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Premessa

La raccolta di saggi che andiamo a presentare ha obiettivi limitati e destinazioni ben definite. Si rivolge infatti ad un pubblico vasto che ha interessi archeologici, ma soprattutto a studenti di archeologia medievale e pi in generale a chi lavora nell'ambito della storia medievale, rendendo facile l'accesso ad articoli e contributi dispersi nelle pi varie sedi e non di rado di difficile reperimento. I contributi, opera sia di storici che di archeologi, di taglio non sempre specialistico, hanno in comune la caratteristica di giungere ad analisi e a considerazioni di carattere generale per la ricostruzione della societ medievale e costituiscono nel loro insieme un territorio di interessi definiti ma allo stesso tempo largamente convergente. Gli archeologi medievali, lavorando in un'area di ricerca ancora molto giovane e per la natura stessa del lavoro archeologicoche catalizza forze fisiche ed intellettuali su aspetti talvolta particolari e comunque generalmente estremamente definiti nello spazio -, hanno teso per lo pi a produrre nuove evidenze e ad elaborare i propri strumenti di analisi piuttosto che a stendere sintesi o interpretazioni complessive. Quando sono stati in grado di elaborare contributi di interesse pi generale, questi, per la limitatezza del raggio di penetrazione dei loro tradizionali mezzi di comunicazione, sono rimasti sepolti in sedi poco note al grande pubblico o, quando lo hanno raggiunto, non sono sempre stati all'altezza del compito. Con questa raccolta, che pure seleziona drasticamente, per ovvi motivi di spazio, si vuole evidenziare, attraverso le parole degli stessi protagonisti della ricerca, il ruolo che pu e deve avere l'indagine archeologica per allargare e approfondire i temi di una storiografia che sempre pi attenta e finalizzata a ricostruzioni della societ preindustriale non pi selezionando attraverso scale di valori precostituiti. Se vero che ancora oggi molte delle ricerche archeologiche e molti scavi hanno il carattere dell'occasionalit e la loro distribuzione nelle diverse aree della penisola indipendente da un quadro di programmazione generale, altrettanto vero che dietro non poche iniziative di ricerca sul campo si nota un'impostazione strategica a cui le domande storiografiche non sono certo assenti. E comunque i dati acquisiti sono ormai tanti e nuovi. Oggi inizia ad essere possibile immaginarsi di "riscrivere" la storia sulla base anche di quanto prodotto dalla ricerca sul campo e sui materiali conservati nei musei in poco pi di venti anni, da quando cio l'indagine nel settore ha iniziato a procedere con una accelerazione notevole. In alcuni settori della ricerca storica o, per meglio dire, per alcuni periodi definiti il contributo della ricerca archeologica ha sempre rappresentato e costituito un punto di riferimento, basti pensare all'archeologia longobarda e pi in generale all'archeologia altomedievale; in altri settori e per altre epoche, come anche per la storia urbana, il contributo della ricerca archeologica viceversa si fermava alle fasi classiche e a quelle che comunque potevano presentare aspetti monumentali. La storia dell'insediamento medievale stato campo di indagine talvolta estremamente incisivo di soli storici; al proposito il richiamo alle opere di Elio Conti sul contado fiorentino e di Pierre Toubert sul Lazio d'obbligo, come la stessa ricostruzione della maglia degli scambi commerciali era affidata alle sole fonti scritte; rimanevano ignorati non solo aspetti fondamentali della produzione di beni di consumo come la ceramica, il vetro e tutti i processi tecnologici legati a questi come ad altri aspetti, ma la stessa risorsa di messaggio e la valenza documentaria che questi materiali hanno. I singoli saggi che qui si pubblicano affrontano alcuni dei problemi appena accennati facendo in ogni caso un ricorso organico alla fonte archeologica, superando il limite di una sterile polemica, che fortunatamente pare avere poche radici nell'esperienza italiana, almeno per il Medioevo, polemica che ha visto oziose contrapposizioni fra storici ed archeologi. Gli uni e gli altri infatti sono "produttori" di "evidenze", gli uni non possono fare a meno del "documento" prodotto dagli altri come delle rispettive problematiche: esiste in sostanza, il problema della ricostruzione di una

societ che ha lasciato diversi tipi di testimonianze: si tratta di capire e di cogliere il valore del "campione"documentario - sia esso fonte scritta o materiale - su cui stiamo lavorando, confrontarlo, integrarlo e spiegarlo. Vi sono tendenze oggettive e soggettive alla "riduzione" del lavoro archeologico all'antiquaria e alla mera classificazione descrittivistica, come pub esistere l'attitudine alla semplice "edizione" e "traduzione" del documento scritto: I'interpretazione dei fatti, che costituisce il mezzo per fare avanzare e arricchire le problematiche di ricerca, impegno degli archeologi in un confronto sistematico con la documentazione scritta e la problematica storica, ma altrettanto imprescindibile per gli storici non rinunziare alla risorsa costituita dall'evidenza e dalla problematica archeologica. In questo senso i saggi raccolti in questo volume, seppure diversi fra loro, sono a mio avviso esemplari perch vi si coglie generalmente il tentativo di elaborare interpretazioni senza selezionare tipi di informazioni disponibili e d'altra parte gli autori riescono ad indicare prospettive di ricerca, ponendo nuove domande e nuovi problemi. L'acquisizione di nuove informazioni e la costruzione di nuovi "documenti" potr mutare il quadro che in alcuni di essi si iniziato a delineare, ma rimane sostanzialmente fermo, se non altro, il dato fortemente positivo dell'uso intrecciato delle diverse tecniche di ricerca. Il dibattito su queste tematiche, iniziato utilmente un quindicennio fa sulle pagine di "Quaderni Storici" e quindi proseguito e per certi aspetti allargato sulle pagine di "Archeologia Medievale", inizia a dare i suoi primi frutti, anche se fra storici, geografi e archeologi non sono mancati e non mancano momenti di incomprensione e di confronto anche severo, da cui per altro tutti possono uscire arricchiti. I limiti di una selezione di contributi che affronta prevalentemente i problemi accennati sono evidenti non solo sul tema in questione del rapporto storia-archeologia, ma soprattutto perch sono sostanzialmente elusi tutti i problemi di quel largo spazio costituito dalla specificit metodologica dell'archeologia medievale, che rappresenta un momento non secondario della ricerca, trovando fra l'altro vastissimi territori comuni non solo con tutte le altre archeologie (preistorica, classica e postmedievale), ma anche con le scienze naturali, il restauro dei monumenti e in generale con le discipline che investono lo studio, la valorizzazione e la tutela della sedimentazione storica. Verso gli autori dei saggi il curatore della raccolta ha un debito di riconoscenza particolare, non solo perch hanno gentilmente espresso la disponibilit alla ristampa dei loro lavori, apportando a volte modifiche, correzioni e aggiornamenti o "subendo" alcuni ritocchi, ma per la piena collaborazione data in fase di composizione del volume, che in alcuni casi, come ad esempio nei saggi di 0. von Hessen, di C. La Rocca e P. Hudson e di R. Hodges, li ha spinti a fornire una traduzione di testi usciti recentemente in altri paesi, offrendo la possibilit di accedere a contributi inediti in Italia. stato pi volte ricordato che paragonata alle altre archeologie, I'archeologia medievale appare ancora ad uno stato di "infanzia", giacch possiamo far risalire la "fondazione" di questa disciplina come scienza storica agli inizi degli anni Sessanta. Fu infatti Gian Piero Bognetti che in un articolo comparso nel 1964 su I rapporti pratici tra storia e archeologia pose con forza il problema del rapporto organico fra le due aree di ricerca sottolineando fin dall'apertura del saggio che I'operare dell'archeologo presuppone un corredo talvolta assai raffinato di nozioni storiche e aggiungeva che . di per s, un problema "storico" quello che spinge all'indagine archeologica; ed la consapevolezza storica che fornisce, nella pi parte dei casi, i principali criteri per la valutazione di quanto viene scoperto dall'archeologo. 1 E Bognetti parlava facendo riferimento ad una esperienza che lo aveva visto protagonista: egli infatti, che gi fra le due guerre aveva individuato i resti di Castelseprio (Varese), la cui rilevanza per la conoscenza dell'Altomedioevo divenuta paradigmatica, si era fatto promotore di campagne di scavo nel sito dell'insediamento medievale
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In Tecnica e diritto nei problemi dell'odierna archeologia, Roma (CNR) 1964, PP. 169-76.

utilizzando una quipe di archeologi dell'"Istituto di Storia della Cultura Materiale" 2 e aveva intrapreso, con lo stesso gruppo di studiosi, le ricerche sulle origini di Venezia impiantando un cantiere a Torcello 3 Contemporaneamente si diffondeva e si allargava il dibattito sull'archeologia nell'ambito del "Centro italiano di studi sull'Alto Medioevo" di Spoleto e, sotto i suoi auspici, vennero intrapresi gli scavi sull'insediamento altomedievale di Invillino 4 (Udine) diretti da Joachim Werner, lo studioso che gi da tempo era noto in Italia per essere stato l'editore con il Fuchs5 di materiali prevalentemente longobardi rinvenuti a partire dall'inizio del XIX secolo 6. Sempre alla met degli anni Sessanta datano la prima istituzione di una cattedra di archeologia medievale nelle universit italiane e la fondazione del "Museo dell'Altomedioevo" a Roma 7, che si costituiva riunendo i materiali provenienti dagli scavi di fine Ottocento e primi Novecento delle necropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino e accogliendo viceversa soltanto pochi materiali altomedievali laziali. In sostanza in questi anni si andava legittimando e consolidando l'uso della ricerca archeologica per l'Altomedioevo, seguendo un percorso che saldava in qualche modo la tradizione archeologica tardo antica e quella della ricerca protostorica mitteleuropea con la storia. Nello stesso tempo, sotto la spinta di una storiografia medievale italiana che si andava rinnovando soprattutto grazie al ruolo propulsivo della scuola delle "Annales", si impiantavano una serie di indagini sul terreno che travalicavano i confini di una periodizzazione che concludeva il ruolo

M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Castelseprio: scavi diagnostici 1962-63, "Sibrium", XIV (1978-79), PP.1-138, al quale si rinvia per la bibliografia. 3 L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62 , Roma (Istituto Nazionale dell'Archeologia e Storia dell'Arte, monografie III) 1977.

Cfr. G. Fingerlin, J. Garbsh, J. Werner, Gli scavi nel castello longobardo di Ibligo lnvillino (Friuli). Relazione preliminare delle campagne del 1962, 1963 e 1965, "Aquileia nostra", XXXIX (1963), PP.85-135, gli scavi ripresi nel 1972 e 1973 sono stati pubblicati preliminarmente sulla stessa rivista nel 1973 da V. Brierbauer, mentre l'edizione definitiva ancora in corso di stampa.
S. Fuchs, J. Werner, Die longobardische Fibeln aus Italien, Berlin 1950. Uno dei maggiori rinvenimenti di materiali fu ottenuto infatti, nel tentativo di individuare l'abitato romano alle porte di Cividale, fra il 1817 e il 1826 quando il religioso Michele della Torre fece emergere una grande necropoli romana fra le cui tombe si trovavano anche numerose inumazioni con corredo costituito da oggetti preziosissimi, in oro, bronzo dorato, in gioie benissimo conservate e tutte con appiccicagnolo di imperatori greci, le quali usavano partare al collo, che l'erudito riteneva appartenere ad un cimitero costituito al momento di una battaglia fra Goti e Bizantini, mentre si sarebbe scoperto soltanto successivamente che si trattava invece delle tombe dei longobardi della prima generazione giunta in Italia al seguito di Alboino. Dopo la scoperta di tale celebre necropoli - cfr. fra l'altro M. Brozzi, Il sepolcreto longobardo "Cella": una importante scoperta archeologica di Michele della Torre alla luce dei suoi manoscritti, "Forum lulii", I (1977), PP. 22-62 - nel corso dell'Ottocento, e segnatamente nella seconda met del secolo, si infittiscono le notizie di rinvenimenti e scavi di necropoli appartenenti all'epoca longobarda. Ma sar soltanto fra il 1893 e 1898 che archeologi professionisti (sebbene non medievalisti) scaveranno le due pi note e vaste necropoli dell'Italia centrale, quelle di Nocera Umbra e Castel Trosino. Da questo momento i ricchi corredi delle popolazioni germaniche catalizzano l'interesse degli archeologi, un interesse che sar di tipo antiquariale e/o "ideologico" e soltanto pi recentemente diverr interesse puramente scientifico in un contesto di rapporto fra "culture" (cfr. Germani e Romani, a cura di V. Brierbrauer e C. G. Mor Bologna 1986). In sostanza con l'edizione delle due necropoli di Nocera e Castel Trosino, rispettivamente nel 1919 e nel 1902, nasce quell'archeologia longobarda, che, all'indomani delle ricerche dello svedese Salin (1904), diventeranno ben presto terreno di ricerca privilegiato di studiosi di stirpe germanica quali Aberg, Fuchs, Werner e von Hessen, cui va il merito di una sistemazione complessiva dei materiali che sempre pi numerosi, e disordinatamente in molti casi, entreranno nelle collezioni dei musei italiani (ma anche stranieri, per opera dei clandestini, ed il caso di Chiusi esemplare), dopo essere emersi nel corso di scavi operanti da archeologi nostrani, i cui studi rimarranno per altro marginali rispetto alla consolidata ed egemone tradizione tedesca: il Galli, editore dei materiali chiusini e vivace operatore nell'ambito fiesolano, ne un tipico esempio. Ma per una storia degli studi nel campo dell'archeologia longobarda, ancora da definire analiticamente, si rinvia al primo capitolo del volume di A. Melucco Vaccaro, I longobardi in Italia, Milano 1982.
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Per le problematiche inerenti il museo in questione si rinvia agli ampli contributi di A. Melucco Vaccaro e L. Paroli che aprono il X numero di "Archeologia Medievale".

dell'archeologia con l'" origine" del romanico8 e l'inizio di una documentazione scritta relativamente ricca, aprendo la strada per affrontare i temi legati alle vicende dell'insediamento e al rapporto uomo-ambiente, e per studiare i fondamenti materiali delle strutture sociali allargando l'orizzonte della ricerca storica e liberando in una certa misura la storia sociale dalla sua dipendenza dalla storia economica9. La dilatazione cronologica dell'indagine archeologica ha posto sul tappeto della ricerca oltre che, come abbiamo appena detto, il problema di un confronto pi serrato con la documentazione scritta e quindi con problematiche storiografiche pi mature e complesse, anche quello del rapporto con una tradizione antiquaria di radici profonde10 . In particolare si posto il problema del "recupero" della cultura neogotica, che alla fine del secolo scorso e nei primi decenni di questo aveva avuto un grandissimo peso nello studio dei monumenti medievali e negli stessi centri abitati,11 con il collezionismo di origine ottocentesca che, ad opera soprattutto di anglosassoni e tedeschi, aveva fornito materiali ceramici e gli "incunaboli" della maiolica italiana ai musei pubblici e privati di molti paesi europei12, e pi in generale con la tradizione positivistica, le cui acquisizioni, e ci basti pensare alle esperienze di Boni e di Pigorini13 o agli studi storico-archeologici sull'attivit estrattiva della seconda met dell'Ottocento14, potevano essere utilizzate e ricollocate in un quadro di riferimento molto pi maturo e in grado di ridefinirle come documenti di maggior significato. Nel quadro di "allargamento" tematico e cronologico della ricerca archeologica postclassica assumono un ruolo non secondario anche gli scavi e le indagini di superficie promossi in Italia dalla British School di Roma, diretta prima da J. Ward Perkins e quindi da D. Whitehouse, che concentra Di questa opinione, poi parzialmente rivista, era M. Cagiano de Azevedo, Lo studio dell'archeologia medievale in Italia, in Atti del 11 Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, Matera 25-31 maggio 1969, Roma 1971, PP. 9-17.
Si veda quanto scriveva G. Duby ( Le societ medievali , Torino 1985, P. 103 S.) a proposito dell'archeologia medievale agli inizi degli anni Settanta. 10 Basti fare riferimento al Muratori e ai suoi "continuatori" sparsi in molte delle regioni italiane, e per quanto riguarda la Toscana d'obbligo il riferimento ad opere come i Viaggi del Targioni Tozzetti, dove cultura umanistica e osservazione scientifica sono inestricabilmente congiunte, o come il Dizionario storico e topografico, di Emanuele Repetti che sono i pi espliciti esempi di quella cultura, e che a tuttoggi rimangono base documentaria e punto di partenza di non pochi studi storico topografici ed archeologici. 11 In questo quadro il gusto "archeologico" ed il desiderio del pittoresco inizi ad investire i monumenti medievali ed in particolare quelli gotici, sotto la spinta della cultura transalpina, soprattutto nell'Italia settentrionale ed in Piemonte in particolare, dove l'ispirazione seottiana faceva porre al centro di non poca produzione di romanzi il paesaggio del rudere e del eastello fino dal primo Ottocento, e dove lavorer il d'Andrade, il cui operare originalmente sulle orme di Viollet le Duc, influenzer la cultura restaurativa italiana ben oltre Boito. Per un esaustivo quadro del gusto "archeologico" Ottocentesco si vedano le belle pagine introduttive di A. A. Settia, Castelli e villaggi nelItalia padana, Napoli 1984. 12 Manca fino ad ora una storia del collezionismo e dell'erudizione antiquaria relativa al materiale medievale quindi impossibile valutare con precisione il ruolo svolto da personaggi quali Fortnum, Wallis, Bode, Langton Douglas accanto ai nostri Funghini, Argnani, Passeri, Campori, Malagola, Urbani di Gheltof. Numerosi riferimenti a quanto elaborato a cavallo fra Ottocento e Novecento da questa generazione di studiosi, che ha costruito le basi per una storia della ceramica che generalmente non parte prima della comparsa della maiolica arcaica, sono contenuti nelle pi recenti ricerche che si vanno pubblicando sempre pi numerose a livello regionale e locale. Il disinteresse generalmente constatabile fino agli inizi degli anni Sessanta verso quelle classi ceramiche che definiamo acrome, verso cio la ceramica di uso comune non decorata, ha privato per la ricerca di strumenti di grande utilit per i secoli centrali e per l'Altomedioevo, un'area dove la ceramica ancor oggi difficilmente utilizzabile come "fossile guida". 13 Sul problema si veda D. Manacorda, Cento anni di ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul metodo , "Quaderni di Storia", 16 (1982), pp. 85-119. 14 Si fa riferimento in particolare ai lavori di L. Simonin sull'attivit estrattiva, il lavoro metallurgico e sugli statuti minerari di Massa Marittima e pi in generale della Toscana pubblicati negli anni 1858-1859 sulle "Annales des Mines", temi che troveranno momenti di approfondimento nei lavori dell'Haupt e del Lotti. Tali indagini minerarie che hanno paralleli cultori in varie parti d'Italia, continueranno ad essere fertile terreno di ricerca per gli archeologi ed in particolare degli etruscologi che sulla rivista "Studi etruschi", daranno, fra la fine degli anni Venti e i primi anni Cinquanta, ampio margine all'argomento grazie soprattutto all'interesse di Minto, il quale, per altro, mostra una chiara tendenza ad appiattire sull'epoca preromana ogni forma di attivit estrattiva con caratteristiche preindustriali.
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la sua attenzione sui villaggi abbandonati del meridione e dell'area laziale15, mentre sempre a ricercatori anglosassoni si devono le prime sistemazioni dei materiali ceramici provenienti sia da raccolte che da ricerche sul campo, ricerche che trovano spazio nei papers di quella istituzione16. Ma la "British School at Rome", non opera isolata, seppure costituisce il centro di ricerca straniero che forse pi profondamente influenza e coopera con istituti e studiosi italiani, infatti l"'Ecole Franaise de Rome" svolge anch'essa un'intensa attivit su insediamenti rurali siciliani17, mentre 1'Universit di Salerno, raccogliendo l'eredit di Bognetti, promuove in collaborazione con gli archeologi dell'"Istituto di storia della cultura materiale" di Varsavia una sistematica indagine sull'area della citt abbandonata di Capaccio vecchia in Campania18. In tutti i casi che abbiamo ricordato i cantieri di scavo divengono centri di formazione e di dibattito per storici ed archeologi. Non di minor rilievo per altro ha rivestito quanto si andava contestualmente elaborando all'interno di alcuni gruppi di ricerca regionali: il "Gruppo ligure di ricerca sulle sedi abbandonate che vedeva uniti storici, geografi, archeologi e naturalisti (Massimo Quaini, Diego Moreno, Tiziano Mannoni)19, affronta il problema della morfologia dell'insediamento con un approccio interdisciplinare del tutto inedito nel caso italiano ed elabora strumenti di analisi e di datazione nuovi, muovendosi su un'area estesa e per certi versi omogenea. La Liguria infatti la prima regione che si dota di uno strumento come la tipologia delle ceramiche postclassiche e preindustriali, facendo un uso ottimale anche dell'esperienza che si era andata consumando con l'insegnamento di Nino Lamboglia. Tiziano Mannoni elabora la classificazione delle ceramiche liguri, guardando a questo tipo di manufatto con un'ottica che non si limita all'utilizzazione di un "fossile guida", la cui definizione comunque tutt'altro che agevole, ma ad uno strumento di analisi di contesti sociali, di funzioni, di tecnologie produttive e spia di contatti economici fra le diverse aree mediterranee 20.
I risultati del lavoro pluriennale della scuola britannica sono stati pubblicati da T. W. Potter, The Changing Landscape of South Etruria, London 1979 (trad. it. Storia del paesaggio dell'Etruria meridionale. Archeologia e trasformazioni del territorio, Roma 1985), a cui si rinvia anche per una sintesi storica delle ricerche e delle metodologie utilizzate, che cos marcatamente segnano la ricerca sul campo in questo settore, tanto da costituire oggi un modello di riferimento alternativo alla consolidata metodologia che sta alla base dei volumi editi nella collana Forma Italiae.
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Non vi infatti alcun dubbio che il saggio di D. Whitehouse, The medieval glazed pottery of Lazio, "Papers of the British School at Rome", XXXV (1967), pp. 40-86, che segue di due anni un breve saggio dedicato all'argomento sulla rivista "Medieval Archaeology" e di un solo anno un altro saggio dedicato alla ceramica dell'Italia centrale e meridionale edito nella stessa sede, rappresenta il punto di partenza di una ceramologia che si pone come strumento essenziale per una ricerca archeologica che sta muovendo ancora i primi difficili passi, tanto che, nonostante l'approccio metodologicamente corretto, la datazione imprecisa del cosiddetto "Forum Ware" condizioner negativamente l'interpretazione dei dati che emergevano dalla ricerca di superficie nell'area laziale, dove il problema dell'incastellamento, diveniva tema di confronto concreto fra storici ed archeologi.
17 Sull'impostazione di lavoro dei ricercatori legati a questa istituzione si veda AA.VV., Il gruppo di ricerche in antropologia medievale (Parigi): un approccio interdisciplinare del basso medioevo rurale dell'Europa occidentale, "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 337-54 e quanto in pi occasioni elaborato da G. Noy. Mentre l'edizione dello scavo Brucato. Histoire et archologie d'un habitat mdival en Sicile, a cura di J. M. Pesez, vol. 2, Roma 1984 un caso felice di pubblicazione integrale di uno scavo condotto, fra non poche difficolt, nei primi anni Settanta dove si coniugato storia ed archeologia sino dall'inizio.

