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Barbara Alberti.

DONNA DI PIACERE.
NOTA DELL'EDITORE.
Questo violento e delicatissimo romanzo fiaba di Barbara Alberti fin
dalle prime pagine predispone il lettore a incontri eccezionali: nella
cornice ingenua e corposa di un bordello di campagna, sul morire del
secolo scorso, in un luogo imprecisato che però lascia trasparire le
più stregonesche e mistiche magie dell'Umbria, vive Chiara, donna
visionaria, figlia di un macellaio di paese, avvezza alle attrattive e
alle repulsioni del sangue. Chiara, come un San Francesco laico, parla
con gli animali, ma anche con i morti e i nascituri, in un delirio che
la fa giudicare da tutti una pazza. Tra realtà e fola, con la forza
poetica di un cantastorie, che sa di scandali e di santi, la Alberti
incalza questa bizzarra protagonista, dalla sua ribellione alla
famiglia d'origine, al suo accasarsi con il giovane Ottiero, con la
sua malevola madre alle spalle, alla nascita di due figli, che con il
latte di Chiara succhiano la sua anomala e spiritata inclinazione a
vivere tra terra e cielo. Ma per Chiara, che da bambina fu rapita in
estasi dal mitico dipinto di Sant'Amara, custodito in una tenebrosa e
diroccata cappella boschiva, il destino non può che rotolare verso
altri approdi, spingendola lontana dalla nuova famiglia. E il suo
arrivo sarà appunto nel bordello agreste di Madame Goullon,
solitamente frequentato da canaglie paesane, dove nascerà il suo
smisurato e impossibile amore per l'Angelo, l'omosessuale Emilio. Per
dedicarsi a questo irrealizzabile sogno con più vigorosa dedizione,
lei stessa sceglierà di rinunciare agli onori di puttana, diventando
serva di casino.
Il romanzo di Barbara Alberti spicca per la sua splendida inattualità,
per il ritmo colto e trascinante della scrittura, capace di affrontare
senza salti stilistici i vorticosi riflessi di una lucente
spiritualità o gli spasimi gioiosi e dolenti della carnalità più
lasciva. Valgano le ammalianti pagine della vita di bordello, una
specie di convento laico, con le sue fantasticate e perfettamente
caratterizzate meretrici. Circola nell'intero libro una venatura di
timbro insolito, spesso tendente al poema (D'Annunzio, "Cantico delle
Creature") e alla favola, da Perrault a Collodi, il tutto senza
artifizio "firmato" dall'autrice.
Barbara Alberti è nata in Umbria. Ha iniziato a lavorare come
sceneggiatrice (con Amedeo Pagani) a tutta una serie di film di
successo, fra i quali "Il Maestro e Margherita", "Maladolescenza",
Portiere di notte, "Ernesto" e "La disobbedienza". Ha scritto per il
teatro femminista "La Maddalena" la farsa "Ecce Homo". Con "Donna di
piacere", l'autrice si conferma come una delle scrittrici italiane più
sensibili alle problematiche femminili.
Dopo "Memorie Malvage" (premio l'Inedito 1976) sono usciti presso la
Mondadori i romanzi "Delirio" (1978) e "Vangelo secondo Maria" (1979).

