di tecnici-
politici, nel momento cruciale del cambiamento in Italia.
Ogni capitolo sottende un tema, lasciato alla riflessione del lettore. Nel primo capitolo il tema è sul
significato della scelta pubblico-privato. Nel secondo la domanda è storica: il fine – anche il più nobile –
giustifica necessariamente il mezzo? Nel terzo si affronta il tema del rapporto tra intellettuali e politica. Nel
quarto si traccia il percorso di una esperienza “esemplare” nel contesto meridionale.

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