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Si vedano al proposito i due volumi AA.VV., Caputaquis Medievale , I e II, rispettivamente Salerno 1975 e Napoli 1984. 19 Un approccio interdisciplinare allo studio delle sedi abbandonate in Liguria, Genova 1971 che la pi matura risposta italiana, rimasta sostanzialmente isolata, ad una tematica che in Europa aveva prodotto una vasta letteratura ed evidenziato il ruolo dell'archeologia nello studio della dinamica insediativa. 20 T. Mannoni, La ceramica medievale a Genova e nella Liguria, la cui sintesi riportata tra i saggi pubblicati nel presente volume, ha fra l'altro evidenziato l'impossibilit di muoversi su scale diverse, per il Medioevo, da quella regionale se non subregionale.

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In altre regioni il lavoro archeologico si andava catalizzando all'interno di istituti di storia medievale o intorno a cantieri di scavo dove la correttezza dei direttori permetteva di prestare attenzione ai livelli di vita successivi alle fasi classiche; al proposito si potrebbero indicare gli istituti di storia delle universit di Firenze, Palermo, Pisa, Salerno e Roma e lo scavo di Luni21. Sebbene non in forma omogenea, la ricerca archeologica di ambito postclassico agli inizi degli anni Settanta stava prendendo consistenza con l'apporto e il contributo determinante degli storici: da Gina Fasoli a Elio Conti, da Carmelo Trasselli a Nicola Cilento e Paolo Delogu, l'unico, quest'ultimo, che abbia anche scelto la pratica dell'archeologia riuscendo a produrre non solo linee originali di ricerca, ma anche critiche ed incisive pagine sulla storia della disciplina, mentre l'unico docente di archeologia medievale, Cagiano di Azevedo, pressato dalla spinta "spontaneista" dei gruppi di ricerca regionali che gi operavano sul campo con nuove strategie e generalmente con punti di riferimento extranazionali, non si stancava di compiere opera di collegamento anche con gli storici, orientando temi di dibattito soprattutto nell'ambito del centro di studi spoletino. Datano sempre agli inizi degli anni Settanta alcuni episodi che mar22cano in modo sostanziale l'orientamento prevalente dell'archeologia medievale in Italia: i dibattiti suscitati dal n. 24 del 1973 dei "Quaderni Storici", dedicato al tema Archeologia e geografia del popolamento, e dal n. 31 del 1976 della stessa rivista incentrato sulla cultura materiale23, la comparsa del primo numero della rivista "Archeologia Medievale" nel 1974, nata sostanzialmente dall'incontro delle esperienze condotte in Liguria ed in Toscana24,1'organizzazione del Colloquio Internazionale di Archeologia Medievale di Palermo-Erice 25 ed infine la Tavola rotonda sull'archeologia medievale , promossa dall"'lstituto nazionale di archeologia e storia dell'arte26 segnano definitivamente la fase di
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Cfr. Scavi di Luni II . Relazione delle campagne di scavo 1972, 1973, 1974, a cura di A. Frova, Roma 1977, dove compaiono studi sulle indagini relative alle fasi e ai materiali postclassici di B. Ward Perkins, H. Blake e S. Lusuardi Siena.

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In entrambi i numeri della rivista in questione i singoli saggi sono introdotti da un contributo, autori rispettivamente Massimo Quaini e lo stesso Quaini con Diego Moreno che costituiscono ancor oggi un punto di partenza teorico importante per la ricerca archeologica postclassica, nonostante che si sia notato gi da allora come fossero presenti spunti di una tendenza a cercare "scorciatoie" nella costruzione del documento archeologico. Si trattava di un'insofferenza giustificata dal faticoso e lungo processo analitico sui materiali che talvolta esaurisce l'energia di chi opera sul campo. Ma il significato pi rilevante dei due contributi sta nell'aver posto le basi per una definizione di una pratica di ricerca, che, nonostante le oggettive specificit archeologiche, si pone come momento di ricomposizione di settorializzazioni disciplinari per una storia delle "culture" postclassiche e preindustriali.
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Al gruppo ligure si deve l'inizio della pubblicazione del "Notiziario di Archeologia Medievale" a partire dal settembre del 1971, che, con il GRAM (Gruppo ricerche archeologia Medievale Palermo) di breve vita (1971-72), ha costituito uno strumento di informazione rapido relativamente a iniziative di scavi, incontri e notizie bibliografiche: un ruolo che continua a svolgere tuttora. Mentre nel gruppo toscano si stava sviluppando proprio in quel periodo un interesse archeologico verso i problemi dell'insediamento incastellato e si stavano muovendo i primi passi per la costruzione delle cronologie ceramiche in un rapporto proficuo con la "Soprintendenza all'antichit d'Etruria" diretta da Guglielmo Maetzke. 25 Vol. 2, Palermo 1976. 26 Roma 1976, in questa sede si trova un saggio di grande respiro dove Toubert ha affrontato con chiarezza il tema dei rapporti fra documentazione scritta e dati archeologici non senza rivendicare un'assoluta separazione fra storici ed archeologi, portando l'esempio dei castelli che rimangono campo di azione comune quando si tratta di vita materiale abitato ecc. e, viceversa, dei soli storici quando si parla in termini di "signoria di castello" (p. 31), una posizione che a distanza di circa un decennio, concludendo il convegno cuneese del 1981 sui castelli, Toubert pare aver notevolmente attenuato, e, viceversa, il prodotto del lavoro archeologico gli appare sempre pi uno strumento integrato ed essenziale per la ricostruzione storica complessiva (Castelli. Storia e Archeologia, a cura di R. Comba e A. A. Settia, Torino 1984, pp. 403-7).

un'"autonomia" disciplinare che a livello istituzionale si trasforma in un incremento consistente di insegnamenti universitari e alla messa in moto del meccanismo che porter all'introduzione, agli inizi degli anni Ottanta, degli ispettori medievisti all'interno degli organi della tutela archeologica, mentre a livello di ricerca sanciscono nel confronto con la storia il terreno privilegiato su cui impostare la propria strategia. L'archeologia medievale nasceva e si muoveva quindi libera dalle ipoteche che potevano provenire dalla tradizione antiquaria e lontana dalla tradizione storico artistica e dell'archeologia classica. Ma stato proprio il rapporto stretto fra la domanda storiografica tesa a risolvere i problemi delle dinamiche insediative di epoche caratterizzate anche da strutture precarie, che lasciano poche tracce sul terreno, e pi in generale delle dinamiche sociali ed economiche a spingere verso elaborazioni di tecniche di indagine che, sul piano del metodo, si sono potute collocare all'avanguardia in particolare nell'ambito della ricerca sul campo nel contesto delle archeologie, rompendo la tradizionale dicotomia fra scienze "umanistiche" e scienze "naturali"27.E in questo senso si parlato di una "filiazione" e di una vicinanza fra l'archeologia medievale e la preistoria. Le edizioni, ancora non numerosissime, degli scavi postclassici infatti presentano solitamente sezioni paleoecologiche, dove si evidenzia l'attenzione posta ai problemi delle trasformazioni ambientali attraverso la registrazione sistematica delle informazioni di carattere naturalistico: pollini, resti osteologici, materiali organici in generale che non sempre erano valutati come possibili indici di assetti pregressi, come pure sistematiche analisi mineralogiche di impasti ceramici per l'individuazione delle aree di provenienza dei materiali da mensa e da trasporto 28. Gli stessi metodi dellarcheologia estensiva hanno avuto, attraverso le indagini di superficie condotte in Liguria dal Mannoni, momenti di notevole approfondimento29 e la stessa indagine stratigrafica stata generalmente e dall'inizio il minimo comun denominatore degli interventi intensivi, dei cantieri di scavo postclassici, con rare e definite eccezioni. In questo senso ha pesato non poco, in positivo, il ruolo svolto ancora una volta dalle scuole straniere, ed in particolare da quella inglese, il cui impegno, seppure ancor oggi consistente in ambito postclassico, appare fortemente ridimensionato, ancorch estremamente vitale e stimolante. La funzione trainante dell'archeologia medievale nel qualificare i problemi di metodo nella ricerca ha contribuito in modo incisivo ad aprire un fruttuoso dibattito all'interno dell'intera archeologia italiana. stato infatti recentemente notato che nel lanciare la sua crociata contro la tradizione aulica dell'archeologia classica italiana, Andrea Carandini si accorgeva di esser stato preceduto, nella parte propositiva, da quei pochi e ancor poco noti archeologi medievisti che pubblicavano una rivista giunta al secondo numero30. In realt l'esperienza che era andata maturando all'interno della ricerca di Carandini e della sua quipe aveva una storia notevolmente simile, almeno per l'aspetto dell'indagine sul campo (rapporti da un lato con Nino Lamboglia e dall'altro con la missione inglese a Cartagine), a quella dei gruppi regionali dove la ricerca archeologica postclassica, nonostante il rapporto che abbiamo visto anche con altre tradizioni, aveva attinto a piene mani soprattutto indicativo al proposito che uno dei primi ed originali interventi sulle analisi stratigrafiche sia stato elaborato da T. Mannoni, Sui metodi dello scavo archeologico nella Liguria montana. (Applicazioni di geopedologia e geomorfologia), "Bollettino linguistico", XXII (1970), pp. 51-64. 28 E interessante notare come le tecniche di scavo descritte da A. Carandini, Storie della terra. Manuale dello scavo archeologico, Bari 1981, siano in perfetta assonanza con i metodi di indagine adottati dagli archeologi postclassici, come verificabile nelle diverse annate di "Archeologia Medievale". 29 Cfr. Mannoni L. e T., La ceramica dal Medioevo all'et Moderna nell'archeologia di superficie della Liguria centrale ed orientale, in Atti dell'VIII Convegno Internazionale della ceramica, Albisola 1975, pp. 121-36. 30 Cfr. P. Delogu, Archeologia medievale, un bilancio di venti anni, "Archeologia Medievale", XIII (1986) a cui si rinvia per un'esauriente quadro delle vicende della disciplina e per un quadro delle linee di ricerca attuali.
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dall'esperienza anglosassone. Ed proprio da questa nuova prospettiva, che vedeva unificati sul piano del metodo gli archeologi medievisti e un settore importante dei classici, che si potuto guardare all'archeologia stratigrafica come ad una scienza di analisi del territorio nella lunga durata, dove le problematiche della cultura materiale e delle scienze etnografiche assumevano una centralit che fino a quel momento non gli era riconosciuta. Inoltre l'unit delle archeologie la base su cui stanno maturando le iniziative di archeologia urbana che, nel nostro paese, hanno iniziato ad essere impiantate soltanto a partire dagli anni Ottanta, ma anticipate da un paio di casi, uno dei quali, quello genovese, risale gi alla met degli anni Sessanta ed ha visto protagonista ancora una volta Tiziano Mannoni, mentre il secondo, quello pavese, ha avuto in un altro archeologo medievale, Peter Hudson, il suo riferimento31. L'archeologia urbana si diffusa come pratica soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, vedendo attivi in particolare gli archeologi medievistici (si vedano al proposito i casi di Brescia, Verona, Milano, Pindena ecc.32) e i risultati raggiunti permettono fino ad ora di intravedere un nuovo modo di fare storia della citt, dove continuit e fratture possono essere concretamente valutate al di fuori di schematismi precostituiti e di letture "formali", mettendo in relazione i processi di stratificazione con le trasformazioni urbanistiche. Per l'Altomedioevo stanno emergendo informazioni preziose non solo relativamente alla riduzione degli spazi urbani, rilevabile attraverso la lettura dell'andamento delle cinte murarie, ma anche relativamente al rialzamento consistente delle quote di uso, talvolta anche di diversi metri. Questo fenomeno, i cui tempi non sono forse unitari, ma che inizia gi in epoca tardo antica e si protrae per tutto l'Altomedioevo, si caratterizza per la presenza di spessi "strati neri" a forte componente antropica, talvolta riferibili ad usi di ampie aree ortive in altri a depositi di rifiuti o a crolli di case di terra. Comunque in generale si tratta di accumuli causati da una mancata manutenzione delle infrastrutture. Le indicazioni che vengono raccolte mostrano come la citt tenda generalmente a svilupparsi per isole, alterando zone precedentemente abitate, con vaste aree inedificate e coltivate, e come si sia largamente diffuso l'uso del legno come materiale da costruzione per le case-capanne, che per altro coesistevano con altre tipologie edilizie differenziate, come edifici pubblici in pietra e/o mattone, e con strutture antiche che, quando non erano usate come cave, venivano riutilizzate in forma parassitaria. L'evidenza archeologica mostra inoltre che gli edifici in legno non erano un retaggio di culture germaniche, ma appartenevano ad un substrato di conoscenze tecnologiche autoctone. In realt l'archeologia urbana rappresenta uno dei nodi pi rilevanti per la ricerca nei prossimi anni, perch il terreno dove si potr pi concretamente operare quel disegno di ricomposizione delle archeologie da un lato e dall'altro dell'archeologia medievale con la storia, con la storia dell'architettura e dell'arte e pi in generale con le scienze del sopravvissuto. Insistere sulla rilevanza dell'unit dell'archeologia postclassica con le a tre archeologie e con lo studio del "sopravvissuto", dalla capanna al monumento, che Mannoni definisce archeologia globale, vuol dire indicare chiavi di lettura filologicamente corrette delle fonti materiali nel loro complesso le quali permettano di superare le artificiose separazioni disciplinari che impediscono di cogliere nel suo insieme ci che stato prodotto da l'uomo nel lungo periodo nelle sue pi
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Gli scavi nell'area centrale di Genova, Castello-San Silvestro furono iniziati nel 1967 e sono stati soltanto parzialmente editi: cfr. D. Andrews, D. Pringle, Lo scavo dell'area sud del Convento di S. Silvestro a Genova, "Archeologia Medievale", IV(1977), pp. 47-207; per il caso pavese si veda P. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: I'esempio di Pavia, Firenze 1981
Cfr., Archeologia urbana in Lombardia , a cura di G. P. Brogiolo, Modena 1985. Per un quadro generale dei problemi di archeologia urbana si rinvia oltre che ad "Archeologia Medievale", VII(1979), dedicato ad Archeologia e pianificazione del territorio, al recente saggio di B. D'Agostino, Le strutture antiche del territorio, in Storia d7talia, Annali 8, Insediamenti e territorio, Torino 1985, pp. 5-52. Mentre per un caso di studio privilegiato, la cui interpretazione in parte si differenzia da quanto si va scrivendo di seguito, si veda C. La Rocca, "Dark ages" a Verona: edilizia privata, aree aperte e strutture pubbliche in una citt dell'Italia settentrionale, "Archeologia Medievale", XIII (1986).
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diversificate e complesse attivit. Soprattutto importante nel caso italiano dove la "storica" divisione nell'ambito della ricerca postclassica fra storia e storia dell'arte e architettura ha creato delle "separazioni", che sono state accentuate nel quadro del dibattito storiografico che ha avvicinato vita materia e, quotidianit con la lunga durata e l'analogia e viceversa l'evento con il monumento e l'anomalia, radicalizzando in qualche modo l'incomunicabilit33. La necessit del confronto con i temi privilegiati della storia dell'arte emergono con grande chiarezza da la maturit raggiunta dal metodo di analisi stratigrafico, che non ha mancato di dare contributi imprescindibili anche nella lettura di monumenti significativi34: si in sostanza conclusa la fase in cui l'archeologia postclassica si interessa di ci che gli storici e gli storici dell'arte e dell'architettura tralasciavano. A distanza quindi di dieci anni dall'incontro-seminario di San Marino di Bentivoglio (Museo della Cultura Contadina) da titolo Una rifondazione dell'archeologia postclassica: la storia della cultura materiale35, che ha segnato una tappa importante del dibattito epistemologico relativamente all'archeologia nel suo rapporto con le a tre scienze storiche, gli interrogativi posti a lora alla discussione sono ancora terreno di dibattito vivo 35 e i temi aOora impostati sono divenuti oggetto di indagini problematiche e non certo una pratica di ricerca discriminatoria dove la cultura delle collettivit stata contrapposta a quella dell'individua it. Inoltre la ricerca di come l'archeologia contribuisce a la costrazione della storia e soprattutto del documento storico proceduta ad un livello assai elevato e sulle cose, i saggi che seguono sono esemplificativi, anche nella loro eterogeneit, di quanto si va elaborando al proposito. RICCARDO FRANCOVICH

Al proposito si rinvia al numero monografico di "Restauro & Citt" dedicato ad Archeologia urbana e restauro ed in particolare al saggio di T. Mannoni, Archeologia globale a Genova pp. 3347. 34 Oltre i casi genovesi di Santa Maria in Passione e dell'ex convento di San Silvestro, cui fa continuamente riferimento Mannoni (Archeologia globale, cit.), si potrebbe ricordare AA.VV., Il Palazzo Corigliano tra archeologia e storia, Napoli 1985, R. Francovich, S. Gelichi, Archeologia e storia di un monumento mediceo, gli scavi nel "cassero" senese della Fortezza di Grosseto, Bari 1980 e G. Vannini, L'antico Palazzo dei Vescovi a Pistoia, Firenze 1985. 35 Cfr. "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 7-24. Per una rassegna critica dell'andamento del dibattito intorno a questi problemi si veda J. M. Poisson, Problemi tendenze e prospettive dell'archeologia medievale in Italia, "Societ e Storia", 4 (1979), pp. 129-50. Pi difficilmente utilizzabile il breve saggio di H. Blake, Archeologia e Storia, "Quaderni Medievali" 12 (1981), pp. 136-52, mentre recentemente M. S. Mazzi, Civilt, cultura o vita materiale?, "Archeologia Medievale, XII (1985), pp. 573-92, ha riproposto il problema della cultura materiale fra storia ed archeologia in termini estremamente chiari ed incisivi, riprendendo spunti anche da quanto elaborato nella voce Cultura materiale della Enciclopedia Einaudi, da J. M. Pesez e R. Bucaille, e da J. M. Pesez, Storia della cultura Materiale, in La nuova storia, a cura di J. Le Goff, Milano 1980. Ma per la definizione degli" spazi" comuni fra storici ed archeologi oltre al citato saggio di Serena Mazzi si veda anche il contributo di J. M. Pesez, Archologues et Historiens,in Mlanges d'archologie et d'histoire mdivales en l'honneur du Doyen Michel de Bodard, Genve-Paris 1982, pp. 295-308.

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I Longobardi in Italia: insediamenti e cultura materiale

L'invasione longobarda dell'Italia (568 d.C.), pur non investendo come noto, I'intera penisola, che in parte rest all'Impero, costitu un fatto molto pi traumatico rispetto a quella gotica. Infatti i Longobardi, instaurando una dominazione germanica sulle popolazioni romanze, contrapposta all'Impero romano, che si protrasse in forme diverse per oltre due secoli, segnarono un punto di cesura con il mondo romano anche a livello politico e istituzionale, innescando una serie di processi di trasformazione economico-sociale che determineranno il successivo sviluppo dell'Italia medievale. Il lungo processo di interrelazioni "culturali" fra Germani ed autoctoni ha assunto nelle diverse parti della penisola connotati talvolta diversi, a seconda della vicinanza cronologica e spaziale dal momento e dall'area della prima migrazione e dal diverso grado di assimilazione reciproco che si era raggiunto. L'archeologia dell'epoca longobarda ha generalmente privilegiato l'elemento germanico: una grande tradizione di studi dell'Europa centro-settentrionale, a cominciare dall'berg per giungere al Werner e al von Hessen, ha creato gli strumenti di lettura cronologici e ha ricostruito l'evoluzione del costume nazionale longobardo, soprattutto indagando i resti delle aree di inumazione e dando uno spazio pi limitato al problema degli insediamenti e quindi del rapporto fra l'elemento germanico e le popolazioni autoctone (fra i pochi casi indagati si ricordano quelli di Castelseprio e di Invillino del Friuli); soltanto recentemente si cominciato a riflettere in modo diverso a questo proposito. In questa sede offriamo due brani, entrambi inediti in Italia, che evidenziano altrettanti diversi approcci, l'uno di Otto von Hessen, 1 l'altro di Cristina La Rocca Hudson e Peter J. Hudson 2, al quale si rinvia per la bibliografia sull'argomento3.
Die Longobarden in Pannonien und in Italien , in Sonderdruck aus der Propylen Kunstgeschichte , Berlino 1982, pp. 164-8; la traduzione dal tedesco di Nori Zilli. 2 Questo contributo stato presentato alla Third Italian Conference, Cambridge 1984, e pubblicato con il titolo Lombard immigration and its effects on North Italian rural and urban settlement, in Papershin Italian Archacology IV. The Cambridge Conference IV, a cura di C. Malone e S. Stoddart, Oxford 1985, pp. 225-46. Ndl'occasione di questa edizione italiana gli autori hanno rivisto il testo ed aggiornato la bibliografia. 3 Per uno sguardo complessivo ed esauriente al problema delle migrazioni germani che in Italia, comprensivo di una ricca bibliografia rinviamo al recente volume Magistra Barbaritas. Barbari in Italia, Milano 1984 ed in particolare al saggio di V. Bierbrauer, Aspetti archeologici di Goti, Alemanni e Longobardi, pp. 445-508, mentre una ricostruzione storica che tiene ampio conto delle evidenze archeologiche in P. Delogu, Storia dei Longobardi, in P. Delogu, A. Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, in Storia dItalia, a cura di G. Galasso, I, Torino 1980, pp. 3-216.
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Otto von Hessen I Longobardi in Pannonia e in Italia