DONNA DI PIACERE.
Al figlio di Auguste Greger

1.
MARTEDI' GRASSO AL BORDELLO.

Chiara!
Chiaraaaaaaaa!
Chiaràààààààààààà!
Mi chiamano da ogni parte affacciate alle loro stanze, scarmigliate,
impazienti oggi della loro bellezza. E io volo da tutte, o patrimonio
scomposto di volti, di peli arruffati, ragazze! Se la F è in ordine,
il resto che aspetti... e le aiuto il velluto dei sessi a spianare, a
irrorar di profumo senza risparmio; e poi a domare i capelli, che
l'emozione li ondeggia e scuote. Alla Nichilina afferro la chioma
bizzoso cavallo e dei serpenti neri suoi capelli faccio una solida
treccia da bella, ma lei si morde le labbra, piacerò, dice,
all'orefice?
Severa, con la bacchetta Madame Goullon si batte la mano, «Nichilina,
una vera puttana ha da piacere a tutti. E sciolta, la chioma! che
all'uomo la testa scomposta suggerisce stranezze e i soldi non contan
più niente» (i soldi, che pure son tutto!). «Al galoppo, vestite vi
voglio, che solo nelle case da due lire si aspetta, da me, sempre
pronte, sono famosa per questo...»
Maestosa si aggiusta l'occhiale come crede faccian le duchesse,
guardando dalla finestra il suo dominio, e un po' perché beve si
scorda che il bordello è una casetta in collina, con pochi clienti per
bene e molta canaglia. Ma stasera!
E' martedì grasso. Più tardi verranno gli uomini. I migliori, i più
profumati coi portafogli rigonfi come braghette.
Per questo la casa trema, per questo Chiara, le calze, Chiara il
belletto... Chiara ho l'alito cattivo, oggi?
A Damina stringo il corsetto, a Elvira stiro il merletto delle
portentose mutande (conobbero, pare, mani di re), ma a tutte sussurro,
in segreto «Sei tu la più bella».
Bisogna contentarle oggi, l'ultimo di carnevale incontrare gli uomini
non è come le altre volte, oggi è davvero proibito e diverso oggi ogni
lazzo è possibile, ogni bella finzione.
Gli uomini verranno travestiti da altri, con maschere e mantelli,
extravaganti signore diverranno queste spietate puttane, e folli eroi
i loro ganzi.
La Nichilina s'è vestita da sciantosa e Damina da Schiava d'Affrica (è
innamorata di tutti, è innamorata di sé, e perfin ora nei pantaloni di
raso sognante si carezza la fessura che posta ha tra le gambe perché
mai si annoi, cattiva bambina). Io cerco che facciano piano, che non
disturbino Cantilena, e zitte, dico! Ma il silenzio si spezza in risa
oggi una cascata dorata sgorga dalla bocca di Elvira, shhhh! Cantilena
sta morendo, Cantilena che fu grande nei pompini, un po' di rispetto
in nome di Dio, per chi il mestiere l'ha conosciuto davvero.
Ma regna Carnevale, ogni minuto è in maschera, e sovvertite le
abitudini, oggi la Nichilina non cerca con lievi bugie di correre in
cortile, e abbandonarsi alla sua passione, di cui non può fare a meno
un solo giorno: i piccoli turpi commerci con gli animali.
La Goullon ha cercato di levarglielo il vizio, ma lei è campagnola e
dice che non v'è piacere più grande delle bestie, lo ha sempre fatto
fin da bambina.
In un meriggio d'estate, sentii gridare in pollaio. Le altre
dormivano. Scesi giù, incuriosita... e vidi la Nichilina, pazzamente
discinta, le gonne alzate. Teneva in braccio un'oca e la premeva sul
sesso denudato, dopo averle infilato le dita dentro fino a farla
strillare. Gli strilli dell'oca le tolsero ogni freno... le strinse il
becco... Nello spasimo, le tirò il collo.
La Goullon le diede cento bacchettate dicendole sudiciona.
La Nichilina aveva goduto tanto, che prese le busse come in sogno. Ma
oggi dei pennuti s'è dimenticata, oggi ogni scherzo vale e gli uomini,
le sembrano importanti quanto i polli.
Ma perché Giolli si torce le mani, e Rannusia la spia?
Solo loro non partecipano alla festa solo loro non curano le maschere.
Perché quegli sguardi, Giolli alla finestra, Rannusia sul volto di
Giolli?
Cosa verrà dalla strada, se Giolli la guarda con ansia, e Rannusia con
ira?
Eppure, tra loro è tutto finito da tempo... No. Fra noi non finirà
mai, dice lo sguardo di Rannusia fisso su Giolli, e d'un amore
assassino le scintilla il viso.
Prima di finire al bordello fui una signora, e prima ancora un cane
arrabbiato. Ma mai partecipai con tanta furia alla preparazione d'un
martedì grasso. Per i modelli, consultammo la rivista "Natura e Arte",
dove la Marchesa di Riva, nella rubrica «Moda e...», suggeriva per
tempo i travestimenti di carnevale. Le ragazze, scorrendo le seducenti
illustrazioni si accapigliarono per la scelta, e fu un'impresa
metterle d'accordo. Ma in autunno ognuna aveva la sua maschera, e
cominciai a tagliare i costumi. Era il bel novembre e già cucivo per
carnevale, sembrava una festa lontana che non sarebbe venuta mai.
E invece venne quasi d'improvviso, gli ultimi giorni febbrilmente e mi
stanno diventando tutte nervose, come prime attrici.
Meritano d'altronde ogni onore, i sette coraggiosi che verranno al
carnevale delle puttane: l'orefice, Gigi, lo Zoppo, Teodoro e Menco,
Giulio del Sarto e Trionfi.
Solo loro oseranno lasciare il carnevale del paese, dov'è accentuata
la mestizia di tutti i giorni, col sindaco travestito da maresciallo e
il maresciallo da sindaco.
Lasceranno le mogli e le madri coi loro efferati dolcetti, alcuni
vilmente, altri senza spiegazioni, per tener fede ai baffoni imperiosi
che contornano il labbro. Carnevale finisce, spronate i destrieri, al
casino!
Per stare à casa c'è tutta la quaresima, per stare con chi non si
paga, con chi ci annoia senza chiedere.
E noi faremo onore, lo vedranno dov'è il Carnevale!
Non li faremo pentire d'avere sfuggito per noi le mogli bisunte, gli
arroganti marmocchi.
Qui stasera al casino stupiranno dapprima i costumi, ma quando la
festa si scalderà, verranno tolti e salteranno fuori allora i
travestimenti golosi, che quando saranno nude, voilà!
Damina se l'è tinta di rosso e la Nichilina di giallo zafferano,
celeste è la F di Elvira, Madame Goullon tutta rosa, anche se da tempo
riposa. (Ma buia resta la F di Giolli, per un segreto che tanto vorrei
capire.) O bel finale di scherzi, o lotta stanotte prima d'indurli a
fare ciò per cui son venuti, in fuga da F casseruole...
Dapprima, confusi dai colori si scosteranno, ma i loro arnesi curiosi
si protendono verso i piccoli buchi di miele che ronzano come sciami e
dicono niente paura, alla peggio un'ape uscirà da qui dentro e vi
bucherà quel lungo pallone e sarete liberi per sempre. Non è questo,
signori clienti, che volete? quando pronti a spendere vi presentate, e
i vostri occhi dicono tagliate, tagliate...
Ebbe una grande idea Madame Goullon, a situare la casa fuori del
paese. Venire qui è per gli uomini una doppia avventura.
Il Ponte del Falco è pericoloso, sempre sul punto di crollare poi
d'inverno la neve, e i lupi...
Quando vengono a comprare una ragazza, devono prima provare il loro
coraggio.
Se nevicasse, un poco. Non udrebbero il rumore dei propri zoccoli,
venendo qui sarebbero già a metà del sogno.
Cade il vento, l'aria è grave. Verrà la neve, evviva. L'anno passato
facemmo un gran pupazzo in cortile con un bastone fiorito al posto del
coso, e poi la Nichilina gli diede fuoco, scotendo la testa... i
capelli le si incendiarono e lei rideva, danzarono tutti intorno, le
grida, e l'amante di Lisetta, in eccesso, con coltello e forchetta
finse di divorarle la F, che spasso!
Non è ancor l'ora che gli uomini vengano, e già le ragazze son pazze
d'attesa, l'eccitazione abita le stanze e le gonne; è come un piccolo
fuoco, prima del grande.
Le ragazze non mangiano, ma girano anisette.
Madame Goullon è sempre lì, «Piano, signorine!», ché mai oblìa il
lavoro, Madame Goullon, nata Martinotti.
Il padre, gran signore, nacque troppo bello, e perse la sua fortuna
con le donne.
Lei allora mise sù il casino e con le donne la riedificò: aveva
applicato un semplice principio economico.
Madame pagò tutti i debiti, e il padre poté tornare negli affari. Fu
riabilitato. Ma lei non si poteva riabilitare.
Eppure, un collegio per signorine sembra il bordello ai soli
dell'aurora, tende chiare, guance rapite dallo sbadiglio, le brioches,
il pianoforte di Madame Goullon che dà lezioni alla Nichilina, le
cosce più dure della regione, una bella mano, bella anche per il
piano.
La Goullon alleva una buona puttana e si consola di non avere una
figlia da tirar sù.
Tutte le sere le legge i fascicoli di "Natura e Arte", e se non sta
attenta, sono bacchettate: s'è abbonata perché entri con l'istruzione
un po' di finezza; quando arriva la rivista, all'inizio del mese le
ragazze si affollano per la lettura. Ognuna ha la sua passione.
Rannusia va matta per l'elettricità, non ne ha mai abbastanza delle
invenzioni e parla della mostra di Chicago come se ci fosse stata, e
della ferrovia aerea, che il vapore, ormai, è passato di moda.
Elvira trepida per l'ardita impresa polare del capitano Nansen, e
tiene una foto di lui tra la biancheria.
Damina s'interessa solo di moda, e la prosa della Marchesa di Riva la
inebria, certi pezzi li impara a memoria, e li ripete tra sé perfino
quando chiava, sconcertando il cliente:
«Perché le rose di dicembre, pallidine e fragili, le quali tremano
come temendo che un soffio tronchi la loro testolina profumata... voi,
lo sapete, o signore: portano fortuna.»
La Goullon segue le notizie finanziarie, il mese scorso restò
folgorata: c'era scritto "All'impresa che si occupa del traforo del
Frejus verrà corrisposta la cifra di 54 milioni...".
Un solo gigantesco traforo, invece di tanti piccoli e intimi...
Goullon, se avessi fatto gallerie!
Giolli, aprendo la rivista dice «vediamo che succede a Parigi», come
ne fosse appena partita o stesse per tornarci, e sa dei pranzi e delle
feste di Pierre Loti, autore di libri indecenti, come se colà ogni
sera cenasse, attorniata da avventurieri e granduchi.
Ma alla Nichilina, le interessa solo chiavare le bestie e si annoia
durante la lettura e rischia di dormire e la vecchia freme... ma se un
gallo canta nella notte, eccola pronta e sveglia... Allora la Goullon
le dà con la bacchetta sulle mani piene di geloni, e si accanisce come
per gelosia, la Nichilina strilla e lei le dice anche l'oca strillava,
e giù un colpo. Ma poi piange, e la accarezza e le regala (oh!)
qualche soldo, allora è la Nichilina che scoppia in lacrime e dice
«Io le sarò sempre grata per il bene che mi fa.»
La Goullon annuisce, ma non crede all'affetto della Nichilina.
La Goullon crede solo al denaro, che è un dio buono coi suoi veri
devoti, quelli che raggiungono la perfezione.
Ero arrivata da poco, quando scopersi, per la prima volta, la Goullon
alle prese col guadagno.
Fu il giorno che morì Lisetta. Vegliavamo la sua agonia, sconvolte
dalla pena, quando notai un signore in salotto. Rigido e molto serio,
sfregava i guanti l'uno contro l'altro, come chi è in ansia.
Chiesi se fosse un parente, o un amante. Madame Goullon mi rispose
«Zitta, scema.»
Lisetta era allo stremo.
Pochi istanti dopo era morta.
La Goullon lo annunciò all'orecchio del signore, che dominandosi si
sedette, ma lo sfregamento dei guanti divenne convulso.
Lavammo Lisetta, la Goullon la profumò tutta e le infilammo una
camicia di pizzi.
Solo allora l'uomo fu introdotto da lei. Restò dentro dalle quattro
alle sei.
Non un rumore si udì, ma fin dal mattino il vento mandava due piccoli
suoni d'arpa che si ripetevano nei polsi di tutte noi, mentre il
cliente godeva del suo particolare piacere.
Egli non aveva mai conosciuta Lisetta in vita, ma gli era stata
promessa da morta.
Quando uscì dalla camera sorprendemmo la padrona che intascava i
soldi, e ci parve ancora d'udire l'arpa risuonare su 'l gilet
smisurato dell'uomo, mentre contava l'oro alla vecchia.
La Goullon ci vide esterrefatte, e disse
«Imparate, puttane: l'onore per una vera ragazza è rendere anche dopo.
E Lisetta ne è certo orgogliosa.»
Ma Lisetta se ne cura poco. Lisetta è un viandante del cielo e mentre
il cliente viene nella sua F morta, a lei, poco importa.
Giolli sfugge a Rannusia... e Rannusia la assedia... riesce a tirarla
dietro il paravento cinese... nascoste fra i draghi d'oro confabulano,
accese... c'è qualcosa nei loro bisbigli che potrà rovinare il
carnevale o tramutarlo in eccitazione suprema. Fingendo di spolverare,
corsi a origliare.
Dalla voce di Giolli, vengo a sapere il segreto: non saranno sette gli
ospiti di stasera. C'è anche l'ottavo, quello che nessuno aspetta:
Ovidio.
Ovidio verrà di nascosto e rapirà Giolli. E' tutto concordato, farà in
cortile il verso del gufo, la porterà lontana, la sposerà...
Un respiro corto di cane (Rannusia):
«E io?»
Una risata bassa, vile e gioiosa (Giolli):
«Tu?... Ah!... tu...»
La Goullon gettò un'occhiata dietro il paravento. Snidò le due, se la
prese con Rannusia, la umiliò davanti alle altre, che ridacchiano.
Nessuna ha rispetto di Rannusia.
Sento la sua sofferenza tutta dentro di me, io so com'è dura e
generosa, quel vecchio colonnello nato per ben altro.
Odiatrice degli uomini s'è ridotta a guadagnarsi la vita dandola via,
e proprio a loro, che solo l'odore la fa star male. Ma non aveva
scelta.
Troppo turbinosa è stata la vita di Rannusia, tutto va male ai
coraggiosi che non sorridono.
Nella sua stanza, spolvero con le foto un passato avventuriero. Al
varo d'una nave, alle corse dei levrieri, la sua faccia dice "Io
vincerò". Faceva innamorare tutte, allora. Quanti mariti ha fatto
piangere!
Poi, la rovina. Il bordello.
Vendendosi agli uomini, però ha almeno il vantaggio di vivere con le
donne. Che non la amano. Rannusia è la nemica.
Quella con cui non ci si confida, e i discorsi tacciono se lei è sulla
porta. Pei suoi gusti contrari all'uso comune, condannata è Rannusia
alla delizia suprema: esser l'amante di quando fa buio, di quando
hanno paura.
Maestra nel disprezzo, non conosce l'orgoglio, e vive acquattata,
aspettando il suo momento. Aspettando che l'ultima arrivata pianga
tutta la notte e alla fine la chiami, purché non si sappia.
E lei sciacallo d'amore non tradisce nessuna, e sopravvive.
Ma con Giolli fu diverso.
Giolli, appena venuta qui, aveva più paura di tutte. Aveva passato la
vita nella miseria, era vergine e capricciosa.
Si innamorarono all'insaputa di Madame Goullon. Rannusia sverginò
Giolli col manico della spazzola di tartaruga. La Goullon le aveva da
poco sequestrato l'affare di caucciù, che distraeva le ragazze.
Fu un amore ardente e segreto. Il primo per Giolli. L'unico di
Rannusia. Pieno di astuzie tremende per non farsi scoprire.
Finché, un cliente di Montecastelli offrì una cifra per la verginità
di Giolli.
Madame Goullon la infiocchettò come un agnello e diede un brindisi con
la sciampagna per festeggiare.
Mentre di sotto saltavano ancora i tappi, il cliente fece le furie
dell'inferno in camera di Giolli, perché scoprì che l'avevano
truffato, e voleva chiamare la padrona.
Fu allora che Giolli, dalla paura d'essere scoperta, inventò qualcosa
di grande. Ricordando Rannusia, lo amò come si amano le donne tra
loro; coi delicati brividi, lentissime carezze annientò in lui la
voglia dello stupro. Con astuzie che solo le donne tra loro conoscono,
ritardò il suo piacere fino alla fine. Gli aveva impartito una lezione
di desiderio, facendogli perdere la testa al punto che quello non
fiatò con la madama, e pagò una seduta ordinaria come uno stupro, ma
senza rimpianti. Perché più di mille stupri valeva l'impalpabile
vertigine di Giolli.
Da quel momento, Giolli si rivelò una protagonista dell'amore. In
breve divenne una diva, facendo ai maschi tutto ciò che Rannusia aveva
fatto a lei: divenne la sua tattica segreta.
Il sabato, i veri buoni gustai chiedevano solo di Giolli. E le altre,
crepavano d'invidia. Ci prese gusto.
Il successo le veniva dagli uomini, cominciò ad amarli.
Rannusia tornò ad accontentarsi degli avanzi. Giolli non ne voleva più
sapere e, anzi, la beffava apertamente davanti alle altre. Per lei,
era ormai solo una ridicola minaccia alla sua carriera. L'avrebbe
voluta vedere morta.
Di notte, al casino, si sente il respiro di Rannusia che geme con la
voce di tre cani in pena, ma Giolli dorme sognando omaggi e gioielli,
e forse domani, Perugia, o perfino Parigi...
Madame Goullon, intanto, faceva buona guardia. Ha fiutato l'amore
imprudente di Rannusia, e sa che la passione sempre offende il denaro.
Certo, discorrendo coi clienti istruiti ben lo ammetteva,
«Una signorina dedita all'amor saffico in un vero casino ci deve pur
essere, sennò è incompleto»
ma dentro di sé la chiamava brutta leccafighe, convinta che una così,
al bordello, ci sta come la faina in un pollaio. E vigilava.
Poi, il destino.
Morì la zia della Goullon, nella città di Foligno.
Una che aveva sposato un invalido ubriacone, gente troppo affamata per
poterla cacciare via.
La padrona pianse di gioia alla notizia. Invecchiando, soffriva sempre
di più a essere rinnegata dalla famiglia.
Al funerale l'avrebbero chiamata signora. Sarebbe generosa con loro.
La Goullon aveva proprio voglia di correre a esercitare il potere del
denaro. La udii parlare tra sé, che si diceva
"Gallinella mia, prenditi una soddisfazione.
Tutti quei soldi ti resteranno appiccicati come peli, e alla tua morte
se li papperanno i nipotini sconosciuti cui è proibito pronunciare il
tuo nome. Va' da quei pidocchiosi e sbattiglieli in faccia, fa' regali
a tutti, come un re, lo sappia al cimitero tuo padre, che non volle
rivederti.
Siete morto dannato babbo, eravate già in agonia e aveste la forza di
farmi cacciare, però i miei soldi li avete presi... e persino
quell'angelo di bronzo che ora vi pesa addosso l'ho pagato io, sapete
quanti mai pompini costa quell'angelo, e perfino sveltine?
Eravate il più bello degli uomini. Io amai solo voi, babbo. Lo
sapevate."
Madame Goullon ebbe tuttavia qualche esitazione prima di mettersi in
viaggio. Non le garbava lasciare il casino di sabato.
C'è ressa, i soldi spariscono e perfino la Nichilina, fidata sì ma
qualche banconota nella confusione se la nasconde tra le chiappe,
eppure... Sarebbe stato un così bel funerale.
Rannusia spiava la sua decisione come in gabbia, e la Goullon sentiva
che era pericoloso lasciarla con Giolli, guai se la storia dovesse
ricominciare, e proprio ora che Giolli rende dei bei soldi...
Ma decise infine di non rinunciare al suo piacere. Il birroccio si
allontanò.
Era un pomeriggio di sole, ahi l'ottobre, Rannusia guardava Giolli, le
labbra umide di nostalgia, e l'altra abbassava lo sguardo come turbata
dai soli delle persiane.
La Goullon aveva incaricato la Nichilina di sorvegliare che non
restassero sole.
Quando, si vide venir sù per la collina un elegantissimo calesse cui
erano attaccati quattro cavallini neri.
Ne scesero tre signori di città, che volevano cose speciali.
La Nichilina fu presa dal panico, clienti così, senza Madame, non
sapeva cosa fare... Per colmo di disgrazia, ragazze disponibili non ce
n'erano, Elvira era occupata con Succhiamanici, Damina con l'avvocato,
e lei, indisposta...
Del suo sconcerto approfittò Rannusia per farsi avanti, le disse il
lavoro è lavoro, il numero coi signori di città lo faccio io, basta
che mi dai Giolli. La Nichilina lì per lì non voleva, per paura che se
lo viene a sapere la Goullon, quella dopo...
Ma Rannusia le dice li hai visti, dì? Li hai visti? Il più giovane ha
i gemelli di brillanti, e sul calesse sonnecchia un bulldog annoiato
come una regina... gente così è una fortuna rara. Quando la Goullon
torna e vede i soldi, gliene frega assai di come li abbiamo
guadagnati...
La Nichilina, che nonostante tutte le lezioni della vecchia era
rimasta sempre un po' tarda, si lasciò raggirare da Rannusia che
incalzava, "non si può mica fargli vedere che siamo indietro, e certe
cose non le sappiamo fare... Giolli è la sola che non li deluderebbe.
In coppia siamo grandi: lo sai cosa riusciamo a fare, io e la Giolli,
insieme? Te lo dico all'orecchio, tante volte qualche invidiosa mi
rubasse l'idea...".
La Nichilina ascolta, e lascia cadere il telaio:
«Oh, no!... non è possibile!...»
«Sì;» insiste Rannusia «ma solo con Giolli mi viene. E a quelli gli
caviamo tanti di quei soldi....»
La convinse così bene che quando Giolli provò a fare i capricci
dicendo che non le andava, la Nichilina le rifilò anche una sberla e
imitando la Goullon disse
«I soldi sono i soldi, e marsh!»
Finalmente Rannusia riuscì a chiudersi nella camera migliore, con
Giolli e i tre raffinati clienti, ragazzi di bello spirito che si
davano occhiate e le trattavano da puttane di campagna.
Giolli e Rannusia si guardarono.
Le perfidie di Giolli duravano da mesi, ma non si erano mai più
trovate sole.
Era l'unica occasione di Rannusia.
Cominciò ad accarezzare Giolli come un tempo. Come per divertire i
clienti, disperatamente cercava di sedurla davanti a loro.
Giolli, dapprima, era ritrosa, e questo sembrava ai tre una ben
combinata commedia, ma poi l'arte consumata di Rannusia cominciò a
risvegliarla, e i clienti non avevano più l'aria da prendere in giro,
ma capivano d'assistere a un gioco eccezionale. I respiri s'erano
fatti un sordo coro di piacere. Rannusia tutti i segreti tiene sulla
punta della lingua, povera Giolli, ha un bel resisterle, Rannusia il
suo corpo fa fremere, un corpo di campanelli che vibrano e i clienti
sbiancano, così dritto non l'ebbero mai, neppure a Vienna neppure a
Singapore.
Poco a poco Giolli divenne folle d'eccitazione e di beffa, capisce che
il gioco di Rannusia non è per i clienti ma solo per lei.
La sapienza esultante di Rannusia le nega il piacere. La porta
all'estremo ma senza farla godere, ahi se è grande Rannusia nella
tortura, ahi se è bella la lotta fra le leonesse, e l'una vuole godere
e l'altra ruggendo glielo impedisce, che festa di peli e che fiume
scorre nel letto.
Rannusia ha ripreso Giolli, mordendola davanti a tutti come fa la
tigre. Davanti a tutti, col pretesto d'una buona marchetta, s'è
confermata signora del suo piacere.
Sono incantati i clienti, che nei casini migliori si fruisce, alle
più, di graziose messinscene, ma questo rito selvaggio d'amore
infiammò i sensi degli uomini a tal segno, che l'orgia durò tutta la
notte, e il giorno seguente erano ancora dentro, e non volevano
mangiare.
Madame Goullon tornò la domenica pomeriggio, e la Nichilina, tremante,
fu costretta a dirle chi c'era nella stanza, e che si rifiutavano
d'aprire, e anzi avevano sparato in aria perché lei insisteva a
bussare.
La Goullon spalancò la porta brandendo il bastone, pronta a dare una
lezione alla Rannusia, ma si fermò.
Al centro della stanza Giolli e Rannusia ridevano, congiunte, e gli
uomini versavano monete d'oro tra le gambe aperte di Giolli, che
finalmente godeva, e rideva a gola spiegata con la sua F argentina,
ormai quasi piena.
Madame Goullon intascò il denaro, ma capì che il male era fatto.
Prese a sorvegliare ogni gesto di Rannusia. La frustò, in cortile,
perché l'aveva trovata a intagliare un cazzo di salice.
Glielo ficcò in bocca e quasi la stava per soffocare. Ma Rannusia
portò ugualmente a termine il suo lavoro, e penetrava Giolli con
quell'arnese perfetto studiato sulla misura del suo sesso avido e
spaventato.
La notte tardi, quando gli uomini erano partiti, invece del sinistro
respiro di Rannusia si udivano ora i rantoli di Giolli.
Tutte sanno che nessun uomo può farti gemere così, e queste cose fanno
male alle ragazze, le confondono, madame Goullon era molto scontenta.
In quelle notti infiammate, Rannusia propose a Giolli di fuggire
insieme, lontano.
Ha fatto di tutto Rannusia, sa come si ricomincia da un'altra parte
del mondo; iniziò a mettere da parte i soldi per la fuga.
Era diventata un demonio, a letto, per guadagnare. Lei che è famosa
perché appena può dà strizzate di coglioni e morsi che fanno male, non
per lascivia, ma per odio, ora trattava il cazzo con tenerezza
improvvisa: come trattava Giolli.
Invece di nascondersi e darsi malata appena la chiamavano, si
trasformò in un'infida gatta che si strusciava a tutti per una moneta.
Divenne implacabile nell'amore, per amore di Giolli.
Non aveva più paura. E solo voleva che Giolli vedesse come lei poteva
essere ancora splendida, fuori del casino... e le mostrava le
illustrazioni di "Natura e Arte", sussurrandole
«Hai visto, Giolli, hanno illuminato tutto il Bosforo di luce
elettrica...»
E le promise che le avrebbe fatto vedere anche quello, e insieme
favoleggiavano, su un veliero... e le diceva...
Fu allora che apparve il ricevitore del Dazio, Ovidio, appena
trasferito dalla Toscana.
Giunse su una charrette tirata da un ardente cavallino friulano, e la
bengalina degli abiti scricchiolò mentre tutte si affollavano a
vederlo.
Si scoprì poi che aveva un uccello mai visto, ma fu un'altra cosa a
meravigliare le ragazze. Trattava le puttane come signore, e aveva la
perla alla cravatta.
Giolli impazzì di un tenacissimo capriccio per le sue buone maniere.
Lo volle per sé, se ne impadronì al punto che lui non si accostò mai
alle altre, nonostante la Goullon invitasse i clienti ad assaggiare di
tutto.
Ovidio era un vero signore, ma di letto ne sapeva poco, e abbagliato
da Giolli le regalò una viola di brillanti. Ma a Natale, passò il
segno. Le portò una bambola di Parigi vestita come un figurino di
Worth, con accanto un cofano di legno rosa che conteneva altri sei
abiti, dei più squisiti modelli...
La Goullon era indignata.
Giocattoli costosi come rubini... dove andremo a finire?
Giolli mostrò la bambola a Rannusia, le disse vedi? Io sono la sua
bambina.
Pel dispetto di quei regali, Rannusia cominciò ad ammalarsi.
Giolli smise di provocarla: temeva che dicesse di loro due a Ovidio.
Ma sbagliava.
Rannusia tiene per selvaggiamente segreto il loro amore, e non lo
metterebbe mai nelle mani di un usurpatore.
In Giolli bruciava la febbre della vera carriera: il matrimonio.
Non si accontenta più del facile successo, vuole farsi sposare, vuole
un uomo elegante...
E finalmente sta per accadere. Stanotte lui verrà alla porta del
cortile, farà il segnale convenuto, e Rannusia si ucciderà
conficcandosi nel cuore il suo arnese di salice modellato sulla F di
Giolli, l'ingrata.
Allora, i dolci? Madame Goullon non sta più nella pelle per i dolci, e
corre in cucina a vedere, perché subito dopo le donne, sono i dolci
che contano, forse più ancora del vino, questi zuccherosi antipasti
della F.
Dolci ne ho fatti tanti, venga a vedere Madame, li assaggi: provi i
canditi che sanno di lingua e le creme buone come baci... così dolci
che mentre il bigné esplode si commuoveranno al punto di cercare sotto
il tavolo le mani umide delle amiche, e perfino le cosce.
Ma la Goullon rotea attorno il consunto occhialino, Chiara, non vedo
la torta sorpresa!...
Oh, quella, non potevo mica lasciarla in giro, sennò che sorpresa
sarebbe... Ma lei, venga a vedere, lei è la padrona, e dopo zitta con
le altre, mi raccomando: la torta di Carnevale quest'anno ha un mare
di crema e nel mezzo un membro di pan di Spagna ben modellato, ammiri
lo scroto, fin la delicata cappella. Se lei lo strizzerà quando la
festa impazza, verrà sù un forte schizzo di crema pasticcera...
bisognerà stare tutti lì con la bocca aperta e le facce saranno
inondate di lieti schizzi bianchi...
«Ottimo, Chiara» disse lei, senza l'ombra di un sorriso.
Mercante senza gioia, dannata al limbo, dove non si gode.
Fra tanto slancio ogni tanto un piccolo "ahi" mi trafigge.
Scaccio il pensiero di Emilio, mio cane segreto che solo di notte
posso accarezzare.
Dopo la notte del massacro devo distrarmi in mille cose, ché le mani
sono amiche della pace.
Quando morrò e Dio mi chiamerà, davanti agli angeli sull'attenti,
porterò questo titolo con la superbia che merita:
«Chi sei tu?» dirà Dio.
«Reggiani Chiara, serva di bordello.»
«Com'era il tuo mestiere?»
E io davanti a tutti quei santi azzimati intonerò il canto della serva
«Vuotavo i boccali di piscio,
raschiavo gli schizzi di sperma (gloria a Dio)
niente mi parve osceno ma tutto mi sembrava
la conferma del miracolo.
Divenni serva per rendermi invisibile.
Le mani furono operose. Non negai la pietà, né il buon vino d'una
risata.»
In segreto, da sola, mi chiamo con un altro nome: Amara.
Se anche dovessi finire santa da calendario, come risuona puro:
Sant'Amara.
Amara, d'amarissime dolcezze.
La neve continua a cadere... Non ne verrà troppa? Ma le ragazze
giocano con la loro attesa e dei ceppi scoppietta il camino; Elvira
rovescia l'anisetta sulla gonna di Damina, apposta, poi ride, Damina
urla... piano, perdio, piano! Pensate a Cantilena...
Corro da lei, che mi par di sentire il suo strillo di passero
stranito, volo in soffitta dove l'ha messa Madame Goullon da quando ha
cominciato a morire, molto tempo fa. Quando venni qui era già
moribonda, una lunghissima morte, eppure non si decide, si attacca a
tutto. Le sono caduti molti peli. Ma ne ha ancora undici nella F.
Li conta, e
«Vivrò fino all'estate», dice.
In gioventù fu bocchinara insigne. Ancor oggi, vederle baciare il
santino di San Giuseppe genera imbarazzo.
Le ragazze non vengono mai quassù a trovarla, hanno orrore a vedere
cos'è il domani.
Io invece ci vado volentieri. Il suo colorito di scheletro mi
rallegra, e mi ricorda che Dio è grande poiché la bellezza non è
eterna. I suoi piedi gonfi mi ricordano di farle il decotto, e di
guardarle bene la prima urina, e il suo cattivissimo odore mi dice che
tra poco la strofinerò col rosmarino e lei avrà un istante di
sollievo.
La Cantilena è cattiva come tutti i diavoli. Ha sotto il materasso una
fortuna, e solo per questo Madame Goullon non l'ha ancora avvelenata.
Sa che quando morrà avrà in mano il tesoro di Cantilena ammucchiato in
una vita di pompini, e per questo la lascia vivere, ché avrà da
ripagarsi la misera pensione.
Io non ho tempo per farle compagnia ma ogni tanto sfreccio nella sua
stanza come fanno le rondini nei granai; e le rinfresco la lingua, le
porto notizie del bordello, le storie ghiotte che le piacciono e i
bocconcini per i vivi che la fanno star bene, e il brodo che dà forza
nell'amore. Ma anche nel sogno.
Ogni tanto giace, drogata di minestra e vede il passato e una vigorosa
gallina sogna tra le sue gambe aperte e arruffa le penne Cantilena,
va' lontano Cantilena.
Nei pomeriggi d'estate con un bastone di frasche spingo lontana la sua
chiatta sulle derive inafferrabili.
Lui non ti sposerà mai, dice Rannusia a Giolli, ti ha presa in giro.
Vedrai, vedrai!
Giolli scuote la testa tappandosi le orecchie, i riccioli le sfuggono
da ogni parte. Ma preoccupata guarda verso la strada, e con sollievo
la porta della sua stanza, come se contenesse il talismano dei suoi
desideri...
Messa in curiosità, andai in camera di Giolli, tanto, con la scusa di
pulire posso entrare dappertutto. Nascosti sotto il letto, c'erano i
bagagli per la fuga già pronti. Tra i diritti della serva, c'è anche
quello di frugare.
Non v'è segreto pei sacerdoti della sporcizia: Giolli sa che
guarderò... Facendomi coraggio con questi pensieri, timidamente aprii
infine una valigia... La nivale biancheria mi abbagliò come un tesoro.
Un vero corredo... c'è perfino l'abito da sposa, neppur la Marchesa di
Riva oserebbe inventare una "mise" tanto sontuosa...
Il velo è così fino che sta tutto in una mano, eppure è lungo da
coprire le scale. Dunque, è vero.
Dunque il martedì grasso sarà per Giolli l'ultima mascherata, che
serva a coprire la fuga. Di nascosto, una festa di matrimonio prepara
Giolli mentre le altre si affannano sulle castagnole.
Scorro corsetti e maniche di raso, le rosee malizie... tra i pizzi
supremi, inebriata da quella rabbiosa voglia di nozze, aggiungo un po'
di spigo, come si fa agli sposi.
Eppure, ho pietà di Rannusia.
Non sto dunque dalla parte di nessuno?
Sono diventata un piccolo spirito che di tutto partecipa, come il
vento senza fermarsi mai?
Parente del vento mi sentii l'anno della grande tempesta di
tramontana, che scosse la terra per quaranta giorni e quaranta notti,
e vidi Madame Goullon in ginocchio pregare Mammona come una tenera
Madonna, Dea della solidità, cara dea: fa' che il vento non porti via
il bordello...
Uomini, niente, non ne venivano più. Il ponte del Falco era crollato e
Menco per avere affrontato la tempesta era volato via come un
fuscello. Quando seppe la notizia, dall'alto Cantilena si mise a
strillare che era il castigo di Dio perché voi chiavate e io non
chiavo più, e sperava che la sua morte coincidesse con la fine del
mondo, che si sentiva tanto sola, a morire in quel posto dedicato alla
consolazione del viaggiatore, ma nessuno consola Cantilena. Solo il
tarlo che è un vecchio sporcaccione e la conosce da molte vite, e dice
non temere, Cantilena, io starò sempre con te e te la roderò in
eterno.
Il vento soffiava e le ragazze tappavano tutti i buchi con la rafia
perché non venisse a infilarsi nei letti o tra le sottane. Il vento è
tremendo. Nessuna può dire di no al vento.
Soffiava così forte che la Nichilina, con tutto che fosse figlia di un
anarchico diede di piglio al rosario, ma Lisetta glielo strappò di
mano e disse, che al bordello il rosario chiama i funerali, e che il
vento non si poteva fermare, ma si poteva fermare il pensiero del
vento.
Cominciò a raccontare una storia.
La voce di Lisetta riuscì a coprire quella del vento, mentre faceva
vibrare la sua piccola arpa a due corde.
La portava sempre dietro, e la si sentiva risuonare dietro la porta,
quando riceveva i clienti prediletti. Mai si seppe che uso ne facesse.
Ma in ogni suo gesto trillava il mistero di quello strumento.
Alla sera, mentre raccontava, lo pizzicava come per caso.
Ma poi, mano a mano che la storia andava avanti, vi accorgevate che il
ritmo delle corde spia quello del vostro cuore che è preso, in
trappola.
Lisetta sapeva di uomini rimpiccioliti in una bottiglia, di signori
vestiti da pavoni, e case dove le bambine hanno la coda, e
scodinzolano sulle chiappe dei piccoli fratelli...
Tra le ragazze trascorrono immagini pazze quando Lisetta racconta,
sibila il frustino di Madame Goullon, Lisetta, all'erta!
La padrona tollera che si racconti di tutto, purché il finale sia
edificante, e tenda al guadagno. Purché faccia senso insomma.
Damina ha bisogno di una "pince" per nascondere la macchia di
anisetta. Le appunto gli spilli, lei si muove e la pungo, strilla, mi
torce con cattiveria i capelli.
Trattala bene, le sussurra Elvira, è stata una signora...
Oh, per questo mi punzecchia, ella è molto bambina, e indispettita
della mia calma, mi ficca per di più uno spillo nel braccio.
Io le faccio vedere il sangue. Ne raccolgo una goccia, e con la punta
del dito le dipingo quattro nei rossi.
Lei non può muoversi, perché io so guardare come guardano i gatti, che
la pupilla dell'altro rimane prigioniera. La sua faccia è meno arcigna
ora, mentre col dito sulle labbra le faccio sentire il sapore del
sangue.
Un piccolo gioco per la tua cattiveria, Damina, cattiva.
E lei disperatamente cerca di distogliere lo sguardo e magari farmi
fare la brutta figura con Elvira, ma non può, come potrebbe se io non
voglio?
I piccoli segreti per le piccole cose. I grandi, per le grandi.
Che verranno.
Ma, piano, il martedì grasso è appena cominciato. E già tanta neve...
Fuori è tutto bianco.
Le ragazze corrono a vedere. Mentre si affollano dietro i vetri e la
neve copre tutto, la domanda è lì, non detta:
Verranno?
O la tormenta li fermerà, e...
Ma ora è prima della festa. Ora voglio godermi questi attimi che soli
contano: prima. Quando tutto sta per essere profanato.
Solo per questo ho preparato ogni cosa con cura, perché poi sui pizzi
colino grigi torrenti di sperma e le candele spente contorte decrepite
in una notte.
I mozziconi sulla torta, la festa del porcile, la festa. Umani.
Questa, la non irrilevante scoperta.
All'inizio, venendo qui, molte cose non le capivo. Ma lasciai che gli
oggetti mi parlassero.
Il catino, il seme che ondeggia sul fondo. Appresi che l'amore è
un'alga... e quando piange Damina è perché vuol essere frustata, ma
l'avvocato sta invecchiando e i giovani non hanno la sua mano, non
sanno più tenere la frusta. Così! ben salda, che sibili per l'aria
come se dovesse uccidere e all'ultimo si frena la frusta e ride nella
carezza bruciante.
Ma le ragazze non sono soltanto come fingono con gli uomini,
capricciose signorine. Una domenica sì e una no, sono anche mamme. I
figli li tengono a Pietralunga, in una fattoria, dove non manca
niente, e son trattati come nessuno trattò mai le loro madri.
Due volte al mese, un carro li porta qui travestiti da ragazzi per
bene, troppo ben vestiti, con una signorina feroce di Torino pagata
dalla vecchia Goullon, che sull'educazione non si risparmia. Davanti
all'istitutrice le puttane tremano di paura, e si vendicano coi loro
profumi che fanno vacillare la signorina, con tutto il suo latino.
I bambini alla fattoria parlano il francese, e sono già piccoli
signori sprezzanti, non avranno nulla da dirsi un giorno, con quelle
donne. Ma già ora è così, e quando vengono m visita, le madri non
vedono l'ora che ripartano, quei piccoli malinconici. E quando sono
partiti, tra loro timidamente cominciano a prenderli in giro pei modi
raffinati, come si fa con chi ci ha intimidito.
Nevica.
La strada già non si vede più.
Si insinua l'ombra del pomeriggio, amiche... non abbiate timore,
verranno. Solo, non bisogna aspettarli con questo fremito e frattanto
non state nell'ozio, che consiglia solo pizzichi e tirate di trecce, e
invidie e sfide...
Troviamo qualcosa da fare, sbotta Madame, io così mosce non vi
sopporto, e che cazzo non ci saranno solo i maschi nella vita!
Divertiamoci a tutti i costi, raccontiamoci una storia, avanti,
facciamo girare le vecchie leggende che sempre ci fanno ridere,
ricordandoci che fu bello esser puttane...
Vi rammentate il cliente col cestello? basta nominarlo, e tutte si
mettono la mano sulla F come a proteggerla e fanno il segno della
croce con un brivido. Il cliente arrivò tanto tempo fa al bordello,
aveva con sé un cesto di vimini, e al momento buono, invece
dell'arnese sfoderò un serpente... lo infilò nella F a una certa Rita
e non ne uscì mai più, che s'era perduto nel suo corpo.
Sarà poi vera questa storia? E' accaduta chissà quando, chissà se mai,
le ragazze ridono, ma subito la risata si smorza ne resta la povera
scorza...
Il momento è grave, ci vuol altro che queste sciocchezze per distrarre
l'orgoglio. C'è un altro di cui vogliono veramente parlare, e quello
esiste davvero, dire il suo nome è già come un crudele bacio: il
bandito Ciancalana.
Oltre la collina s'apre il bosco, dominio del bandito, e guai a
traversarlo di notte: di notte lui è re, e uccide chiunque si
avventuri nella sua terra.
Al suo ricordo le guance scottano, una sola volta lo videro. In fuga,
con sei gendarmi dietro, montava un cavallo pezzato... il suo mantello
si apriva come un vasto uccello mentre scomparve nel bosco.
Da allora, chi non ha sognato dalle sue mani insanguinate farsi
slacciare il corpetto?
Mai Ciancalana ha onorato il bordello.
Mai verrà. Con chi sciuperà la sua energia, e gli occhi astuti e le
mani, che stringeva bianche sulle briglie?
Ciancalana non ha bisogno di noi. Nel suo regno notturno celebra coi
suoi uomini feste grandi di sangue, con cupi canti guerrieri che
escludono le donne, ma... il vento è caduto per sempre?
La sua assenza opprime come quando fischia e porta via, inutile,
ragazze. Nessuna storia stasera nemmeno Ciancalana potrà riempire
l'attesa del maschio. In questa casa fatta per le donne, dove gli
uomini devono pagare per entrare. Nelle porte, nei bicchieri, dentro
di noi.
Rannusia muta guarda la neve e trionfa, con aria di folle complicità
come fosse stata lei a chiamarla, per fermare Ovidio, fermando la vita
di Giolli.
Vi sono momenti in cui non vorrei essere serva del bordello, ma Dio, e
fare che tutti fossero felici. Non come i santini, che si annoiano, ma
in un modo aspro e speciale: e per questo ci sarebbe Dio, per scoprire
la più difficile tra le felicità.
Ma sono serva, e posso solo raccogliere il bicchiere che Rannusia
distratta ha rovesciato, e pulire per terra...
Scorata Giolli chiude gli occhi, e sulle palpebre chiuse passa
l'ininterrotto pensiero
Verrà.
Ho visto sua moglie, è così proterva. Sono io quella da proteggere,
con la sua piccola F trepida. Mi porterà via, io sarò la sua bambina e
dimenticherà quella spilungona brava in catechismo.
Ricordi, quella notte, hai detto: per sempre.
Be', che c'è ragazze, vi prende la malinconia?
Il frustino saltella sulle chiappe allegro non troppo, e le ragazze
vanno al trotto per il volere di Madame Goullon. Non siate come
sciocche fidanzate, le puttane sanno attendere, preparatevi.
«Elvira, dov'è il libro?»
Il libro arrivò segretamente da Parigi, ci sono tutte le nuove
posizioni in voga presso la bella società. Prima ridevano le ragazze,
oh questo non lo farò mai, questo è impossibile!
Ma la Goullon gliele fece imparare tutte una per una.
Con la concorrenza che c'è, se non si introducono novità
nell'esercizio...
Lei lo sa come va. I clienti con manie proprie son pochi in fondo; di
solito un cliente normale viene in cerca di vizi, e la bravura delle
ragazze sta nell'inventarli.
E poi quelli col tempo s'illudono e gli pare, a loro, d'essere sempre
stati biricchini raffinati invece che poveracci, e mentre succhiano il
ditino fetente o si fanno incendiare i peli del culo ne vanno
orgogliosi come se per tutta la vita non avessero covato che questo.
E chi sapeva meglio una cosa, chi un'altra.
Lisetta era brava a drizzare.
Cantilena maestra nel succhiare.
Damina a farsi menare e l'Elvira, a strapazzarlo come un ragazzo
sventato finché di colpo non pianga.
A ognuna secondo il suo talento erano distribuite le opere, e il
casino prosperava in concordia. Grazie, dio dello scolo e
dell'infiammazione, dio invocato nei bruciori della disinfezione.
Chiara, porta altro carbone, con questa neve voglio fare un forno, qua
dentro!
Rannusia, aiutala! Ma Rannusia ha le mani abbandonate in grembo, non
le obbediscono. Anche lei ha visto la moglie di Ovidio, e sa che è
troppo piatta, come si fa a trattenere un uomo senza curve o pensieri
d'amore. E Giolli è così profumata, anche di primo mattino. Rannusia
non aiuta per la legna che tutta intera prega Iddio, fa' che lo fermi,
fa' che lo commuova o gli spari un colpo, a quell'imbecille.
Giolli, le dice il suo sguardo Giolli, a parte la gelosia, sapessi
quanto mi immalinconisce pensarti in una casa coi servi e Ovidio per
marito e i nomi cambiati perché non si sappia che sei stata puttana.
Diventerai così triste che io non vorrei mai più toccarti, neanche per
pietà. Sei davvero così diversa dalla Giolli che amo? Piangeva
Rannusia e cercava l'altra Giolli, quella che si arrampicava
emozionata in solaio perché lei le ficcasse dentro il manico della
spazzola. Puoi rinnegare tutto, Giolli, ma questo almeno dillo, non
ero brava, con la spazzola? La più brava sulla terra?
Una maschera di sciagura è Giolli vestita da Gattina, Madame Goullon
le aggiusta la coda, ma lei, la testa le pende, e a denti chiusi
mormora sempre quel nome, perché l'incantesimo guidi Ovidio fino a
lei...
Poiché chiamarlo non basta, comincia a ripetere in sordina il respiro
che lo faceva venire in due secondi,
«Ahhhh... ahi! Ahiiiiiiiiiii.»
Sui merletti scarlatti sulle strisce di bistro passa un sospetto
ingiurioso: sarà questo carnevale la festa delle mogli?
Vinceranno le antipatiche, le Senzafregna, le schiave del fornello e
del ricamo, bruciacchiate e rosicchiate nel seno dai figlioletti
tignosi?... e noi?...
La Goullon ha speso venti franchi per la mia lavanda di Parigi, e io
me la lavo due volte al giorno, mentre la moglie dell'avvocato
Codovini, mi diceva lui prima di mettersi a leccare, giusto a Natale e
a Pasqua, e diceva, che quando la leccava a lei quell'odore di
ammoniaca gli andava alla testa, e poi lei, quando mi incontrava
alzava la testa come la regina Taitù. Pulita!
Ma oggi le adunche, le voci fesse si son messe tutte insieme, a colpi
di rosario e di effluvi rancidi per tenerseli a casa...
Le ragazze fremono di rabbia, hanno tutte gli stessi pensieri e ogni
scusa è buona per darsi contro... Elvira salta sù che Damina le ha
rubato i soldi, li teneva nella calza e fruga sempre, quella
sporcacciona. Si accapigliano.
La Nichilina, al piano, sbaglia tutto. E' troppo occupata a guardare
la neve, e scoppia in lacrime... Bambine, bambine!... Bambine amate,
bambine delicate...
Faccio segno a Madame Goullon. Lei con un colpo di chiappa caccia la
Nichilina dal piano, e attacca una sognante marcetta.
Alle ragazze basta poco, io offro di nascosto un dolcetto... I respiri
si acquetano. Ma ci serra la gola il silenzio della neve.
Già Damina ha uno sbaffo di bistro, e i trucchi si cominciano a
disfare, le torte ad abbassarsi...
La festa non è cominciata e già è mezzo devastata, che stracchi
diventano i gesti, quando più non si aspetta.
Ma la delusione non è ancora completa. Esse sono ancora pronte a
scattare, e al primo scricchiolìo, Elvira si aggiusta una ciocca e
Damina allo specchio del buffè si rimette il belletto, ma, poi fu
ancora solo il vento, che scuote gli infissi perché Giolli
nell'illusione muoia, udendo una porta che si apre, come se qualcuno,
dietro, dall'orto stesse entrando, per portarla via...
Rannusia trionfa su Giolli, nessuno verrà! Càcciatelo in testa,
mettiti in ciabatte e levati quei pennacchi da poco, il tuo carnevale
è fottuto, a quest'ora Ovidio ride di te con i suoi amici... buttati a
piangere sul letto, e se mi preghi ti farò un ditalino, che mi fai
pena.
Ma non è vero, Rannusia non ha pena di Giolli e anzi del suo dolore si
nutre come di un caldo pane.
Giolli correva a ogni finestra, supplicando la neve intatta. Stava
perdendo la prudenza, e anche le altre cominciarono a capire che c'era
sotto qualcosa.
Bisbigliano, s'informano, e chi ne sa una cosa chi un'altra, la
faccenda viene fuori, ed è chiara ora l'attesa di Giolli e che è la
più sfortunata: esse sono tutte abbandonate dai maschi, ma Giolli da
un uomo, uno solo, e questo fa più male...
Tutte godono un po' del suo dolore, un piccolo sollievo per la loro
sorda rabbia.
Ma Giolli non si cura dei mezzi risolini, interroga la pendola e non
ha più forze, e questo, non ispira pietà ma anzi fa salire una febbre
crudele tra le ragazze che ammiccano e si danno di gomito. Tanto che
la Goullon tende l'orecchio...
Giolli di lei ha paura, zitte!... la Goullon sta a sentire, per pietà!
E fa piccole smorfie penose per dire che la smettano, che Ovidio sarà
qui da un momento all'altro e se quella lo viene a sapere, farà un
diavolerio.
Ma perfino la Goullon trattiene un sorriso e dice
«povera Giolli, ma io lo so da un pezzo! Quando un cliente diventa
troppo affettuoso, io sto subito all'erta, l'avevo capito che Ovidio
ti faceva girare la testa con qualche promessa eccessiva. Lo sai
perché gli piace tanto promettere? Perché così gli si drizza, ma poi
una volta rivestiti si dimenticano. Il tuo Ovidio cambierà bordello,
dirà le stesse cose a un'altra.»
La Goullon ride tra i suoi baffetti grigi non per cattiveria ma perché
fiuta il denaro. Renderà davvero Giolli, ora che non crede più agli
uomini.
E' dopo un'esperienza così che la vera puttana matura, che diventa una
belva...
Un riso cattivo prende le ragazze, che si tengono la pancia, ah
Giolli! Guarda Giolli attaccata alla finestra come una mosca, che
ancora aspetta...
Damina entra nella stanza di Giolli, spalanca una valigia... tira
fuori le camicie, chiama le altre, e tutte si buttano sul bagaglio
nuziale.
La Goullon gliel'ha consegnata col suo risolino e ne facciano quel che
vogliono, tirano fuori le camicie di trine e la biancheria prodigiosa,
ad ogni oggetto ridono e lo mostrano.
Giolli, attratta dal chiasso, corse. Ma era troppo tardi.
In quel momento, sbudellando i più segreti angoli, avevano trovato
l'abito di nozze.
Allora sì che divenne squisito il massacro. Damina se l'appoggia
addosso, l'Elvira le regge lo strascico e si chiamano Sposo e Sposa.
Giolli, sulla porta, è molto ferma e bianca.
Non dice nulla. Le lascia fare, perché non ha più gesti.
Questa è dunque la sconfitta, quei babbuini che fanno scempio degli
oggetti che scelse di nascosto, uno per uno, andando in città
segretamente, e segretissimamente provando prima, allo specchio,
l'effetto che farebbero su Ovidio.
Solo allora, e con vero stupore, Giolli pensò che Ovidio l'aveva
ingannata.
Si sentì un rumore sordo sulla neve... una capra, o un cavallo?
Giolli che ha scambiato un sospiro per una voce, e uno scricchiolìo
per il passo di Ovidio, stavolta non si muove.
Le altre, per prenderla in giro dicono Giolli, corri! Non senti ? C'è
qualcuno che sta venendo alla porta dell'orto...
E poi, si udì come un richiamo soffocato.
Ma neppure stavolta Giolli si mosse, per non fare la figura della
scema, e perché era come morta.
Fu la Nichilina ad andare alla finestra. Sgranò gli occhi e disse
«Ragazze!... c'è un uomo...»
Elvira Damina e la Goullon corsero a vedere, ma Giolli rimaneva ferma
ed era convinta fosse la crudeltà sfrenata delle ragazze a giocarle un
tiro. Non ha più voglia di ridere, è stanca. Le spese del carnevale le
ha già fatte.
Ma la porta si aprì davvero. Contro la neve apparve un uomo in
mantello e cappello, che piano fece il verso del gufo...
Fu solo allora che Giolli si lanciò tra le valigie devastate
calpestando gioiosa tutto il suo corredo, e corse alla balaustra...
Le ragazze, ammucchiate in un angolo, erano rimaste senza fiato.
Schiacciate dall'arrivo di Ovidio che il loro gioco rende stupido, e
tra le invidiose Giolli passa, come una regina che fu ingiuriata,
ristabilita nel suo rango.
Se la Goullon fa un gesto, la ucciderà con la piccola pistola di
madreperla, dono d'un falso conte, ma dov'è Rannusia...
Solo ora Giolli si accorge che Rannusia manca al suo trionfo.
Che disdetta, dover partire senza che lei veda! Dovrà rimangiarsi,
come queste altre, tutte le sue perfidie...
Mentre Giolli indugia, sperando che arrivi Rannusia, intanto le
ragazze vorrebbero essere Giolli, e farebbero qualsiasi cosa per
scalzarla con Ovidio... rapita!
La sua fortuna le uccide, e perfino la Goullon stavolta zitta e mosca,
che ha avuto una bella lezione anche lei.
Rannusia non viene (starà nascosta, per non darle soddisfazione).
Giolli è costretta a scendere. Ma lentamente, per godersi quegli
straordinari attimi. Di Ovidio in quel momento poco le importa, ciò
che le importa è avere avuto ragione, e le altre, a bocca asciutta.
Martedì grasso, un uomo solo si è mosso. Per lei. E non per un futile
ballo, ma per sempre.
L'uomo, dal basso, alzò la testa e tutte lo fissavano...
Ma invece di Ovidio è la faccia di Rannusia che ghigna sotto il
cappello, travestita da uomo, un bello scherzo di carnevale!
Oh, il migliore. Le ragazze gettarono un grido di derisione contro
Giolli. L'allegria scoppiò disordinata ma subito tacque. Subito, in
bocca hanno l'amaro, che Rannusia tutte le ha beffate nella loro
attesa degli uomini.
Le emozioni delle deluse passano attraverso Giolli, che si slancia
contro Rannusia... E' lei, è lei che non li fa venire!
Nella destra di Giolli scatta il coltello, ma Rannusia si scansa, e la
manca... la Goullon gettò un pugnale a Rannusia, che è carnevale,
anche lei si vuole divertire, e così durerebbe troppo poco.
Le ragazze si mettono in cerchio per il duello, tutte sono con Giolli,
le fanno coraggio e danno calci a Rannusia perché cada sul coltello.
La lotta è disperata, Rannusia non vorrebbe farle male ma Giolli la
provoca che una cosa sola vuole, piantare il serramanico o farselo
piantare, ben saldo nel petto senza tornare indietro.
Rannusia si sforza di sembrare feroce, ma manda a vuoto i colpi... Tu
lo sai, Giolli, che non ti ucciderei mai, ma non venirmi così sotto o
sarò costretta a far vedere chi sono... Poiché l'amore è perduto
Rannusia vuole salvare almeno la fama di cattiva o di che vivrà, d'ora
in poi?
Come alle lotte dei galli si punta e volano piume il pennacchio di
carnevale di Giolli ne è tutto spennato, ma nessuna più ride, che
Giolli vuole il sangue. Giolli con la lama mira alla gola di Rannusia,
e lei che non vuole uccidere, morrà.
«Sarebbe un peccato, nel mezzo del Carnevale»
disse una voce tremenda in cima alle scale.
Di lassù sta scendendo Cantilena, la sua vecchiaia indecente
mascherata da giovane donna. Il suo scheletro ha dipinto da bella come
un morto uccello che una mano, dietro, muova...
Lustrini sontuosi ornano la sua gobba, e i poveri vecchi peli (ne
rimangono sette) ha tutti arricciati, e come si drizzano sotto la
sottana trasparente che mostra la voragine del suo sesso.
Tutte ammutolirono.
Il coltello cadde dalle mani di Giolli, e Rannusia lo ripose, in
silenzio.
Cantilena la bella scende le scale per fare invidia alla morte che non
è certo più F di lei, e la Goullon disse, festa, ragazze! Sangue di
Dio, la facciamo senza gli uomini la festa, sappiamo divertirci anche
da sole! E mise sù il fonografo, Cantilena guida la quadriglia con le
sue ossa che sbattono e vuole il liquore e vuole la torta e dice
aspetteremo così d'ora innanzi la morte, col belletto alle guance e il
dolcino nel gargarozzo.
Attorno a lei la festa si anima, ma sorda continua l'attesa.
Come non attendere?
Per distrarle, dissi
«Facciamo un gioco: la chiara d'uovo.»
Nel recipiente di vetro pieno d'acqua versammo la chiara, che
scendendo forma mille disegni, ma alla fine si fermerà in uno solo. E
in quello, ognuna guardando potrà vedere un segno dell'uomo che
aspetta.
Un po' d'ebbrezza il gioco ce la dà sempre. Un banchiere cercherà di
vedere Damina, che sappia anche picchiare, un giovanotto la Nichilina,
robusto e pronto al riso, e Giolli vedrà Ovidio.
Ma Rannusia ha solo visioni di sangue.
La chiara d'uovo si muove con le sue braccia stanche di veli di nubi e
tutte ci perdiamo nel grande mare: anch'io, asciugandomi le mani sul
grembiule mi accosto, per divertirmi con loro... a chi toccherà la
visione? Chi di noi entrerà nel piroscafo - o è forse un castello? che
la chiara sta formando sul fondo?...
Il paralume cinese illumina il vaso come un portentoso teatro...
La figura! La figura è formata!
Rappresenta una casa che conosco, e mi prese la vertigine: la casa di
mio marito. La casa dove non tornerò più.
Tutto quel martedì e il bordello scomparvero, chiusi gli occhi che mi
sentivo trascinare per i capelli, senza fine, ed eccomi, lontana:
nella mia prima notte di nozze.