Il nome di Longobardi riferito a una stirpe compare per la prima volta negli anni intorno alla nascita di Cristo; gli storici romani fanno menzione di questo popolo come di una stirpe germanica in lotta con Roma. Il praefectus equitum di Tiberio, Velleio Paterculo, ne parla e osserva che sono particolarmente bellicosi, lo stesso riferisce Tacito circa cento anni pi tardi. Come sede di questa stirpe viene indicata la zona del basso corso dell'Elba, i Longobardi da parte loro invece affermano di essere originari della Scandinavia, come risulta nell'introduzione all'Editto di Rotari, la Origo gentis langobardorum, redatta intorno al 643. Queste notizie riportate anche dalla Historia Langobardorum di Paolo Diacono, scritta fra il 770 e il 790 e che vengono ripetute dalle fonti successive, sono state pi volte messe in dubbio e non hanno trovato fino ad oggi conferma certa dal punto di vista archeologico. Nella zona che gli storici romani indicano come sede dei Longobardi, la regione cio fra le attuali Amburgo e Luneburg, esistono, quali testimonianze archeologiche di quel periodo, delle necropoli talvolta piuttosto grandi con tombe a incinerazione usate senza interruzione per almeno due o trecento anni che confermerebbero una prolungata presenza "longobarda". L'insediamento dur fino ai primi secoli dopo Cristo, ma verso la met del IV secolo diminu di importanza; il fenomeno potrebbe essere spiegato con l'emigrazione almeno parziale della popolazione. Il nome dei Longobardi ricompare nei testi storici di nuovo nel 166-67 durante la guerra dei Marcomanni. In questo caso vengono citati seimila Longobardi che combattevano a fianco dei Marcomanni contro i Romani e che si spinsero in quell'occasione fino alla Pannonia. Dopo questo accenno le fonti storiche tacciono per almeno due secoli. Anche dal punto di vista archeologico in tale periodo difficile definire questo popolo come unit a se stante. I Longobardi nelle proprie tradizioni affermano di aver abbandonato le antiche sedi per spostarsi prima ad Antahib e poi a Bainhaib. Mentre Bainhaib viene oggi identificato da parte degli studiosi con la Boemia, non abbiamo per il momento nessuna indicazione valida per identificare Anthaib. La storia vera e propria dei Longobardi ha inizio soltanto nell'anno 487-88. Allora, come risulta dalle fonti storiche, occupavano il territorio dei Rugi, vinti e distrutti da Odoacre, cio l'attuale Bassa Austria. L'occupazione del paese dei Rugi da parte di un nuovo gruppo etnico in questo periodo attestata anche dalla ricerca archeologica. Innanzi tutto compaiono le necropoli con tombe a fila (Reihengrber) che fanno chiaramente parte del mondo merovingico orientale e documentano l'immigrazione di nuove popolazioni da nord-ovest. I nuovi venuti inumavano i propri morti secondo il rito dei Reihengrber in tombe orientate. I doni funebri per le donne consistono in gioielli e accessori dell'abbigliamento per gli uomini soprattutto in armi e oggetti di ornamento per l'armatura. In ambedue i casi troviamo inoltre pettini e recipienti di terracotta. I1 corredo funebre nelle tombe femminili della prima generazione di immigrati, corrisponde a quello in uso fra le popolazioni di ambiente merovingico. Insieme alle collane di perle troviamo in genere un paio di piccole fibule a "S" o di fibule a disco e un paio di fibule a staffa relativamente piccole. Mentre le fibule a "S" - diversamente

da quelle appartenenti a altre civilt dell'ambito merovingico - presentano un gran numero di varianti, per cui vanno considerate come un elemento a se stante, le fibule a staffa e quella a disco, nel periodo pre-pannonico e all'inizio della fase pannonica delle migrazioni longobarde, si ricollegano direttamente ai modelli occidentali. I1 corredo di armi, nelle tombe maschili di questo primo periodo, comprende innanzi tutto una spada (spatha), la lancia con la punta a foglia di salice e lo scudo con umbone a cono schiacciato, al cui vertice si trova spesso un ribattino col gambo. Vorrei qui ricordare le tombe di due orafi, quella di Brnn e quella di Poysdorf, che oltre al corredo di armi contenevano gli arnesi da orafo e nel caso di Poysdorf, addirittura due modani per la fabbricazione delle fibule, una a "S" e una a staffa con piastra di testa rettangolare. Quanto alla ceramica nelle tombe longobarde di quest'epoca compaiono due forme principali: da un lato le ciotole scanalate caratteristiche della zona dell'Elba, dall'altro le ciotole a doppio cono con motivi a stralucido tipiche del mondo orientale. Nelle necropoli dei primi decenni del VI secolo, periodo in cui i Longobardi si diffusero oltre il Danubio in Pannonia, si nota la tendenza ad abbandonare gli oggetti di tipo turingio-boemo, mentre compaiono pi di frequente offerte che fanno pensare a legami con l'ambiente occidentale merovingico e alemannico. Nelle tombe femminili si trovano spesso coppie di fibule a staffa di provenienza occidentale come i due esemplari di Hegyko - e inoltre anche fibule a rosetta e a disco ornate a cloisonn, che sono certamente di origine franca; in generale in questo periodo l'abito delle donne longobarde segue in tutti i dettagli la moda occidentale. Se consideriamo le fibule a staffa delle tombe longobarde in Pannonia, basandoci sulle pubblicazioni disponibili, possiamo notare che il materiale non unitario, ma comprende una serie di forme molto diverse fra loro. Accanto ai succitati esemplari di "importazione" che sono di provenienza occidentale, in Pannonia gli orefici longobardi sviluppano nuove forme, che non possiamo pi catalogare genericamente come merovingiche, ma che vanno considerate specificamente longobarde. Questi nuovi tipi di fibule e la loro ornamentazione sono le prime testimonianze di un'arte autonoma prettamente longobarda. Le forme preferite dai Longobardi sono le fibule a staffa dalla piastra di testa semicircolare e il piede ovale terminante con una testa di animale in rilievo. La piastra di testa circondata da protuberanze, che negli esemplari pi semplici erano fuse in un sol pezzo con la fibula, mentre in quelli pi pregiati venivano approntate separatamente e poi inserite nella piastra. Il loro numero varia a seconda della grandezza della fibula. Questa forma classica di fibula longobarda si sviluppa da prototipi occidentali fino ad assumere caratteri propri. Talvolta compare la ornamentazione geometrica a Kerbschnitt abituale nelle fibule merovingiche, che indica la provenienza originaria, ma per lo pi le fibule sono decorate con ornamentazione zoomorfa in Stile 1. Una variante dello Stile 1, che compare quasi contemporaneamente, la cosiddetta Schlaufenornamentik; consiste, nella sua forma originaria, di nastri intrecciati e disposti con rigida simmetria, che possono talvolta, ma non sempre, contenere dettagli zoomorfi appena accennati. Questa variante dello stile zoomorfo, nello sviluppo della ornamentazione longobarda, va posta, secondo H. Roth, fra lo Stile I e lo Stile II. Oltre alle tipiche fibule a staffa con piastra di testa semicircolare compare in Pannonia un altro tipo, si tratta di fibule con la piastra di testa rettangolare e il piede romboidale, come quelle trovate nella Tomba 18 di Hegyk. Il gruppo, indicato in genere come tipo Cividale, e che discende dalle Relieffibeln (fibule a rilievo) nordiche, si svilupp per suo conto sotto l'influsso longobardo. Certi ornamenti che

gi compaiono in queste fibule- come i tralci a spirale, gruppi di linee, maschere e teste di uccelli assai stilizzate lungo il bordo del piede - rivelano un influsso diretto dell'arte ostrogota e fanno pensare che queste fibule siano state approntate per i Longobardi da orafi ostrogoti rimasti in Pannonia. Perci la fibula di tipo Cividale dimostra come nel periodo pannonico della migrazione i Longobardi, sotto l'influsso di elementi provenienti da culture diverse, abbiano creato un nuovo stile, che pu essere considerato veramente longobardo. Qualcosa di analogo si pu notare per i reperti provenienti da tombe maschili della stessa epoca. Accanto a oggetti di alta qualit "importati" da altri ambiti culturali, come la spatha nordica col pomo d'oro di Gyirmod e la placca di cintura franca di Szentendre, si trovano, anche se finora di rado, prodotti di artigiani locali. Vorremmo qui citare le placche delle briglie di Veszkeny, che probabilmente provengono dalla tomba distrutta di un principe. Si sono conservati soltanto gli anelli dei filetti con agemina in argento, un pendente di argento dorato e delle falere a forma di croce; queste ultime si possono dividere in due gruppi in base alla loro forma. Il primo ornato da una greca e da un semplice nastro intrecciato, motivi questi che provengono da forme mediterranee. Nell'altro gruppo le placche emisferiche sono divise da una croce in rilievo, i cui bracci terminano con teste di animali, in quattro campi nei quali sono rappresentati alternativamente una figura umana accovacciata e due animali intrecciati fra di loro. Mentre la croce e anche i motivi zoomorfi si rifanno in generale all'arte pannonico-longobarda, per la figura umana accovacciata ritroviamo delle lontane analogie nell'arte nordica. La decorazione del pendente a mezza luna consiste in due animali affrontati in Stile I e una maschera umana fra due teste di uccelli rapaci; questi due motivi, che compaiono frequentemente nell'ornamentazione zoomorfa nordica, indicano che il pezzo si rif a un modello di origine nordica. I reperti, provenienti dalle necropoli dell'epoca della venuta in Italia, indicano che i Longobardi nei primi decenni a partire dal 568 continuano a seguire la tradizione pannonica. Lo si nota chiaramente in esemplari trovati nei cimiteri di Cividale del Friuli, Nocera Umbra e Castel Trosino presso Ascoli Piceno. In questi centri, come pure in altri luoghi di scavo d'Italia, s'incontra lo stesso patrimonio di forme che sono caratteristiche dell'epoca pannonica, il che costituisce un'indubbia prova della migrazione del popolo longobardo. Poco tempo dopo si notano tuttavia delle innovazioni che vanno ricollegate all'influsso della civilt bizantino-mediterranea. Le donne longobarde dapprima rimangono fedeli all'antico costume con le fibule, ma accanto a questo compaiono elementi ripresi dalla moda bizantina, in particolare gli orecchini d'oro e d'argento ornati di sottile filigrana. Vengono anche usati anelli di metallo nobile e nelle tombe di donne ricche compaiono pendenti d'oro infilati nelle collane di perle. Le piccole fibule vengono abbandonate poco dopo l'insediamento in Italia; al loro posto compare la fibula a disco, che nei primi tempi ancora ornata a cloisonn. Le fibule a staffa diventano pi grandi e al posto della decorazione in Stile I e in "Schlaufenstil" subentra quella in Stile II sviluppatasi dopo la venuta in Italia. Questa nuova decorazione non viene usata soltanto sulle fibule a staffa, ma compare anche sulle guarnizioni di cintura o su altri oggetti simili e in particolare sulle cosiddette crocette in lamina d'oro, tipiche del periodo italo-longobardo. Si tratta di croci, in genere piuttosto piccole, ritagliate in sottile lamina d'oro e per lo pi decorate con tecnica a sbalzo; esse erano cucite su un velo che veniva disteso sul volto dei defunti. Data la variet dei motivi usati nella decorazione esse rappresentano uno dei documenti pi importanti per le arti minori longobarde. Accanto alla ornamentazione

a Schlanfenstil, nella fase pi sviluppata troviamo varianti in Stile II, ma anche elementi non longobardi di provenienza bizantma. La massima fioritura delle arti minori longobarde e dell'oreficeria corrisponde ai primi decenni del VII secolo. I reperti di questo periodo, che sono assai importanti e numerosi ci danno un'immagine di quanto ricca fosse la produzione in oggetti d'oro e d'argento. I doni funebri che di norma venivano deposti nelle tombe femminili consistono in orecchini d'oro con ametisti e altre pietre preziose. Le fibule a staffa vengono sostituite da una grande fibula a disco in cui sono inserite pietre disposte a croce o guarnizioni in filigrana. Spesso in queste tombe si trova del broccato d'oro, che fa pensare a abiti riccamente decorati e che compare anche nelle tombe maschili. Inoltre vengono usate spathe col pomo d'oro o d'argento, in parte filigranato, in parte con ornamentazione zoomorfa in Stile II. La foggia delle cinture si sviluppa in forme particolarmente ricche; venivano indossate cinture multiple con guarnizioni d'oro e d'argento, secondo il modello orientale bizantino, i cui ornamenti riportano in parte motivi mediterranei come delfini contrapposti o simili. Altri oggetti di lusso provenienti da tombe maschili di questa epoca e anch'essi influenzati dallo stile mediterraneo sono le preziose selle e le placche delle briglie. Un genere tipico dell'epoca italo-longobarda rappresentato invece dai cosiddetti scudi da parata longobardi, ornati con ribattini dorati e, in casi particolarmente preziosi, anche con placche sagomate a forma di figure. Le scene riprodotte sulla superficie dello scudo possono derivare da modelli tardoantichi, come nel caso dello scudo di Stabio in cui rappresentata una scena di caccia, o derivare dall'iconografia cristiana come nello scudo di Lucca in cui compare un calice fra due pavoni e un guerriero che porta una croce in piedi fra due leoni. Talvolta la decorazione consiste solamente di croci, come per esempio nello scudo di Gisulfo di Cividale o nello scudo di Borgo d'Ale. Ai primi decenni del VII secolo appartiene anche la placca frontale del cosiddetto elmo di Agilulfo trovato in Val di Nievole. Vi rappresentata la tradizionale scena dell'atto di sottomissione: il re siede in trono fra due armati a cui si avvicinano da destra e da sinistra due gruppi di figure condotti ciascuno da una vittoria alata. Anche se la rappresentazione si rif a modelli antichi, la placca di Agilulfo rappresenta una delle testimonianze non solo pi interessanti, ma anche pi importanti dell'arte longobarda, perch, ad eccezione di alcuni anelli a sigillo, non conosciamo praticamente nessuna rappresentazione della figura umana. I reperti longobardi della met circa del VII secolo hanno caratteri completamente nuovi; diminuisce anche il numero dei reperti stessi. Nelle poche tombe femminili dell'epoca che si sono conservate si trovano solo oggetti che seguono la moda mediterranea, come orecchini e fibule a disco e talvolta anelli di metallo nobile. Se confrontiamo questi reperti con oggetti appartenuti a donne non longobarde trovati in tombe della Sicilia e della Sardegna, notiamo una forte somiglianza sia nelle forme che nello stile; ci indica che avvenuta una totale assimilazione degli usi autoctoni da parte delle donne longobarde. Di contro, per quanto concerne i doni funebri degli uomini di quest'epoca, si pu constatare che permangono caratteristiche particolari che ci permettono di distinguere chiaramente le sepolture dei Longobardi da quelle degli autoctoni. Continua l'usanza di deporre nelle tombe le armi. Tipiche della ornamentazione longobarda sono le cinture per sospendere le armi e le guarnizioni degli sproni, che si sviluppano in forme analoghe. Ambedue sono sia di bronzo che di ferro. Le guarnizioni di bronzo in genere sono ornate solo da ribattini e hanno i bordi centinati; quelle in ferro, invece, sono ornate da una quantit di motivi eseguiti nella tecnica dell'agemina e della placcatura. In questo campo si nota una evoluzione, che

presente anche a nord delle Alpi, per cui sembra giusto pensare a dei rapporti fra i Longobardi e i loro vicini del nord. Gi all'inizio del VII secolo accanto alle guarnizioni di cintura in metallo nobile, compaiono le cinture quintuple con agemina piuttosto grossolana in Stile II. Contemporaneamente si trovano guarnizioni multiple in ferro la cui ageminatura cerca di imitare il motivo bizantino a punto e virgola (ornamentazione a spirale in tutte le sue varianti). In un secondo stadio - che in base alle conoscenze attuali si pone all'inizio del secondo trentennio del VII secolo - I'ornamentazione, sia sulle guarnizioni delle cinture quintuple che su quelle multiple, diventa di qualit superiore. Prendono il sopravvento decorazioni eseguite con cura in Stile II che rivestono l'intera superficie. Infine verso la met del VII secolo si abbandonano le guarnizioni di cinture quintuple in ferro, mentre si continuano a usare cinture dello stesso tipo in bronzo. A1 medesimo periodo appartengono anche guarnizioni di cinture multiple in ferro dalla placcatura raffinata, che talvolta presentano un ornato mediterraneo a tralci, talaltra graziosi motivi in Stile II, per lo pi nastri a "otto". Agli inizi circa dell'ultimo trentennio del VII secolo siamo alla fine di questa evoluzione, compaiono allora delle guarnizioni di cinture molto strette e lunghe, sagomate, in bronzo e in ferro; queste ultime sono per lo pi ornate di agemina a righe o di placchette in bronzo applicate e decorate con punzonature. Al momento in cui compaiono tali reperti cessa presso i Longobardi l'uso del corredo funebre e di conseguenza anche la possibilit di ricostruire la storia di questo popolo dal punto di vista archeologico.

Cristina La Rocca Hudson - Peter J. Hudson Riflessi della migrazione longobarda sull'insediamento rurale e urbano in Italia settentrionale *

1. Problemi dell'insediamento rurale Gli effetti della migrazione longobarda sull'insediamento sia rurale sia urbano, sono un tradizionale argomento di dibattito nella storiografia sia politica, sia giuridica1. Il modo in cui le fonti archeologiche altomedievali sono state utilizzate nel passato non sembra invece aver fornito dati significativi per comprendere i rapporti che si instaurarono tra i Longobardi e la popolazione romanza2. Gli studi riguardanti la classificazione e la datazione dei corredi tombali longobardi si sono infatti per lo pi limitati ad incasellare questi manufatti in categorie tipologiche, definendo genericamente come "Longobardi" gli oggetti databili dalla fine del VI alla fine del VII secolo3, e soltanto di recente per alcuni reperti, quali le fibule zoomorfe, o le fibbie da cintura di bronzo massiccio, si iniziato a prospettare la possibilit che si tratti di oggetti relativi alla popolazione locale4 . Il quadro che si delinea archeologicamente dell'Italia durante l'et longobarda dunque limitato alla sfera della classe dominante, completamente avulsa dal contesto territoriale di insediamento e chiusa ad ogni contatto culturale. In questa sede, si vogliono invece illustrare alcuni esempi tratti sia da contesti rurali, sia urbani, per dimostrare non solo che vi furono interferenze reciproche tra Longobardi e popolazione locale, ma anche che tali rapporti variarono quantitativamente e qualitativamente a seconda del territorio esaminato e non sono da intendersi soltanto in una direzione, cio dai pi "civili" romani verso i "barbari", ma reciproci, n possono essere limitati ad una rigida divisione tra prodotti bizantini e

*Il presente lavoro, frutto di una comune ricerca, stato redatto per la parte I da Cristina La Rocca Hudson e per la parte 2 da Peter J. Hudson. Vorremo ringraziare la professoressa Bianca Maria Scarf, soprintendente ai Beni archeologici per il Veneto, per averci permesso di pubblicare la ceramica proveniente dal cortile del tribunale di Verona, ed anche l'ispettore per la provincia di Verona, dottoressa Giuliana Cavalieri Manasse, per averci informato dell'esistenza di oggetti di corredo altomedievali inediti e per averci sostenuto ed incoraggiato durante la ricerca. Infine siamo grati al professor Aldo A. Settia dell'Universit di Torino per le utili discussioni sull'insediamento presso la collina torinese. 1 G. Falco, La questione longobarda e la moderna storiografia italiana, in Atti del I Congresso internazionale di studi longobardi, Spoleto 1952, pp. 153-66; E. Sestan, La composizione etnica della societ in rapporto allo svolgimento della civilt in Italia nel secolo VII in Occidente, in I caratteri del secolo VII in Occidente, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 23-29 aprile 1957, Spoleto 1958, Il, pp. 64977; G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'ltalia del secolo VII, in I caratteri del secolo VII in Occidente, cit., I, pp. 103-59; G. Tabacco, Problemi di insediamento e di popolamento nell'altomedioevo, "Rivista Storica Italiana", 76 (1967), pp. 67-110; Id., Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 1979, pp. 94-135; P. Delogu, Il regno longobardo, in P. Delogu, A. Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini in Storia dItalia a cura di G. Galasso, I, Torino 1980, pp. 3-216; C. Wickham, Early Medieval Italy. Central Power and Local Society, London 1981, pp. 64-80 (trad. it. L'Italia nel primo Medioevo. Potere centrale e societ locale, Milano 1983).
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A. Melucco Vaccaro, I Longobardi in Italia, Milano 1982, p. 7s.

O. von Hessen, I ritrovamenti barbarici nelle collezioni civiche veronesi del Museo di Castelvecchio, Verona 1968; Id. Die langobardischen Funde aus dem Graberfeld von Testona (Moncalieri-Piedmont), "Memoria dell'Accademia delle Scienze di Torino. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche", 4 (1971), pp. IV-120; C. Sturmann Ciccone Reperti longobardi e del periodo longobardo dalla provincia di Reggio Emilia, Reggio Emilia 1977; S. Cini, M. Ricci, I Longobardi nel territorio vicentino, Vicenza 1979, M. C. Carretta, Reperti autoctoni di et longobarda dal Museo Civico Archeologico di Bologna ,"Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 646-48.
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O. von Hessen, Il materiale altomedievale dalle collezioni Stibbert di Firenze, Firenze 1983.

longobardi, secondo la proposta di berg5. stato d'altronde gi notato che nelle fonti scritte altomedievali la maggioranza dei nomi propri - anche di schiavi - sono germanici, dimostrando chiaramente la diffusione di questo costume anche tra la popolazione di origine locale6. Per il contesto rurale sono state prese in esame tre aree campione: la collina ad est di Torino, ove nel secolo scorso venne alla luce la necropoli altomedievale di Testona7 e le moderne province di Brescia e Verona, poste sulle sponde opposte del lago di Garda. Mentre per la prima zona, di estensione pi limitata, sono stati presi in esame accanto ai siti tuttora esistenti, anche quelli abbandonati nel corso del Medioevo8, per le altre due aree si sono considerati soltanti gli abitanti attuali, il che costituisce un'indubbia limitazione, ma pu in ogni caso permettere delle considerazioni indicative9. La distribuzione dei dati archeologici - in prevalenza sepolture - stata rapportata ai dati toponomastici, includendo quegli abitati, attestati nelle fonti scritte altomedievali, con toponimi derivanti sia da nomi personali latini sia germanici. infatti ragionevole ritenere che toponimi aventi radice in un nome personale germanico e documentati nell'Altomedioevo siano riconducibili, se non senz'altro alla classe dominante germanica, senza dubbio ad insediamenti sorti ex novo presso quelli gi esistenti in et tardoantica. I toponimi derivanti invece da nomi comuni non sono stati considerati, perch la loro adozione nella lingua corrente anche in epoche di molto successive li rende inutilizzabili ai nostri scopi10. In primo luogo occorre chiarire che la presenza di una necropoli longobarda estesa e numericamente consistente non significa necessariamente una presenza germanica pi rilevante rispetto ad altre zone, e neppure cambiamenti nella struttura territoriale tardo romana11. Al contrario, i siti delle necropoli pi a lungo frequentate, sembrano indicare l'usanza di seppellire soltanto in cimiteri ufficialmente "autorizzati", che venivano perci usati da pi villaggi circonvincini12. Questo sembra essere il caso delle necropoli maggiori qui esaminate: Testona (Torino) circa 450 tombe, e Calvisano (Brescia), 500 tombe, mentre, ed significativo notarlo, nessuna delle necropoli rinvenute in provincia di Verona supera le 50 sepolture, tranne la distrutta

N. berg, Die Goten und Longobarden in Italien, Uppsala 1923. G. Tabacco, Dai possessori dell'et carolingia agli esercitali dell'et longobarda, "Studi Medievali, X (1969), pp. 228-34; Wickham, Early Medieval Italy, cit., p. 68 s. 7 C. Calandra, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, "Atti della Societ di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino", IV (1883), pp. 17-52; von Hessen, Die Langobardischen Funde, cit.; M. Negro Ponzi, Testona: la necropoli di et longobarda, in Testona. Per una storia della comunit, Torino 1980, pp. 1-12.
6

A. A. Settia, Villam circa castrum restringere. Migrazioni e accentramento di abitati sulla collina torinese nel basso medioevo, "Quaderni storici", 24 (1973), pp. 905-44; Id., Insediamenti abbandonati sulla collina torinese, "Archeologia Medievale", 11 (1974) pp. 237-328; M. C. La Rocca Hudson, Le vicende del popolamento in un territorio collinare: Testona e Moncalieri dalla preistoria all'altomedioevo, "Bollettino storico bibliografico subalpino", LXXXII (1984), pp. 1-86.
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D. Oliveri, Dizionario di toponomastica veneta, Venezia 1960, Id., Dizionario di toponomastica lombarda, Milano 1961; Id., Dizionario di toponomastica piemontese, Brescia 1965; E. Gamillscheg, Romania Germanica, 11 Berlin-Leipzig 1936, G. B. Pellegrini Osservazioni sulla toponomastica "barbarica- veronese, in Verona in et gotica e longobarda, Verona 1982, pp. 1-52 10 G. Petracco Siccardi, Vico Sahiloni e Silva Arimannorum, ~Archivio Storico per le Province Parmensi", XXVI (1977), pp. 133 e 135; Id., Typologie des toponymes Romans d'origine germanique dans l'ltalie du Nord, "Onoma", XXII (1978), pp. 172-86; Pellegrini, Osservazioni sulla toponomastica, cit., pp. 4-6 e 18-22. 11 A. Castagnetti, L'organizzazione del territorio rurale nel Medioevo, Torino 1979, pp. 255-61.
A. A. Settia, Pievi e cappelle nella dinamica del popolamento rurale, in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell'alto medioevo: espansione e resistenze, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 10-16 aprile 1980, Spoleto 1982, I, pp. 445-89, a pp. 458-60; B. Chapman, Death, culture and Society, in Anglo-Saxon Cemeterie 1979, a cura di P. Rathz, T. Dickinson,L. Watts Oxford (British Archaeological Reporis, British Series 82) 1980, pp. 59-79.
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necropoli presso Buttapietra-su cui per nulla si pu ormai dire - che si aggirava sulle 100 tombe13. La sovrapposizione delle sepolture, indice di un'area precisamente definita e limitata in cui era permesso seppellire14, che si accompagna all'assenza, nelle immediate vicinanze, di altri siti cimiteriali oppure di tombe isolate sembrerebbe indicare l'esistenza di un'area cimiteriale "ufficiale" (fig. 2 e fig. 4). Inoltre a Testona i catasti del XIV secolo seppur tarda attestazione - menzionano la presenza di un muracium nell'area ove si rinvenne la necropoli longobarda15, che potrebbe suggerire l'esistenza di un edificio romano in rovina, riutilizzato dai Longobardi16. In ogni caso, l'esistenza di aree autorizzate e delimitate per le sepolture non implica necessariamente che i Longobardi riorganizzarono radicalmente l'assetto territoriale. Sia Testona, sia Calvisano si trovano infatti in zone caratterizzate da toponimi prediali latini, conservatisi fino al XIII secolo (fig. 1 e fig. 3)17. Questo dimostra chiaramente che i Longobardi si sovrapposero semplicemente accanto alla popolazione esistente, ereditando l'organizzazione insediativa romana. Il tipo di alcuni oggetti di corredo ed i dati antropologici, fornito dallo studio delle ossa umane, provano inoltre che nei pressi di tali nuclei cimiteriali vi furono insediamenti della popolazione locale che si rapportarono in qualche modo con quelli germanici. I manufatti comprendono ceramica di tradizione locale- come gli "otto orciolini ed anfore di terra rossastra" e la pilgrimflask ricoperta da un'invetriatura verde18 provenienti da Testona, mentre a Calvisano furono rinvenuti due olpi invetriate19; inoltre i resti antropologici femminili di Testona sono per la maggior parte relativi al tipo alpino-mediterraneo e quindi presumibilmente riferibili alla popolazione locale20.