2.
ELLA ERA STATA UNA SIGNORA.

Ottiero venne verso di me come gli sposi delle leggende.


Gli invitati se n'erano andati e noi, gli amanti segreti inseguiti,
finalmente liberi, nel grande letto che trabocca di spigo nuziale.
La nostra avventura stava per diventare quella di due sposi, e già le
splendide amarezze del matrimonio gorgogliavano nel buio.
Ma quella notte udimmo solo l'armonia dei corpi, come ruotanti cieli.
Oggi egli mi ha presa come legittima sposa davanti a tutti io, la
bestia rabbiosa che doveva morire, la ragazzina cattiva che mordeva
sua madre e diceva a quel povero vecchio di suo padre, il macellaio
"un giorno ti ucciderò".
Durante la cerimonia i miei genitori nell'ombra della chiesa
ansimavano ridendo di Ottiero, che ha preso con sé la pazza e la
tratta come una bella rosa... Ah, se ne accorgerà.
(Pelle d'asino! Un uomo mi liberò da mio padre.)
Ottiero m'aveva rapita agli orchi, alla mia famiglia di macellai
assassini.
Io sentivo la fratellanza con le bestie, e so che ogni qualvolta mio
padre uccide, uccide me. Ho visto le loro feste quando ammazzano gli
animali e si beano delle grida.
Compagno dei primi anni fu l'eterno strillare del maiale in agonia.
Appena lo udivo urlavo anch'io, con lui, sotto la luna.
Dicevano che ero matta, mi riempivano di pugni, ma nulla poteva
calmare il mio orrore.
Chiara, perché piangi?
Piango per la mia sorella oca, che è stata sgozzata, e ho perso molto
sangue (li ho visti nelle notti pallide di novembre bere alla coppa il
sangue degli uccisi, gustandolo come rosso vino).
Loro dicevano che erano sogni, che fu per il decotto di papavero. E di
giorno, così cortesi con tutti.
Ah, io sapevo.
Sognai una volta le bestie morte che tornavano. Eserciti senza peso
volavano in silenzio verso i loro persecutori coprendo il cielo, per
punirli...
All'orizzonte l'agnello e la capra con le bocche rosse avanzavano per
divorarli... Le bestie mi invitarono al banchetto, ma io non toccai i
miei genitori. Non volevo essere contaminata.
Raccontavo i sogni per indurli a picchiarmi, e sotto gli schiaffi
ridevo come una piccola vendicatrice. E non volevo mangiare carne.
Adirati per tali stranezze, mi tenevano rinchiusa in soffitta, a
digiuno. Imparai a cibarmi del muschio e delle minime erbe che
crescono sulle tegole, e hanno poteri miracolosi.
Sento la voce dei morti che mi chiamano,
«Sii forte Chiara, i vivi chiamano pazzi tutti coloro che ci odono.
Resisti, folle bambina, grandi cose ti aspettano...»
Parlai con la nonna subito dopo morta, e ci tenemmo compagnia. Lei era
al purgatorio, io in soffitta; in punizione tutt'e due.
Parlai con mio nipote, nella pancia di mia sorella. Disse
«Non aspettarmi Chiara. Nascerò morto.»
«Non soffrire, fratellino.»
«Addio, piccola bella.»
Perché piangi, Chiara?
«Per la morte della vacca, mia madre.»
E giù botte. Ma le botte affermavano la differenza tra loro e me, e
che la guerra è aperta.
Ciò che m'inquieta sono i vecchi della famiglia. Seduti al sole senza
collera mi fissano e i loro sguardi dicono
"Non ti affannare, piccolina. Un giorno sarai dei nostri. Sarai anche
tu una bevitrice di sangue."
Mi raccomandavo a Dio.
«Signore, fa' che non diventi come loro.»
Da lontano allora, più lontano dei tetti e del tramonto giungeva un
riso di scherno, in risposta alle mie preghiere.
Lo stupido prete aveva un bel minacciare l'inferno. L'inferno è mio
padre che attizza le fiamme del camino, e mi ficca il naso in bocca
per sapere che ho mangiato e le dita negli occhi per sapere che ho
pensato e il coltello nella carne per aspirarne l'odore, mio padre che
come un palo di guerra s'infigge nei miei sogni.
Questa è la dannazione, che l'inferno sia così meschino.
Com'ero capitata tra quella gente? mi chiedevo, guardando le faville.
Certo così, per caso, come un fuoco smarrito...
Ma avevo il loro naso, i loro strani occhi. E nella collera ero dei
loro.
Per questo col coltello affrontai mio padre che voleva piangermi
addosso e corrompermi nei suoi sporchi dolori.
Ma Dio m'avrebbe salvata. Dicono ch'egli è signore di tutto, e che sia
giusto. Avevo cinque anni.
Quando ero in punizione, aspettavo che la soffitta si spalancasse e su
un carro tirato da sette angioli venisse a prendermi lui, che è dalla
parte delle bestie, di chi non ha paura delle lacrime.
La scuola mi sollevò sui miei dolori. Leggere e scrivere furono per me
ardenti preghiere. Scoprii che c'erano parole per il desiderio
d'essere libera dal sangue di mio padre.
In casa non mi amano, ma le bestie sentono la mia presenza come una
festa. Ovunque vada, mi segue il saluto del bue e della cicala.
Fu ascoltando un chiurlo tra i più armoniosi, che mi perdetti nel
bosco, verso i sette anni.
Là non bisognava andarci. Ci avevano bruciato un eretico tanti anni
prima. Un barone allora padrone di quelle terre. Ogni sorta di
maledizione accompagnava quella parte del bosco, che s'era chiusa tra
le radici come una scatola troppo paurosa.
L'uccello vi s'inoltrò mostrando confidenza col luogo.
Le tenebre dei fitti alberi mi respingevano, ma il chiurlo cantava
così bene... per il suo canto mi graffiai le gambe tra le spine,
finché l'uccello si fermò su un mucchio di rovine coperte di
rampicanti, e di lassù innalzò un purissimo inno.
Mi accorsi di trovarmi nella cappella dell'eretico. Di tra le cupe
foglie, ebbi la sensazione che qualcuno mi guardasse.
Strappai una grossa treccia d'edera e scoprii un volto dipinto di
donna, che mi fissava, e mi era familiare come me stessa. Udii una
voce confusa al canto del chiurlo, sussurrare
«Io sono Sant'Amara.»
Con emozione tolsi tutta l'edera, finché non apparve l'intero dipinto:
Sant'Amara coi capelli sciolti e una veste bianca, vola al sommo d'una
slanciata collina... in basso, Dio e Satana siedono sulle città in
fiamme. Giocando di cortesia si dividono il mondo, e bevono, qualcosa
che non è vino. Troppe volte ho visto quel color rosso, e le coppe
sono le stesse che usa mio padre per i suoi osceni riti.
Dio, e Satana, insieme. Anch'essi bevitori di sangue.
La terra sembra da loro posseduta senza speranza. Ma laggiù, contro il
cielo che il pittore ha fatto celeste come un piangente fiore, vola la
Santa, e di loro non si cura. Mentre i bagliori del mondo in fiamme
arrossano di smorfie le teste dei cosmici gaglioffi, sul volto di
Sant'Amara v'è il piacere del cielo.
A Chiara batte il cuore, che solo quello, vorrebbe ormai, nella vita:
l'estasi misteriosa del volto che la fissò tra l'edera, come a
chiamarla.
L'uccello era fuggito via e io imitando la sua voce per la prima
volta, invece di urlare, cantai, nel fitto del bosco come se in cielo
mi levassi, che è già il canto un piccolo volo.
Cominciò allora la lotta contro Dio e il suo complice Satana, i quali
non vogliono che li dimentichi, per divenire come Sant'Amara.
Era un enorme sforzo da sostenere per una bambina di sette anni.
Cadevo come morta. Sognavo i due ladroni che si spartiscono il mondo,
e hanno entrambi la faccia di mio padre.
Mia madre mi picchiava con un cordino di bue perché diceva che ero
strana, ma io recitavo una preghiera al bue morto e subito il cordino
le si rivoltava, impigliandolesi tra le mani e lei non riusciva a
districarlo.
Crescevo. A quattordici anni apparve il sangue.
Tutta la famiglia mi si fece intorno, annusando indecentemente il mio
odore... ché attraverso il mestruo credevano io diventassi dei loro. E
già le coppe sono pronte, nettare prelibato per la bocca di un padre,
il primo sangue di sua figlia.
Quando me li vidi intorno, che col pretesto di darmi consigli si
preparavano al banchetto - e mia madre colava la sua voglia di sangue
giovane, porgendomi i panni come una preziosa umiliazione - afferrai
le forbici e la ferii.
Fu allora che si parlò per la prima volta di manicomio.
Passai la giovinezza nella minaccia d'essere rinchiusa.
Questo mi rendeva furiosa.
In paese avevano cominciato a chiamarmi la pazza del macellaio.
Mentiva Sant'Amara, mentivano i morti. Altro che grandi cose. Sarei
finita nella casa dei pazzi.
Ah se qualcuno. Se qualcuno venisse a liberarmi. Ma i giovanotti
scappavano al mio apparire o mi strappavano i capelli, girando in
tondo. Io allora tiravo i sassi, e che mira avevo, specie con i più
belli!
A battaglia vinta, piangevo.
Il mio vero desiderio era che uno di loro dolcemente s'inchinasse,
dicendo
"Io sarò il tuo campione, ucciderò tuo padre. Sarò il guardiano della
tua visione."
Incontrai Ottiero, e i sassi mi caddero di mano.
Rimasi stupefatta davanti al suo volto pieno d'amore.
Non volevo più uccidere mio padre: l'avevo dimenticato.
Cominciammo a vederci di nascosto. Nel bosco dove nessuno veniva mai,
tra le rovine della cappella diroccata. L'affresco di Sant'Amara era
di nuovo invisibile sotto l'edera. Lo descrissi a Ottiero, perché
entrasse nei miei segreti.
Ma non gli dissi della casa dei pazzi. Non volevo che mi difendesse
dalla mia famiglia, non doveva confondersi con loro.
Avevo un solo pensiero: correre da lui, nel nostro nascondiglio,
quando gli altri dormivano . Mi calavo giù dalla finestra, come una
gatta... Una notte mio padre mi scoprì.
Mi prese a calci, e furono tutti d'accordo: era giunto il momento di
farmi rinchiudere, ché portavo disonore alla casa. E volevano sapere
chi era lui. Ma io feci intendere che andavo con chiunque, temendo per
Ottiero l'ira di mio padre.
Lui non mi credeva. Prese la frusta, dicendo calmo
«Lo sputerai, quel nome.»
Fu allora che Ottiero bussò alla porta. Con due testimoni, veniva a
chiedermi in sposa.
(Mi disse che voleva salvare la mia allegria. Dal coltello di mio
padre; e dalla mia rabbia.)
Gli confessai dei miei poteri. Delle voci che udivo, e che capivo la
lingua dei morti e delle bestie. Lui mi accarezzava, e piansi, perché
fino a quel momento, nessuno m'aveva amata.
Facemmo un patto: che non offenderemo mai l'amore. Staremo insieme,
solo finché sarà perfetto.
«Ma anche se un giorno dovessimo lasciarci,» disse Ottiero «Io ti
difenderò sempre dalla casa dei pazzi.»
La madre di Ottiero ha un gatto nero attorcigliato alle mani, matti di
cattiveria stan sempre insieme come drudi d'inferno. Col gatto ella
venne dalla porta di servizio, a casa mia, a offrirmi denaro perché
lasciassi Ottiero. Dalla sua bocca verde cadono le parole in grassi
vermi e il gatto senza parlare dice "io ti sarò sempre nemico".
La vecchia cercò altri modi per ostacolare le nozze. Ma non poté
nulla, e fece buon viso.
Come in gioco incedeva per la navata, mostro gelatinoso avvolto in
ragnatele, e mi porse l'impudìca mano - ma Ottiero strinse la mia,
chiudi gli occhi, insieme - per il grande balzo.
La notte delle nozze mentre mi avviavo alla stanza nuziale, il gatto
saltò davanti alla porta, belva guardiana non vuole che io entri.
Avanzai verso di lui, la mia ombra lo coprì. Tremava, atterrito, ma
non lasciava il passo... Mi preparavo al duello. Ottiero gli diede un
calcio e "via, bestiaccia".
Sorrisi. Ma sapevo che non era così semplice. Sapevo che fin da allora
potenze malvage, nei recessi della casa, volevano la mia morte.
Ottiero ha un bellissimo corpo e ne va lieto, ma non superbo. Ottiero
ha una lingua da re, Ottiero, amante, ami più le mie ginocchia
sbucciate o sciogliermi i capelli?
«Amo la tua pazzia, e gli spiriti inquieti del tuo corpo. Per questo
ti ho portato nella mia casa, perché tu possa liberarli in letizia.»
Una notte, sognando i coltelli di mio padre, le sue bevute di sangue,
mi aggrappai a Ottiero, e lo chiamavo "mamma".
Per onorarmi come moglie, Ottiero mi tenne come un'amante. Senza
doveri.
Il matrimonio, il grande veleno, ci lasciava intatti. Nulla può far
danno all'amore se si possiede l'arte di sgranare i minuti come
iridescenti rosari.
La prodigalità di Ottiero mi incantava. La sua noncuranza verso i beni
faceva piangere alla madre cocenti lagrime d'avarizia. Ebbe bisogno di
un cordiale la vecchia quando dovemmo annunziarle che avevo smarrito
l'anello di fidanzamento, con sei brillanti. Ma mentivamo: l'avevamo
buttato insieme, nel letamaio, una notte di luna. Che io non potevo
dormire ed ero sicura fosse l'anello regalatomi dalla suocera, la
causa dell'insonnia e del mal di capo.
Non eravamo amici dei nostri amici. Davanti a loro continuava un gioco
esclusivo; che nelle nostre stanze immaginarie entrasse pure il mondo.
Esso rimane estraneo, e non ci minaccia.
Ottiero certo non teme i fatui amici di famiglia e i giovanottini
ambiziosi. Chiara è troppo superba per i piccoli amori.
I cancelli, da fuori, cominciavano a chiudersi. Ma non me n'ero
accorta. Io nutro Ottiero con tutta la mia erba (benedetto lo spreco
d'amore: crescevo in vigore, che il dare sempre accresce).
Nel pomeriggio di quella primavera, un bellimbusto mi disse
all'orecchio
«Tutte quelle cascate di lillà... signora, lei si annoia.»
(Non fu per noia che rompemmo il patto. La noia non vi fu mai.)
Nacque Giglia. Aprì i suoi occhi freddi: non avrebbe avuto pietà.
Dunque, dissi baciandole le labbra, dunque ci ameremo sempre.
Giglia ricordi nel carro, sotto la luna, quando andammo in
pellegrinaggio a Loreto, e io vi guardavo dormire... Eravate così
bella che mi sembrava d'avervi rapita ai Mori, e di portarvi con me,
lontano, in un viaggio tumultuoso che v'avrebbe fatta per sempre mia.
Alla Madonna, invece di sputare in viso come quand'ero bambina, portai
quel giorno un mazzo di gialli soli, ché l'amore - e Giglia.
Una piccola pantera sapiente era Giglia accanto al nostro letto.
Ella fu il terzo amante della giovinezza, i nostri baci spesso si
mischiarono.
Giglia succhiò il seno sinistro e suo padre il destro, finché ebbi
latte. Brucianti tappeti, notti.
Ottiero trattava affari. Questo, un poco, ci allontanava.
Ma sempre, come un uccello che ha orrore del vuoto, mi gettavo nel
mantello del mio sposo quando tornava dai suoi negozi come da terre
lontane, che io non avrei mai toccato.
Giglia cresceva.
Ninfa dolorosa tu ispiravi il riserbo, non la timidezza.
Per riserbo mi ritrassi dal tuo sbocciare, verso i dodici anni. Non so
molto dei corpi: potevo farti solo male.
Mi ritrassi, come chi non sa la strada. Ma vi tenevo in ogni sguardo.
Voi, fiore.
Rimasi incinta per la seconda volta, e non ero serena.
Mio padre veniva in sogno, nano col piede storto e forse, la coda...
la vidi - ti giuro, Ottiero - la vidi a nonna Teresa, una sera di
festa che si lavò nella tinozza, una rozza coda di somaro.
Ho paura che nasca un mostro.
Ma nacque Benedetto.
Ma come ride, quel bambino!
La favola diverrà insidiosa per la troppa bellezza?
In giardino, corrono sole e luna abbracciati; Giglia piccola madre con
Benedetto il sole, suo figlio, e io sento che non mi appartengono.
Invano tripudiavano i bevitori di sangue, mai sarei stata dei loro.
Attraverso i figli scoprivo che la voce del sangue è solo la voce
dell'immaginazione e del riso. Per loro fui il buffone, il sogno,
sempre pronta a mostrare il rovescio delle cose: madre per
contraddizione.
La famiglia, l'antico strumento di tortura, dispiegava le sue
struggenti delizie.
Attraverso la famiglia, che per solito è povera cosa, io Chiara, in
eccesso di superbia mi sarei come la Santa per troppa gioia sollevata
da terra.
E sentivo a volte il corpo quasi pronto; e allora correvo a perdifiato
fino al bosco.
Tornavo spettinata attraversando i campi come un turbine, e ridevo in
faccia ai contadini che mi facevano segno di chiavare.
Su di me, a Ottiero giungevano chiacchiere a non finire.
Lui scuoteva le spalle che ha forti, e ben modellate. E di notte mi
stringeva con più forza. Ma proprio lì s'incrinò il gioco, nel nostro
letto presuntuoso cui parvero bastare slancio e vigore. Fu lì che
imparammo un poco a mentirci, per troppo amore, per noncuranza. Amore,
che guaio.
Preso dal lavoro, Ottiero si allontanava rapidamente dalla sua
giovinezza. Mentre io ritrovavo la serena infanzia mai avuta, e mi
abbandonavo alle suggestioni, in un gioco senza fine con la mia
solitudine.
Ero piena di forze: Ottiero mi aveva dato le sue. Ma si era
indebolito, e io divenni il centro delle energie.
Il mio fervore divenne un poco drammatico.
Mi davano anche l'oppio per sostenermi, purché il sogno rimanesse
circoscritto alla casa, che quello era il mio compito: sognare per
tutti.
Il farmacista untuoso mi portava il laudano, col pretesto dei
reumatismi. Ma sapeva che era per nutrire la mia forza.
Un vizio legittimo, purché lo usassi da prigioniera.
Morì il padre di Ottiero, di una malattia costosa. Ancora affranta
dalle spese, la suocera venne a stare da noi.
Di notte si alzava per contare le posate d'argento, e si avvide che ne
mancavano tre. Le prese una crisi di cuore, tutti accorsero e la
trovarono quasi trafitta dalle posate preziose, schiantata
dall'incuria verso la ricchezza, il grande peccato.
Quando prendevo l'oppio sfuggivo al gatto, perché in quei momenti di
suprema verità sentivo il suo maligno respiro che lanciava
maledizioni, e senza pudore nei suoi occhi appare l'odio che la
vecchia per uso di mondo nasconde.
Tu mi molcisci, finta madre tu mi lisci i capelli e ti fai per invidia
serva della mia bellezza. Ma il gatto dice "un giorno ti strazieremo.
Guardami, Chiara, sono crudele come un uomo. E guarda la mia grande
padrona, tua suocera. E' sanguinaria come un gatto".
Tutto il giorno trama la vecchia perché il nostro amore si sciupi,
ché, dice, quella vuol solo rovinarlo, e me lo grida in faccia...
Ma se appare Giglia, la vecchia tace.
Di Giglia ha una paura che non sa dissimulare.
Giglia, la bella, la fa tremare.
Giglia torna dal giardino con un fascio di rose. Il gatto fugge, la
vecchia impallidisce e digrigna i denti.
Ma Giglia non indietreggia, dietro il suo sguardo ride un saggio
disprezzo, e - venite, nonna, vi dò il braccio.
E - Vi faccio l'infuso, nonna, siete stanca.
E - Povera, povera morta suonano i suoi gesti di soccorso, mentre la
compone nella merenda, ecco i vostri biscotti preferiti...
Ma non mostratemi i gioielli nonna, come a intendere che un giorno
sarò ricompensata...
Avreste avuto in noi due figlie, sapete, se aveste pensato di meno
alle posate?
E le carezza la fronte, povera nonna chi vi ha punito, rendendovi
impossibile l'amore? A essere sensibili, sapete, ci si diverte tanto.
Ci si diverte sempre.
Potrei regalarvi un piccolo dolore, nonna? Lo mettereste al dito, al
posto di quell'ametista che richiama la morte, al vostro ditino nonna
se non me lo porgeste come un artiglio, per pugnalarmi...
Dormite, nonna, non pensate all'oro... ma voi ci pensate, nevvero?
Voi, non potete proprio, non pensarci? Dormite, nonna... L'oro splende
in ogni angolo di questa grotta...
«Dove! »
Chiudete gli occhi vi dico, non alzatevi di scatto come il verme dal
frutto morso... L'oro che ammucchiaste nella vostra vita di corsaro è
intorno al letto... Chiudete gli occhi, o vi abbaglierà... Dormite,
nonna, non badate ai dolori al fegato... esso è d'oro, e anche il
cuore, e il moccio che vi pende è oro fuso che raccoglieremo in
lingotti... Siete così ricca, che le vostre flatulenze alzano nubi
d'oro e l'odore è quello solare dell'oro... il sole?... sì, ve lo
metterò nella scarsella.
Siete morta, nonna?
La vecchia, russando, annuisce.
Giglia era l'unica che riuscisse a farla addormentare.
L'oppio mi congiunse ai pensieri segreti.
Il mio gioco stava diventando pericoloso. Leggevo ormai nel pensiero,
e non tenevo in nessun conto le parole.
Ottiero se ne accorse.
Come un bambino colposo si nascondeva la fronte. Negli occhi non mi
guardava mai, anche se mi baciava spesso. Durante i baci, sentivo nel
suo petto risuonare qualcosa d'estraneo. Capii che le perfidie della
madre avevano cominciato a contagiarlo.
Ottiero diede una grande festa in giardino, per l'anniversario delle
nozze.
Venne la figlia della Rosa del Buffè, una ragazza bella, alla vigilia
dei suoi diciotto anni, e ancora senza fidanzato, perché era troppo
aggraziata, e intimidiva i giovinotti.
Ottiero la guardò tutta la sera di nascosto, e bevve molto. Quando lei
andò via, lui le corse dietro, malfermo, gridando
«Ha perduto il suo mazzetto! Mi aspetti.»
Si incontrarono sul cancello. Fin da lontano sentivo i loro respiri
ammalati dalla voglia di baciarsi. Ma non lo fecero, e mentre Ottiero
tornava indietro, io avevo orrore di me.
Quel bacio mi straziò per giorni. Non ero più la sposa, ma l'odiosa
guardiana.
Come potrei gioire di una fedeltà dovuta al timore? Tra me e Ottiero
non v'è più quel gioco speciale che tutti esclude. Ora, come i
dubbiosi e un po' vili mariti, egli sospira, mentendo, per una
fanciulla.
Lo pregai di andare da lei. Ma lui negava, e disse
«Sei pazza.»
Per la prima volta.
Quando Ottiero mi abbraccia, tra noi ci sono lui e la figlia della
Rosa che piangono d'amore, e io li sento, e che posso farci se il mio
corpo si chiude? Fu allora che dovetti recarmi a Città di Castello,
dalla zia Vigna.
Dopo le nozze, per la prima volta mi allontanavo dalla mia casa. E mi
batteva il cuore, come la principessa che esce dalla torre, dopo una
vita stregata, e può vedere se stessa nel mondo.
Tutto prese a parermi un piccolo miracolo, la stanza virginale e il
letto, a una piazza.
La zia uscì per le compere e io rimasi sola, dopo tanto tempo. Il buio
entrava nella stanza come un altro paese che venisse a raggiungermi.
Avevo un'acerba gioia contro Ottiero, che non è lì, e il rancore per
lui esalta la mia solitudine.
Venne la sera. La zia tardava, io non sapevo dove tenesse l'acetilene.
Mi trovai sola, al centro di una nera caverna. Ebbi paura.
Sentivo un bisbigliare indistinto, e ostile... Non sapevo come calmare
la mia ansia.
Quando le mani, che sono sempre le più sapienti, cercarono il sesso.
Senza Ottiero.
Mi ricongiunsi a me stessa. Non avevo più paura, ora non erano più
nemiche le potenze del buio, non a chi ascolta il corpo e segue le sue
mani, come un cieco nella notte.
Portatemi dove vorrete, mani, ed esse mi portarono la grande pace, il
piacere. Bevvi alla coppa; come un bambino, senza accorgermene.
Il giorno dopo tornai a casa, con una giocosità diversa.
Amante di sé nella gioia senza vizio, che vuol dire, senza rancore.
Il patto con Ottiero era infranto per sempre. Entrambi avevamo un
segreto.
Non volli più unirmi a lui.
Ottiero allora mi abbandonò poco a poco nelle mani della suocera.
Cominciò un calvario di piccoli intrighi domestici, di meste
umiliazioni.
Mi tolsero l'oppio, e gli abiti della festa.
Non era quella la strada per raggiungere Sant'Amara.
Mi appesantivo. In bestemmia o in preghiera volevo passare la vita,
non in chiacchiere inutili.
Ottiero giudicava le mie stranezze insopportabili. Egli non era più il
difensore della mia visione.
Ero diventata estranea alla famiglia. Sentivo che avrebbero fatto
qualcosa contro di me. Nel buio, mi giunge un arrotar di coltelli.
Una sera, mentre suonavo il pianoforte a quattro mani, con Giglia, e
tutta la famiglia era riunita, d'un tratto sentii il mio funerale che
passava sotto i ponti della notte, e mia suocera, in testa, su un
tamburo di suino suona a gambe larghe la sua vittoria.
La vecchia mi mandò un dolce fatto da lei.
Lo diedi al suo gatto. Morì subito, stecchito. Mi spiacque per quella
cattiva creatura, morire un dopopranzo, senza gloria. Così lei avrebbe
voluto ridurmi, con la bava che ora immalinconisce quel muso di povero
delinquente.
Seppellii il gatto senza onori.
Dovevo andarmene subito.
Ma... dove?
E i miei figli? Abbiamo riso insieme con pienezza.
Non ho rimorsi. Guardo Giglia, mentre penso di lasciarli per sempre.
Lo farò davvero? Sarò così forte?
E loro?
Tu, Giglia, capirai ogni cosa; approverai a metà. Piangerai spesso, e
perfino, con piacere. Una madre fuggitiva, che emozione per una
fanciulla.
Eppure, Ottiero, ho voglia di ridere.
Ho voglia di ridere per ogni volta che non ho riso, quel riso che una
volta riso ha fine ogni miseria. E che dolore, sposo, farti male, e io
ridere del riso che pure mi spetta.
Spunta la stella della sera, a lei indirizzo il mio riso - e tu dici,
che io non t'amo più.
Cominciai a buttare di nascosto il cibo che mi davano, perché mi ero
accorta che la suocera non aveva rinunciato al suo progetto, e mi
stava lentamente avvelenando. Mi salvai, ma le erbe malefiche
somministrate un po' per giorno nella minestra mi avevano fortemente
indebolito le gambe, e potevo solo camminare col bastone; altrimenti
sarei caduta.
La vecchia mi fece un paio di sgambetti. Ma le sue tibie protese
nell'ombra come segnali di cimitero mi mettevano sull'avviso, e
riuscii a schivarla.
Un mattino ordinò alle serve di passare un'abbondante saponata sui
corridoi, senza risciacquare. Reso così scivoloso il pavimento, la
vecchia si mise in agguato, e col suo occhialino da teatro aspettava
che uscissi per vedermi cadere dalle scale, ma, povera donna! I sogni
m'avvertono di ogni cosa. So del sapone e vedo nelle loro anime come
nei vasi di vetro. Vedo l'attesa della suocera e di Alma, la serva
maligna... attraverso il muro vedo Esterina, la sguattera dalla lunga
treccia che corre per avvisarmi, e una colomba buona le trema in
petto...
Allora feci un gesto che sapevo io. La madre di Ottiero e l'Alma per
mio volere scivolarono sulla saponata, e come burattini danzano senza
potersi fermare, una lunga dolorosa piroetta.
Esterina, sulla porta, si dispiace, che è buona con tutti (Esterina
vincere è amaro, ma assecondare gli Ingiusti è peccato mortale).
Diedi quella prova dei miei poteri anche per avvertirli che potevo
difendermi. Come si fa con gli sciacalli li terrò indietro a
bastonate, se occorre.
La stessa notte, sentii dei rumori furtivi nello studio di Ottiero...
e vidi un uomo col mantello che entrava da lui... la lampada che
Ottiero teneva in mano, come un congiurato, lo illuminò... ma... è mio
padre! col batticuore corsi a spiare da una fessura del soffitto... in
basso, sotto di me, c'era la suocera, seduta, e Ottiero, in piedi...
Mio padre porgeva loro il coltello sacrificale con cui tante volte
aveva ucciso il maiale.
Tutti e tre annuiscono, senza parlare, guardando l'arma.
La mia sorte è segnata. Oh, Sant'Amara.
Quella notte, feci il sogno che decise della mia vita.
Correvo a perdicuore nel bosco della mia infanzia, verso la cappella
dell'eretico, desiderosa di rivedere il dipinto.
In sogno le mani impazienti strapparono l'edera, per toccare ancora
una volta il viso della Santa... ma sotto solo un muro mangiato dalla
muffa. Gettai un grido di dolore, l'ultima traccia era morta.
Quando alzando gli occhi mi avvidi che l'affresco, scomparso dal muro,
riviveva attorno a me... Io mi trovavo nel dipinto. Riconobbi la
valle, e la gola selvaggia... un tenue chiarore apparve in cielo...
Sant'Amara volava sopra di me, mostrandomi qualcosa...
Scorsi una casa bianca sulla collina, dalle persiane verdi, chiuse
come begli occhi. Sant'Amara, dall'alto, la indicava:
«Va', Chiara, va' laggiù.
Quello è il luogo della tua pace.»
Mi svegliai tremante, di un solo desiderio: cercare quella casa. Era
domenica. Ottiero mi obbligò a fare una passeggiata in carrozza, e con
l'ipocrisia del boia mi aiutò a vestirmi, costringendo ogni mio gesto
come a prevenire la fuga.
Uscimmo nella mattina calda, lui salutava tutti... Era perché la gente
ci vedesse insieme, in buon accordo. La passeggiata gliel'ha certo
suggerita sua madre, così il delitto non desterà sospetti.
La carrozza prese una via di campagna.
Ottiero non parla, tiene gli occhi bassi. Segno che la mia morte è
decisa. Anche da lui.
D'un tratto, mi sfuggì un grido di sorpresa. Ottiero trasalì in un
gesto di difesa... ma io non gli badavo più.
Badavo solo alla strada: la carrozza aveva imboccato una gola
selvaggia, in tutto simile a quella del dipinto... e poi apparve la
collina... e bianca su di essa, la casa dalle persiane verdi... E'
questo il luogo cui mi hai destinata, sogno, maestro.
Per raggiungerlo, ero disposta a valicare il mondo. E invece è lì,
proprio dietro il paese.
Chiesi a Ottiero chi abitava in quella casa.
Disse di non saperlo.
Chiesi ad altri. Ma tutti si rifiutavano di dirmelo. E io decisi che
per quella casa avrei lasciato la mia. Qualsiasi cosa vi fosse:
perfino la casa dei pazzi.
Il giorno dopo mi vestii per uscire.
Sapevo di andar via per sempre. Sfuggire al coltello di questa gente
che vuole estinguere la mia sete di vita mi dà l'impazienza dei miei
giovani fratelli, i cavalli, e sembro una signora in mantellina e
veletta ma sono lo scintillante sauro che fiuta il viaggio, e nitrisce
come un'imperlata primavera.
Una cosa temevo. L'addio ai miei figli.
Entrai nella stanza dei giochi.
Giglia sta leggendo una fiaba, con maestria imitando tutte le voci.
Benedetto l'ascolta. E il mondo è morto ai loro piedi, che solo le
fate contano nelle menti bizzarre. Neppure s'accorsero di me.
Mentre li guardo per l'ultima volta ho quasi invidia di Giglia, che
fino al rapimento saprà soffrire del mio abbandono.
Benedetto, invece, non conosce il dolore. Trasforma ogni cosa in
gioia, la sua bocca di orco ridente ingoierà la mia partenza.
Li guardo assorti nell'invisibile e penso che il segreto è trasmesso.
Ormai, potrei far loro solo compagnia: ma la maternità è compiuta.
Sentite, voi, bambini, che questa mamma che sta uscendo, come per
comprare l'insalata, non tornerà più?
Sì, voi lo sentite, Giglia le magiche ciglia verso di me non solleva -
è commossa -. E Benedetto che ha faccia di marinaro mi vede
allontanare come il bastimento rosso e blù, che andò per mare.
Compagni d'amore per sempre, facciamo che questa partenza sia l'ultimo
gioco - un gioco perfetto. Non sbagliate: non saltatemi al collo...
Bene, così. Essi giocano a sentire la fiaba, io a stare sulla porta e
come folli viaggiatori ci salutiamo, che un giorno, forse... No, mai.
Tu, Benedetto, che sei piccino ricordati della tua mamma, sempre un
po' fuori misura, per gli angeli. Io vado verso la collina, vorrei
lasciarvi una strenna, un orsacchiotto di pelo o uno squisito bon-bon.
Ma la mamma è distratta, e dicono, anzi, sia pazza, così il più bel
dono le sembra, andare per la sua strada, ché rendersi liberi è una
grande eredità, Per chi un dì crescerà.
Passai davanti allo studio di Ottiero.
Lo guardai, dalla vetrata, senza chiamarlo.
E' così lontano, e sento l'antica timidezza, come se non avessi mai
baciato le sue belle mani.
In un giorno di sereno lasciai la mia casa, e i profumi della stagione
mi accompagnarono fino al cancello. Salutai i merli del giardino e mi
voltai, alla fine. Come un viaggiatore che non tornerà più.

3.
ELLA DIVENNE UNA PUTTANA.
Avevo preso con me il denaro per la carrozza.
«Alla casa sulla collina»
dissi all'uomo a cassetta.
Quello, stupefatto, rimase con la frusta a metà...
Poi si avviò senza fiatare, ma quando credeva che non lo guardassi, si
girava a osservare la mia persona.
Non gli chiesi il perché del suo imbarazzo.
Non sapere cosa troverò nella casa, non mi dà alcuna inquietudine.
Solo l'ardente sfida della curiosità.
Attraversammo il paese.
Un cane corse dietro alla carrozza, il vento mi portò via il cappello.
Riuscii a riprenderlo con tale destrezza che scoppiai a ridere, come
se col cappello avessi ripreso in mano tutta la mia vita, e -
«Più svelto, cocchiere!»
No! Più lento. Non tornerà mai questo pomeriggio col sole sugli occhi
come un amante mentitore, e così dolce che dice "sarà sempre così...".
Ecco la strada del mio sogno... e la collina...
Traversammo la gola selvaggia, il ponte del falco che trema sul
torrente turbinoso. La corsa porta via la mia vecchia vita, Chiara
finta signora, addio.
Così dolce era l'aria e io in pace con me stessa, che nel calesse mi
addormentai.
Il cocchiere mi svegliò. Aprendo gli occhi, mi trovai davanti la casa.
Sulla porta c'era già Madame Goullon, col bastone e l'occhialino, in
grande allarme, che m'aveva scambiata per una delle solite mogli che
venivano di nascosto a farle scenate, a piangere, a offrire denaro
perché i mariti fossero sbattuti fuori.
Scene rare ma oltremodo seccanti, in cui l'unica arma della vecchia
era darsi un gran tono. Mi affrontò con fermezza:
«Questo è un bordello onorato, signora.»
Fu così che appresi d'essere al bordello.
Vidi nell'ingresso, impagliata, l'Ara Scarlatta, il più decorativo tra
i volatili.
Sentii un buon odore di panni puliti, un buon odore di cose sporche.
«Voglio rimanere» le dissi.
La Goullon svenne. Aveva sognato, sì, di portarsele tutte al bordello,
le belle dispettose che vanno alla messa di mezzogiorno al braccio dei
mariti volando sui cappellini fioriti di donne per bene. Ma i sogni di
Madame sono ben distinti dalla veglia, e vedersene una, lì, pronta a
cominciare il mestiere, per la felicità le si fece male.
Ci volle l'assenzio.
Poi il cognac e il centerbe.
Aveva chiamato le ragazze accanto a sé, come per difendersi.
Tutte si aspettavano confessioni e piagnistei. Non ne ebbero, rimasero
scontente. Tanto che la Goullon, alla sesta anisetta disse
«Poche arie cocca, adesso ci racconti perché sei venuta qui.»
Io tacevo e allora, con frulli di piccioni bizzosi negli angoli ognuna
dice la sua, la Goullon dice «ce l'ha mandata il marito, per farsi
dare i soldi. Di nascosto, s'intende, io li conosco quelli lì... per
due baiocchi la farebbero dar via alla madre, alla sorella, alla
figlia...». Si morse le labbra.
Ma già Giolli mormorava, l'avranno cacciata di casa, chissà che ha
combinato... s'è venuta a nascondere, sennò, una che ci ha il marito,
mica è matta.
Ma Cantilena disse zitte, sceme, quella è venuta per chiavare, che le
mogli chiavano pochissimo, alcune solo a Pasqua e ai Morti, prova ne
sia che i loro mariti stanno sempre a farsela con noi.
Questa spiegazione le acquetò. Meno male. Perché io cosa c'ero andata
a fare, lo sapevo meno di tutte.
Lì mi aspetta una prova misteriosa, che dovrò tutta scoprire.
Proprio la cosa che ho meno curato, il sesso, quella mi vien dato di
coltivare. Dovrò riparare la mia mancanza? forse attraverso il corpo
il segreto di Sant'Amara sarà rivelato?
Tenterò la perfezione, strumento primo d'ogni volo.
Poiché in sorte le è toccato il bordello, con tutta se stessa Chiara
cercherà di fargli onore.
Madame Goullon mi venerava. Il lato commerciale era eccellente.
Una signora: prestigio, quindi denaro.
Le ragazze sono un po' gelose perché la Goullon mi ha assegnato la
biancheria migliore e un bidet d'ammaliante porcellana.
Sta preparando ogni cosa per vendermi come una donna di rango. Come
nelle case per bene, nel vestibolo ha appeso il cerchio di carta
velina da circo equestre, che furoreggia in Francia, graziosamente
illuminato.
Per me fece venire una grande novità: il paralume acquatico co' suoi
lunghi petali e i suoi pistilli, che si spampana su un falpalà di seta
paglierina. Sopra il globo, piogge d'oro composte da una frangia di
perline cadenti da ghirlande di felci...
Ha messo sul comò un malizioso dagherrotipo, ma i fiori della cornice
lei stessa giornalmente li cambia... e sù, Damina! Non morire
d'invidia, ognuna ha il suo scenario, alla Nichilina giova lavarsi
poco che è selvaggia e una goccia del suo sudore contadino vien pagata
fino a un ducato.
Per me ci vogliono invece i profumi e le acconciature perfette, il
cliente deve avere l'impressione di sorprendere una sposa nella sua
camera da letto. Emozione rara, che a Parigi vale dai cento franchi in
sù, e qui...
Ce la pagheranno salata, sta' tranquilla Chiara, Chiaretta...
Ma prendi lo zabajone, il fianco lo dobbiamo arrotondare, quelli la
messinscena va bene, ma devono pur mettere le mani su qualcosa, e se
non c'è la sostanza...
Aspettavo con ansia il mio primo cliente.
La Goullon voleva sceglierlo con cura, e metteva in giro a bassa voce
più d'una storia piccante sul mio conto, perché i clienti
s'incuriosiscano, lisciandosi i baffi... e infatti, nelle chiacchiere
il prezzo cresceva, e io ero sempre più preoccupata, avrei saputo far
fronte alla cifra?
(Non ebbi mai molto talento nel sesso: l'ho sempre confuso con
l'amore.)
Lessi da cima a fondo il libro di Madame Goullon, e la notte ripassavo
a memoria i passi più difficili... sulla soglia del sonno mi parve
d'essere a scuola, il direttore protese l'immane canna d'ebano,
urlando
«Allora, cosa sai fare?»
Inchinandomi dissi
«Saprei eseguire, davanti alla scolaresca una spagnola: guardi che
tette.
Signor direttore, l'errore diffuso è creare coi seni una finta vulva,
e imprigionare il membro... sbagliato!... Chi ha davvero studiato il
trattato, sa che per bene accoglierlo bisogna fare un ponte, le tette
strette l'una all'altra, che il membro traversi strisciando le pareti
come un troppo coraggioso destriero, rapida ha da essere un'accesa
corsa la spagnola!...
Dopo il ponte il salto... Chi è bravo, con lo schizzo arriva sino alla
spalliera d'ottone.»
E chi lo mostrerà poi a Madame Goullon avrà un tallero in premio, e un
elogio.
E' un piccolo generale la Goullon nelle cose del letto, se si ha
valore si viene decorate, in quello non è avara. Il premio favorisce
la corsa, e le ragazze le piace vederle in lotta tra loro.
La Goullon ai suoi tempi vinceva sempre le gare di catechismo, e
conosce quel caldo maligno del cuore quando vuoi vincere, superare
tutti.
Come lo studente sapiente ma timoroso, aspettavo la prova.
Ero fortissima in teoria.
«Eccolo!... Chiara, quello è per te, ne sono sicura...»
corse Lisetta tutta affannata.
Ci affacciammo dalla balaustra...
Di sotto c'era un signore con un manto di lana morbida, i guanti
gialli e il cappello da uomo istruito.
Chiese di me alla madama, snocciolando nome e cognome come se dovesse
essere ricevuto nella buona società.
Che bel signore... Uno difficile da ingannare. Che vuole in un
bordello di campagna? Egli aspetta di certo un incontro sublime, sogna
forse la grande innocenza o il puro istinto e io, sono solo una
scolara zelante... Il debutto mi serra la gola.
La Goullon inchina fino a terra la sua gobba di tacchina e bramisce
con la voce piena di denaro, dalle sue frasi sfuggono monete...
Si affacciò anche Damina, e bianca d'invidia disse
«Che onore, cara mia... quello è un gran dottore di Perugia. Il
professor Ardensia, medico dei pazzi.»
In quel momento, l'uomo diceva alla Goullon:
«La donna in questione è molto malata di nervi. Sono qui per visitare
la paziente. Spero che mi seguirà senza fare resistenza.»
Lo aveva mandato la mia famiglia, per evitare lo scandalo.
Suo compito era dichiararmi pazza in fretta e furia, prima che
qualcuno mi toccasse.
Passando dal bordello al manicomio i due fatti si sarebbero confusi, e
il mio gesto si sarebbe attribuito a follia.
Ottiero era stato grande nello spergiuro.
Scesi le scale con decisione, dissi al medico
«Lei sbaglia. Non sono la sua paziente. Io sono una puttana.»
Andai verso di lui come se fosse stato veramente il cliente che
aspettavo.
Il primo uomo, dopo mio marito.
La prova è più difficile del previsto, e se sbagli, Chiara...
Fuori c'è il carro chiuso col segno del manicomio, e due infermieri
fumano grossi sigari calpestando l'insalata... uomini muscolosi, coi
gesti sicuri degli acchiappamatti; non riuscirei a fuggire.
E poi, io non voglio andare altrove. Ma solo conquistarmi il diritto a
rimanere qui.
Quel carro è una minaccia al mio destino, devo sventarla. Convincere
il dottore che non fu un gesto d'insania a spingermi fuori dalla mia
casa, ma un impulso in accordo con le mie vere capacità.
Mi batte dolorosamente il cuore. Rullate tamburi per Chiara che dovrà
dall'alto e senza rete buttarsi tra le braccia del professor Ardensia,
medico dei pazzi, che è venuto a frantumare il suo cervello e lo
chiuderà in un fazzoletto bianco e - addio dio! addio gioie dello
sfrenato pensiero...
Lo portai in camera. Lui cominciò a farmi le sue domande insidiose. Io
non dissi parola.
Ma tutte adoprai le seduzioni libresche appena imparate a memoria.
Era buia la camera, la mia ignoranza totale, trepida lottavo per la
mia libertà.
Il professor Ardensia cercò di resistere, ma la mia lascivia, che
sembrava a lungo trattenuta, lo travolse.
Impersonai la sposa che ha rotto le catene per voglia d'amore, e tutto
volevo provare, tutto insieme. La mia imperizia apparve evidente ma
così appassionata che fu lui a istruirmi nei più ingegnosi piaceri.
Acceso da una febbre di curiosità, il professor Ardensia era un
perfetto libertino. Rimase con me tre ore.
Gli infermieri avevano fatto in tempo a devastare l'orto.
Mentre gli riallacciavo il panciotto, il professore disse
«Tu non sei una pazza. Sei una straordinaria puttana.»
Scuotendo la testa si lagnava che la nuova generazione non è onesta, e
un ferro di cavallo nessuno te lo salda più come una volta. Oggi, non
c'è più chi metta se stesso nel proprio mestiere.
«Ma voi, piccola, sì.»
Mi baciò in fronte, e disse
«Sarete di certo più utile qui che a casa.»
In omaggio alla mia bravura, insisté per pagare. E sapendo d'essere il
primo, volle essere generoso.
Il carro degli infermieri, il carro che imprigiona i cani e cigola
sulla mia via da quando sono nata, se ne andò per sempre.
Ora non verranno più a cercarmi. Avevo superato la prova.
Ma nella lotta col professor Ardensia, il mio sesso era rimasto
indifferente.
Lì per lì non mi preoccupai e mi dissi, che era andata così perché non
avevo inteso farne un amante, ma solo un testimone a favore.
Ora appartenevo di diritto al bordello.
Cadde la neve.
Prendevo confidenza con gli uomini.
Nelle notti di stanca, quando non c'erano clienti, i lupi ululavano
attorno al bordello. Nenia dolcissima per la mia lontananza.
I primi tempi alcuni amici di casa vennero a trovarmi, come si usa,
per gettarsi sulla preda. Ma io li trattavo da sconosciuti, e poco a
poco smisero di provarci gusto. I lupi e il nevischio finirono di
disperderli.
L'inverno cancellava le tracce che portavano alla mia casa.
Cominciavo a impadronirmi della nuova disciplina. Sapevo ormai come si
guarda un uomo quando si vuole che lui ci voglia, e come fargli
tremare la punta dell'uccello con un sol battito di ciglia e come,
dopo inaspettati piaceri aprirgli il panciotto e tirar fuori il suo
denaro; anche se non sapevo che farmene, e lo davo quasi tutto a
Madame Goullon, perché mi allieta il suo sorriso di bambina predatrice
(intascare la rende umana).
Andavo precisando il mio stile; offrivo un piacere conturbante e
costoso, che chi più paga più gode, ricordàtelo avari che per paura
d'aprire il portafoglio chiudete fuori il piacere.
Chi vuol gioire d'amore fino allo spavento dev'essere disposto a
buttar via non solo la scarsella, ma il cielo intero. Il desiderio
d'amore è pei generosi, io sentivo qualcosa alla F solo quando lui
gettava i soldi come un fastidio, e su un cuscino di banconote e di
sperma celebravamo il disprezzo al mondo. Io, e il cliente. Chiunque
fosse.
Inventai dieci posizioni che mandarono in visibilio contadini e
borghesi. Ma a me, ne piaceva una sola: fare la morta.
L'illusione che davo al cliente era perfetta, non un sospiro o parola
o scorrere del sangue tradiva il mio esser viva.
Nel buio assoluto egli entrava dentro di me come in un sepolcro e io
solo allora godevo, ché essendo tutto trattenuto era amplificato
all'infinito e godevo, del godimento di lui che stupra un essere
inerte e si crede solo, ed è guardato.
Il boscaiolo aveva un arnese così grande da potermi con esso
bastonare, sulle chiappe e sul viso, cosa che più di tutte lo metteva
in allegria.
Prediligevo i ragazzi e i vecchi dubitosi, che prima si vergognano ma
poi, che fuoco generoso! queste son le soddisfazioni di una donna di
piacere. Non i gettoni di Madame Goullon; o quando il cliente dice:
«Tu sì, che lo succhi!»
Questo davvero mi emozionava: perché baravo. In verità il pompino non
riuscii mai a capirlo fino in fondo, tanto che m'ero fitta in capo che
bisognasse averlo, da qualche parte, l'uccello, per servirlo sul
serio. Ma avevo studiato con diligenza su tutti i cazzi della regione.
La figura c'era, e gli elogi non mancavano, ma oh - non avrei mai
raggiunto Cantilena: pare che mentre l'aveva in bocca a certi sul
finire gli venisse di mezzo metro, e subito dopo spiritati si
toccavano lì che gli sembrava si fosse per sempre annientato, per il
troppo piacere.
Quando Cantilena era già brutta e sdentata, ci fu ancora un signore di
Varese che veniva una volta all'anno perché lei glielo succhiasse.
Stava due giorni, poi lo riportavano a braccia fino alla carrozza,
bianco e come morto, mentre Cantilena erigeva il suo tesoro e ne
riempiva il materasso.
Sebbene non eccellessi nel prenderlo in bocca, imparai però a
riconoscere i clienti dal loro seme. Assaporavo sempre, e distinguevo
gli uomini.
Il figlio della Schiurbina lo aveva così amaro che capii la sua
malvagità e non volli più andare con lui. Le altre mi prendevano in
giro, dicevano "capricci da signora". Finché lui accoltellò una
contadina che non voleva dargliela.
Di solito i malinconici l'hanno dolce, e bisogna carezzarli sulla
testa per farli venire, quando c'è molto traffico e occorre sbrigarsi.
Agli avari sa di stantìo.
Ma il peggiore è quello di Diego, il Pellaio. Il suo sperma invade la
gola come una cascata di grasso, e poi dovevo sciacquarmi a lungo con
acqua e malva, che non andava mai via.
Finché pregai la Goullon di non farmi più accompagnare con lui, che
nel suo seme impuro avevo avvertito i sapori della mia sventura, e lo
sentivo nemico. Quando arrivava correvo a nascondermi: lui aveva
capito la mia repulsione e avrebbe offerto alla padrona qualsiasi
somma pur di ficcarmelo in bocca, e averla vinta.
Andai, una volta, travestita di signore, in città, ad ubbriacarmi con
delle femmine. Un amante mi accompagnava, versato nei piaceri
stravaganti.
Una volta, e non più. Quella sola conteneva tutte le emozioni.
La Goullon, contenta del rendimento, fece arrivare per me un grosso
pane d'oppio e una pipa di modello turco, pei rapimenti celesti.
Viaggio sugli sconosciuti orizzonti... il mondo verrà a trovarmi nel
deserto.
Conoscerò solo i viandanti mentre soffia il vento e gli zefiri
dell'oppio, e un uomo nel letto è una passeggiata sul dorso
dell'ippogrifo, che ha peloso e cosparso di piume, e il caldo
dell'amore fa del letto una capanna umido amara.
Sotto l'effetto dell'oppio tiravo all'infinito quei loro arnesi e
allora si è grati che siano così semplici e per un nonnulla si gonfino
e diventino duri, per aggrapparsi, per stare un po' sole con un
uccello purché l'uomo non dia fastidio. Che ansimi pure, è giorno di
lupi. Purché non ci ricordi che esiste.
Facevo impacchi sul seno martoriato della Menca. Non sa dire di no e
lascia che il suo preferito vi spenga il sigaro, e dicevo perché,
Menca? Lei mi guardava con la sua bella faccia da bestia. Voleva dire
che con le parole non si può. (Dopo, quando conobbi Emilio, mi
ricordai con invidia della Menca. Fortunata lei, che qualcuno volesse
farle male.)
Acconsentivo a tutto. Perfino ai ragazzi con lo spadino, che vogliono
farti sdraiare per terra e camminarti sulla schiena.
Ma ero severa coi timidi, che fanno innamorare.
Andavo bene, sì, andavo bene. Ma non ero mai stata tanto lontana dal
mio sesso.
Provavo certo le trafitture alla F che prova ogni donna viva. Ma per
altri motivi che non l'amore. Un grido di rondine o un sospiro dietro
il paravento.
La sera, quando gli uomini se ne sono andati, la pace cala sulla casa
della F, ed essa regna sovrana.
Ma la mia, non l'avevo mai sentita così poco come da quando la
esercitavo tutti i giorni al bordello.
Febbraio portò il suonatore ambulante; finalmente, un'emozione. Si
sedette in mezzo a noi e ci stordì con le sue storie, suonando
l'organetto. Era un uomo solitario, fuggito dal mondo. Portava dietro
anche una scimmia e un serpente, che lottano, per chi è indifferente
alla musica.
Marzo. Venne la pettinatrice con tutti i suoi spilloni, intrisi
d'erbe, che le ragazze comprano di nascosto per farsi male tra loro.
Io non potrei più partire di qui. La mia casa è il bordello e le
stagioni che si fanno le marmellate, i liquori, le torte.
Si coglie il timo e lo spigo, le ragazze si tirano i capelli e dopo si
baciano, forse con troppo trasporto che a molte, il contatto coi
maschi rende i sensi più accesi. Io le amo. Non sono legata a loro.
Per questo non le lascerò mai.
Quel giorno erano venuti dei contadini da Gubbio, a festeggiare la
vendemmia. Il tipo di cliente che te lo mette in bocca senza nemmeno
dire buongiorno.
Quando se ne furono andati, la casa era in condizioni disgustose, ché
la Goullon ai contadini rifila un cattivo vino e non sono belle
sbornie.
Ce ne stavamo ancora affannate sugli avanzi, e la Goullon contava le
sue appiccicose monete, quando arrivò una visita inaspettata.
Bussarono. La Nichilina andò ad aprire con un gran rutto. Sulla porta
c'era mia suocera.
Io ero mezza nuda, con la gonna squarciata da una bottiglia di vino,
che i contadini non scherzano.
Lei non entrò. Dalla porta, reggendosi su due bastoni, mangiava con
gli occhi la sporcizia e i resti dell'orgia, e le ragazze in
disordine.
Il suo odore di limoni rancidi dice che è prossima alla morte.
Sentendola vicina, non aveva resistito all'estrema soddisfazione:
venire al bordello, e vedere la sua nemica umiliata.
Voleva portarsi all'inferno quell'ultima vittoria, e le labbra
frinivano di gioiosa agonia, contratte come se per la prima volta
nella vita provasse il piacere d'amore. Disse
«Ottiero sposerà la figlia della Rosa, con una dispensa speciale: tu
non sei più sua moglie.»
Sentii una forte sofferenza, perché il passato profanava il presente,
e tutto al bordello rifulgeva di una luce pura davanti a quel vecchio
ratto votato alla perfidia.
Allora presi un'andatura sguaiata da troia e mi accesi un mozzicone,
cercando d'essere più penosa che potevo, perché il suo rancore
trionfasse e se ne andasse subito, e feci una brutta voce,
«Vecchia, chi sei? Che vuoi?»
Lei stava ferma sulla porta. Chiese
«Hai rimpianti?»
Abbassai lo sguardo, come se ne avessi. Mentendo perché lei sia
soddisfatta e tutto sia consumato in fretta.
L'illusione del mio fallimento le diede un po' di colorito alle gote.
Era meno brutta ora, e stava per girarmi le spalle.
Non invano s'è arrampicata fino alla collina con tutti i suoi mali,
com'è dolce ora pel suo cuore moribondo l'aver veduta la rivale al
porcile...
Quand'ecco, la Nichilina che questionava con Rannusia per un
pettinino, inferocita le tirò le sue mutande di pizzo intrise di vino,
ma sbagliò mira... prese in pieno mia suocera, e lei rimase con le
mutande davanti alla faccia. Mi accorsi che le tratteneva con la mano,
e non riusciva a staccarsene,
come una faina aspirandone l'odore...
i sentori di F campestre della Nichilina i suoi spensierati sudori
colpirono la vecchia come una bastonata sul naso.
In quella la Goullon mise sù il fonografo, perché due signore insieme
la mettevano in imbarazzo e anche, nel bambinesco intento di riparare
con la musica al letamaio lasciato dai contadini.
La canzone giunse fino alla vecchia sulla porta come un fiume
rapinoso. Per la prima volta, ebbe gli occhi pieni di lagrime.
Ella sentì che al casino qualcosa viveva e v'eran lì splendori grandi.
Più dell'invidia e dell'oro.
Se ne andò ingobbita, antichissima bimba delusa, trascinandosi dietro
le catene della sua eterna cattiveria, che ormai la facevano
vacillare.
Ora sa che il bordello è il gioco dei giochi, il nascondiglio dei
nascondigli.
Morì per la strada, in carrozza, vinta dalla malinconia, prima
d'arrivare a casa.
Ne fui contenta.
Non avrei mai voluto che Ottiero entrasse al bordello con gli occhi di
sua madre.
Ma per la sua domanda, io non dormivo più. Me la ripetevo, di notte:
"Ho rimpianti?"
No. Ma godimenti, nemmeno.
Avevo dimestichezza col sesso, pure esso mi restava del tutto
sconosciuto. Nessuna rivelazione lo aveva accompagnato.
Mi specchio sempre dopo l'amore, e non ho mai nel volto qualcosa che
somigli alla beatitudine di Sant'Amara. Che io sia condannata a
strisciare, su questa collina fatta per il volo?
Che sia, anche la disciplina del casino inutile, come un vasto
ripetuto matrimonio?
Dopo tre anni che mi trovavo lì, senza essermi risparmiata le più
sconvolgenti esperienze, con ogni genere di maschi, la mia impressione
era una: d'avere un solo marito, con cento cazzi.
Che non sia questa la via? La mia via?
Ero triste nel dubbio.
Desideravo che venisse un angelo, e mi indicasse la via.
Lo aspettavo, come altri aspettano il sole: sapendo che verrà.
Ma gli angeli spesso non arrivano dal cielo, con le ali.
Messaggeri possono essere tutte le creature dell'universo.
L'angelo può essere il vaticinio di Cantilena quando al mattino vuota
le budella maledicendo, l'angelo si può nascondere nei più invisibili
sogni... Scrutavo sonno e veglia per vedere se l'angelo venisse.
Abbrutita nell'abitudine, tiravo le somme:
il coso è una povera turpe cosa. Il coso è una grande turpe cosa. Non
capita mai d'imbattersi in un coso come in un sorriso, come in un
grido come uno sconosciuto nella remota stazione che ti aggiusta il
bavero del pastrano.
O F saporosa, sei fatta davvero per quel muto coso sospettoso?
Non capita mai un coso come una verità che ti distenda la fronte, che
apra la tua vita fin dai più lontani piaceri, il bruciore d'amore che
vi fu solo nella maledetta infanzia.
Cosi come matterelli, sì, a josa, come mazze, come batocchi, il
vigore: non è quello che conta.
Essi rimasero sempre estranei pur penetrando le fessure di me che
neppure sapevo d'avere, scoprendone un'infinità: e tutte inutili. Non
è attraverso il corpo che saprò il segreto di Sant'Amara. Ma allora,
dovrò tornare indietro? e dove?
Simulavo disperatamente l'orgasmo, e poi mi accorsi con orrore che non
simulavo più, ma lo raggiungevo davvero - quasi senza accorgermene, ma
oh - era pur sempre un piacere. Non mai "il" piacere. Non il mio.
Avrei voluto mutare condizione, ma non sapevo come. La mia confusione
era al colmo.
Tiravo i cazzi macchinalmente, quali argani o maniglie.
Arrivarono anche delle lagnanze, che vergogna. Stavo diventando una
cattiva puttana.
4.
ELLA INCONTRO' UN ANGELO.