O. von Hessen, La necropoli longobarda delle tombe in fila della zona di Ciringhelli Povigliano, provincia di Verona, "Memorie Storiche Forogiuliensi", XLIX (1969), PP. 93-9. 14 Calandra, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, cit., p. 18s; P. Rizzini, Gli oggetti barbarici raccolti nei Civici Musei di Brescia, "Commentari dell'Ateneo di Brescia", 1894, pp. 351, a p. 22s. 15 Archivio Comunale di Moncalieri, Serie A, Catasti, n 25, anno 1351, cc. 1v-2r. 16 A. A. Settia, La toponomastica come fonte per la storia del popolamento rurale, in Medioevo rurale. Sulle tracce della civilt contadina, a cura di V. Fumagalli e G. Rossetti, Bologna 1980, pp. 35-56, a p. 43; altri esempi in O. von Hessen, Primo contributo all'archeologia longobarda in Toscana. La necropoli, Firenze 1971. 17 La Rocca Hudson, Le vicende del popolamento in un territorio collinare, cit., tav.VII. 18 Calandra, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, cit., tavv. 3 e 29, H. Blake, Ceramica paleo-italiana, "Faenza", 68 (1980), pp. 20-54, tav. IV: L. Pejrani Baricco, La collezione Calandra, in Testona. Per una storia della comunit, cit., pp.12-39, a p. 39, n.46. 19 Blake Ceramica paleo-italiana, cit., tav. 3c; G. Panazza, Note sul materiale barbarico trovato nel bresciano, in Problemi della civilt e dell'economia longobarda. Scritti in onore di G. P. Bognetti, Milano 1964, pp. 137-70, a p. 142. 20 L Kiszely, The Anthropology of the Lombards, Oxford (British Arcaeological Reports, International Series 61) 1979, 1, pp. 143-7.

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. FIGURA 1 Provincia di Torino: territorio medievale dei comuni di Chieri e di Moncalieri. Distribuzione dei toponimi romani ( ) e germanici ( ) e delle necropoli longobarde ( ). Come noto, l'abitudine di seppellire in cimiteri "ufficiali" coesistette accanto a quella di creare ex novo delle piccole aree cimiteriali, isolate. Nonostante questo, la seconda possibilit non necessariamente indicatrice di una presenza longobarda pi labile o pi sporadica. Se quest'ultimo pu essere il caso della Valpolicella, a nord di Verona, e dell'area nei pressi di Cellore d'Illasi, ad est della citt (fig. 5), in cui ad una fitta distribuzione di toponimi latini si accompagna un numero assai modesto sia di tombe isolate, sia di piccole necropoli21, in altre zone la situazione assai diversa.

Per Valpolicella cfr. M. C. La Rocca Hudson, S. Anna d'Alfaeo. Armilla bronzea, in A. Castagnetti, La Valpolicella dall'altomedioevo all'et comunale, Verona 1984, p. 25; per Cellore d'lllasi cfr. C. Cipolla, Zevio. Tombe barbariche, "Notizie degli Scavi di Antichit", 1880, p. 341s; von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., pp. 12s e 27s.

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FIGURA 2 Provincia di Torino: territorio medievale dei comui di Chieri e di Moncalieri. Distribuzione delle necropoli longobarde: sepolture isolate ( ); gruppi da 2 a dieci tombe ( ); necropli con pi di 100 sepolture(G). Infatti, in prossimit dei moderni centri di Chieri (Torino) (fig. 1), Povegliano, Zevio e Cologna Veneta, nella pianura veronese (fig. 5), e di Brandico, nella pianura bresciana, nonostante il numero limitato di ritrovamenti archeologici - per il torinese ed il bresciano, poich nel veronese essi sono in numero maggiore - i Longobardi sembrano aver avuto un'influenza decisiva nella strutturazione del territorio medievale. In queste localit, a cavaliere di aree in cui si concentrano fittamente toponimi latini, documentati nell'Altomedioevo come locus et fundus -vale a dire insediamenti con un proprio territorio - si trovano toponimi contraddistinti dall'unione di un nome quale Mons o Vicus, unito al genitivo di nomi di persona germanici, come Maco, Bemo, Falco22.

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E. Gamillscheg, Romania Germanica, Il, Berlin-Leipzig 1913, ad vocem.

FIGURA 3 Provincia di Brescia:toponimi e necropoli. Distribuzione dei toponimi romani ( ) e germanici ( ) e delle necropoli longobarde(G). Sembra pertanto di trovarsi di fronte a situazioni simili a quella documentata a Cologno Monzese (Milano)23: la creazione ex novo di insediamenti con un proprio territorio, formato attraverso l'acquisizione di parte della terra degli insediamenti confinanti. In questo caso, il gruppo germanico sembrerebbe aver imposto la propria autorit, organizzandosi indipendentemente dalla popolazione locale e creando nuovi centri abitati. Una terza possibilit la formazione di insediamenti longobardi in aree del tutto incolte e disabitate durante il periodo romano. Se ci non sembra essersi verificato nella provincia di Brescia, tranne forse per le odierne Gambara e Gottolengo24, poste nella pianura lungo il corso del Mella, ricorre
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G. Rossetti, Societ e istituzioni del contado Lombardo durante il Medioevo. Cologno Monzese, Milano 1968. 24 Olivieri, Dizionario di toponomastica piemontese, cit., pp. 244 e 265.

invece pi frequentemente nella provincia di Verona, nelle colline sopra Caprino, nell'alta 26 Valpolicella25, e nella pianura presso il corso dell'Adige, nei territori delle odierne Bovolone , 27 28 Valeggio ; e Mozzecane (fig. 6). Anche nella parte occidentale della collina torinese, zona formata da ripide vallate e caratterizzata, tra XII e XIII secolo da toponimi che indicano la presenza di aree incolte, quali Padisium (pagus) forse con significato di pascolo comune29, Arsitie (ardo), area incolta, bruciata e disboscata per permettere la coltivazione, ai reperti archeologici di et longobarda30 Si affiancano toponimi germanici quali Saxias 31. In questo caso sembra pertanto che gruppi di Longobardi preferirono fondare nuovi insediamenti in zone prima disabitate e incolte, che in un buon numero di casi si trovano in localit occupate nella tarda et del Ferro e poi abbandonate. Quest'ultima, forse casuale, coincidenza si verifica specialmente nella provincia di Verona (Molina, Caprino Rivoli, Tragnago, Peschiera, Colognola ai Colli, Povegliano, Baldaria, Legnano, Gazzo)32. Questo dato del resto provato anche da altre fonti, dato che le analisi pedologiche condotte per la pianura romagnola hanno dimostrato che questo territorio venne messo a coltura solo durante l'Altomedioevo mentre durante l'et romana la zona era paludosa33. Esiste, infine, un'ulteriore possibilit, che pi complessa da interpretare e per cui pi difficile scandire cronologicamente le tappe di uso e di abbandono del suolo: si tratta di insediamenti occupati sotto diverse forme durante l'et romana, ed in seguito da una necropoli altomedievale, e che sembrano definitivamente abbandonati fino all'et dei dissodamenti estensivi del XII secolo. Questo processo ipotizzabile in base alla presenza di reperti archeologici romani ed altomedievali, che si accompagnano a toponimi genericamente romanzi. questo il caso della val Trompia a nord di Brescia, in cui gli attuali abitati sono tutti contraddistinti da toponimi indicanti caratteristiche del suolo, come Villa Carcina, Villa Cogozzo, Concesio34 e dove sono stati rinvenuti piccoli nuclei cimiteriali altomedievali. Essi sono formati da una cinquantina di tombe, costruite con lastre di calcare locale, disposte a file, secondo il costume germanico35; contengono in genere esigui

Breonio e Molina: cfr. La Rocca Hudson, Le vicende del popolamento in un territorio collinare, cit., pp. 23, 31 e 35; Museo di Storia Naturale di Verona s.n. 26 Soprintendenza Archeologica di Verona, I.G. 27996. 27 von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., p. 32; R. Zoni, Tomba longobarda scoperta a Nograr di Valpolicella, "Memorie Storiche Forogiuliensi", XXXIX (1952), p. 112s. 28 Cipolla, Zevio. Tombe barbariche, cit. 29 Settia, Insediamenti abbandonati sulla collina torinese, cit., p. 263s. 30 P. Barocelli, Tracce di necropoli barbarica presso la strada nazionale Torino-Mocalieri, "Notizie degli Scavi di Antichit", 1915, p. 159, A. Angelucci, Catalogo dell'Armeria reale di Torino, Torino 1890, p. 588. 31 F. Cognasso, Cartario dell'abbazia di san Solutore di Torino, Pinerolo (Biblioteca della Societ Storia Subalpina 44) 1908, doc. 18, armo 1089, p. 37s. 32 A. Aspes et alii, 3000 anni fa a Verona. Dalla fine dell'et del bronzo all'arrivo dei Romani nel territorio veronese, Verona 1976, tav., IV, p. 76. 33 M. Cremaschi, A. Marchesini, Evoluzione di un tratto di Pianara Padana (prov. Reggio e Parma) in rapporto agli insediamenti ed alla struttura geologica tra il XV sec. a.C ed il sec. Xl d.C, "Archeologia Medievale", V (19801, pp. 542-70, in particolare pp. 542-5. 34 Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, cit., pp. 143, 184 e 191. 35 Villa Carcina: cfr. P. J. Hudson, M. C. La Rocca Hudson, Villa Carcina (BS). Cimitero altomedievale, in Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Notiziario 1981, Milano 1982, p. 142s.; Sarezzo: cfr. A. Breda, Sarezzo (Brescia). Loc. Brede, necropoli altomedievale, in Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Notiziario 1982, Milano 1983, p. 103s. Gussago: cfr. P. Rizzini, Supplemento agli oggetti barbarici raccolti nei Civici Musei di Brescia, "Commentari dell'Ateneo di Brescia", 1914, pp. 33-49, a p. 42; Panazza, Note sul materiale barbarico trovato nel bresciano, cit., p. 163; Villa Cogozzo: cfr. Rizzini, Supplemento agli oggetti

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elementi di corredo,prevalentemente armille dalle estremit ingrossate e pettini d'osso, mentre mancano del tutto i tradizionali attributi militari longobardi, quali la spada e le armi in genere.

FIGURA 4 Provincia di Brescia: distribuzione delle necropoli longobarde; Sepolture isolate( ); gruppi da 2 a 10 tombe( ); gruppi da 11 a 50 tombe (G); necropoli con pi di 50 sepolture

barbarici raccolti nei Civici Musei di Brescia, cit., p. 43; Panazza, Note sul materiale barbarico trovato nel bresciano, cit., p. 165.

FIGURA 5 Provincia di Verona: toponimi e necropoli. Distribuzione dei toponimi romani ( ) e germanici ( ); necropoli longobarde( ); tesoro di Isola Rizza ( ).

FIGURA 6 Provincia di Verona: Distribuzione delle necropoli longobarde. Sepolture isolate ( ); gruppi da 2 a 10 sepolture ( ); gruppi con pi di 10 sepolture (G); tesoro di Isola Rizza( ). Sebbene gli oggetti presenti in queste sepolture appartengano a tipi che compaiono anche in tombe longobarde - come le armille ad estremit ingrossate e decorate da pi file di perle a rilievo, che si rinvennero, ad esempio, nella tomba del cavaliere di via Monte Suello 4 a Verona36 - 1'assenza di armi e di ceramica tipicamente longobarda, potrebbe indicare sia che ci troviamo di fronte a sepolcreti della popolazione locale - come sembrano indicare anche le analisi antropologiche37 oppure ad un avanzato stadio della coabitazione tra indigeni e Longobardi. La composizione del corredo varia, va infatti dagli status symbols indicanti l'appartenenza all'esercito ai semplici oggetti personali. Se la presenza di questi oggetti indichi un periodo cronologico pi avanzato oppure una diversa matrice etnica difficile stabilirlo, poich le due possibilit non sono necessariamente contrapposte. Ad esempio a Pettinara-Casale Lozzi38 (Ascoli Piceno), gli oggetti dei corredi, attribuiti alla popolazione locale, sono databili alla fine del VII secolo o all'inizio dell'

M. L. Rinaldi, Tombe longobarde di Valdonega , "Bollettino d'Arte", XLIX (1964), p. 402s; Archivio Soprintendenza Archeologica del Veneto, Padova, ad vocem "via Monte Suello".
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Kiszely, The Antrhopology of the Lombards, cit. p. 157s. 0, von Hessen, Il cimitero altomedievale di Pettinara - Casale Lozzi (Nocera Umbra), Firenze 1978, p. 100s.

VIII, mentre le analisi osteologiche indicano un'origine germanica dei sepolti39, mentre a Sovizzo (Vicenza) la stessa necropoli, circoscrivibile nell'ambito del VII secolo, accanto ad un indubbio e purtroppo imprecisato numero di tombe con armi40, presenta circa 120 tombe con i soli pettine e coltello, recentemente scavate dalla Soprintendenza Archeologica del Veneto. Comunque il problema dell'identificazione della razza del sepolto in base al suo corredo funebre sta assumendo connotati sempre pi problematici, poich via via pi chiaro che non sempre le tombe con armi appartengono a Longobardi41, ne viceversa quelle con misero corredo sono sicuramente indizio della popolazione locale. 2. Le citt Il comportamento flessibile dei Longobardi nei confronti della struttura insediativa tardoantica evidente anche nel contesto urbano, sebbene i cambiamenti provocati dalla popolazione germanica siano di altra natura. Vi sono ancora assai pochi dati che possono essere sfruttati per delineare lo sviluppo urbano in Italia settentrionale dalla tarda antichit sino alla fine del periodo longobardo. Le fonti scritte, nella loro esiguit, forniscono soprattutto elementi sugli edifici ecclesiastici ed in misura assai pi ridotta sulle residenze pubbliche del potere regio o ducale42. I dati archeologici si limitano invece, nella maggioranza delle citt, a sepolture che dimostrano sia la continuit di uso dei cimiteri romani nel suburbio, sia la presenza di sepolture isolate all'interno della cerchia muraria43. I soli scavi urbani che abbiano scoperto resti di case altomedievali sono stati intrapresi in siti abbandonati durante il Tardomedioevo, come Luni44 e Castelseprio45.

H. Blake, Sepolture "Archeologia Medievale", X (1983), pp. 175-98, a p. 176. Cini, Ricci, I Longobardi nel territorio vicentino, cit. 41 Kiszely, The Anthropology of the Lomabrds cit. p. 196. 42 D. A. Bullough, Urban change in early Medieval Italy: the example of Pavia, "Papers of the British School at Rome", 34, (1966), pp. 82-130, a p. 92. 43 Per Verona cfr. von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., p. 7s; P.1 Hudson, M. C. La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante, in Lancaster in Italy, University of Lancaster 1983, pp. 9-21, a p. 17s. 44 B. Ward-Perkins, Ricerche su Luni medievale, in Scavi di Luni II. Relazione delle campagne di scavo 1972, 1973, 1974, a cura di A. Frova Roma 1977, pp. 633-38; Id. Two byzantine houses at Luni, "Papers of the British School at Rome", 49 (1981), pp. 91-8. 45 M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Castelseprio: scavi diagnostici 1962-63, "Sibrium", XIV (1978-79), pp. 1-138.
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FIGURA 7: Ricostruzione della viabilit roma di Verona: sepolture longobarde ( ); case di periodo longobardo( ); area non edificata ( a tratteggio). Fino ad epoca recente non vi erano dati relativi alle citt, tuttora esistenti, che potessero chiarire in quale misura i risultati ottenuti a Luni e Calstelseprio erano estendibili agli insediamenti urbani che continuarono a sopravvivere oltre l'et romana. Infatti, malgrado l'intensificazione dal 1980 in poi delle ricerche archeologiche urbane nel nord Italia, specialmente nella regione lombarda46, mancano ancora quasi completamente resti di case civili altomedievali (VII-X secolo). L'unica eccezione rappresentata da Milano, dove qualche elemento strutturale fu rinvenuto durante gli scavi per la "linea 3" della metropolitana in piazza del Duomo47 accanto ai dati pi consistenti di Verona, che qui si presentano.

Archeologia urbana in Lombardia, a cura di G. P. Brogiolo, Modena 1984. D. Andrews, D. Perring, Gli scavi in piazza del Duomo, in Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Notiziario 1982, cit., pp. 63-5, a p. 64, Id. Piazza Duomo lotto due, Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Notiziario 1983, Milano 1984, p. 91s.
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FIGURA 8 Verona, Via Dante: fronte stradale tardoromano e altomedievale (fine V- fine XII secolo). La campitura grigia indica la seconda fase edilizia ( inizio VII secolo), mentre quelle chiare al di sopra e al di sotto indicano la prima e la terza fase edilizia (rispettivamente fine V secolo e fine XI secolo). In questo lavoro, si considerano alcuni aspetti della topografia urbana, utilizzando i risultati degli scavi intrapresi dal 1981 a Verona48, integrando tali osservazioni con i dati di altre citt, in primo luogo Pavia, basati per essenzialmente su fonti scritte e topografiche. stato pi volte notato che la parziale conservazione del reticolo stradale romano nelle citt moderne dell'Italia settentrionale e centrale e Verona e Pavia sono due degli esempi pi noti di questo fenomeno deve significare una certa continuit dell'intensit di insediamento urbano anche durante l'Altomedioevo49. La natura di tale continuit stata recentemente chiarita nei recenti scavi di tre siti urbani a Verona, aventi caratteristiche diverse: il cortile del tribunale (circa 900 m2 all'interno di un'insula romana), via Dante (una strada urbana romana) e palazzo Maffei, collocato sul lato settentrionale di piazza delle Erbe, sul sito del Foro romano50 (fig. 7). Lungo il lato occidentale di via Dante, stata messa in luce una struttura muraria (lunga 22 metri ed alta circa 2 metri) (fig. 8), che rappresenta la fronte stradale altomedievale, e che collocata 4,5 metri ad est della fronte stradale romana51. Si tratta di case costruite durante il V secolo, periodicamente restaurate durante l'Altomedioevo ed abbandonate soltanto alla fine del XII secolo, quando l'intera zona venne acquisita dal Comune di Verona, e vi si edific il palazzo comunale52. Il
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Hudson, La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante cit. B. Ward-Perkins, From Classical Antiquity to the Middle Ages. Urban pubiic building in Northen and Central Italy, Oxford 1984, p. 179s.2 50 G. Cavalieri Manasse, Verona Palazzo Maffei: resti di edificio pubblico, "Quaderni di archeologia del Veneto", I (1985), p. 47s. 51 P. J. Hudson, M. C. La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Cortile del Mercato Vecchio, in Lancaster in Italy, University of Lancaster 1984 pp. 22-5. 52 P. J. Hudson, La dinamica dell'insediamento urbano nell'area dei Cortile del Tribunale di Verona. L'et medievale, "Archeologia Medievale", XII (1985), pp. 281-302.

fronte stradale altomedievale occupava la met occidentale della strada romana ed era connesso al retro degli edifici monumentali posti lungo il lato orientale del Foro. A palazzo Maffei si riscontrata una situazione del tutto simile. Alla fine del V o al massimo all'inizio del VI secolo, furono costruite delle case di abitazione nella estremit settentrionale del Foro, con la facciata posta circa 9 metri pi a sud rispetto all'edificio monumentale romano sottostante. Questi dati forniscono dunque l'immagine di una citt fittamente abitata durante il periodo tardoantico ed altomedievale. La situazione riscontrata all'interno dell'insula romana, modifica ed attenua quest'impressione. L'area dell'odierno cortile del tribunale fu intensamente riedificata durante la fine del IV secolo. Tale sviluppo include la costruzione di nuovi ambienti con pavimenti a mosaico, semplicemente bianchi bordati con una fascia nera, ed un'aula absidata53, ma segni di crisi urbana compaiono gi con la fine del V secolo. Alcuni ambienti sono completamente abbandonati, mentre in altri i mosaici sono semplicemente sostituiti da pavimenti di terra battuta. L'abbandono definitivo di queste strutture si verific tra la fine del VI e l'inizio del VII secolo54, quando un incendio provoc la loro totale scomparsa. Nessuna nuova struttura fu ricostruita in quest'area, fino all'inizio del IX secolo. Il deposito di terra scura che sigilla le macerie del crollo degli edifici tardoantichi suggerisce che la zona del cortile del tribunale fosse stata adibita a zona coltivata. Pertanto, mentre lungo la strada romana vi era ancora un fitto insediamento, le zone all'interno delle insulae sembrano invece sgombre di edifici. Altri dati per Verona sembrano confermare quest'ipotesi. La presenza di sepolture isolate e non associate ad edifici ecclesiastici presumibilmente anch'essa indice di aree aperte. A Verona vi sono tre episodi di questo genere: una tomba inserita nell'aula absidata al cortile del tribunale55, una sepoltura sul lato settentrionale del Foro 56, ed infne la ricca tomba femminile rinvenuta nel secolo scorso presso palazzo Miniscalchi, al centro di un isolato romano57. I risultati dell'esame del cavo veronese sembrano trovare sostanziale conferma per Pavia. Qui diverse sepolture altomedievali sono state rinvenute all'interno delle insulae della citt romana58, e 1'unico scavo stratigrafico eseguito all'interno di un isolato non ha identificato resti strutturali di questo periodo59. Inoltre, la costruzione in et longobarda e carolingia di chiese al centro di isolati romani potrebbe essere un'ulteriore indicazione di aree rimaste inedificate dall'et tardo romana (ad es. S. Pietro in Vincoli). Il ruolo avuto dai Longobardi nel ridimensionamento dell'intensit edilizia urbana comunque difficile da isolare. Si gi osservato che segni di decadenza urbana erano manifesti a Verona fno dalla fine del V secolo, e questa crisi potrebbe essere attribuita alI'abbandono della citt da parte dei maggiori latifondisti, che provoc la decisa diminuzione della committenza per nuovi edifici60 e 1'abbandono dei ceti dominanti della citt era intimamente connesso con la diminuzione del volume degli scambi economici che si verifc tra V e VI secolo. In questo quadro generale, gi compromesso, I'arrivo della nuova classe dirigente longobarda sembra aver soltanto peggiorato tendenze gi in atto.