Era uno di quei pomeriggi di maggio, una domenica di poco lavoro, le


api che battono ai vetri, la stanza con la finestra chiusa e l'odore
di magnolia stagnante. Una dolcezza di miele incandescente penetra a
fondo.
Non apro mai le finestre per mantenere la polvere argentea dei meriggi
immobili; oziosa sul letto mi chiedo chi verrà, oggi?
E vorrei, vorrei una grande emozione da principiante. Avanti il
prossimo, che gli mangerò il cuore. E se gli ficco la lingua
nell'orecchio si raccomandi l'anima, ve n'è che sono morti per la mia
lingua nell'orecchio, be', morti proprio no, ma il cavalier Moroni
dovette fare un salasso sennò ci restava secco, e dopo mi baciava le
mani e diceva che non aveva più paura della morte.
Sento che il maggio porta i pensieri oziosi dell'estate, api, maghe
che ronzate le storie, non accadrà nulla oggi, al venti di maggio
1899, non accadrà nulla forse mai.
La Nichilina suona un maldestro Chopin e con le dita callose arrotonda
le note di grazia contadina. Potrebbe, oggi - proprio perché l'aria è
ferma e i profumi sulle mensole - potrebbe venire un angelo, mi
sembra, sì, una giornata buona per gli angeli.
Il sole tinge le nubi, presagio di sangue. Che si debba, oggi di
maggio, morire? per mano di un cliente troppo sensibile, che ha freddo
anche se è primavera e ha bisogno del calore del sangue?
Basta, Chiara. Queste fantasie non ti porteranno nessun vero piacere,
non fidarti del sole di maggio dalla folle coda.
Ma Chiara si abbandona al fantastico come da piccola si abbandonava
alla mano della sorella, d'estate tra le belle lenzuola.
Quand'ecco, al piano di sotto, scoppiò un baccano d'inferno.
Diego il Pellaio: solo lui entra rovesciando le sedie, e annunzia con
un peto virile la sua fragorosa presenza. Solo lui parla di soldi fin
dalla porta, annullando la mascherata della sua tracotanza. Resto
ferma dove sono.
Guai a scendere, tante volte gli venisse in mente di farselo
succhiare, e proprio oggi, che ho la gola così piena di sogni.
Il baccano aumenta. Le ragazze ridono, un'animazione insolita... Come
quando passano gli ambulanti con qualche novità.
Aprii uno spiraglio della porta, per osservare...
Sotto la balaustra Diego si tira dietro un giovanotto atterrito,
pallido e assai bello; e sembra un principe in mano a un brigante, non
un figlio con suo padre.
Il giovane alzò gli occhi, e con un tuffo al cuore li riconobbi: sono
quelli degli animali che mio padre portava al macello.
Come un giovane bue, invano si trattiene sulla soglia. Diego l'ha
portato a svegliarsi,
«Ha quasi diciott'anni, è ora, sangue della Madonna! E guardate che
pago, pago bene quella che me ne fa un uomo!»
Le ragazze fecero ressa. E' festa grande lo stupro, e che ebbrezza
l'odore di agnellino tremante che manda il ragazzo...
Davvero per tutte un bel dono il figlio del pellaio, che studia le
scienze nella città di Venezia e non somiglia a suo padre.
Ha modi dolci, da gran signore e - sì, il denaro - ma ognuna vorrebbe
stringerselo al petto e per la prima volta farlo sospirare di piacere,
chi è pazza della sua bella gola, chi degli occhi troppo scuri.
Civette, un po' intimidite gli volano attorno per farsi, a loro volta,
ammirare. Elvira sì che ha tette da stupire un ragazzo! E la
Nichilina, una carezza gli fa sulla bocca con la mano che s'è intinta
chissà dove, per inebriarlo.
La Goullon, sospirando d'essere vecchia per la gara suona una gavotta;
quel giovinetto è troppo perfino per lei e su celesti palmizi la fa
traballare. Guarda un po', quella bestia di Diego... ma no, non sarà
figlio suo, la moglie l'avrà fatto becco con un marchese di
passaggio...
Come un dolce marzo Emilio ha scompigliato i cuori delle ragazze, ma
ora s'arrabbiano un poco, che rimane a occhi bassi e nessuna mostra di
preferire... be', adesso basta! Dopo un po' anche i più paurosi ci
prendono gusto.
«Vuoi sentire qui, come per te mi batte il cuore?»
gli acciuffa la mano Damina, infilandosela in mezzo ai seni.
Ma lui la ritrae e ostinato non la guarda, come se fosse altrove.
Guai a chi rifiuta Damina l'invidiosa!, per la collera diventa molto
cattiva si mette a scherzare con Diego.
«Ma non è che tuo figlio, per caso... eh?... »
Vola la parola finocchio, che sempre si accompagna di risate.
Ma Diego non ride.
Cala il pugno sul tavolo, fa saltare i bicchieri e tra i vetri rotti
grida che queste scemenze non le vuole sentire nemmeno per ischerzo su
uno della sua razza, che lui ne può infilzare ventidue in una notte, e
dio budellone chi ne dice un'altra così le spacco il grugno.
Vi fu un attimo di silenzio. Ora tutte le ragazze hanno capito che la
Damina ha colto nel giusto.
E d'un tratto, un nemico diventa il ragazzo che poco prima tutte
bramavano. Facce cupe attorniano Emilio, senza più tenerezza.
Così bello, e non vuole le donne... Ah, ma la vedrà! Dell'una osò
sdegnare lo splendore del seno, dell'altra l'odore di estremo
gelsomino... La sua grazia le eccita ora all'oltraggio.
Tacque il pianoforte della Goullon su una nota stonata, e già Damina e
la Nichilina si avvicinano a Emilio con passo di belve, già Elvira
punta arrotandosi le unghie la patta dei pantaloni...
Si prepara una notte di terrore, caro, hai paura della F? Ebbene
stanotte la caverna ti inghiottirà, stanotte le ragazze si
abbandoneranno ai riti disgustosi, riservati a chi non le ama.
Preparate gli sfregi e i gesti che fanno arrossire. Saremo
immensamente volgari per avvilire il pudore di Emilio.
Suo padre paga perché sia punito, tremi, piccolino, muori di paura? e
solo perché ti fissiamo tutte insieme in quel posto?
Questo è niente... Il peggio deve ancora venire, stanotte bocche di
gatte smisurate e orchesse senza onore succhieranno vivo Emilio, e
dalle F scatteranno molle di fuoco e tutti i trucchi delle donne che
fanno piangere i bambini... tu ci disprezzi e noi ti ridurremo un
miserabilissimo fantino e te lo mangeremo come un dolcetto, facendo
uhm, uhm, buono...
La vendetta più l'oro di Diego le rende accanite, chi lo tira per un
braccio, chi scavalcando la compagna cerca di piantargli la lingua in
un orecchio, ma manca il colpo e la lingua vibra nell'aria come una
vipera assente...
Il padre tracanna e ride, la gara lo diverte.
Dallo spiraglio guardavo Emilio. E mi parve che mille volte avessimo
pianto insieme, con la testa nascosta, per la stessa ragione.
Emilio, animale e parente. Per la sua bocca d'amaro fiore umiliata dai
baci delle puttane, mi buttai allo scoperto, sfidando il pompino di
Diego. Per sottrarlo alle furie divenni più avida e triviale di
qualsiasi puttana sulla terra, mi feci largo a spintoni...
Una gomitata a Damina, un pizzico a Elvira e alla Nichilina, che
proprio non molla, una ginocchiata dove meglio la sente.
Mi trovai alfine davanti a Emilio, che per la prima volta mi vide:
accesa dalla lotta per una manciata di soldi.
Era stretto alla parete e aveva un lento respiro da vittima. Mi sentii
perduta. Rimasi, come la bestia davanti al tuono, incapace di
muovermi. E temo, che finirà qui la mia commedia. Come posso offendere
questo giovane sole?
Ma Diego mi guardava, la mia esitazione l'aveva messo in sospetto. Mi
restava un solo attimo per vincere sulle altre... e allora morsi a
Emilio, davanti a tutti, la bocca, che sanguinò...
Sentii il sapore del mio sgarbo, e lui, con un gesto di pudore, si
portò la mano al labbro arrossato... con mille fresche colombe di
baci, poter consolare la sua ferita... e invece, con fare da puttana,
che mandò in sollucchero Diego, lo afferrai per un braccio portandolo
via, fra le altre, ansimanti, che scoppiano in velenose maledizioni,
per essermi impadronita di quella buona preda.
Lo portai nella mia camera. Chiusi a chiave la porta. E io, che ho
tirato più di duemila cazzi, non sapevo che fare davanti a quel
ragazzino, e tutti e due ci guardavamo, fortemente imbarazzati, le
unghie.
Finché trovai la forza di dire
«Si accomodi.»
Ma lui rimase in piedi.
«E' arrabbiato con me perché l'ho morsa?»
Fa segno di no, ma segue le mie mosse, come se io dovessi balzargli
addosso da un momento all'altro... Ho vergogna. Per la prima volta
m'accorgo della mia tana di donna di piacere, e vorrei che non ci
fossero macchie sul letto, né alle pareti... che i fiori non fossero
secchi e polverosi, per accogliere Emilio ci vorrebbe la stanza più
bella del Paradiso... col piede spinsi il vaso da notte sotto il
letto, sperando che non vedesse; ma lui vede tutto, e teme, che un
assaggio fu il morso e s'aspetta che io finisca di divorarlo...
Allora, senza osare guardarlo dissi
«Senta, lo so che non ne ha voglia, che suo padre l'ha portata qui per
un orecchio. Lo conosco, quello. Vuole che si faccia sempre a modo
suo... Ma, se lei è d'accordo, freghiamo quelli là fuori, suo padre le
ragazze e la padrona. Faremo solo finta di fare all'amore. Staremo
dentro il tempo necessario d'una chiavata, basterà far sentire qualche
rumore di letto, qualche risata...»
E poiché qualcosa mi stringe la gola parlo da puttana e dico
«A me, che m'importa? Io i soldi li prendo lo stesso e lei, si
risparmia il disturbo.»
(E se mi vedi che tremo non è per la tua finezza di studente, o per la
tua giovinezza spaventata, per le belle guance. E' per qualcosa che io
non so e le mie ginocchia sanno, e vorrebbero piegarsi davanti a te e
farmi dire
«Signore, comanda. Io sono qui per servirti.»)
Gli dissi invece
«Stia comodo, faccia come a casa sua.»
Ma lui era a disagio.
Aprii la finestra. Uscirono gli odori rancidi, entrò il vento a
purificare la stanza, mentre dietro la porta si sgrana il mistero
della maldicenza, il rosario supremo:
... Emilio ha un amante a Venezia, dal quale il padre lo ha separato
con grande scandalo. Non si sono più visti, e da allora lui non ha
altro pensiero che fuggire, per raggiungere l'amico. Ma il terrore del
padre lo paralizza... Vive a casa sua come un prigioniero, elaborando
piani di fuga, ma non farà mai niente... Emilio è un debole, Emilio si
farà schiacciare...
Si sedette sul letto.
Bagnai un panno di lino e mi chinai davanti a lui per lavargli la
piccola ferita. Mi lasciò fare, ancora un po' timoroso, ed ecco,
appena il panno ebbe raccolto una goccia del sangue di Emilio...
Signore, pietà!... dalla sua testa, dagli occhi e dalle orecchie
uscirono raggi di luce accecante, che si irradiò per tutta la stanza e
ne sfavillarono il bidé e i fiori secchi e tutte le miserie della
camera sembrarono assunte in cielo.
Durò pochi istanti, durante i quali le mandole celesti strepitarono
per tutto il creato, ad annunziare il prodigio: il figlio del pellaio
è l'angelo... è l'angelo quel ragazzo immalinconito dall'odore della
F.
Restò immobile contornato dalla sua luce, come stordito... Poi sembrò
riaversi, e non avere coscienza di quanto era accaduto.
Mentre lo curavo, dovetti fargli un po' di solletico, e sorrise.
Al suo sorriso di nuovo mi parve che la stanza come una dorata nave
partisse.
Da quel momento, non vi fu che bene tra noi.
Non aveva più paura. Si sdraiò, una mano sotto la testa, a guardare
lontano. Un pensiero doloroso gli sciupa la fronte, e gli impedisce
d'abbandonarsi al sonno.
Mi venne alle labbra una fiaba e cominciai a narrarla - ahi molto
piano - Chiuse gli occhi.
Mentre lo guardo dormire la mia dolcezza è un alto grido. So,
messaggero, cosa mi porti: il tuo gesto d'orrore mentre ti mordo...
nella tua repugnanza per il mio sesso riconosco la mia.
Io non vorrò mai più, dopo questa notte.
Mai più. Così vuole l'angelo dormiente. Emilio, che ha nel labbro il
presagio d'una vita dedicata ai piaceri d'amore, venne fin qui in un
giorno del maggio per imporre a Chiara la castità.
Al suo corpo che dormiva offrii il mio e gli giurai, che nessuno
l'avrebbe più sfiorato. In quel momento si svegliò e ci guardammo,
stupefatti per la troppa intensità. Avvertivo nel corpo un fremito di
piacere come dopo l'amore, e le parole - tutte dimenticate.
Dal turbamento ci scosse il chiasso fuori della porta, le ragazze
gridavano
«Ma che gli stai facendo? Apri, Chiara! Apri!...»
Bussano allegre e petulanti, forse le ha mandate Diego, perché la
festa sia completa, e vorrebbero entrare...
«Allora, cos'è questo silenzio? te lo sei mangiato?»
Ah!... i rumori... me ne ero dimenticata... salto sul letto e
forsennate faccio cigolare le molle e grido, come mai griderò per un
uomo come nessuno mai gridò, sì che tutto tace al bordello perché il
mio grido trionfi. L'amore che c'è nella mia voce le disperde
atterrite. Fuggono in un frullar di gonne in fondo al corridoio...
Soffoco il riso, divertita della bella riuscita, e anche Emilio ride:
di me, che, certo, fui ridicola nel simulare il fatto.
"Ma sai, Emilio," (non gli dirò mai,) "questo molto mi piace: far
ridere chi amo.
Aprii alfine la porta.
Senza fingere apparivo sfinita, ché con gli angeli, si lotta pur se
stanno fermi.
Emilio passò tra le puttane in ammirazione, ammutolite dalle mie
grida. Diego ebbe uno stolido sguardo di fierezza per suo figlio, e
tra me e il ragazzo vi fu un segreto sorriso; la nostra piccola beffa
aveva creato un legame tra noi.
Suo padre mi gettò una borsa, che fece stralunare le ragazze col suo
tintinnìo. Mentre la prendevo al volo, Emilio disse
«Tornerò.»
(Ma l'avrà detto, per far contento suo padre? Sarà solo il finale
della nostra burla?)
Il carro del pellaio era già in fondo alla strada.
Tornerà?
Mai, mai, mai, dicono le ruote che lo portano via.
Caddi a faccia in giù sul cuscino dove ha poggiato la testa.
Che odore d'angelo, afrodisiaco di visioni e dirompente chiarezza.
Che mai più un uomo, mai più. Da oggi Chiara sarà casta. Parola
tremenda, che risuona d'ogni umana imperfezione.
Chiara, ce la farai? Chiara, sei pronta?
Certo, casta al casino si deve ancora vedere. La cosa più semplice
sarebbe andarsene ma io di qui non me ne voglio partire. Dove mai
sarei felice, fuori della collina? Questo è il luogo dove morrò, e
piangerà il sole, e - mi venne, lietissima, l'ispirazione: serva.
Diventerò serva. Io non dovrò più dire "io", non dovrò più nascondermi
perché gli altri, i voraci, non frughino i miei pensieri. Esisterò
solo come strumento di cose - le mie mani - e mi diranno stira, e
lava, e zappa. Ma non mi diranno più come devo essere.
E nessuno mi metterà le mani addosso.
Io resterò fedele al gesto dell'angelo, per sempre. Certo bisogna
guadagnarselo, al casino, il diritto a non chiavare, quando c'è ancora
chi paga per te. La mia vita è nelle mie mani: bisogna che esse
valgano più di una F. Anche per Madame Goullon. L'esercizio è
impossibile, ma è solo questo che ti piace, Chiara. Avanti, lanciati
in avanti, come sempre, nel vuoto: o morrai.
Le puttane dormono.
Ho tutta la notte per conquistare il titolo che mi spetta.
Come una regina per il regno, lotterò per diventare serva del
bordello... cominciamo dagli angoli!
Metto tutto il mio talento nella pulizia e nell'acconciare con grazia
ogni cosa, gli ottoni e la ringhiera perché risplendano - e i fiori, e
le frasche, via i segni del vizio che stasera sarà poi più bello
lordare di nuovo.
In quella notte un'estatica chiavata divenne la mia pulizia del
casino, vediamo, se eros abita ogni minima cosa o solo la F! e lotto
contro l'antica sporcizia, contro i futili mobili perché gli oggetti
più insignificanti trasformino se stessi nel meglio, a colpi
d'invenzione e strofinaccio traggo l'anima dalla casa, non sono stanca
ma come ebbra. E' mattina.
La contadina che di nascosto del marito un poco ci aiuta, stamani non
è venuta, bene, anche questo è propizio.
Appena le ragazze chiamano per le prime cure, è con sorpresa che
invece di Delia, Chiara piomba in camera loro, come per gioco, e a chi
tira sù una ruga e chi consola con una nenia, al mattino le puttane
sono piuttosto bambine, più che alla notte.
Per l'una ho il filo rosso, per l'altra il sorsetto di cognac. In un
solo mattino sono diventata indispensabile, e quando, dopo la
toeletta, uscirono dalle stanze, un
«Ohhhhhhhhhhhhhhh!»
di rotonda sorpresa ristette sulle bocche, ché il bordello splendeva
del lavoro notturno come la F di un'imperiale sgualdrina. Madame
Goullon, ferma sulla porta, disse:
«Tu, Chiara, sei una buona puttana. Ma come serva sei un portento.»
Lì per lì non osavano, poi timidamente, pronte a volgerla in scherzo
se mi fossi arrabbiata, mi chiesero se per un po', volevo sostituire
la Delia che s'era ammalata...
Dicendo di sì, con segreta esultanza abbassai la testa, come per
ricevere la corona. In una sola notte, incoronata serva del bordello.
Da quando ero serva, potevo fare a meno dell'oppio.
La libertà m'inebria.
Lunedì, lucidare l'argento.
Martedì, il pipistrello venne fino al davanzale.
Mercoledì, biancospino, e il clistere a Cantilena.
Giovedì giorno di bucato, l'allegria dei panni insanguinati, il fiume
con impeto porta via la festa del mestruo, e tutto torna limpido.
Vivevo operosa, contornata dalle visioni.
Spogliata anche dell'onore di puttana, spogliata di tutto potevo ora
portare a termine il mio gioco, ma... Quale?
Penso solo a Emilio. Sono tentata di tornare agli uomini, per paura.
Ma sarebbe inutile.
Le cose sono solo apparentemente le solite cose.
Le cose sono Emilio, i voli del mezzogiorno, le pentole lucenti.
Innumerevoli erano i modi per stare in contatto con lui, e non me ne
lasciavo sfuggire uno.
Graziavo il ragno che fugge dal lavandino, gli davo la vita perché
Emilio vivesse. Spargevo lo spigo perché si levasse un profumo buono,
in onore di Emilio della sua faccia in fondo al pozzo, in fondo al
mondo.
Dimenticalo, presi a dirmi, come a una buona sorella. Egli non ama le
donne. Onora la sua scelta, non pensare a lui.
Qualche cliente protestò con Madame Goullon, che m'avessero
bruscamente tolta dalla circolazione. Ma la maggior parte degli uomini
sembrava indifferente o addirittura sollevata dal mio cambiamento di
mestiere. Non dovevo poi essere stata una grande puttana, nonostante i
miei sforzi; e ne ebbi un po' d'amarezza, anche se questo facilitava
l'intento di rimanere casta.
Fu allora che sentii ridere, dentro di me, e udii per la prima volta
la Voce Puttana, che beffarda diceva, risuonando nei miei cuori:
"A me non la dai a bere... tu vuoi Emilio... la tua castità è il solo
modo per dargliela in eterno."
Il peggio è quando mi sveglio e vado a faccia bassa temendo che Emilio
si veda sul mio volto, ho paura, durante la notte d'averne prese le
sembianze, tanto gli fui vicina accanto al letto, nella casa del
Pellaio che traballa in ogni sogno, e gli dicevo ci sono io, la serva
che da lontano ti manda buoni pensieri... chiuderò a chiave la porta
come quel giorno e caccerò a calci i brutti sogni, perché io sapevo,
fin da bambina che ero chiamata a grandi cose, e questa era dunque la
più grande: consolarti. Mi costa molto sforzo essere insieme al
bordello addormentata, e viva accanto al letto di Emilio. Ma un grande
piacere nutre la mia energia. Dalla sua fronte rasserenata,
liberamente traspaiono i sogni, e trascorro la notte guardandoli.
Emilio è in una casa sul canale, dopo l'amore, stanchissimo e
follemente felice, contro tutti. Il suo amico si addormenta. Egli
porta in sogno al sesso prediletto il suo solare pallore.
Rapita da un angelo, potevo forse ragionare come si ragiona tutti i
giorni? Sentivo i suoni più lontani. E che tormento, mio Dio, le
chiacchiere delle cucine, il nome di Emilio trascinato tra le
cipolle... la cuoca e Damina, a testa bassa, ghignando:
«Finirà accoltellato in un pisciatoio.»
«Oppure, suo padre lo ammazza. Ma una bella fine non la fa, quello
lì...»
Io che tenevo Emilio tra le cose prime, dovetti sopportare i tristi
giochi sul sesso, gli scherzi paurosi e crassi.
Ma, cuoca, tu puoi chiamarlo finocchio e rottoinculo, e se ti aggrada
inventare quei titoli sprezzanti che si rifanno agli ortaggi e alle
immondizie. Ti ascolto. E mentre parli Emilio splende dentro di me
come la stella del mattino.
Canta il gallo.
Al lavoro.
Non mi bastava mai. Le incombenze erano tante, ma io ne chiedevo
ancora, ne imploravo; compivo inutili capolavori di perfezione attorno
a un manico di pentola o a una pietanza.
La mia perfezione rasenta il vizio. La pulizia è una muta costruzione
di splendida pena.
Perfetto, perfetto, perfetto.
Emilio.
Tra le faccende riesco a scappare nel prato quando il sole appare al
sommo del mattino. Allora chiudo gli occhi, entro nella casa di
Emilio, e lo vedo... Suo padre lo tortura, gli nega la libertà. Emilio
stamani si ribellò e suo padre lo percosse.
Sentii il cazzotto del pellaio proprio qui, nell'orecchio, dove aveva
colpito Emilio, e raccolsi tutte le mie forze per assumere il suo
dolore.
Svenni sul prato, abbattuta dal colpo di Diego, e da un segretissimo
piacere. Poter raccogliere la colomba straziata, colare del suo stesso
tiepido sangue.
Piccoli segni mi avvertono quando lui è in difficoltà, il suono
allarmato della pendola, o un fioco nitrito...
Quel giorno d'un tratto lasciai cadere la scopa e restai ferma, per
meglio sentire Emilio che sta cercando di consegnare una lettera al
domestico, senza che veda suo padre, perché la faccia arrivare a
Venezia. Misi tutte le mie forze al servizio della lettera, e seguivo
il domestico nel corridoio, perché non venisse scoperto... Diego!... è
dietro la porta e sta per aprirla... ma la mia volontà è più potente
della sua, e lo trattiene.
La lettera passò.
Ora Emilio, fingendo una calma che gli costerà forse la ragione,
aspetta la risposta.
Arrivò il suonatore ambulante, e io pensavo "mi distrarrò".
Ma Emilio era in tutte le canzoni. Che qui arrivano in ritardo, e
durano di più. Questo è il vantaggio d'essere lontane, non ci
colpiscono le novità, ma son già mille volte che udiamo il "Canto di
Zilpa", e sempre ci lascia stregate di commozione, specie nel finale,
quando dice
"O fratel mio, tal rigido paese
è qui, dentro il mio core.
O amico e difensor, bello e cortese,
io non conosco amore."
Mentre caricavo la legna, il ragazzo del boscaiolo mi diede un bacio.
Ha dei bellissimi baffi a manubrio, molto vantati nel manuale di
Madame, e mette allegria.
E poi è rimasto così, senza sapere che fare.
Gli ho tirato i baffi ridendo, perché un gioco sembrasse il rifiuto.
Ma perché no?» dice.
Io non rispondo. Il ragazzo è stupito: è una giornata così bella. Non
offenderti, io so le meraviglie primaverili delle tue cosce, ma sono
prigioniera del gesto virginale di Emilio. E il non tradirlo mi dà un
così forte piacere che, boscaiolo, non potrebbero darmi tutti i