Hudson, La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante, cit., p. 19s. Hudson, La dinamica dell'insediamento urbano nell'area del Cortile del Tribunale di Verona. L'et medievale, cit. 55 Hudson, La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante, cit., p. 17s. 56 Cavalieri Manasse, Verona Palazzo Maffei: resti di edificio pubblico, cit. 57 C. Cipolla, Una tomba barbarica scoperta nel Palazzo Miniscalchi a Verona, "MadonnaVerona", I (1906), pp. 1-7 (ora in Scritti di Carlo Cipolla, a cura di G. C. Mor Verona 1978, 1, pp. 151-7); von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., p. 7s. 58 P. J. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: l'esempio di Pavia, Firenze 1981, p. 255. 59 H. Blake, Pavia, in Lancaster in Italy: archaeological research undertoken in Italy by the Dept. of Classix & Archacology in 1979, University of Lancaster 1980, pp. 5-12, a p. 5s. 60 L. Ruggini, Economia e societ nell'"ltalia Annonaria", Milano 1961, pp. 29-35 81-90, 93-102.
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Vi fu inoltre una sostanziale continuit nell'insediamento suburbano. A Verona, questo dato testimoniato dalle tombe longobarde scoperte in Valdonega nel 196461, a nord del fiume Adige, in una zona occupata nell'et romana da suntuose ville suburbane62 e presso la chiesa di S. Fermo, nella zona chiamata nell'813 villa prope portam Sancti Firmi, cio presso la porta repubblicana, chiamata porta dei Leoni63. Anche a Lucca sono menzionate case di abitazione nel suburbio sin dai primi documenti dell'VIII secolo64, ed infine a Pavia, I'unico dato per l'esistenza di suburbi altomedievali il toponimo germanico Mons Falconis, nella zona sud occidentale della citt, ma qui non vi alcuna prova archeologica di un insediamento romano extra moenia65. Se vi fu una sostanziale continuit nell'estensione delle aree urbane e soltanto una diminuzione delle aree edificate, nelle tecniche costruttive vi fu invece un considerevole ridimesionamento qualitativo. I muri delle case scoperti negli scavi veronesi sono formati pressoch integralmente da materiale romano reimpiegato. In via Dante la striscia di lastricato romano su cui si costru l'edificio altomedievale venne totalmente asportata e le sue lastre vennero usate come soglie (fig. 8). A palazzo Maffei il lastricato del Foro venne asportato per lo stesso scopo e le fondazioni di un edificio pubblico vennero demolite per soddisfare la domanda di mattoni. A Pavia, sembra che l'anfiteatro ed altri edifici monumentali collocati nelle zone di insediamento longobardo, potrebbero aver sofferto la stessa sorta66.

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Von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., pp. 9-11. G. Tosi, La casa romana di Valdonega e il problema degli oeci colonnati, "Venetia", 3 (1971), pp. 5-69. 63 V, Fainelli, Codice diplomatico veronese, I, Venezia 1940, pp. 120-27. 64 I. Belli Barsali, La topografia di Lucca nei secoli VIII-XI, in Atti del V Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo - Lucca 1971, Spoleto 1973, pp. 461-554, a p.492. 65 P. Hudson, Pavia, in Archeologica urbana in Lombardia, cit., pp. 140-50, a p. 66 Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca, cit., p. 25.

FIGURA 9 Verona, ceramica longobarda proveniente dal cortile del Tribunale.

Legenda: 1) ceramica acroma con beccuccio applicato; 2) ceramica invetriata con beccuccio applicato; 3) base di ciotola con invetriatura interna e decorazione a stampo longobarda; 4) ceramica longobarda con decorazione a stampo.

A Verona il materiale reimpiegato era semplicemente legato da argilla, come le strutture scavate a Luni67 e Castelseprio 68. La facciata delle case altomedievali in via Dante era interamente costruita con materiali di reimpiego, mentre i muri interni divisori erano soltanto basse fondazioni forse per elevati di legno. Quindi, anche in questo campo l'arrivo dei Longobardi fu caratterizzato dalla prosecuzione di tendenze gi presenti tra la fine del V e l'inizio del VI secolo. La pi volte notata commistione di abitudini e tradizioni si riflette anche in materiali di uso quotidiano, per esempio la ceramica. In qualche caso si crearono dei tipi ibridi con caratteristiche
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Ward-Perkins, Ricerche su Luni medievale, cit. p. 636. Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Castelseprio, cit., pp. 38 e 78s.

che accomunano caratteri della produzione locale romana, come l'invetriatura verde o marrone69 e della produzione tipicamente germanica, a stralucido e stampiglia70. Si presentano qui quattro esempi particolarmente significativi dal cortile del tribunale (fig. 9). I primi due mostrano la diffusione di una forma tipicamente longobarda: la fiasca monoansata con beccuccio applicato71. Il primo ha impasto grezzo ed decorato da una linea incisa, di tradizione locale, mentre il secondo rivestito da vetrina giallo-marrone e decorato a rotella. La terza la base di una ciotola invetriata, decorata con stampigliature circolari con una croce centrale: la stessa stampigliatura presente su un bicchiere, con impasto grigio e decorato a stralucido, e quindi tipico della produzione longobarda. Quindi la fiasca da pellegrino di Testona e le borraccia invetriata con stampigliature da Biella72, non sono pi da considerarsi eccezioni. I1 fluido panorama che si presentato dimostra come non sia pi attuale parlare dei Longobardi in termini di specifici tipi di insediamento oppure di manufatti. sembrato infatti fruttuoso, oltre che di estremo interesse, esaminare in modo pi approfondito alcuni aspetti del sistema di relazioni che, di volta in volta, si vennero a creare con le popolazioni locali, ed forse in questa direzione che future ricerche potranno contribuire a meglio conoscere questo periodo della storia italiana anche attraverso l'archeologia.

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Blake, Ceramica paleo-italiana, cit. O. von Hessen, Die Langobardiischen Keramik aus Italien, Wiesbaden 1968, p. 23 71 Ibid.
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Blake, Ceramica paleo-italiana, cit., p. 31s e tav. 4.

Maometto, Carlo Magno e altri

Gli Autori, Richard Hodges e David Whithouse, sintetizzano brillantemente in quest'articolo pubblicato nel 19831 quanto pi estesamente scritto nel loro volume Mohammed, Charlemagne and the originis of Europe2. L'interesse dell'intervento sta non tanto negli apporti critici alla tesi di Pirenne, che viene ampiamente discussa e corretta, giungendo a conclusioni che un quarantennio di dibattito storiografico aveva in qualche modo gi definito, quanto piuttosto nel fatto che questo il primo studio che affronta tale tema utilizzando sistematicamente le fonti archeologiche su larga scala: in sostanza, se appare scontato il superamento del dibattito sulla tesi di Pirenne, viceversa di grande efficacia la ripresa in positivo della ricerca sulla "crisi" del Tardoimpero e l'inizio del Medioevo. In questa direzione le diverse forme che assume "la decadenza" urbana, i radicali mutamenti degli assetti nell'insediamento rurale, come appaiono in un quadro geografico estremamente ampio e comparato sulla base dell'informazione archeologica, l'analisi dei tesori del Mare del Nord alla fine del secolo VIII-inizi IX e lo sfruttamento di una grande rete di contatti commerciali con l'area islamizzata, sono le linee originalmente tracciate dagli autori di questo saggio che pone prospettive rinnovate alla ricerca archeologica. Si tratta in sostanza di un tentativo di sintesi delle informazioni archeologiche che vengono rapportate in un bilancio storico complessivo, soggetto ad "aggiustamenti" e a ricalibrature, tanto frequente nella tradizione anglosassone quanto desueto nella tradizione storiografica italiana.
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"Opus", II (1983), fasc. 1, pp. 253-66. London, 1983.

Richard Hodges - David Whitehouse Il Mediterraneo e l'Europa nell'Altomedioevo*

Tra gli sviluppi pi positivi dell'archeologia in Italia negli ultimi 20 anni sono la diffusione dello scavo stratigrafico e lo studio quantitativo della cultura materiale nell'archeologia classica e l'affermarsi della archeologia medievale. Praticamente ignorata agl'inizi degli anni Sessanta, oggi all'archeologia del Medioevo riconosciuta piena legittimit per quanto riguarda la tutela, la valorizzazione e la ricerca. Ci sono professori che insegnano questa materia nelle universit, ispettori specialisti nelle soprintendenze, una rivista annuale (Archeologia Medievale) a diffusione internazionale. Sebbene rimanga molto da fare, senza dubbio molto stato gi realizzato e in paesi vicini, come la Francia e la Grecia, sono stati fatti simili progressi nello stesso campo. Un analogo sviluppo si sta verificando anche in alcuni paesi islamici dove nel passato la cultura materiale degli ultimi 1300 anni era stata trascurata (a parte i monumenti pi famosi e le maggiori opere d'arte) a favore di civilt pi antiche: di solito quelle classiche nel Mediterraneo quelle preistoriche e protostoriche nell'Asia Occidentale. Oggi, una maggiore valutazione del patrimonio culturale pi recente, spesso sostenuta dalla ricchezza derivata dal petrolio, porta ad applicare ai resti del primo periodo islamico le tecniche archeologiche pi avanzate e cio: lo scavo stratigrafico, la ricognizione in superficie programmata, l'uso di modelli mutuati dagli antropologi e dai geografi, le analisi scientifiche e le statistiche dei manufatti e dei reperti biologici. Il bacino del Mediterraneo e l'Asia occidentale, quindi, hanno iniziato a darci abbondanti dati archeologici riguardanti il periodo che noi (ma non i nostri colleghi islamici) chiamiamo Altomedioevo, come da molto tempo ha fatto l'Europa settentrionale. Di conseguenza lo storico si trova di fronte ad una nuova, ricchissima fonte d'informazioni. Vorremmo illustrare l'importanza dell'archeologia per lo storico attraverso l'esame di una delle pietre miliari della storiografia moderna - la tesi di Pirenne - alla luce di questi nuovi dati archeologici. Lo facciamo senza intenzioni polemiche. Sicuramente non crediamo che l'archeologia possa sostituirsi alla storia tradizionale. Siamo tuttavia certi che il solo mezzo a nostra disposizione per aumentare notevolmente la banca dei dati per lo studio del Medioevo e che, quindi, ha molto da dirci adesso, e ancora di pi ne avr in futuro. Nel 1935, quando il grande storico belga Henri Pirenne mor, aveva gi completato la prima stesura del suo capolavoro Maometto e Carlo Magno. Sebbene non riveduta, quest'opera la trattazione pi ampia e matura di argomentazioni esposte dapprima in un articolo pubblicato nel 1922, elaborato poi nei primi capitoli de Le citt medievali del 1925 e presentate in molte sedi: a Roma, ad esempio, all'Institut Historique Belge (l'Accademia Belgica) nel 1933. La tesi centrale, presto divenuta famosa come "la tesi di Pirenne", riguarda le origini del primo impero europeo del Medioevo, quello di Carlo Magno, sviluppatosi nel vuoto lasciato nell'Europa occidentale dalla caduta dell'Impero romano. Essa basata quasi esclusivamente su fonti letterarie. usata la documentazione numismatica, vero, ma questo praticamente l'unico aspetto della cultura materiale preso in considerazione. Ecco testualmente la quintessensa della tesi di Pirenne contenuta nella parte conclusiva di Maometto e Carlo Magno1 :

*Testo riveduto di una conferenza tenuta alla British School at Rome il 20 maggio 1982.
H. Pirenne, Mohammed and Charlemagne , Londra 1958, pp. 284-5 (trad. it., Maometto e Carlomagno , Bari 1939). Tutte le citazioni di Maometto e Carlo Magno si riferiscono alla terza edizione della versione inglese.
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1. Le invasioni germaniche non distrussero n l'unit mediterranea del mondo antico, n ci che potrebbe essere considerato essenziale nella cultura romana, cos come si conservava ancora nel V secolo, in un periodo cio in cui in Occidente non vi era pi un imperatore. Malgrado il conseguente disordine, non apparve nessun nuovo principio n in campo sociale ed economico, n nella situazione linguistica, n nelle istituzioni esistenti. La civilt che sopravvisse era mediterranea. Fu nelle regioni attorno a questo mare che la civilt fu conservata, e da queste si originarono le innovazioni del tempo: il monachesimo, la conversione degli anglo-sassoni, la ars barbarica ecc. L'Oriente era l'elemento fecondatore; Costantinopoli il centro del mondo. Nell'anno 600 la fisionomia del mondo non era diversa da quella che aveva nel 400. 2. La causa della cesura con la tradizione antica fu il rapido ed inatteso avanzamento dell'Islam. Il risultato di tale avanzamento fu la separazione finale dell'est dall'ovest, e la fine dell'unit mediterranea. Paesi come l'Africa e la Spagna, che erano sempre stati parte della comunit occidentale, gravitarono d'ora in avanti nell'orbita di Baghdad. In questi paesi apparve un'altra religione ed una cultura completamente diversa. Il Mediterraneo occidentale, diventato un lago musulmano, non era pi l'arteria principale del commercio e del pensiero come era sempre stato. L'Occidente fu preso d'assedio e costretto a vivere delle sue proprie risorse. Per la prima volta nella storia, l'asse vitale fu spostato a nord del Mediterraneo. La decadenza in cui cadde la monarchia merovingia in seguito a questo cambiamento, dette vita a una nuova dinastia, la carolingia, la cui origine era nel Nord germanico. Il papa si alle con questa nuova dinastia rompendo con l'imperatore, il quale, assorbito nella sua battaglia contro i musulmani, non poteva pi proteggerlo. Cos la chiesa cambi bandiera. A Roma, e nell'Impero che essa fond, la chiesa non ebbe rivali. E il suo potere era tanto maggiore in quanto che lo Stato, essendo incapace di mantenere una sua amministrazione, si lasci assorbire dal feudalesimo, inevitabile risultato della regressione economica. Tutte le conseguenze di questo cambiamento divennero lampanti dopo Carlomagno. L'Europa, dominata dalla Chiesa e dal feudalesimo, assunse una nuova fisionomia, differenziandosi leggermente nelle varie regioni. Il Medioevo - per mantenere l'espressione tradizionale - stava iniziando. La fase transizionale fu lunga. Si pu dire che dur l'intero secolo, dal 650 al 750. Fu durante questo periodo di anarchia che la tradizione dell'antichit scomparve, mentre affioravano nuovi elementi. Tale sviluppo si complet nell'800 con la costituzione di un nuovo impero che consacr la rottura tra l'Occidente e l'Oriente dando un nuovo impero romano all'occidente: la prova evidente che si era separato dal vecchio impero che continuava ad esistere a Costantinopoli. Fin dal suo apparire, quest'ampia ricostruzione di Pirenne provoc un dibattito che ha continuato a riaccendersi in maniera intermittente per quasi mezzo secolo. I documenti sono stati setacciati alla ricerca di nuovi dati che appoggiassero o screditassero le conclusioni, e i dati numismatici sono stati riconsiderati pi di una volta2. Anche all'epoca in cui Pirenne era ancora in vita, l'archeologia aveva iniziato ad illuminare alcuni aspetti del problema dell'Europa nord occidentale. Basti ricordare che i primi risultati dello scavo dell'insediamento commerciale di Dorestad in Olanda furono pubblicati nel 19303. Poco dopo, scavi furono iniziati in un altro emporio, Haithabu, nella Germania settentrionale4. Dopo la morte di Pirenne, nel 1937, venne pubblicata la tesi di Holgar Arbman intitolata Schweden und das Karolingische Reich, che esaminava attentamente i rapporti tra il mondo scandinavo e quello carolingio. Nel 1940 e 1943 lo stesso studioso pubblicava i vecchi scavi di Birka in Svezia che fornivano abbondanti informazioni sulle relazioni commerciali dei Vichinghi5. Negli anni
A. Riising, The fate of Henri Pirenne's thesis on the consequences of Islamic expansion, "Classica et Mediaevalia", 13 (1952), pp. 87-130; B. Lyon, Henri Pirenne: a biographical and intellactual study, Gand 1974. 3 H. Holwerda, Opgravingen von Dorestad, "Oudheidkundige Mededeelingen", 9 (1930), pp. 32-93. 4 H. Jankuhn, Haithabu: ein Handelsplatz der Vikingecrzeit, 6a ed., Neumunster 1976. 5 H. Arbman, Birka, Sveriges aldsta handelstad, Stoccolma 1939.
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Cinquanta Joachim Werner, Donald Harden e altri esaminavano gli scambi internazionali tramite la diffusione di determinati tipi di manufatti come oggetti di metallo e di vetro6. La ricerca archeologica ha continuato con un buon ritmo e oggi la nostra conoscenza dell'Europa carolingia deve molto allo scavo e allo studio della cultura materiale, e la nostra conoscenza dei Vichinghi gli deve ancora di pi. Proprio come impossibile ora ignorare i dati archeologici nello studio dell'Altomedioevo nell'Europa nord-occidentale, allo stesso modo sta diventando rapidamente impossibile ignorarli nel Mediterraneo e nell'Asia occidentale. Per quanto riguarda la tesi di Pirenne, quindi, comincia ad esistere un discreto numero di informazioni archeologiche per tutte le zone interessate. Cosa ci dicono? Sarebbe assurdo tentare di offrire in questa sede un commento archeologico su tutti gli aspetti di un problema cos ampio e complesso. Cercheremo invece di trattare tre importanti elementi della Tesi di Pirenne: le condizioni economiche nel bacino mediterraneo al momento in cui arrivano gli Arabi, le radici locali dell'economia carolingia e la riforma monetaria dello stesso Carlomagno. Primo, il Mediterraneo. Pirenne propose due conclusioni, tanto fondamentali quanto semplici: 1.la civilt mediterranea era ancora essenzialmente unitaria alla vigilia dell'invasione Islamica, cio come era all'inizio del V secolo 2.la "cesura", quindi, se vogliamo considerare il problema in termini di una "cesura" - fra l'Antichit e il Medioevo - fu creata dagli Arabi, i quali effettivamente abolirono le relazioni commerciali tra il Mediterraneo e l'Europa continentale, isolando i Franchi e lasciando che essi stabilissero le loro nuove strutture politiche ed economiche. Senza gli Arabi (rappresentati simbolicamente da Maometto), scrisse Pirenne, la nuova Francia (rappresentata da Carlo Magno) sarebbe stata inconcepibile7. L'archeologia ci offre una prospettiva diversa. Invece che ad un unico episodio catastrofico nel VII secolo, ci troviamo di fronte ad un processo lungo e discontinuo di smembramento politico, decadenza urbana e diminuzione degli scambi commerciali. Il declino urbano inizia ad essere documentato dappertutto. A Roma i pochi e controversi dati delle fonti scritte riguardanti le quantit di pane e altre vivande distribuite gratuitamente implicano una popolazione di non meno di un milione di abitanti al tempo di Augusto, ma di non pi di 500.000 nel V secolo8. Dopo la "rinascita" edilizia del secondo quarto del V secolo, che vide la costruzione sia di S. Maria Maggiore che di S. Sabina, ci fu una pausa fino alle grandi opere del tardo VIII e IX secolo9. Intorno al 525, Cassiodoro sottoline il declino demografico dell'Urbe quando contrappose la situazione attuale con quella del passato [. . .] la grande estensione delle mura - scrisse - la capienza dei luoghi di spettacolo, di notevole grandezza delle terme, il numero di mulini [. . .] testimoniano le multitudini di cittadini (che, si capisce, non esistevano pi)10. Roma naturalmente era sempre un caso a parte, ma il suo destino negli ultimi secoli dell'Impero non era affatto unico. Troviamo la stessa decadenza urbana altrove in Italia, ad esempio nel porto di Luni, che fino a circa il 400 doveva 1a sua vita all'esportazione del marmo delle vicinissime cave di Carrara. Luni aveva gi iniziato la sua decadenza nel periodo imperiale, ma nel V secolo la