boscaioli del mondo, coi loro bastoni eretti, e che miseria le loro
vibranti delizie contro il nome solo di Emilio - contro il suo volto
intravisto in paese, quando andai per le compere, dietro la porta
delle Regie Poste... e mi gettai contro il vetro, e rischiai d'essere
travolta da una pariglia, per raggiungerlo. Poi non era lui, m'ero
sbagliata, ma ridevo da sola scarmigliata e come pazza, perché solo
l'aver creduto di vederlo, per un istante portava un terremoto di
gloria tra le cose. Vidi la Posta come il Paradiso. Scintillavano di
corone le vecchie signorine e il lardoso impiegato.
Per qualche tempo il giovane boscaiolo mi venne dietro.
Mentre mi ingegnavo a sfuggirlo, portavo in grembo una tiepida
tenerezza per lui, e per tutte le creature che amano fottere. Avverto
il loro spasimo, e lo benedico. Purché nessuno mi si accosti alla F.
Quella, è affar mio.
(Ma non v'è caso invece che attraverso l'amore, rinasca anche la tua
voglia d'uomo?
No. Attraverso l'amore, cresceva solo l'annullamento di sé.
Sarà colpa vostra, sorelle sante coronate di spighe, sante abbronzate
e severe che fuggono l'uomo, perché guai alle parole. E guai alla
carne, se non è sapiente.)
Soffia Amore, gatto usuraio e minaccia
«Sarà altissimo il prezzo di questo amore.»
Soffia pure, assassino, non ho paura. Io non risparmierò un sospiro io
soffrirò tutto intero questo dolore, finché non diventi un impeto di
gioia. Chiara, mi dicevo dolcemente, Chiara la follia ti viene
incontro carro di fiori lanciato senza destriere, non cercare di
schivarlo. Una volta colpiti, una volta riconosciuto il dio, non resta
che servirlo.
Il lavoro delle mani lascia libera l'invenzione, che si sfrena e
costruisce nel passato i segni di Emilio. Il suo viso entra fin nei
ricordi più remoti. E mentre Madame Goullon pesa carne umana io sono
certa, che gli schiaffi che presi da bambina, perfino quelli, fu solo
perché un giorno l'avrei incontrato, e tutto sarebbe stato
ricompensato.
Senti, come galoppa?
Senti, come striscia?
Chiudi la finestra Damina, senti come canta?
Fare di una F non usata una cattedrale nei cieli.
In un libriccino che portava sempre con sé, Chiara lesse
"Castità, mia lussuria."
Tra i rovi la serva fa una coroncina di spine, se la preme in testa
finché viene il sangue, e si sputa in faccia, che le sta bene.
Quando si mira troppo in alto, quando il gioco è la grande superbia,
così si deve finire. Pazze d'amore mordendo la terra, e piangendo e
urlando perché Chiara non vuole nulla possedere, ma è posseduta.
(Talvolta Chiara pensa a se stessa in terza persona, e una parte della
sua anima riposa.)
Dio, salvami dal sellare il cavallo e correre da Emilio.
Dio salvami dal provare desiderio di lui.
Dio salvami dal non provare desiderio.
Signore, è possibile un amore attraverso tutte le altre cose?
Certe volte l'allusione di lui è così forte che piccoli oggetti morti
vi animate, e la pendola è Emilio e dietro il vetro il vento ha la
faccia di Emilio.
La serva spalanca le finestre, per far entrare Emilio, la bietola
giace nel fuoco...
Chiara, Chiara!... Piange l'amore, Chiara, la causa d'ogni violenta
pena. Chiara libera le lacrime per non affogare. Le marmellate
diventano amare. Per questo tanto fuggire?
Dov'è Sant'Amara?
S'è nascosta negli occhi chiusi di Emilio, che egli non aprirà mai per
te.
Dov'è il mattino? dove sono io che a volte mi cerco come un corpo
cieco, senza nome? e smarrita al mondo mi ritrovo nel taschino di
Emilio a rosicchiare il suo fazzoletto che sa di stoffa e di bocca
d'uomo, sì questo, e allora?
Sono piena d'assenzio. Ironia, addio.
Chiara affoga l'acquavite nell'assoluto, o viceversa, non ricorda,
gira con la bottiglia in mano, gira fino alla collina vomita in testa
a Dio ma quello è svelto, dài che ce la fai dicono le stelle spione,
ma - Dio - tutto sfuma nell'alba, e l'alba ha la bocca di Emilio.
Non soffro a non vederlo. Io lo incontro ogni giorno, mangiando il
pane. Il primo cibo del mondo ci comunica a mezzogiorno, ovunque tu
sia.
Il vento della notte le porta la notizia del suo destino.
Destinata a morire di ridicolo in un bordello, destinata a morire di
felicità.
Che le melanzane siano sontuose! Che la fame si rassicuri, il gusto si
risvegli. E ne venga gioia all'anima.
Chiara, povero somaro a metà nei cieli...
Dio, scontento, ringhia sù per i viottoli.
Ma io ringhio più forte di lui.
Sta morendo Cantilena, una delle sue mille morti. E quel ringhiare
divino le fa tanto male, la disturba, qui, vedi, al fegato, e digli di
tacere... Accanto al suo letto, a voce bassa, prego:
«Zitto, Dio.»
Zitto, piccolo buon Dio, e gli accarezzo il testone di bambino troppo
intelligente, gli carezzo quel cosmico sorriso di avaro, dormi, Dio,
dormi... lasciaci morire in pace.
Quando veniva gente dal paese, come una pettegola correvo alla porta,
e chiedevo notizie, sperando di sentire qualcosa di Emilio.
E mai niente.
Ma io sapevo che l'attesa sarebbe stata lunga, e usavo astuzie per non
morirne. Negata per il sesso, mi scoprivo espertissima nell'amore.
Come un'antica esperienza che affiora, quale sesso? e quale tempo?
Fummo pietre, pesci e venti, io conosco l'arte di tenere tutta la
notte Emilio nel cavo della mano, per riscaldarlo. Non l'ombra, o il
pensiero di Emilio, ma Emilio in persona, che la lenta oca del sogno
trasporta rimpicciolito perché tutto intero possa stare nella mia
mano. Al mattino scompare all'ora che partono i sogni, e l'ultimo è
morire sciogliendomi tra le cose che mi chiamano col mio nome,
"Vieni, Amara, vieni tra noi, dimentica i pericoli del pensiero."
A forza di curiosare senza decoro, venni a sapere che il pellaio gli
stava cercando una fidanzata, magari con un lieve difetto fisico,
cosicché potesse chiudere un occhio sulle tendenze di Emilio.
Seppi, qualche giorno dopo, che l'avevano trovata: sana, ma con due
tremendi occhi da gatta. Me la descrissero e mi parve di vederla, una
paesana rapace pronta a balzare su questo matrimonio d'interesse. Ne
fui, persino, un poco gelosa, ma la compiangevo. Non avrei mai voluto
essere la carceriera di Emilio.
Il pellaio e il padre della ragazza cercavano di affrettare le cose. I
due stupidi padri da uno stupido notaio stendono il contratto di
nozze, come tre vecchi ragni tessendo il triste futuro di Emilio.
Che s'è chiuso in camera e non vuole più mangiare. Il padre, prima ha
insistito, ma ora è lui che non gli manda più il cibo, e seduto
davanti all'arrosto dice voglio vedere chi si stufa prima, lui o io...
La risposta, da Venezia, non giunge. Il suo amico l'avrà dimenticato?
La fame e il dubbio sfiniscono Emilio. Sento il suo respiro, dentro il
mio petto, sempre più debole.
Per aiutare il suo digiuno non mangiavo più nulla. Per nutrirlo della
mia fame mi impedivo perfino di aspirare gli odori della cucina. E
così, insieme a lui resistevo a suo padre.
Il mio cuore era scosso dai battiti disperati del suo, ma sento, che
la sua allegria segreta non è domata. E' per l'allegria di Emilio che
metto amore nella torta, e canto, e sono giusta.
Nel mezzo della mia lotta, la più tardiva e violenta delle primavere
venne d'un tratto con una sarabanda di fiori di pesco e il vento li
portò sù come uno stormo d'uccelli sù fino alle nubi. Poi sembra che
abbia nevicato e la terra si stringe addosso un abito d'amore.
Nella stagione del polline e del ritorno, cosa farò di me?
Avanti, ipocrita, dice la Voce Puttana, ringalluzzita dagli odori,
ficcati dei carboni ardenti!
Zitta.
Zitta.
Ho paura.
La perfetta rinunzia è presunzione diabolica.
Ma, se tu fossi un ragazzo, Chiara, saresti ugualmente così ritrosa?
Stavolta, cara voce, hai ragione: se fossi un ragazzo, sarei ardita
con Emilio. Lo accosterei per la strada, con guanti bastone e
cappello, come si deve. E con un bell'inchino,
"Sono studente, come lei" direi "e forse possiamo fare amicizia..."
Lo farei ridere con una facezia, e...
Emilio mi guarderebbe. Davanti alla sua grazia severa, la mia voce
muore, abbasso gli occhi e rimango lì, col cappello in mano, da vero
sciocco, senza osare mai più.
Lo vedi, voce. Anche da ragazzo sarei troppo timida per Emilio.
Ma dopo questo (fu il momento peggiore), mi sembrò un delitto essere
donna. Avevo un pudore straniero per il mio corpo, che trattavo con
ostilità.
E un poco mi stupisce il mestruo, e mi disgusta il seno. Essere donna
agli occhi di Emilio, mi metteva diffidenza per il mio sesso.
La situazione di Emilio divenne drammatica.
Diego ha fissato le nozze fra pochi giorni, e da Venezia, nessuna
notizia.
Che male, sento in tutti i miei nervi il suo sforzo per non urlare,
sento il fazzoletto che si preme in bocca, orgoglioso, perché in casa
non sappiano che la sua resistenza è allo stremo.
Ma dietro la porta col grasso occhio il padre spia il suo sonno e la
sua veglia... bisogna che Emilio fugga. Due anni fa Diego strangolò
con le sue mani un servo, che aveva disubbidito.
Passai le notti a disegnare l'eroe, perché egli prendesse forma,
perché Emilio uscisse dalla casa di suo padre.
Tramite le zanzare e tutti gli spiriti del buio, io gli mando la mia
forza.
Stavo facendo il bagno nel fiume, quando l'acqua si fermò ed ebbi la
visione:
Diego ha intercettato la risposta dell'amico di Emilio e gliela
sventola in faccia, è fuori di sé, vuole spiegazioni, e lo chiama come
un padre non dovrebbe mai chiamare un figlio, coi nomi che dividono
per sempre.
Emilio non risponde.
Allora il pellaio, esasperato, lo colpì al viso con estrema
violenza... io, tesa, mi preparavo a ricevere la botta...
Ma non sentii niente: il manrovescio si abbatté sul viso di Emilio, ed
egli non ebbe un tremito.
Il disprezzo per suo padre è così forte che lo schiaffo non gli fa
male.
L'eroe è compiuto. Emilio è forte davanti a suo padre. Forte anche
senza di me.
Dunque, forse, ora verrà.
Aspetto frenando la mia emozione, per non far capire al dispettoso
fato quanto l'attesa di Emilio sia l'unico motivo. Dei miei gesti
meccanici, e dei sospiri.
Emilio venne in sogno a farmi visita, e sembrava vero, prego, si
accomodi, grazie... C'era un'aria leggera, come d'antica lezione di
pianoforte. Emilio è allegro, suo padre è morto da tanto tempo... Gli
offrii una tazza di tiglio con molto splendore di merletti ed egli
volle darmi un bacio... vidi, in sogno, la repugnanza di Emilio e
avrei voluto fermarlo; ma è troppo tardi. Già Emilio mi vomita in
testa, un vomito incolore. Chiara ha confidenza coi sogni e sa che
qualcosa in quel vomito maschera la nostalgia del seme di Emilio. Ma
ciò che resta è il disgusto, e si nasconde dietro il pollaio, perché
sente di non potersi mondare e le fa male in tutto il corpo il vomito
di Emilio.
Chiara più non fa resistenza al sogno, che ne morrebbe, ma ad esso si
abbandona come al fratello fiume che ci sbatte qua e là tra giorno e
notte, cosicché le farà meno male.
Disperazione e allegria, esse, uguali, sorelle smorte dell'amore.
Ma... se avessi inventato tutto?
Se egli non fosse che un comune ragazzo e io, la pazza?
Allora, avremmo avuto lui, il figlio del pellaio travestito da Angelo
e io, donna qualsiasi travestita da Santa, l'onore di una sacra
rappresentazione. E dandoci il braccio sull'orlo del vuoto andremmo
giù a capofitto tra le stelle e avremmo fatto assai bene la nostra
parte, in sogno. Lui, con un manto lunare e io, una luminosa bestiola
ai suoi piedi ed egli mi direbbe "non piangere".
Non riuscivo più a entrare in contatto con lui. La sua volontà si era
rafforzata, e mi chiudeva fuori dai suoi pensieri.
Non ne sapevo più nulla.
Dovevo fare qualcosa perché Emilio venisse.
Scelsi la bestiola più selvatica del bosco, un coniglio pezzato di una
superba sveltezza, che non tollerava i passi umani.
Se fossi riuscita a farlo mangiare sulle mie mani, vincendo la sua
paura, anche Emilio si sarebbe accostato a me.
Cercai sulle prime di non farmi temere.
Una lunghissima amicizia guardandolo da lontano, facendogli capire che
entrambi potevamo vivere nello stesso territorio, senza farci danno.
La bestiola restava rintanata, ma cominciò a spiarmi.
Allora io presi a portare con me erbe saporite.
Ma il coniglio era molto diffidente.
Io non simulavo la calma. Ero davvero paziente. Fu questo ad attrarlo:
un giorno, finalmente, si accostò tanto, da mangiare dalle mie mani.
Sentivo le labbra calde e i baffi di Emilio solleticarmi il palmo.
Baciai il coniglio poggiando la bocca sul suo muso umido.
Ora, qualcosa succederà. Corsi al bordello, ad aspettare il miracolo.
Non accadde nulla quella notte.
Ma la luna continuava a salire.
Quando fu alta nel cielo, proprio quando meglio vede Iddio, i pesci
singhiozzarono nel fiume, i voli degli uccelli notturni composero un
solo cerchio e il vento porta odore d'angeli...
Emilio verrà da me, questa notte.
All'orizzonte di cristallo sotto la tagliente luna la mia attesa
disegnava la sua figura... Finché apparve.
Emilio - arrivò Emilio a cavallo, ragazzo inseguito, sulla porta del
bordello saltò giù, e mi fece segno di tacere, come se da tempo
fossimo complici della stessa avventura. Tutte dormivano, il
parlottare sulla porta...
«Nascondi il cavallo, e fammi entrare.»
Per prima cosa volle un bicchiere d'acqua, che era pieno di polvere, e
poi disse che era fuggito di casa. Deve attraversare il bosco, a tutti
i costi. Quella notte.
Di là del bosco, prenderà la ferrovia. Lì un amico lo aspetta.
Ma in casa sono tutti spie di suo padre. Ha scoperto subito la fuga, e
gli sta alle calcagna. Emilio non ha che un'ora di vantaggio.
«Ho bisogno di denaro. Tutto il denaro che puoi rimediare in pochi
istanti.» Amore, signore, tu, alla mercé di una puttana?
lo rivedevo alfine, così disperato da mettersi nelle mie mani.
Potrei denunciarlo a suo padre per soldi, o cercare di chiavarlo, ché
in fondo, Emilio spera a metà d'esser tradito, o almeno deviato dalla
sua meta che per il troppo desiderio, gli fa paura...
E come tutti i fuggitivi, egli è già tanto stanco. A letto ci
verrebbe, per gratitudine, e soprattutto, perché qualcuno benedica il
suo viaggio. Ma se profanassi l'angelo, tutto il mio sforzo
finirebbe... avrei profuso ogni splendore della mia follia per uno
scopo piccolo, e tanto logico.
Lo inciterò ad andare anche se il viaggio è insidioso e non si deve
sfidare il bosco, di notte, e il bandito Ciancalana...
Ciancalana non ha pietà dei viaggiatori che lo sfidano, e si vanta,
d'aver tagliato in vita sua più gole che pagnotte.
Non gli dirò che ho paura, che potrebbero ucciderlo, non gli dirò
Pollicino trema, la tua piccola testa sarà staccata.
Io ti amerò così follemente da farti grazia della mia paura. Emilio
non vuol essere salvato, Emilio vuole andare.
Troverò il denaro. Facendo tacere la Voce Puttana che dice
"Stringilo al petto, ti amerà per debolezza."
Per i soldi, c'era un unico modo: rubarli a Cantilena.
Salii le scale al buio, e trasalivo agli scricchiolìi, come un
assassino. Spero, spero di non doverla trucidare, spero che le basti
il mio sguardo... Se dovesse ostacolarmi, io le fracasserei il collo
come uno stecchino. Guardami bene Cantilena, io non sono la solita
Chiara. Stanotte sono al servizio del mio re.
La vecchia dormiva. Con le forbici che porto sempre alla cintola,
scucii il materasso. Non fu difficile.
I biglietti venivano fuori come nelle fiabe, vomitati dal letto troppo
pieno. Ne presi tanti (credo, una fortuna) e li stipai nel mio
grembiule di serva, con un'eccitazione festosa di bambino criminale...
la mano fredda di Cantilena mi bloccò il polso.
Era lì, e mi guardava con un'ironia più vecchia della sua morte. Mi
preparavo a colpirla, perché credevo che solo con la vita avrebbe
lasciato i denari.
Ma sotto le increspature dell'agonia mi avvidi che Cantilena rideva,
così flebile e acuta come se già nel regno di là, e con un'allegria da
far drizzare i capelli, disse
«Compralo!... mettilo a quattro zampe, fanne il tuo schiavo. Oggi
voglio far festa anch'io... Chiara, per una volta, compriamo un uomo:
ci investo i miei risparmi.»
Con le dita rinsecchite mi metteva in mano altro denaro, e rideva...
come chi sta per morire. Senza ritegno.
Consegnai a Emilio il mio ritratto del giorno delle nozze - l'unico
mio ritratto - nell'astuccio d'argento, e lo pregai di portarlo con
sé, per ricordo.
Poi gli mostrai i soldi. Come un bravo cane che tiene in bocca
l'iridescente fagiano, ero umile e un poco fiera; sembrando una serva
sono però il suo bracco affettuoso che gli salta intorno per una
carezza,
"Padrone!... Tu adesso te ne andrai e mi lascerai, vero, una carezza?
Per l'eternità, una carezza al tuo cane, prima di partire senza di lui
per le cacce più belle."
Emilio, imbarazzato da tutto quel denaro, vorrebbe stringermi a sé,
anche se ho il grembiule da serva. Sento il suo petto che si accosta,
che vuole riposare sul mio, per un istante. Ma ecco dalla valle giunse
il rumore di una cavalcata a briglia sciolta... Diego e i suoi uomini,
già sulla via del bordello... Emilio ebbe solo il tempo di balzare a
cavallo, e buttarsi giù per la discesa...
La carezza... la tua carezza!... (Chiara, il cane, piange.)
L'angelo ripartì incontro al bosco, incontro al crudele Ciancalana e
io foscamente minacciavo Dio che col suo compare Satana ride nei
vecchi cassettoni del bordello, in un delirio di tarli.
Ridi e grattati le pulci vecchio sacco di nulla, dico a Dio, per
intimidirlo.
Penso a Emilio e a Ciancalana, e lotto perché i due pensieri non si
uniscano, facendoli incontrare...
Ma dietro il pretesto della paura, c'è un urlo che va fino al bestiame
stellare. Emilio, non ti vedrò più.
Esiste, sì, un amore diverso dall'amore, un amore che si irradi sulle
cose intorno. Un amore che disprezzi il possesso.
Lo provai alla partenza di Emilio, quella notte.
Esiste. Ma costa la vita. Ma sembra che tutto si spacchi, il tuo cuore
nel petto e le casseruole nella cucina.
Abbaia Dio stanotte su tutta la pianura con le mute dei cani.
Abbaia Dio nel bosco, risvegliando i banditi.
E' feroce stanotte cuccia, cuccia, Dio. Tu hai paura del cuore degli
uomini.
... e, sempre, quel pensiero... se Ciancalana dovesse uccidere Emilio,
egli non avrebbe il tempo di dimenticarmi.
Tu arroti i denti nel buio, ma arroti il coltello di Ciancalana,
Chiara, bevitrice di sangue, stanotte il delitto ti ribolle dentro e
ti spuntano i lunghi denti di tua nonna.
"Perché pensi al sangue? se sei illuminata dall'amore, se sei tutta
rinuncia? Ah, vecchia baldracca, dice la Voce Puttana, tu l'hai
mandato a morire il tuo ganzo," e mille piccole voci dagli angoli
gridano assassina! assassina!
Poi il rumore di molti cavalli, e Diego il Pellaro fracassò la porta
del bordello, alla ricerca di Emilio. Aveva con sé cinque balde
canaglie che se lo acchiappano glielo fanno vedere loro, cos'è un
uomo.
«Voi non foste capaci qui dentro,» sputa «avanzi di troia, di
riportarlo sulla giusta via, quello è più matto di prima, ma...»
E come l'orco che fiuta la carne umana muove il gran naso Diego
l'orco, lo sente che suo figlio è stato qui, sente un gran pulsare di
F nel buio di donne vive e morte che muoiono d'ansia per Emilio.
«Se non è qui, è poco lontano.»
Vogliono rimontare in sella, partire subito all'inseguimento... Emilio
è perduto.
Ma qui, dissi «puttane! Venite fuori e facciamogli vedere che donne
siamo noi, e quanto a Diego, con quel figlio che ha, ci dimostri se
quell'affare esiste ancora, o se gliel'hanno mangiato i topi!»
Diego punto sull'onore lo sfoderò all'istante, e le puttane vennero
fuori (aiuto, sorelle). Diego ne acciuffa due, ma è me che vuole.
Mi gettai a bocca aperta sul suo c... come da un trampolino di stelle,
giù! Ohp, e via, che mi entri fino agli occhi per non vederci più; lo
facevo sì per salvare Emilio da suo padre - ma anche, per passare la
notte - che, quanto giova un'orgia di pieno disgusto, alle pene
d'amore.
Fu il meglio della mia castità.
Bevevo l'untuoso seme di Diego come un agnello sperduto, che non
voglia morire.
Basta, ragazze, dovette dire Diego, che non gli bastava mai.
Ma era l'alba.
Se è riuscito a sfuggire a Ciancalana, Emilio dovrebbe ormai essere
lontano.
Verso il mezzogiorno arrivò la notizia, mentre sfornavo il pane, e la
Nichilina suonava al piano una stinta ballata.
Il contadino, fuori nel sole gesticolava e diceva che quella notte,
Ciancalana aveva ucciso un viaggiatore... con un coltello piantato nel
cuore dopo atti di violenza innominabile e altre cose, che non ha il
coraggio di dire, con tutto che siamo puttane.
Le ragazze corsero tutte giù, come mosche attorno alla morte
circondano il contadino e con le gonne al vento vogliono sapere, lui
alle orecchie dà particolari che fanno fremere... Rimasi al mio posto.
Come un superbo Iddio: potevo fermarlo, e non l'ho fatto.
... dicono che la vittima sia un baro... un giocatore che l'aveva
imbrogliato, e Ciancalana non perdona...
Le ragazze non stanno più nella pelle, davvero un bel romanzo...
Stavolta il contadino è importante come il suonatore ambulante, lo
fanno sedere al fresco, gli danno da bere, e Damina gliela fa
intravedere, purché racconti. Di come Ciancalana la notte scorsa s'è
vendicato del baro... Tutte gliela darebbero, al bandito, perché è
spietato, ma un po' s'innamorano anche del giocatore, che ha sfidato
un assassino, be', ha avuto coraggio...
Ascolto. E so che è tutto falso. Ciancalana non ha ucciso altri che
Emilio. Il baro, l'ha inventato la notizia, passando di bocca in
bocca. Ma il sentore di sangue che viene da ogni parte è il sangue di
Emilio. Non posso sbagliarmi. Stanotte, infissa al palo di Diego ho
diviso la sua passione, il terrore al punto che credo di sapere
ch'egli abbia goduto, anche, un poco e terribilmente... perché lo so?
come quando c'è stata la grandine, dall'odore del mondo.
Fiero dell'interesse suscitato, e per stupire vieppiù il suo pubblico,
il contadino, da ultimo, tirò fuori un astuccio d'argento...
L'astuccio che diedi a Emilio, la notte scorsa... e dice «questo
l'aveva addosso il morto».
Mi gettai su di lui. Gli strappai la scatola, e stringendola al petto,
senza nemmeno guardarla, corsi a nasconderla dietro il pollaio, che
lì, nessuno la trova. Nessuno deve più toccarla, dopo Emilio.
Ansimando, mi fermai.
Emilio è morto.
Dio, me l'hai fatta.
Lo hanno ucciso i cacciatori il suo ragazzo eroe che va nella grande
notte.
Ma una gioia violenta mi fa tremare le ginocchia. Emilio è morto col
mio ritratto sul petto.
E la Voce Puttana, la mia voce, grida
"Tuo. Tuo per sempre".