J. Werner, Fernhandel und Naturalwirtschaft in stlichen Merowingerreich nach archalogischen-numismatischen Zeugnissen, "Bericht der Rmisch-Germanisch Kimmission" 42 (1961), pp. 307-46, D. B. Harden, Glass vessels in Britain and Ireland, A.D. 400-1000, in D. B. Harden, Dark Age Britain, Londra, 1956, pp. 132-67. 7 Pirenne, Mohammed and Charlemagne, cit., p. 234. 8 S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo , Roma 1951, pp. 230-8; R. P. Duncan-Jones, The Economy of the Roman Empire, Cambridge 1974, p. 264, n. 4; G. Hermansen, The population of Imperial Rome: the Regionaries, "Historia", 27 (1978), pp. 129-68. 9 R. Krautheimer, Rome: Profile of a City, 312-1308 , Princeton 1980, pp. 46-108 (trad. it. Roma. Profilo di una citt. 312-1308, Roma 1981). 10 Cassiod. Var. XI.39

situazione precipit, ed invece di una architettura domestica i mattoni in recenti scavi hanno rivelato - perfino nel vecchio foro - modestissime costruzioni in legno11. Sebbene i particolari cambiamenti e la cronologia siano differenti lo stesso processo si osserva a Cartagine. Il mattone crudo sostitu materiali da costruzione pi durevoli. Parte della rete stradale fin per essere bloccata da rifiuti. La zona urbana piena di inumazioni riferibili, secondo uno degli scavatori, a uno stadio avanzato del declino economico e demografico, quando zone della citt non erano pi occupate e le leggi tradizionali, secondo le quali la necropoli doveva stare fuori le mura, furono abbandonate. Tutto questo si verific prima e non dopo l'invasione islamica12 Una storia analoga sta venendo alla luce altrove nel Mediterraneo centro-occidentale, e non vi dubbio che il declino urbano fosse quasi universale13. Meno scontato, forse, il fatto che una trasformazione simile si verific anche nel cuore dell'Impero bizantino. Recentemente, Clive Foss, ha pubblicato uno studio delle "venti citt dell'Asia" nominate da Costantino Porfirigeneto nel X secolo. La lista include Efeso, Mileto, Pergamo, Sardi e Smirne: tutti centri ampiamente scavati nell'ultimo secolo. Anche se gli scavatori possono non aver trovato modeste strutture di legno come quelle scoperte a Luni, sicuramente avrebbero trovato tutte, o quasi, le costruzioni in mattone o pietra. Per quanto riguarda il VII secolo, queste mancano. Guardiamo Efeso, ad esempio. Nel V secolo, parte della citt fu ricostruita, poi sotto Giustiniano venne eretta la magnifica chiesa di S. Giovanni; la zona intorno l'Embolo, uno dei viali principali, era piena di case di cittadini ricchi. Ma all'inizio del VII secolo tutto cambi. Questo il periodo dell'invasione persiana, dopo la quale la vita urbana di Efeso declin rapidamente. Infatti, in tutte le citt, con la possibile eccezione di Smirne, troviamo lo stesso fenomeno: una rapida decadenza prima dell'arrivo degli Arabi )14. Anche nel Mediterraneo orientale, quindi, le armate islamiche stavano attaccando un sistema gi decisamente indebolito. Nella maggior parte dei casi non mancava che un colpo di grazia. Non ci sorprende che nella misura in cui le citt declinavano, anche il commercio diminuiva. Nel V secolo, una citt come Roma consumava materie prime, manufatti e vettovaglie provenienti da ogni angolo del Mediterraneo e oltre. Uno scavo come quello della Schola Praeconum mostra ceramiche da tavola dall'Africa settentrionale e anfore dalla Tunisia, dall'Egeo, dalla Turchia e anche da Gaza in Palestina15. La stessa situazione si verifica a Cartagine, dove anfore importate dal Mediterraneo orientale erano comuni fno alla fine del VI secolo, data a partire dalla quale le relazioni commerciali sembrano essere declinate molto rapidamente16. Il commercio mediterraneo ancora esisteva: lo scavo a Luni lo dimostra, come anche la scoperta di frammenti di anfore provenienti da Gaza in strati sicuramente posteriori al 550 ad Anguillara nella Campagna Romana, o ceramica da tavola africana dello stesso periodo a Farfa nella Sabina. Ma il numero delle imbarcazioni ed il volume dei prodotti trasportati erano esigui a paragone agli scambi commerciali di qualche secolo prima17. Proprio come il declino delle citt, sebbene quasi universale, si verifc in maniera diversa
B. Ward-Perkins, Luni: the Decline of a Roman town , in M. Blake, T. Potter e D. Whitehouse Papers in Italian Archaeology, I, Oxford 1978, pp. 2, 313-21; Id., Not so different from England? A Byzantine House in Italy, "Popular Archaeology", Agosto 1981, p. 17s; Id., Two Byzantines houses at Luni, "Papers of the British School at Rome" , 49 (1981), pp. 91-8. 12 H. Hurst, Excavations at Carthage, 1977-8. Fourth Interim Report, "Antiquaries Journal", 59 (1979), pp. 19-49. 13 P. A. Fevrier, Quelques observations sur villes et campagnes au Maghreb la fin de l'Antiquit ; Id., Observations sur l'habitat urbuin et rural dans la Gaule mridionale (dattiloscritto inedito presentato all'Istituto Gramsci, Napoli 1982). 14 C. Foss, Archaeology and the 'Twenty Cities' of Byzantine Asia , "American Journal of Archaeology", 81 (1977), pp. 469-86; Id., Ephesus after Antiquity: a Late Antique, Byzantine and Turkish City, Cambridge 1979. 15 D. Whitehouse, G. Barker, R. Reece, D. Reese, The Schola Praeconum I. the coins, pottery, lamps and fauna , "Papers of the British School at Rome", 50 (1982). 16 M. Fulford, Carthage: overseas trade and the political economy, c. A D. 400-700 , "Reading Medieval Studies", 6 (1980), pp. 68-80. 17 C. Panella, Produzioni anforiche presenti nella Cartagine di et romana: nuovi elementi per la ricostruzione dei flussi commerciali del Mediterraneo tra il V e a VII secolo (dattiloscritto inedito presentato all'Istituto Gramsci, Napoli 1982).
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da una regione all'altra, anche il declino nel volume del commercio era lungi dall'essere uniforme. Il punto essenziale, tuttavia, che contrariamente alla ipotesi sostenuta da Pirenne, il crollo dello scambio su vasta scala ebbe luogo prima dell'arrivo degli arabi e non fu causato dagli stessi arabi. La decadenza della vita urbana e la recessione economica possono essersi accompagnate a cambiamenti radicali nell'insediamento rurale. I dati, tuttavia, sono attualmente difficili da interpretare. Sicuramente, il numero di siti rurali del VI secolo scoperti dagli archeologi in una zona come l'Etruria meridionale o nell'ager Cosanus di gran lunga inferiore al numero dei siti del II secolo18. Comunque, dato che noi identifichiamo tali siti soprattutto in base alla presenza di certe tipiche ceramiche d'importazione (in particolare, terra sigillata africana) non sappiamo fino a che punto la scarsit di siti identificati sia dovuta semplicemente alla scarsit di ceramiche importate sul mercato locale, in seguito alla recessione commerciale. In futuro, quando saremo in grado di riconoscere non solo la terra sigillata africana, ma anche le ceramiche di uso comune, saremo in grado di valutare molto pi accuratamente la densit dellinsediamento rurale nel periodo tardoromano, cosa che attualmente purtroppo non possibile19. Tuttavia, sebbene i dati archeologici siano difficili da interpretare, abbiamo indicazione di quanto pu essere accaduto dal fenomeno geologico conosciuto come the Younger Fill (il riempimento recente). Questo riempimento uno strato di alluvium trovato nelle valli in molte zone del bacino Mediterraneo, creatosi secondo alcune datazioni radiocarboniche nel periodo 400-900 d.C.20. L'alluvium veniva depositato dai fiumi, a volte in maniera drammatica: la citt di Olimpia nel Peloponneso venne letteralmente seppellita dal fango e dalla ghiaia portata dal fiume Cladeo. Esistono due ipotesi principali sull'origine dell'alluvium. La prima, elaborata dal geologo Claudio Vita-Finzi nel suo studio classico The Mediterranean Valleys, lo attribuisce ad un cambiamento metereologico. Un aumento nella pioggia produrrebbe un maggior volume d'acqua nei fiumi che causerebbe una pi rapida erosione ed una maggiore capacit di trasportare l'alluvium. I sostenitori di questa ipotesi, tuttavia, devono ammettere non solo che non c' alcuna prova a favore di un aumento di precipitazioni, ma anche che le recentissime ricerche della missione dell'UNESCO nei uidian della Libia danno prove sicure contro l'ipotetico aumento21. Resta l'altra ipotesi, secondo la quale l'alluvium fu una conseguenza del declino del sistema agricolo romano. Nel momento in cui diminuivano i grandi mercati urbani per il grano, l'olio ed il vino, la mancata riparazione delle terrazze avrebbe portato il suolo all'erosione, e la stessa cosa si sarebbe verificata se i canali di scolo non fossero pi stati mantenuti22. Qualunque sia la spiegazione corretta per l'alluvium23, esso ha importanti implicazioni per il periodo che c'interessa. I cambiamenti geomorfologici nelle vallate e negli estuari avrebbero intaccato non soltanto l'agricoltura, ma anche le reti stradali, i porti (come quello di Roma) e perfino le stesse citt. Il destino di Olimpia fu un esempio estremo di un fenomeno piuttosto comune, e disastrose alluvioni vennero registrate a Roma nel 589 e in seguito tra il 715 e il 73124. In questo miscuglio di citt morenti, crisi economiche e vallate soffocate dall'alluvium, dove andato a finire Pirenne? Proprio qui. Per Pirenne, gli Arabi chiusero il Mediterraneo ed in seguito i
T. W. Potter, The Changing Landscape of Southern Etruria , Londra 1979, pp. 13944 (trad. it.: Storia del paesaggio dell'Etruria medirionale, Roma 1985); M. Celuzza, E. Regoli, La Valle d'Oro nel territorio di Cosa, in "Dialoghi di Archeologia", n.s., 4 (1982), pp. 31-62. 19 Per quanto riguarda l'Etruria meridionale, un contributo alla comprensione della ceramica d'uso comune ci viene dagli scavi ad Anguillara: D. Whitehouse, Le Mura di S. Stefano, Anguillara Sabazia (Roma): Ultima relazione provvisoria, in "Archeologia Medievale" 9 (1982), pp. 319-22; vedi anche P. Arthur, D. Whitehouse, Le ceramica dell'Italia Meridionale: produzione e mercato tra V e X secolo, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 39-46. 20 C Vita-Finzi, The Mediterranean Valleys, Cambridge 1969. 21 G. Barker, G. D. B. Jones, The UNESCO/Libyan Valleys Survey: Report on Three years of Fildwork , 1979-1981, p. 56. 22 Vita-Finzi, The Mediterranean Valleys, cit., p. 105. 23 J. M. Wagstaffe, Buried assumptions: some problems in the interpretation of the 'Younger Fill' raised by recent data from Greece, "Journal of Archaeological Science", 8 (1981), pp. 247-64. 24 L. Duchesne, Le Liber Pontifcalis, Parigi 1886, I, pp. 399 e 411.
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Franchi, isolati nell'Europa occidentale, non ebbero altra scelta che quella di creare la loro stessa identit politica. Per l'archeologo, che sia d'accordo o meno con tutte le nostre ipotesi, il distacco dell'Europa dal Mediterraneo fu un processo pi lungo, complesso e discontinuo. Questo processo era gi maturo quando arrivarono gli Arabi - infatti era iniziato in Europa con la fine dell'amministrazione provinciale di Roma se non prima - ed in questo senso sembrerebbe che Maometto abbia ben poco a che fare con Carlo Magno. Due aspetti dello stato carolingio che l'archeologo pu contribuire a chiarire sono quelli che riguardano le citt e il commercio: specialmente in che misura esistevano sia prima di Carlo Magno che dopo. Sebbene i dati archeologici siano pi abbondanti in Inghilterra che in Francia, cominciamo ad avere un'idea circa le condizioni delle citt tardoromane del continente nei cosiddetti "secoli scuri", tra il V e il VII secolo. Come nella maggior parte del Mediterraneo, la costruzione di prestigiosi monumenti pubblici e sontuose residenze private terminarono. Dove si hanno tracce di occupazione continua, si tratta di edifici di legno, come a Luni25. Diminuirono anche la produzione su scala pi o meno industriale e il commercio regolare su lunga distanza, mentre le monete non furono pi di uso comune. Negli insediamenti rurali della Francia troviamo una gamma di manufatti molto pi ristretta di quella che era una volta esistita nelle citt romane, e per la maggior parte fatti localmente da non professionisti o al massimo da semiprofessionisti26. Il periodo tra il V e il VII secolo quindi vide lo sviluppo di una societ agraria in cui la maggior parte della popolazione era sparsa in modesti insediamenti rurali. L'economia di mercato era crollata, l'artigianato e l'imprenditoria erano praticamente scomparsi e i dati archeologici convergono su una quasi totale dipendenza dalla produzione locale. Sebbene gli Arabi non c'entrino, il giudizio di Pirenne sulla societ ed economia della Francia merovingia confortato dai dati di scavo: citt e commercio, cos come concepiti nel periodo romano, non esistevano pi27. Vi erano, naturalmente, centri di potere sia civile che ecclesiastico. Alcuni di questi erano nelle vecchie citt: piccoli nuclei circondati da quartieri praticamente abbandonati. Aethelberht, re di Kent, per esempio, viveva nella citt romana di Canterbury al tempo della missione di Agostino nell'anno 597 e pi tardi la pi famosa residenza reale, ad Aquisgrana, sorse al centro di un'altra citt romana28. Si potrebbero citare molti esempi: il palazzo del vescovo recentemente scoperto a Tours, i complessi monastici nelle citt della Provenza, e cos via. la storia di Luni e di dozzine di altre citt sia continentali che mediterranee29. Anche il paesaggio merovingio conteneva centri di potere, come i monasteri (che in seguito godranno grande prosperit sotto Carlo Magno e i suoi successori) e le ville reali, di cui Ingelheim e il recentemente scavato Schloss Broich furono i discendenti caloringi30. Tuttavia, non dobbiamo farci influenzare dalla fama di questi siti e sopravvalutare il loro carattere monumentale, anche sotto i carolingi. Il palazzo imperiale ad Aquisgrana, il centro amministrativo pi importante dell'Europa occidentale, occupava solo due ettari (la maggior parte era vuoto) mentre il grande monastero ideale di S. Gallo fu progettato per solo 240-260 persone tra monaci e laici31. Il commercio croll, ma ogni tanto prodotti stranieri raggiungevano anche le parti pi distanti dell'Europa: il vasellame di bronzo fuso arrivava dall'Egitto, il vino dalla Palestina, la ceramica da tavola dalla Tunisia32. Paradosso? Pensiamo di no, preferendo interpretare queste rare e costose
M. Biddle, Towns, in The Archaeology of Anglo-Saxon England, a cura di D. Wilson, Londra 1976, pp. 99-150. Cfr. R. Koch, Absatzgebiete merowingerreitlicher Topferewen des nordlichen Nechagelsieter , "Jarbuch fur Schwabisch Frankische Geschichte", 27 (1973), pp. 31-43. 27 Pirenne, Mohammed and Charlemagne, cit., pp. 164-74. 28 W. Horn, The Plan of St Gall, Berkeley, Los Angeles e Londra 1979, I, pp. 106-7. 29 H. Galini, Archologie et topographie historique de Tours-IVme-Xlme sicles , "Zeitschrift fr Archologie des Mittelalters", 6 (1978), pp. 33-56. 30 G. Binding, Die spatkarolingische Burg Broich in Mulheim and der Ruhr, Dusseldorf 1968. 31 Horn, The Plan of St Gall, cit., I, p. 342. 32 Per le ceramiche mediterranee nell'Europa occidentale, vedi C. Thomas, A provisional list of improted pottery in post-Roman Western Britain and Ireland, Redruth 1981. Per il vasellame di bronzo egiziano in Italia, vedi la recente lista di M. C. Carretta, Il Catalogo del vasellame bronzeo italiano alto medievale, Firenze 1982.
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importazioni come oggetti di scambio di carattere non commerciale. Sappiamo dall'antropologia che lo scambio di doni un mezzo preferito per rendere omaggio e rinforzare relazioni politiche e sociali. L'idea non nuova; fu esaminata anni fa da Malinowski e da Marcel Mauss33. Anche il grande tesoro di Sutton Hoo pu essere facilmente interpretato come frutto di una serie di scambi di doni piuttosto che di rapporti commerciali. un passo piccolo, abbondantemente documentato nella letteratura antropologica, quello che, dagli scambi di doni porta alla creazione di specializzate partnerships semi-commerciali, che permettono lo scambio di oggetti di prestigio e di lusso tra i capi o, nel caso europeo, tra reucci locali. Un elemento essenziale in questo sistema la creazione di posti di frontiera, dove gli scambi possono essere controllati - le cosiddette gateway communities dei geografi e degli antropologi34. Non affatto assurdo pensare all'Europa occidentale in questi termini, sufficiente ricordare le lettere scambiate tra Carlo Magno e Offa, re di Mercia, le quali descrivono esattamente questo fenomeno35. Infatti analoghi posti di frontiera stanno iniziando a venire alla luce. Ad alcuni chilometri da Sutton Hoo, si trova il porto di Ipswich, che emerge come uno dei maggiori insediamenti di questo periodo. Il re di Wessex aveva Hamwih, precursore del gorto di Southampton. Nel continente, si hanno Quentovic e Dorestad 36. Alla fine dell'VIII secolo, tutti e quattro questi posti fissi subirono un drammatico cambiamento. Divennero molto pi grandi (alla fine Dorestad si estendeva per 250 ettari) e testimoniano non soltanto dell'esistenza di commercianti ma anche di artigiani. Aument la quantit e la variet della cultura materiale. Le monete, prima molto scarse, divennero pi comuni. Grazie all'applicazione della dendrocronologia ai legnami conservati negli strati pi umidi a Dorestad, sappiamo con grande precisione quando lo sviluppo prese il via: nell'ultima decade dell'VII secolo37. L'emergenza di un vero sistema commerciale (sarebbe difficile spiegare il fenomeno in altri termini) coincideva con una svolta nello sviluppo della moneta medievale in Europa: la riforma monetaria di Carlo Magno dell'anno 793 o 79438. Il peso del denaro d'argento aument di un terzo e Carlo Magno fece l'impossibile per allargare la diffusione e l'uso della moneta. Gli obiettivi evidentemente erano di stimolare l'economia e di facilitare l'esazione delle tasse. Il successo della riforma, se non altro dal punto di vista commerciale, chiaramente dimostrato dalla crescita esplosiva di Dorestad, e non un caso che le stesse misure furono subito adottate da Offa e da Leone III39. Il Mare del Nord non la sola zona in cui si svilupparono i porti commerciali negli anni intorno all'800. Subito fuori della frontiera carolingia, i Danesi fondarono un insediamento che aveva un solo scopo, il commercio. L'insediamento era Haithabu, creato dopo una raid che vide la distruzione del vicino porto carolingio e la deportazione dei mercanti. La dendrocronologia dimostra che la costruzione di Haithabu era gi in corso nell'anno 810 circa40. Quale motivazione spinse i Danesi ad imbarcarsi in questa impresa? Dato il carattere commerciale di Haithabu, la risposta sembra sia che essi volevano controllare le nuove relazioni commerciali tra la Francia e il Mar Baltico, dove i dati archeologici mostrano lo sviluppo di un'attivit economica non meno intensa di quella del Mare del Nord. Gli scavi nei cimiteri di Birka, un centro commerciale svedese, gi dallo scorso secolo documentarono la ricchezza degli abitanti dal IX secolo in poi. La scoperta a Helgo di una statuetta di Budda, fusa nel Kashmir, dimostra come gli

B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, Londra 1922; M. Mauss, Essai sur le Don, Parigi 1925. R. Hodges, Dark Age Economics, Londra 1982. 35 Ivi p. 124. 36 1vi, pp. 66-86. 37 W. W. van Ess, W. J. H. Werwers, Excavations at Dorestad 1: the harbour; Hoogstrnat 1, Amersfoort 1980. 38 P. Grierson, Money and coinage under Charlemagne, in Karl der Grosse 1, Dusseldorf 1965 pp. 501-36. 39 Ibid. 40 Jankuhn, Haithabu, cit.; K. Randsborg, The Viking Age in Denmark , London 1980, pp. 85-92 e 171s.; K. Shietzel, Stand der siedlungsarchologischen Forschung in Haithabu. Ergebnisse und Probleme, "Berichte uber die Ausgrabungen in Haithabu", 16 (1981).
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oggetti possano essere importati da paesi sorprendentemente lontani41. Recentemente, gli scavi a Staraya Ladoga, vicino Leningrado, ci hanno dimostrato che anche qui cominci ad espandersi un ricco centro commerciale intorno all'800 circa42. In poche parole, la nuova informazione archeologica ha mutato completamente le nostre idee circa le origini dei rapporti commerciali nell'Europa nord-occidentale, provando lo sviluppo dei porti nel Mare del Nord e nel Baltico entro un brevissimo periodo compreso tra il 790 e 1'810 circa. Questo elogio dell'archeologia pu forse sembrare troppo simile ad un annuncio pubblicitario e dobbiamo ammettere che, come qualsiasi inserzione per detersivi, propone un ingrediente speciale. Pirenne quasi lo scopr quando scrisse di una grande via commerciale che conduceva (dall'Oriente, s'intende) al Baltico, percorrendo il Volga43. Esit, tuttavia, e abbandon l'argomento. Riproponiamolo noi. Abbiamo insistito sullo sviluppo dei centri commerciali lungo le coste del Mare del Nord e il baltico, e sulle relazioni tra il mondo carolingio e i Vichinghi. Sappiamo tutti che gli stessi Vichinghi sfruttarono una vasta rete di contatti commerciali con la Russia e l'Oriente islamico, ed questo l'ingrediente speciale44. Nell'anno 750 l'ultimo califfo della dinastia omniade fu spodestato. I nuovi califfi della dinastia degli Abbasidi decisero di trasferire la corte e il governo dalla vecchia capitale, Damasco, verso le basi del loro stesso potere, in oriente. Dodici anni pi tardi, dopo molte indecisioni, il califfo alMansur decise di fondare una nuova citt sul Tigri, nel punto in cui i grandi fiumi, il Tigri e l'Eufrate, distano meno di 40 km. e erano gi collegati da canali. La scelta fu brillante e gli scrittori arabi del IX e X secolo sono unanimi nelle loro lodi. Secondo al-Muqaddasi, venne detto al califfo: sarai sempre circondato da palme e sarai vicino all'acqua [. . .] se una regione soffre siccit [. . .] vi sar sollievo da un'altra [. . .]. Il nemico non pu avanzare salvo che per nave o sopra un ponte. Ya'qubi scrisse: Il Tigri ad oriente e l'Eufrate ad occidente sono gli approdi del mondo. Tabari fa esclamare il califfo: Questo il Tigri: qui non c' distanza tra noi e la Cina. Tutto ci che sul mare pu venire a noi45. Baghdad non solo era ben situata per esercitare il commercio marittimo, ma era anche un punto d'incontro per alcune delle maggiori carovaniere dell'Asia. La "via di Khorasan" arrivava dall'Iran e Asia centrale, portando tra le molte altre cose, argento dalle miniere di Afghanistan e Uzbekistan. Altre strade portavano verso ovest in Siria e a sud-ovest fino in Arabia ed Egitto. L'Iraq, quindi, divenne il centro di un vasto impero politico e commerciale. Non esiste illustrazione pi sconvolgente della ricchezza a disposizione degli Abbasidi che Samarra, un'altra nuova capitale a 129 chilometri a nord di Baghdad, creata ex novo nel 836, e abbandonata dai califfi nel 882. In un arco di tempo di appena 46 anni, gli Abbasidi riuscirono a costruire una citt che si estendeva lungo il Tigri per 35 km - pi della distanza tra Roma e Ostia46. Fu un'impresa incredibile, forse la citt pi grande mai esistita prima di questo secolo. Esaminiamo solo quattro dei principali edifici. I1 palazzo del fondatore di Samarra, al-Mu'tasim aveva un'area quattro volte maggiore dei Vaticano. Questo fu sostituito da un nuovo palazzo, costruito pochi anni dopo dal suo successore, alMutawakkil, e grande tre volte pi del Vaticano. Lo stesso califfo costru anche una moschea grande pi di due volte S. Pietro. Pi tardi, ne costru un'altra, la moschea di Abu Dhulaf, anche questa due volte pi grande di S. Pietro. vero, i materiali da costruzione (per la maggior parte mattone crudo) e la mano d'opera costavano poco. Ma i palazzi e
La statuetta stata illustrata in numerose occasioni; vedere, ad esempio, D. Wilson, The Wikings and their origins , London 1970, fig. 33. 42 Hodges, Dark Age Economics , cit.; D. Ellmers, Frhmittelalterliche Handelsschiffart in Mittel und Nordeuropa , Neumuster 1972. 43 Pirenne, Mohammed and Charlemagne, pp. 183s. 44 H. Arbman, Svear i Osterviking, Stoccolma 1955; A. Stender-Petersen, Varangica, Arhus 1953. 45 K. A. C. Creswell, Early Muslim Architecture, 2a ed., Londra 1968, 2, pp. 1-5. 46 Stranamente, nessuna dettagliata descrizione del sito mai stata pubblicata. Per una serie di fotografie aeree, vedere E. Herzfeld, Ausgrabunden von Samarra VI. Geschichte der Stadt Samarra, Berlino 1948. Per la descrizione dei principali monumenti, vedere Creswell, Early Muslim Architecture, cit..
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le moschee erano rifiniti in marmo, mosaici e stucchi, e in ogni caso, quali ehe fossero i materiali usati, la costruzione di una citt per l'estensione di 35 km, realizzata in soli 46 anni, deve aver consumato una parte del bilancio nazionale, pari o forse maggiore di quella destinata oggi al programma di difesa di una o l'altra delle superpotenze. Un importante elemento nella ricchezza degli Abbasidi fu il commercio marittimo, e anche qui l'archeologia si aggiunge alla storia come un'indispensabile fonte d'informazione. Gi sapevamo dalle fonti scritte che i rapporti commerciali ebbero una lunga storia nell'Oceano Indiano. Anche all'inizio del primo millennio dopo Cristo, il Periplo del Mar Rosso dimostra una conoscenza non solo dello Sri Lanka, ma vagamente anche della costa orientale dell'India. Alla fine dello stesso millennio, mercanti viaggiavano regolarmente dal Golfo Persico alla Cina e dall'Africa Orientale, fino a Sofala in Mozambico e all'isola di Madagascar47. Ora, l'archeologia ci dice con precisione impressionante quando questi lunghissimi viaggi iniziarono. L'informazione ci viene da Siraf, il grande porto medievale del Golfo48. Malgrado un ambiente arido ed improduttivo, Siraf fior per pi di due secoli grazie alla sua funzione di porto di scalo per una flotta mercantile che trafficava lungo tutto l'Oceano Indiano. La chiave di lettura della storia di Siraf la moschea principale, costruita, ricostruita, quindi riparata in pi di un'occasione. La prima costruzione sembra abbia avuto luogo contemporaneamente alla costruzione del bazar, il cuore commerciale della citt. Ci rappresenta un considerevole investimento e gi denuncia un momento eccezionale di sviluppo economico. Questo coincide inoltre con un notevole cambiamento nella ceramica d'uso. Prima della costruzione della moschea, le ceramiche cinesi erano presenti, ma rare e in forma di giare per l'importazione di sostanze deperibili. Gli strati contemporanei e successivi alla costruzione, d'altra parte, contengono una maggiore quantit di materiale cinese, e non solo contenitori: sono presenti anche pregevoli ceramiche da tavola. Crediamo non si tratti di altro che del momento in cui inizi il contatto diretto con la Cina, in sostituzione di quello indiretto. E la data? Gli storici ci dicono che non pu essere prima del 792, quando il governo cinese riapr il Cantone ai mercanti stranieri49. L'archeologia ci dice che non pu essere dopo gli anni 815-25, data della costruzione della moschea indicata dalle monete. Ricapitolando, la fondazione di Baghdad nel 762 provoc un boom economico nell'Asia occidentale, e l'inizio di un commercio diretto con la Cina negli anni intorno all'800 sintomatico dell'enorme forza dell'economia abbasida, all'epoca governata dal califfo Harun al-Rashid. Naturalmente, il simultaneo sviluppo dell'economia carolingia, del commercio baltico e del boom nell'Asia occidentale non pu colpirci. E per finire, vorremmo aggiungere un ulteriore elemento interessante. Torniamo alla riforma monetaria di Carlo Magno, che aument di un terzo l'ammontare dell'argento nei suoi denari. Come? La risposta venne data poco dopo la pubblicazione di Maometto e Carlo Magno da un giovane numismatico, Store Bolin. L'argento, egli diceva, proveniva dal commercio con le citt del Baltico ed esse lo ottennero tramite il commercio con l'Oriente. Il Baltico, egli precisava, pieno di tesori di monete - quasi tutte islamiche - e il peso del nuovo denaro pesante di Carlo Magno era simile a quello del dirham di Harun al-Rashid50. Siamo convinti che Bolin aveva ragione. Una recente analisi di 71 tesori scoperti nelle repubbliche occidentali dell'Unione Sovietica rivela che il volume di monete d'argento islamiche esportate verso il Baltico raggiunse una proporzione senza precedenti negli anni 790-820 circa: il periodo in cui

sufficiente confrontare il Periplo con le notizie date dai geografi arabi, come riassunto, ad esempio, da G. Hourani, Arab Seafaring, Beirut 1964. Per l'Africa orientale, vedere J. S. Trimingham, The Arab geographers and the East African Coast, in H. N. Chittick, R. I. Rotberg, East Africa and the Orient, New York e Londra 1975, pp. 115-46. 48 D. Whitehouse, Siraf: a medieval city on the Persian Gulf , "Storia della Citt", 1 (1976), pp. 40-55; Id. Siraf III: The Congregational Mosque, Londra (s.d.). 49 Hourani, Arab Seafaring, cit., p. 66. 50 S, Bolin, Mohammed, Charlemagne and Ruric , "Scandinavian History Review", I (1953), pp. 5-39; Grierson, Money and coinage, cit.

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l'economia abbasside raggiunse il suo apice e il nascente sistema carolingio era in grado di ricevere, e cambiare per uso interno, grandi quantit d'argento51. Dove ci ha portato questa discussione? Riassumiamo: Carlo Magno tent di sviluppare un pi coerente sistema economico nell'Europa occidentale, incoraggiando il commercio e senza dubbio facilitando l'esazione dalle tasse tramite la riforma monetaria. Noi crediamo, che per questimpresa egli ottenne la maggior parte dell'argento dai commercianti del Baltico, i quali a loro volta lo ottennero dal Medio Oriente. Harun al-Rashid govern un impero dieci volte pi vasto di quello carolingio e dall'enorme capacit economica. In questo preciso momento, i capitani di Siraf iniziarono regolari contatti marittimi con un altro grande impero, la Cina e sfruttarono le ricchezze naturali dell'Africa orientale. Altrove i mercanti islamici rinforzavano i rapporti con il baltico che serviva da legame tra la rete commerciale dei Carolingi e degli Abbasidi fornendo le zecche dell'Occidente con l'argento dell'Afghanistan e di altre regioni asiatiche. una domanda senza risposta, ma che merita lo stesso di essere fatta: Carlo Magno e Harun al-Rashid, l'imperatore e il califfo, conoscevano questa ragnatela di relazioni commerciali (un vero world system) a cui appartenevano entrambi, o no?

T. S. Noonan, Ninth-century dirhem hoards from European Russia: a preliminary analysis , in M. A. S. Blackburn, D. M. Metcalf, Viking-age Coinage in the Northern Lands, Oxford 1981, pp. 47-118.

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La citt altomedievale

Uno dei temi su cui si concentrata l'attenzione della storiografia sulla citt quello della continuit fra Antichit e Medioevo: un problema destinato ad essere ancora ampiamente dibattuto e probabilmente rimanere irrisolto perch pu essere evinto soltanto nelle grandi diversificazioni temporali e nelle diversit geografiche. Una situazione determinata oggettivamente dalle scarsissime conoscenze relative alle strutture fisiche della citt altomedievale. Non vi dubbio che se affrontiamo il problema urbano in Italia dal punto di vista politico ed istituzionale il problema della continuit sarebbe generalmente risolto positivamente, ma se andiamo a leggere le strutture materiali ci accorgiamo di profondi e incisivi mutamenti sia nell'organizzazione degli spazi sia nei modelli dell'edilizia privata. Il largo lasso di tempo di oltre sei secoli che separa gli impianti romani delle citt italiane dagli impianti romanici generalmente simmetrico ad un altrettanto vasto dislivello fra le quote di partenza dei rispettivi edifici, dislivello caratterizzato da un accumulo di strati neri: sono questi contenitori delle informazioni relative alle strutture abitative e all'organizzazione degli spazi della citt altomedievale, che soltanto in questi ultimi anni, e non sempre, cominciano ad essere indagati sistematicamente per capire gli assetti che hanno caratterizzato questa fase. In Lombardia, dove l'archeologia urbana comincia a dare i primi risultati, le citt altomedievali, pur conservando la presenza delle sedi delle autorit civile ed ecclesiastica, appaiono pi che un agglomerato omogeneo, disseminate di insediamenti talvolta concentrati intorno ad una chiesa con annessa area cimiteriale e circondate da aree ortive, riproducendo un modello rurale sulla continuit delle rovine di una cultura urbana (naturalmente non mancano eccezioni). In altre aree della penisola il quadro non diverso, ci basti al proposito richiamare la labilit delle strutture urbane altomedievali a Firenze recentemente evidenziate da uno scavo nella piazza della Signoria, dove i livelli di vita altomedievali, costituiti prevalentemente dai resti di strutture precarie, si appoggiavano ai monumentali crolli delle terme romane. Il caso di Firenze esemplificativo per molte situazioni, ma certo non esaustivo della variet della casistica che vedeva contemporaneamente in alcune aree metropolitane bizantine svilupparsi impianti religiosi di vaste proporzioni, nati in una tradizione di padronaggio che non si era ancora spenta. Ma ancora molti aspetti del problema devono essere chiariti mentre assodata la fragilit dello spessore della cultura cittadina in Firenze, rimane ancora tutta da definire quella lucchese, di cui la documentazione scritta tenderebbe a dare un'immagine diversa, comunque tutta da verificare. E in questo contesto di una storia urbana che non si basa su una consolidata conoscenza dei resti materiali della citt che Ward Perkins, nel saggio di seguito pubblicato1, sintetizza il ruolo che l'archeologia deve svolgere e il complesso delle problematiche intorno a cui devono ruotare le ricerche.

La citt altomedievale, " Archeologia Medievale", X (1983), pp. 111-24.

Bryan Ward-Perkins

L'archeologia della citt *

1. Introduzione mio compito in questo articolo trattare della citt altomedievale italiana, in relazione particolare con l'archeologia. Come limiti cronologici ho preso, pi o meno, il periodo dal 400 al 1000, e, come limiti geografici, l'Italia a nord della Toscana: cio la Liguria e tutta la Val Padana. Bisogna anche che mi fermi un attimo a definire la parola "citt". Due sono i tipi di definizione pi comuni: uno che considera la citt in termini politici e come il centro amministrativo del territorio circostante, spesso anche con privilegi e diritti specificamente "urbani"1; l'altro che la considera in termini economici e demografici, come un concentramento di persone, di solito con una base economica non soltanto agricola, ma anche artigianale e commerciale. Infatti risulta che per la maggior parte delle citt europee tutte e due le definizioni sono accettabili; perch nuovi centri di sviluppo economico e demografico diventano normalmente anche centri amministrativi e zone investite di privilegi speciali; mentre i vecchi centri, in fasi di decadenza economica e demografica, perdono alla fine la loro posizione legale e amministrativa. Perci in genere potere economico-demografico e potere amministrativo finiscono nello stesso posto, cio nella stessa citt. Per pu anche darsi che il conservatorismo amministrativo ritardi questa congiunzione, mantenendo per secoli i privilegi di una citt in un insediamento gi decaduto, in termini economici e demografici, al livello di un villaggio, ed ignorando l'esistenza di un vicino centro economico molto fiorente, che perci non acquista per molto tempo privilegi urbani. Per esempio, nel X secolo Luni nella Liguria era ancora la citt capitale della Lunigiana ed il centro del potere ecclesiastico e secolare: per a livello demografico ed economico era sicuramente in condizioni molto ridotte e forse gi superata in ricchezza e popolazione dalla vicina Sarzana, dove per la cattedrale fu spostata soltanto agli inizi del secolo XIII2. Per l'archeologia medievale necessario senz'altro concentrare gli sforzi e le ricerche sulla definizione e sull'identificazione della citt come centro demografico ed economico, piuttosto che amministrativo. In primo luogo perch ovviamente in un periodo senza iscrizioni che forniscono dati amministrativi, l'archeologia ci pu dire pochissimo sulla posizione politica e legale di un insediamento, e per questo aspetto dobbiamo basarci sulle fonti scritte. In secondo luogo perch l'archeologia pu invece fornire preziosissimi dati sull'economia e sulla densit della popolazione, che sono, come vedremo, proprio gli aspetti della vita urbana spesso trascurati dai documenti. Quindi della citt, in questa relazione, parler soprattutto in termini demografici ed economici, intendendo cio insediamenti con una popolazione notevole (anche se lascio del tutto vago il significato di notevole), e insediamenti con funzione economica specializzata che li differenzi dal mondo rurale. La definizione necessariamente vaga e ampia, per pu servire.

*Vorrei ringraziare le molte persone che mi hanno fornito idee ed informazioni per questa relazione, anche se non saranno ovviamente sempre d'accordo con le mie interpretazioni dei dati dei loro scavi e delle loro ricerche. Soprattutto, per aver fornito informazioni ancora inedite, vorrei ringraziare Gian Pietro Brogiolo, Peter Hudson, Silvia Lusuardi Siena, Sergio Nepoti, Maria Pia Rossignani, Guido Vannini e David Whitehouse. A richiesta della redazione ho ridotto le illustrazioni a due, poco conosciute ed essenziali alla comprensione del testo. 1 Vedi per esempio G. Mengozzi, La citt italiana nell'alto Medio Evo, Roma 1914. 2 B. Ward-Perkins, Luni: the prosperity of the town and its territory , in Archaeology and Italian Society, a cura di G. Barker e R. Hodges, Oxford 1981, pp. 179-90.

2. Le fonti scritte Dopo queste osservazioni su problemi di definizione e di indirizzo generale, mio compito, scrivere della natura delle prove esistenti che illustrano il mio tema. Per la citt altomedievale non un compito difficile, perch in pratica l'informazione a nostra disposizione scarsissima. Per la maggior parte delle citt italiane le fonti scritte prima del 1000 documentano soltanto la loro esistenza o no, e la presenza o assenza al loro interno della gerarchia ecclesiastica e secolare. Perci le fonti scritte generalmente parlano degli insediamenti soltanto in termini amministrativi, e non ci permettono di sapere se queste cosiddette citt fossero anche centri economici e demografici fiorenti, o se invece fossero piuttosto villaggi con un palazzo ducale o comitale ed una cattedrale. In alcuni casi, come per esempio quelli di Pavia e di Milano disponiamo di una documentazione scritta un po' migliore, adeguata per fornirci ulteriori dettagli: soprattutto per quanto riguarda l'ubicazione e la fondazione delle chiese3. Quasi unico il caso di Lucca, dove per fortuna rimasta una buona documentazione, che va dal secolo VIII in poi, di carte private, di donazione o di vendita di propriet dentro e fuori della citt4. Queste carte ci permettono di disegnare, attraverso i documenti, un quadro della vita urbana e della topografia di case, strade, palazzi ecc.; come si pu fare in base alle fonti scritte per molte citt del Bassomedioevo. Per, anche nel caso eccezionale di Lucca, le lacune sono molto grandi e molte delle informazioni sono discutibili e poco dettagliate. Per esempio, per informazioni sulla vita economica, dipendiamo dai rarissimi casi di persone citate nei documenti con il nome del loro mestiere, e, quanto alle case, abbiamo solo descrizioni brevi e molte vaghe per quanto riguarda la loro forma ed i materiali costruttivi5. 3. Potenzialit e problemi di scavo Quindi l'archeologia fondamentale, o meglio, per essere pi preciso, sar fondamentale per la nostra conoscenza della citt altomedievale italiana. Per, in contrasto col Bassomedioevo, non l'archeologia duplice, lo studio delle strutture sopra terra, e quello dei resti di scavo. Per l'Altomedioevo rarissime sono le strutture ancora evidenti sopra terra, con l'unica e importante eccezione delle chiese. Esistono ancora, vero, alcune strutture non religiose, per esempio lunghi tratti delle mura leoniane intorno alla Citt Vaticana6, e ulteriori studi potranno forse moltiplicare tali esempi; per saranno sempre rari. Per quanto io sappia, non stata conservata in elevato nessuna casa domestica attendibilmente databile prima del 1000, mentre del Bassomedioevo ne esistono migliaia. Saranno, invece, gli scavi a chiarire il problema della citt altomedievale, e vorrei dedicare un po' di spazio ai problemi generali dello scavo in questo campo. Il fatto che la fase altomedievale di un insediamento urbano risulta spesso difficile da trovare, e, una volta trovata, difficile da capire. I motivi di queste difficolt sono tre, dei quali due sono inevitabili, mentre appunto nostro compito eliminare il terzo.

D. A. Bullough, Urban change in early Medieval Italy : the example of Pavia , "Papers of the British School at Rome", 34 (1966), pp. 82-130, P.J. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: l'esempio di Pavia, Firenze 1981, Fondazione Treccani degli Alfieri per la Storia di Milano, Storia di Milano, Milano 1954, II, pp. 500-608. Milano. 4 I. Belli Barsali, La topografia di Lucca nei secoli VIII-XI , in Atti del V Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo - Lucca 1971, Spoleto 1973, pp. 461-554. Altra citt relativamente ben documentata, ma, in questo caso, non ancora molto studiata Ravenna. Per un'idea della potenzialit della documentazione ravennate cfr. M. Cagiano de Azevedo, Le case descritte dal Codex Traditionum Ecclesiae Ravennatis, "Accademia Nazionale dei Lincei, Rendiconti della classe di scienze morali, storiche e filologiche'', serie VIII, XXVII (1972), pp. 159-81. 5 Belli Barsali, La topografia di Lucca , cit., pp. 487 99; C. Wickham, Early Medieval Italy. Central Power and Local Society, London 1981, p. 85 (trad. it. L'Italia nel primo Medioevo. Potere centrale e societ locale, Milano 1983). 6 S, Gibson, B. Ward-Perkins, The surviving remains of teh Leonine wall , "Papers of the British School at Rome", 47 (1979), pp. 30-57.