EPILOGO.

Quando la chiara d'uovo si disfece sul fondo del vaso, solo allora i
ricordi si deposero, quieti, nel fondo del mio essere.
M'avevano assalita tutti insieme, come assassini. Faticai a tornare
alla mia vera condizione. Bevvi un forte bicchiere di vino, e mi
guardai attorno.
E' quasi mezzanotte al casino.
Il martedì grasso volge alla fine. Ancora impazza la quadriglia di
Cantilena, che la dirige sdraiata sul divano muovendo ormai solo due
dita, debolmente.
Le ragazze, chi fa i tarocchi chi s'è ubriacata di vinsanto, la
Nichilina s'abbuffa di dolci e la Goullon dice
«Basta, cocca, ci hai già una trippa!»
Vuole levarle il bigné ma quella afferra tutto il vassoio, e
battagliera dice mi vengano pure due trippe, tanto io sugli uomini ci
sputo, e poi scusi dove sono gli uomini? Non ha capito che non ci sono
più?
La Goullon allora le ficca tre bigné in bocca perché stia zitta,
quelle uscite la fanno fremere... Eh, che sarà mai, perché non sono
venuti a una festa!... Ci si diverte tanto tra donne!
A farsi le confidenze cercandosi i pidocchi finché la bella
pettinatura si disfa e scioglie.
Ma tra loro ruggisce l'attesa del maschio.
Per un maschio darebbero via tutti quei trastulli, purché il maschio
non le disprezzi, come ha fatto stanotte. La prossima volta che
vengono, bisognerebbe far finta di niente, chi, offese? Noi? ma
figuriamoci!
E poi appena soli zac, glielo stacchiamo col falcetto a tutti e sette
quei rinnegati che hanno temuto la neve.
La Goullon s'era messa a sonnecchiare ma d'un tratto saltò su e
agitando le braccia si mise a gridare
«La valanga! La valanga!»
E pulendosi la bava disse, festosa
«Ho fatto un sogno. La valanga li ha trattenuti. Certo, è così, sennò
a quest'ora sarebbero tutti qui con l'uccello in mano, mirando dritti
alla F.»
Noi la guardiamo, stranite. Sappiamo che non c'è stata nessuna
valanga, che quella è neve leggera e impedisce la strada solo ai
vigliacchi, o a chi ha cambiato bordello.
Ma lei testarda pretende che son tutti morti, così imparano quei pezzi
di... nella ricerca dell'ingiuria, si intenerì, e accarezzando i suoi
buoni soldi (i soli che l'abbiano amata, che le scaldino ora la mano
nel grembiule di vecchia economa), la Goullon disse con una vocina di
scolara che confessi alfine la verità, «la colpa è delle mode di
Parigi e delle donne per bene che la danno via a niente» e dice che
vede tempi cupi per le sue anatrelle. Piange.
Ahi, la festa volge al peggio, il cazzo di pan di Spagna s'è
raggrinzito come quello d'un morto. Ma intatta è la torta, e i
coriandoli non si sono lanciati... nella mesta festa sfrenata le
ragazze non toccarono i veri festeggiamenti.
Fino all'ultimo li hanno serbati, fino al bordo della mezzanotte, come
se prima di varcarlo un convitato dovesse venire, uno solo, che meglio
di tutti sarebbe accolto, e per lui avrebbe finalmente un senso la
mascherata, ché invece, così come siamo, le maschere hanno preso le
nostre tristi espressioni, e inutile è tenerle sul viso. Le buttiamo
nel fuoco. Un invitato... Uno solo!
Ma, l'orologio.
Mezzanotte meno uno.
Le ragazze si tapparono le orecchie per non sentire i dodici colpi,
fra un minuto Carnevale è finito, e nulla sarà accaduto.
Dovremo entrare nella Quaresima senza un peccato? Penitenza di
carnevale, che male!
Ed, ecco, come nelle fiabe (che sù, ci piacerebbe a tutti nei momenti
brutti qualcuno che ce la racconta all'orecchio, con la dolcissima
bocca pelosa mutando il reale), un istante prima che scoccasse la
mezzanotte, si udì un armeggiare pesante dietro la porta...
Ci guardammo l'una con l'altra, pregandoci mute di stare ferme, di non
cedere a quest'ultima illusione...
Eppure, qualcuno bussa, colpi maldestri e attutiti, come battuti da
una mano guantata...
Non osiamo più pensare la parola: ma attraverso la finestra appannata
del pianterreno, nel buio traspare con chiarezza l'immagine di
UN UOMO!...
Giolli, che s'era spalmata i capezzoli di crema e li faceva leccare a
tutte, ebbe uno sguardo folle, e fissando la porta disse, solenne
«Tocca a me.»
Andò lentamente ad aprire, movendo i fianchi come se molti signori la
stessero guardando, tutti e molti in frack e tutti disposti a portarla
all'altare, perché la sua F li sa risucchiare come uno spietato
ciclone - e - ehi, là! La Giolli? basta vedere come cammina...
Lo avrebbe fatto drizzare ai morti, tanto che perfino la Cantilena a
vederla camminare così si grattò i cinque peli (ne aveva perso uno
nella quadriglia, e uno nella torta).
Giolli spalancò la porta.
Contro la nera notte, incoronato dalla mezzanotte che finalmente
scoccava, apparve un orso, eretto sulle zampe, più grande di un uomo.
Solo un orso poteva venire al bordello in una notte come questa.
Le ragazze con gridolini gli si affollarono intorno, lo fecero
entrare. Un orso maschio, incrostato di neve, con l'occhio velato, che
cerca il caldo e un rifugio... Un orso ammaestrato, scappato a qualche
ambulante, la museruola gelata sul muso. E' sfinito eppure, sa dare la
mano, sa fare l'inchino...
Il miracolo è accaduto, l'invitato è arrivato.
Ora, la festa! La festa vera. La festa col maschio. Purché la sua
assenza sia colmata.
Per le ragazze esasperate l'orso divenne il centro del Carnevale, e
gli buttarono i coriandoli, e sul muso gli strizzarono la crema della
torta. Lui, stupito, leccava. Il fuoco cominciava a sciogliere la neve
del suo grosso pelo, a rinfrancarlo...
Lui sa stare su due zampe come un vero signorino, non è certo un
animale selvatico. Tutte vogliono ballare con l'orso, lui fa un mezzo
giro, magari Elvira esagera, che con un cucchiaio tra i denti gli
versa l'anisetta... l'orso barcolla, gli gira la testa... ma non c'è
alcun rischio, la museruola imprigiona i forti denti, e si può
esagerare finché si vuole. Sarà un Carnevale memorabile.
Le ragazze, meno Rannusia, gareggiano nel piacere all'orso, di questo
maschio che tutti li rappresenta, nel diventare le favorite; e gli
fanno come farebbero a un uomo, occhiolini e moine.
Ma Giolli sa che l'orso sarà suo. Giolli sa che la grossa preda le
spetta, a tutti i costi vuol essere la prima.
Solo lei gli sa passare la mano sotto il pelo, che l'orso arriccia il
muso e si cheta, e ci starebbe per morto, mentre le sue unghie laccate
gli fanno sentire il terribile solletico...
Per non morire di dolore Giolli ha un solo modo, farne morire
Rannusia. Qualsiasi cosa farebbe per umiliarla, e perfino con l'orso
vuol farla ingelosire, così lo paga il suo scherzo.
Giolli presa dall'odio non sente gli avvertimenti del cuore di
Rannusia che le dice
«Sta' attenta, bambina, non si scherza con gli orsi.»
E forse è anche, Rannusia, gelosa, che la bestia lasciva ha sentito
l'odore di Giolli e impudìca col muso le cerca tra le vesti.
Lei, non solo lo lascia fare ma con la dolce voce ubriaca gli dice
come si fa col cliente dopo, caro, dopo...
E dài, dissero le altre, lascialo un poco anche per noi, le
strapparono l'orso e lo trascinarono nella quadriglia.
E lui, bisognava vedere come se la cavava.
Giolli andò via indispettita, seguita dagli occhi di Rannusia.
Allora le ragazze spinsero avanti la Nichilina, e la incitavano
ridacchiando dài che tu con gli animali sei specialista...
Ma... non con l'orso! a lei piacciono morbidi, domestici, e quel
bestione la intimidisce... anzi, le fa anche un po' schifo quella
bocca ruvida...
Tuttavia, spinta dalle risate, per dimostrarsi all'altezza si sforzava
di farselo amico, ma era goffa e l'orso s'infastidì e confuse.
Al punto, che dopo il giro di ballo, frastornato, si buttò sul tappeto
e non ne volle più sapere.
Le ragazze lo tiravano per le zampe, per i peli... la Goullon disse
«Piano, le bestie sono bestie.»
Ma chi l'ascoltava più. In quella stava facendo il suo ingresso
Giolli, con l'abito da sposa un po' strappato, indossato alla brava,
la coroncina di traverso, e così si presentò all'orso...
Le altre andarono in visibilio. Tra i lazzi celebrarono il matrimonio,
chi è testimone chi damigella, la Nichilina officiava in latino
contadino e la Goullon al pianoforte accorata sonò la marcia nuziale.
La musica ci straziava il cuore ma l'orso era grande: dava la mano
alla sposa, faceva la riverenza, che Cantilena, dal ridere, perse
altri due peli. Attenta Cantilena ne restano solo tre, ma lei
sghignazza e non si frena, lei vuol godere fino in fondo la sua festa.
La sposa trascinò l'orso per le zampe, ben tre volte fecero il giro
del tavolo... mai vi fu festa così animata al casino, mai per un uomo
s'è tanto eccitata Giolli, e solo a ballarci...
L'orso è un po' stanco. Con un dolce ruggito avverte Giolli. Rannusia
e la Goullon, per una volta d'accordo, dicono adesso basta, il bel
gioco dura poco...
Ma il sentore del pericolo fa fremere le bocche e le ragazze vogliono
che Giolli spinga il gioco fino all'eccesso.
Giolli è di nuovo la diva, al centro del salotto con le altre intorno,
e più di mille Ovidi vale far ballare il bestione goloso della sua
F... per stupirle, perché travolgente fosse l'applauso finale Giolli
gli tolse la museruola... tutte si scostarono con un urlo, la Goullon
brandì il bastone e disse a Rannusia
«Fermala, idiota, quella si vuole fare ammazzare.»
Ma Rannusia fece un sorriso, come se fosse chissà dove, ché Giolli non
la ferma nemmeno domineddio, non la vedi come imbocca la bestia con
ghiotti babà che lo fanno inebriare? e lui non è più tanto amabile s'è
troppo eccitato vorrebbe una femmina non più quei balletti e moine...
Ora che non ha più la museruola Giolli si diverte a stuzzicarlo, una
frenesia la prende, che cresce poiché Rannusia la guarda con ansia...
carezza l'orso, sguaiata, finché come una sposa gli porse la bocca,
per baciarlo... Le altre, per l'infiammato scherzo trattengono il
respiro. Lui fiutando si accosta ma, all'ultimo Giolli, come se avesse
avuto davanti davvero Ovidio, con un violento colpo sul naso lo
respinse. Fu lì che l'orso perse la pazienza.
La bonomia della bestia ammaestrata lo lasciò e sul muso, chiamata
dalla follia di Giolli tornò la sua antica natura, e uno spaventevole
mostro selvaggio digrignò i denti e si gettò su di lei, straziandola.
A bastonate a colpi di sedia abbattemmo la bestia.
La buttammo sulla neve, con la testa spaccata, e corremmo da Giolli.
Quattro profonde ferite le attraversano il seno (finalmente bambina,
come volevi si concluse la fiaba, con un bel sangue sull'abito di
nozze). La Goullon ripuliva le ferite e diceva giusto uno sgraffio,
per la fine della Quaresima questa trotta meglio di prima... ce n'è
che va pazzi per le cicatrici d'orso, guarda, qui si vedono
addirittura i denti... pagheranno il doppio.
Ne ho avuta una, col moncherino, che faceva furore.
Fortunata Giolli, sei tornata la sua prediletta.
Rannusia, col suo cazzo di salice e l'acquavite va a chiudersi in
camera borbottando non succede mai una minchia in questo posto di m...
Improvviso il silenzio.
Invece degli uomini, venne finalmente l'alba. Scoprì le candele
incenerite, i cocci dei sogni. Povere cose.
Ma quando la luce raggiunse il divano, rivelò che qualcosa era
finalmente successo, qualcosa aveva concluso il martedì grasso:
Cantilena è morta.
Liscia ha la fica come un sereno viso, senza più peli - caddero tutti
nella festa, li dissipò per godere. Ora, davvero l'attesa è finita.
Le ragazze liberarono nei singhiozzi l'emozione della lunga notte, e
con la scusa di Cantilena si abbandonarono al pianto, chi con la voce
grossa chi con tante lacrime.
Un pianto glorioso accompagnò la morte di Cantilena, ch'ebbe la
fortuna di morire dopo una grande delusione. I lamenti di una regina
si ebbe per merito di sette maschi che perdettero la via, e le sue
orecchie stecchite si beano di quel dolore, come se davvero fosse per
lei.
La Goullon le mise uno specchietto davanti alla bocca, che non si sa
mai: rimase terso. Allora guardò in alto, verso la soffitta... e corse
a impadronirsi dell'eredità che finalmente le appartiene... Ha la
tremarella alle gambe, come prima d'una regale scopata mentre sale le
scale. Sprangò la porta, per rimanere sola col suo piacere. Aveva
pazientato tanto, ma ora non c'era più nessuno tra lei e l'oro di
Cantilena.
Trasse dal bastone l'anima acuminata e partendo all'assalto come
contro i briganti, si avventò a sventrare il materasso e i cuscini.
Una nuvola di piume invase la stanza e il bordello, e lei tentoni
cercava il suo denaro, invano, che non c'è più, lo prese tutto Emilio,
per morire.
Inutilmente la donna tenta d'acchiappare le piume capricciose che il
vento scompiglia, e per le scale le insegue come altri insegue le fole
d'amore; simile a una fanciulla danza la vecchia inseguendo il denaro,
il piccolo dio riccio che la fa tanto sospirare, più cattivo di
Cupìdo, che pure è malvagio... Ahi, denaro!
Uscii nel mattino.
S'era alzato il vento, e tutte le piume spargendosi dalle porte e
dalle finestre volavano per la campagna. A cavallo di una piuma
Cantilena traversa il cielo, come godono le sue gambe magre, libere
nell'aria!... E mi parve - dall'odore di maggiorana e dalla luce che
viene da ogni parte in un esercito d'arcobaleni, - che fossero mille
mattini in questo solo.
L'anima esulta e le guance ho ardenti, come quando si sta lasciando un
grave peso. L'erba e le cose splendono come le piante del paradiso che
non conoscono morte, nei campi lontani il grano mi parla e dice
Amara, Amara, è il tempo di ridere...
Stento a capire ma sento che la cosa è vicina, la cosa sta per
accadere. Tendo il mio essere verso le voci che tutte insieme come un
coro di pazzi angeli dicono...
Cosa?... Ah, non comprendo...
Finché il sole si levò in un finimondo di fuoco e la sua bella faccia
gridò nei cieli
Emilio è vivo!
Caddi con le mani sugli occhi.
Ma subito mi rialzai, barcollando corsi fino al pollaio... di tra lo
sterco e la paglia trassi la scatola d'argento, la sola prova della
sua morte... da quando l'avevo strappata al contadino, non ero più
tornata a guardarla, tanto ero sicura che fosse lui la vittima di
quella notte.
Stringendola al petto andai nel viale, e la pulivo con l'orlo del
grembiule. Finché camminando verso il castagno, la apersi: e dentro
non c'era il mio ritratto... ma un mazzo di carte che il vento arraffò
nell'aria facendole mulinare... le carte del baro, le carte
truccate...
Rimasi ferma come i sassi del viale.
Il contadino diceva il vero. Non fu Emilio che Ciancalana uccise e
forse, proprio mentre la banda massacrava lo sfortunato giocatore,
Emilio vinse la sua mano, e riuscì a passare il bosco: salvo.
Avevo inventato io la sua morte.
Chiara ha compiuto un'esecuzione immaginaria, non sopportava che altri
fosse l'amore di Emilio... fu bella Chiara la commedia della rinuncia,
e intanto covavi la brama atroce, possederlo attraverso la morte.
Sentii Emilio ridere da qualche parte, credo assai lontano.
Come una luna si leva l'anima mia.
Egli vive, e mai sarà mio. Viene il grande momento, la povertà
assoluta: solo ora, spogliandomi d'ogni diritto d'amore, l'amore
m'investe fiume di grazia che infine trascina.
Di nuovo sentii una trafittura al ventre come quand'ero bambina,
sentii vivo il mio sesso, anch'esso partecipava dell'armonia.
Allora mi accorsi che mi stavo lentamente alzando da terra... sotto i
piedi nudi, le margherite fanno un fresco prurito... ancora poco, mi
sono appena sollevata sulle corolle... ma un giorno volerò librandomi
sulla collina.
Il vento mi spinse sopra lo stagno, e specchiandomi vidi sul mio volto
qualcosa simile all'estasi di Sant'Amara, oh - non uguale - simile, al
celeste piacere.
[Ringrazio Italo Zingarelli (autore di cinema, non del vocabolario)
per la realizzazione di questo Romanzo. Lui sa perché.]
zato il vento, e tutte le piume spargendosi dalle porte e
dalle finestre volavano per la campagna. A cavallo di una piuma
Cantilena traversa il cielo, come godono le sue gambe magre, libere
nell'aria!... E mi parve - dall'odore di maggiorana e dalla luce che
viene da ogni parte in un esercito d'arcobaleni, - che fossero mille
mattini in questo solo.
L'anima esulta e le guance ho ardenti, come quando si sta lasciando un
grave peso. L'erba e le cose splendono come le piante del paradiso che
non conoscono morte, nei campi lontani il grano mi parla e dice
Amara, Amara, è il tempo di ridere...
Stento a capire ma sento che la cosa è vicina, la cosa sta per
accadere. Tendo il mio essere verso le voci che tutte insieme come un
coro di pazzi angeli dicono...
Cosa?... Ah, non comprendo...
Finché il sole si levò in un finimondo di fuoco e la sua bella faccia
gridò nei cieli
Emilio è vivo!
Caddi con le mani sugli occhi.
Ma subito mi rialzai, barcollando corsi fino al pollaio... di tra lo
sterco e la paglia trassi la scatola d'argento, la sola prova della
sua morte... da quando l'avevo strappata al contadino, non ero più
tornata a guardarla, tanto ero sicura che fosse lui la vittima di
quella notte.
Stringendola al petto andai nel viale, e la pulivo con l'orlo del
grembiule. Finché camminando verso il castagno, la apersi: e dentro
non c'era il mio ritratto... ma un mazzo di carte che il vento arraffò
nell'aria facendole mulinare... le carte del baro, le carte
truccate...
Rimasi ferma come i sassi del viale.
Il contadino diceva il vero. Non fu Emilio che Ciancalana uccise e
forse, proprio mentre la banda massacrava lo sfortunato giocatore,
Emilio vinse la sua mano, e riuscì a passare il bosco: salvo.
Avevo inventato io la sua morte.
Chiara ha compiuto un'esecuzione immaginaria, non sopportava che altri
fosse l'amore di Emilio... fu bella Chiara la commedia della rinuncia,
e intanto covavi la brama atroce, possederlo attraverso la morte.
Sentii Emilio ridere da qualche parte, credo assai lontano.
Come una luna si leva l'anima mia.
Egli vive, e mai sarà mio. Viene il grande momento, la povertà
assoluta: solo ora, spogliandomi d'ogni diritto d'amore, l'amore
m'investe fiume di grazia che infine trascina.
Di nuovo sentii una trafittura al ventre come quand'ero bambina,
sentii vivo il mio sesso, anch'esso partecipava dell'armonia.
Allora mi accorsi che mi stavo lentamente alzando da terra... sotto i
piedi nudi, le margherite fanno un fresco prurito... ancora poco, mi
sono appena sollevata sulle corolle... ma un giorno volerò librandomi
sulla collina.
Il vento mi spinse sopra lo stagno, e specchiandomi vidi sul mio volto
qualcosa simile all'estasi di Sant'Amara, oh - non uguale - simile, al
celeste piacere.

[Ringrazio Italo Zingarelli (autore di cinema, non del vocabolario)


per la realizzazione di questo Romanzo. Lui sa perché.]

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