Quest'ultimo motivo che non consente di trovare o di capire gli insediamenti altomedievali l'incapacit tecnica dell'archeologo. Fino a dieci anni fa questo dato di fatto era senz'altro il peggior nemico dell'Altomedioevo. Pi si scava, pi diventa chiaro che i resti di case altomedievali non consistono generalmente in bei muri e pavimenti resistenti al piccone o anche alla ruspa, ma consistono in fragilissime tracce di terra battuta, muretti a secco per pali: quali possiamo distruggere tutti, senza neanche accorgercene, in pochi secondi con la ruspa ed in pochi minuti con il piccone. Oggi questo rischio di distruzione irresponsabile del materiale archeologico da parte degli archeologi stessi minore di quello che era anche poco tempo fa; per, come penso sappiamo tutti, un rischio non ancora del tutto eliminato. Gli altri due motivi che non consentono di trovare o di capire l'Altomedioevo urbano sono purtroppo legati alla realt delle cose, e non possiamo che accettare la situazione di fatto. Primo: soprattutto in una situazione di continuit di insediamento attraverso il Bassomedioevo fino ad oggi, succede spesso che i fragili resti della citt altomedievale siano stati molto mal ridotti, o anche del tutto distrutti da vari interventi tardo e post-medievali: cantine, sepolture, fogne, buche per rifiuti, cisterne, fondazioni, pozzi neri ecc. La fase romana, essendo pi profonda ed anche spesso molto solida, in genere resiste meglio a questi tardi interventi; per il disgraziato Altomedioevo risulta bucato, tagliato, e schiacciato fra le massicce strutture romane e basso post-medievali 7. Se documentato bene, il secondo motivo che non consente di trovare l'altomedievale molto interessante. In certi casi si pu dimostrare che fasi di vita altomedievali mancavano del tutto (p.e. nello scavo dell'abside di S. Giorgio a Bologna, di prossima pubblicazione). Anche se c' stata una continuit notevole di vita urbana in Italia8, pure chiaro che, in confronto col periodo romano e col periodo bassomedievale, le citt altomedievali erano pi rare e pi piccole. Perci, cercando l'Altomedioevo sopra le citt romane o sotto le citt tardomedievali, troveremo alcuni punti di vuoto altomedievali. Questi punti sono in un certo senso deludenti per l'archeologo interessato a questo periodo, ma sono fondamentali per capire la storia di una citt e delle sue varie espansioni e contrazioni. La cosa essenziale, per, per poter documentare con certezza questo vuoto, che scavo sia abbastanza rigoroso, ovviamente, se lo scavo non buono, non si sapr mai se il vuoto vero, dovuto all'assenza di resti altomedievali, o falso, dovuto soltanto all'incapacit dell'archeologo di riconoscere un buco per palo o un battuto di terra. 4. Citt abbandonate e citt attuali Finora, lasciando da parte le chiese, le scoperte pi frequenti e clamorose del periodo altomedievale sono state fatte in citt abbandonate Torcello nel Veneto, Castelseprio in Lombardia, e Luni in Liguria9. La ragione semplice: l'abbandono nel periodo medievale facilita enormemente il lavoro dell'archeologo. Per scavare basta pagare i danni per il pascolo o per i cereali, mentre in citt bisogna affrontare tanti problemi (spostare un parcheggio, bloccare per mesi la costruzione di una nuova scuola, deviare una fogna ecc.). Ed inoltre questi siti abbandonati non hanno tutto quell'accumulo spaventoso e disturbante di strutture solide e di interventi profondi tipici del periodo post-medievale; interventi e strutture che rendono lento il lavoro e frammentaria e difficile da capire la stratigrafia orizzontale altomedievale.
Situazioni del genere sono state documentate in diverse zone di scavo a Genova Pavia, Bologna e Pistoia. Cfr. anche Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca, cit., pp. 45-50. 8 Wickham, Early Medieval Italy, cit., p. 80 s. 9 Per Torcello cfr. L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62 , Roma (Istituto Nazionale d'Archeologia e Storia dell'Arte, monografie III) 1977; per Castelseprio cfr. M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Calstelseprio: scavi diagnostici 1962-63, "Sibrium", XIV (1978-79), pp. 1-138 e G. P. Brogiolo, S. Lusuardi Siena, Nuove indagini archeologiche a Castelseprio, Atti del VI Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo - Milano 1978, Spoleto 1980, pp. 475-99; per Luni cfr. Scavi di Luni II. Relazione delle campagne di scavo 1972, 1973, 1974 a cura di A. Frova, Roma 1977, pp. 631-71; S. Lusuardi Siena, Archeologia altomedievale a Luni: nuove scoperte nella basilica, "Centro Studi Lunensi, Quaderni" 1 (1976), pp. 35-48 e B. WardPerkins, Una casa bizantina a Luni. Notizia preliminare, "Centro Studi Lunensi, Quaderni", 4-5 (1979), pp. 33-6.
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Perci si potrebbe anche chiedere: Allora perch non scavare soltanto nei siti abbandonati, dove si incontrano minori fastidi e dove c' maggior possibilit di ricavare piante complete di edifici e depositi intatti?. Almeno due sono le risposte valide a questa domanda. Innanzitutto per capire il fenomeno dell'urbanesimo altomedievale non basta certo vedere le citt che poi sono decadute e sono state abbandonate; se ci limitiamo a studiare queste, ci limitiamo a pochi siti e corriamo il rischio di esaminare soltanto insediamenti meglio definiti proto-urbani (come Torcello e Castelseprio) o post-urbani (come Luni). La storia della citt in Italia prevalentemente una storia di continuit e di sviluppo, e perci dobbiamo senz'altro affrontare l'archeologia delle citt nella loro continuit fino ai nostri giorni. La seconda ragione per scavare ancora abitati forse anche pi importante. Se scaviamo soltanto, o prevalentemente, le citt morte, l'archeologia rimane in un certo senso anch'essa morta e ristretta a predelimitate zone archeologiche di ruderi. Invece, se lavoriamo anche nei centri attuali, possiamo mostrare che l'archeologia un'attivit molto larga che fa vivere la storia sepolta dappertutto, sotto ogni casa e sotto i piedi di ogni cittadino. Riuscire in questo campo richiede molti sforzi a livello didattico e divulgativo, per demolire le concezioni dell'archeologia come la disciplina dei monumenti e delle necropoli. Per gi in citt come Genova e Pavia abbiamo visto realizzarsi felicemente questi sforzi10. L'interesse per la storia della propria citt esiste, ed forte; noi archeologi dobbiamo soltanto mostrare che l'archeologia fondamentale per illuminare questa storia. Sicuramente l'archeologia urbana dei centri storici attuali non sar mai facile, sia per ragioni tecniche, su scavi necessariamente multistratigrafici e molto turbati, sia a causa dei tanti interessi, legittimi ed anche speculativi, che si intrecciano su ogni piccolo lembo di terra in una citt moderna. Per, se vogliamo veramente sapere qualche cosa della citt altomedievale l'archeologo e lo scavo devono assolutamente inserirsi in questintreccio soprattutto con lo scavo preventivo sistematico, che salva i dati possibili in una zona destinata alla ricostruzione, la quale comporta necessariamente la totale, o quasi totale distruzione dei resti archeologici. L'unico modo valido per inserirci convincere il mondo non-archeologico che l'archeologia urbana ha un contributo importante da offrire, e non soltanto un pretesto accademico per bloccare per diversi mesi i lavori edilizi. 5. Programmi generali di ricerca Per quanto riguarda lo scopo dei lavori intrapresi e da fare, ovvio che, per l'archeologia urbana, gli scavi pi significativi ed interessanti sono quelli fatti nell'ambito di un programma di diversi scavi in diversi punti dello stesso insediamento. Soltanto con una serie di scavi si pu cominciare a parlare della storia generale di una citt attraverso i secoli: delle sue contrazioni ed espansioni, della diversit sociale ed economica documentabile in zone diverse dell'abitato, delle differenze nella cultura materiale dei vari ceti sociali, degli edifici pubblici, delle zone artigianali ecc. Programmi generali di questo tipo richiedono ovviamente anni di lavoro, soprattutto in citt ancora abitate (dove l'archeologo deve necessariamente aspettare la possibile occasione di fare scavi preventivi), e richiederebbero anche idealmente una struttura specializzata di scavatori e ricercatori professionali, come ci sono negli Units dei centri storici inglesi di Londra, Canterbury, York, Oxford, Exeter ed altrove. Perci, in Italia per quanto riguarda i grandi programmi di scavo in citt, gli anni trascorsi dalla nascita dell'archeologia medievale sono ancora pochi e le somme di denaro finora disponibili lo sono ancora meno: cos anche i risultati non sono stati eccezionali in confronto a quelli nordeuropei. Per in almeno due citt attuali, Genova e Pavia, ed in due abbandonate, Luni e Castelseprio, si pu gi parlare degli inizi di un'archeologia programmata, diretta a chiarire, in una

Si veda ad esempio Archeologia a Genova , catalogo della mostra didattica a Palazzo Rosso, Genova 1976 e Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca, cit., p. 58.

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prospettiva di decenni di lavoro, il massimo possibile dell'insieme complesso e variabile di una citt. Sia a Genova sia a Pavia i risultati degli scavi hanno avuto pi importanza finora per il Basso che per l'Altomedioevo. Per gi a Genova (dove i controlli e la salvaguardia archeologica da parte dell'ISCUM sono unici in Italia) si documentata la rifortificazione nell'epoca altomedievale del vecchio castrum preromano, e, in un piccolo scavo nel centro della citt, si verificata anche la trasformazione di una casa romana in un'altra pi umile dell'Altomedioevo11. Per Pavia, basta fare riferimento al lavoro di Hugo Blake ed alla nuova pubblicazione di Peter J. Hudson12. A Castelseprio e a Luni diversi aspetti delle citt altomedievali sono stati indagati negli ultimi anni. A Castelseprio, le fortificazioni, le chiese e tre zone dell'abitato entro il castrum13. A Luni, la cattedrale, una zona di case del VI-VII secolo sul foro romano abbandonato, ed un ambiente apparentemente rimasto in uso fino al VI-VII secolo annesso a terme tardoromane probabilmente private14. Inoltre, in tutta la citt stato affrontato il problema della datazione dell'abbandono degli edifici pubblici romani15. Perci a Luni, che la citt che conoscono meglio delle quattro finora citate, si pu cominciare a comporre in un quadro generale i dati provenienti da diversi scavi eseguiti da diverse persone, per esempio, il cambiamento di mecenatismo edilizio documentabile sia dallo scavo delle fasi d'abbandono dei monumenti tradizionali romani, sia dagli scavi della grande cattedrale paleocristiana e dell'edificio termale privato, entrambi costruiti proprio nel momento di quest'abbandono. Anche le diversit sociali nell'ambito del VI secolo sono documentate, con la scoperta, in una zona della citt, di case molto povere in legno (una con tracce di attivit artigianale), e, in un'altra, di probabili tracce di continuit di uso in un vano apparentemente annesso ad una ricca casa aristocratica. Genova, Pavia, Castelseprio e Luni sono forse le uniche citt dove si pu parlare finora di un'archeologia programmata diretta a fornire la storia generale della citt. Anche in altre localit, per, scavi isolati sono stati fatti con risultati importanti per quanto riguarda l'Altomedioevo. Vorrei illustrare questi scavi, insieme a quelli delle citt gi citate, considerando vari temi e problemi nella storia della citt altomedievale che possono essere chiariti dall'archeologia. Devo sottolineare per il fatto che di problemi da risolvere con lo scavo ce ne sono tanti e che nello spazio a disposizione posso soltanto accennare a ben pochi di questi. Un problema fondamentale riguarda la carta geografica urbana, cio la documentazione della continuit di vita di molte citt romane, l'abbandono di altre, ed anche la rara formazione di nuovi centri. 6. Sopravvivenza, abbandono e formazione di citt Risulta molto chiaramente che l'abitudine di vivere in citt ha avuto una continuit molto forte in Italia, per, nell'assenza di documenti scritti e di scavi archeologici, le prove di questa continuit sono spesso ancora molto indirette16. Per esempio, una prova costituita dal fatto che la carta geografica delle citt esistenti nel Bassomedioevo (ed anche oggi) in molte regioni sostanzialmente ancora quella romana: perci si pu presupporre una continuit d'insediamento in

Soprintendenza Archeologica della Liguria, Archeologia in Liguria. Scavi e scoperte 1967-75, Genova 1976, pp. 93112. 12 Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca ,cit. pp. 45-50. 13 Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Castelseprio, cit.; Brogiolo, Lusuardi Siena, Nuove indagini archeologiche a Castelseprio, cit.. 14 Lusuardi Siena, Archeologia altomedievale a Luni : nuove scoperte nella basilica , cit. e Ward-Perkins, Una casa bizantina a Luni, cit.; informazioni da Maria Pia Rossignani. 15 Ward-Perkins, L'abbandono degli edifici pubblici a Luni, "Centro Studi Lunensi, Quaderni", 3 (1978), pp. 33-46. 16 Wickham, Early Medieval Italy, cit., pp. 80-92.

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queste citt romane anche attraverso i secoli oscuri dell'Altomedioevo17 . Anche all'interno delle singole citt la situazione topografica tardomedievale e quella attuale fanno spesso pensare ad una continuit di vita abbastanza intensa. In molte citt italiane, soprattutto nella Val Padana, troviamo conservato, pi o meno bene, il reticolato di strade della citt romana sottostante18. Questa sopravvivenza della topografia urbana romana probabilmente dovuta ad una continuit di insediamento relativamente denso, in netto contrasto con l'Inghilterra, dove la continuit della vita urbana stata molto minore: soltanto le strade colleganti le porte nei muri di fortificazione si sono conservate sulle loro linee originali19. Per finora queste supposizioni, in base alla topografia tardomedievale ed odierna, hanno avuto soltanto rarissimi controlli archeologici. Per esempio, nell'Italia settentrionale non mai stata fatta una sezione attraverso una strada di citt che documenti, non soltanto il basolato romano, ma anche tutti i riferimenti alto e bassomedievali, e post-medievali fino all'asfalto moderno20. Rarissimi sono anche gli scavi di isolati di case, che documentano tutte le loro trasformazioni, dall'Et moderna all'impianto romano. Un tale lavoro stato fatto di recente, con risultati molto interessanti, attraverso sondaggi sotto il monastero di Santa Giulia a Brescia, e sta per essere fatto su una zona ampia negli scavi attualmente in corso nel cortile del palazzo del tribunale di Verona, scavi che nel settembre 1981 avevano gi raggiunto il X secolo21. Lavori di questo genere saranno ovviamente fondamentali per capire la continuit (o l'assenza di continuit), e, nello stesso tempo, la trasformazione della citt romana in quella alto e poi bassomedievale. Accanto allo studio e alla documentazione archeologica delle citt sopravvissute, c' il problema delle citt in fase di abbandono e delle citt in fase di formazione durante l'Altomedioevo. Per quanto riguarda le citt abbandonate ho gi fatto riferimento a Luni e Castelseprio, ma bisogna citare anche Torcello22. In questi casi si devono ovviamente documentare la restrizione e l'eventuale abbandono dell'abitato, e vanno anche cercate spiegazioni specifiche di quello che un fenomeno insolito in Italia. Ovviamente, molte possibili ragioni di abbandono non lasciano tracce archeologiche (per esempio, decisioni amministrative o sconfitte militari), per molti cambiamenti nella fortuna di una citt, e soprattutto quelli economici ed ambientali, sono documentabili per mezzo dell'archeologia. A Luni, per esempio, stato possibile evidenziare la degradazione e l'impoverimento del territorio e della citt stessa dal periodo romano a quello altomedievale attraverso cambiamenti commerciali e geomorfologici23. Ma in molte citt abbandonate (ad esempio quelle dell'alto Adriatico) studi archeologici indirizzati specificamente a documentare e capire la fase di abbandono non sono stati ancora fatti. Per le citt di fondazione altomedievale, dobbiamo invece chiarire quando si sono formate e come e quando si sono allargate: problemi gi illuminati in parte a Castelseprio ed in un unico scavo a Torcello, e che si spera anche di chiarire con scavi iniziati nel 1981 nella citt fluviale di Ferrara. In questi casi bisogna cercare anche indicazioni archeologiche per spiegare il fatto insolito di una fondazione urbana o proto-urbana, e per fortuna, indicazioni di questo tipo sono rintracciabili nella documentazione archeologica. A Castelseprio, per esempio, una fondazione sostanzialmente militare ed amministrativa sembra forse indicata dalle massicce fortificazioni e dalla relativa scarsit- a tutt'oggi - di materiali importati e di resti di lavorazione: fatti che potrebbero indicare un'economia prevalentemente agraria e locale, anche se bisogna subito dire che ulteriori lavori (ad
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C. Schmiedt, Citt scomparse e citt di nuova formazione in Italia in relazione al sistema di comunicazione, in Topograpa Urbana e vita cittadina nell'Alto Medioevo in Occidente, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 26 aprile-1 maggio 1973, Spoleto 1974, pp. 603-617, a p. 505. 18 Per esempio a Pavia, Piacenza, Verona, Brescia, Albenga e Lucca; cfr. J. WardPerkins, Cities of ancient Greece and Italy: planning in classical antiquity, New York 1974 figg. 39, 53-6, 58 e 61. 19 M. Biddle, Towns, in The archaeology of Anglo-Saxon England , a cura di D. Wilson, London 1976, pp. 99-150, a pp. 107-9. 20 Per una sezione stradale parziale cfr. Scavi di Luni II, cit., tav. 320. 21 Informazioni da Gian Pietro Brogiolo e da Peter J. Hudson. 22 Leciejevvicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62, cit. 23 Ward-Perkins, Luni: the prosperity of the town and its territory, cit.

esempio nel borgo) potrebbero benissimo cambiare completamente quest'impressione. Mentre a Torcello, invece, il materiale ceramico pi esotico, ed stata scoperta anche una vetreria altomedievale. Questa ceramica pi esotica e questa vetreria forniscono un'impressione della base economica artigianale e commerciale, con contatti a largo raggio (ad esempio, con le zone alpine per i crogiuoli in pietra ollare), che ha permesso la formazione di insediamenti anche ricchi e densamente abitati nella laguna veneta gi nell'Altomedioevo. 7. Le basi economiche delle citt Le scoperte a Castelseprio ed a Torcello ci portano ad un problema la cui soluzione fondamentale per capire le citt altomedievali, e che pu benissimo essere chiarito almeno in parte dall'archeologia: cio la base economica di quei centri. In particolare dobbiamo indagare se la citt altomedievale era, come alcuni suppongono nel caso della citt romana, prevalentemente un centro di consumo aristocratico e, in minor senso, anche un centro di produzione agraria24. Cio se la citt era soltanto un posto dove venivano raccolti e consumati dalla classe dominante e dai loro servitori i profitti dell'economia rurale circostante, e dove abitava anche un piccolo numero di contadini. O se, invece, la citt era anche un centro economico specializzato e produttivo, che otteneva cibo dalla campagna, non soltanto dal lavoro dei cittadini agricoltori e da varie forme di imposte, di affitti, di decime ecc., ma anche in cambio di prodotti artigianali, fatti nella citt da lavoratori specializzati, e di prodotti esotici, importati attraverso i porti e i mercati urbani. Sarebbe oggi prematuro parlare in Italia di soluzioni definitive a questi problemi; per gi si possono vedere gli inizi di un quadro generale, e nuove possibilit di ricerca. Per esempio, nei casi di Castelseprio e Torcello abbiamo l'impressione, finora molto sommaria e forse anche sbagliata, di due citt con basi economiche apparentemente diverse: a Castelseprio forse prevalentemente agraria e di consumo, a Torcello artigianale e commerciale. 8. Produzioni e scambi Per quanto riguarda la vita commerciale devo far riferimento anche agli importanti scavi in corso a Classe, il porto di Ravenna, dove la scoperta di una fornace di ceramica illustra anche la vita artigianale 25. La ceramica infatti, essendo un manufatto che si conserva molto bene nel terreno e che si pu spesso attribuire con precisione a specifiche zone e a precise epoche di produzione, sar per l'Altomedioevo, come per tutti i periodi, molto utile per l'informazione di natura economica che pu fornire. Al livello della ceramica da cucina pu darci un'idea dell'artigianato e del commercio prevalentemente locale di un manufatto comune adoperato da tutti, al livello delle anfore, ci pu fornire notizia degli scambi di certi prodotti agricoli pregiati, e, a livello della ceramica fine da tavola, del commercio in articoli di lusso: negli ultimi due casi ci d informazioni non soltanto sul commercio entro l'Italia, ma anche sugli scambi internazionali. Nell'Italia settentrionale sappiamo ancora pochissimo della ceramica altomedievale, ma senz'altro, prima o poi, arriveremo su tale base a disporre di preziose indicazioni sul ruolo della citt nella vita commerciale ed artigianale. Prendo come esempio della potenzialit di questi studi uno dei pochi tipi di ceramica finora conosciuti nell'Italia centrale, la Forum Ware databile senz'altro fra il V e il X secolo, anche se non siamo ancora in grado di darne con sicurezza una collocazione cronologica Lacus precisa26. Grazie alla scoperta di scarti di fornace nel luogo di ritrovamento originale, il Iuturnae, nel Foro, sappiamo che questa ceramica era un prodotto urbano romano, grazie poi alla scoperta di frammenti di Forum Ware nei lavori di superficie nell'Etruria meridionale e grazie a scoperte occasionali in altri scavi in Italia, abbiamo un importante dato sulle relazioni commerciali
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M. Finley, The ancient economy, London 1975 pp. 123-49. Schede di M. G. Maioli in "Archeologia Medievale", VI (1979), p. 323 e VII (1980), p. 478s. 26 D. Whitehouse, Forum Ware again, "Medieval Ceramics", 3 (1980), pp. 13-6.

altomedievali di Roma, non soltanto con il territorio limitrofo, ma anche con luoghi molto pi distanti (fig. 1).

FIGURA 1 Ritrovamenti sicuri e probabili di Forum Ware


Da: D. Withehouse, T. Potter, The Byzantin frontier in South Etruria, Antiquity, LV (1981), pp. 206-10.

L'esempio della Forum Ware e della carta della sua distribuzione illumina un altro problema fondamentale: cio le relazioni fra citt e territorio. chiaro che la citt non pu essere studiata isolatamente, ma deve assolutamente essere considerata accanto al mondo agrario circostante. Per esempio, tracce archeologiche di scambi, o dell'assenza di scambi fra citt e campagna ed un'idea di quali lavorazioni erano presenti in citt e quali in campagna, sono dati fondamentali per capire l'urbanesimo e la sua base economica. L'archeologia fornir senz'altro, nei prossimi anni, molte informazioni sulla vita produttiva, commerciali ed artigianale della citt altomedievale, ed qui forse che avr la sua massima importanza, perch questo aspetto della storia economica urbana quasi del tutto trascurato dalla documentazione scritta del periodo27. 9. Centri di consumo Per l'archeologia potr anche fornire ulteriori dati sull'altro aspetto della storia economica e sociale, meglio conosciuto dai documenti: cio sulla citt intesa come centro di vita e consumo dell'aristocrazia e dell'amministrazione ecclesiastica e secolare. Qui, con lo scavo di molte chiese
Considerando l'archeologia dell'artigianato, bisogna ovviamente sempre tener conto del fatto che molti prodotti non lasciano quasi nessuna traccia nel documento archeologico della loro lavorazione e diffusione (ad esempio tessuti, cuoio e legni lavorati).
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paleocristiane ed anche altomedievali, parecchio lavoro gi stato fatto anche se bisogna dire che in genere il livello tecnico degli scavi stato pessimo e che perci dipendiamo, per le datazioni, non da stratigrafie precise con ceramiche e monete datanti, ma soprattutto da argomenti stilistici, che possono spesso risultare opinabili. Le chiese, o tuttora esistenti o messe in luce dallo scavo, ci danno per una buona documentazione della continuit di vita religiosa urbana e della continuit del mecenatismo aristocratico, sia ecclesiastico che laico, in contesti urbani28. Per, anche se sappiamo molto delle chiese costruite dall'aristocrazia, sappiamo pochissimo di altri aspetti della vita urbana della classe dominate. Per esempio, fra i tantissimi senodochi, monasteri, e complessi episcopali costruiti nel periodo tardoantico ed altomedievale abbiamo conoscenze archeologiche soltanto di una parte del convento di S. Giulia di Brescia, e, di recente, del bagno clerico a Ravenna costruito nel V secolo ed ancora in uso nel IX29. Per quanto riguarda l'amministrazione e l'aristocrazia secolare non sappiamo quasi niente. Nessun palazzo ducale, comitale o reale stato scavato, ad eccezione di vecchi scavi a Ravenna30, e nessuna casa sicuramente attribuibile ad un membro dell'aristocrazia urbana stata documentata attraverso l'archeologia. Inoltre la nostra conoscenza di uno dei pi significativi edifici pubblici, la cui cura spettava all'amministrazione secolare, le mura di citt, scarsissima. In nessuna citt d'Italia sono stati fatti scavi stratigrafici per chiarire come siano state mantenute, o eventualmente ricostruite o sostituite, le mura romane originali31.

L'archeologia medievale monumentale, ed anche sepolcrale (delle necropoli con corredi), ancora molto privilegiata in Italia in confronto all'archeologia domestica ed artigianale. In questa relazione faccio riferimento quasi esclusivamente a quest'ultima, perch la sua enorme potenzialit meno conosciuta. Anche volendo, sarebbe impossibile in questa sede fare riferimento alla vasta bibliografia esistente su scavi e studi di chiese paleocristiane ed altomedievali. 29 Su Brescia informazioni da Gian Paolo Brogiolo, su Ravenna scheda di M. G. Maioli in "Archeologia Medievale" VIII (1981). 30 G. Ghirardini, Gli scavi del palazzo di Teodorico a Ravenna , "Monumenti antichi pubblicati per cura della reale Accademia dei Lincei", 1918, pp. 738-841. 31 Per la potenzialit di questo tipo di lavoro cfr. ad esempio Royal Commission on Historical Monuments, An inventary of the historical monuments in the city of York, II (The Defences), London 1972, pp. 111-4.

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Figura 2 Una delle case del VI secolo sul foro di Luni 10. L'effetto delle invasioni germaniche L'ultimo problema a cui vorrei fare riferimento quello dell'effetto delle invasioni e degli insediamenti barbarici sulle citt italiane. Il problema sapere se le invasioni, e soprattutto quella longobarda nel tardo VI secolo, abbiano avuto un influsso notevole sulla continuit e sulla qualit della vita urbana. Bisogna dire che questi problemi sono ancora da chiarire; per, gi in base ai pochissimi reperti fatti, si pu cominciare a discutere ed ipotizzare. Per esempio, in un primo momento i muretti a secco delle case e la grezza ceramica di Castelseprio sembravano tipicamente barbariche e germaniche: e perci il risultato culturale delle invasioni longobarde32. Per adesso,
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S, Kurnatowski, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Gli scavi a Castelseprio nel 1963 , "Rassegna Gallaratese di Storia e d'Arte", XXVII (1968), pp. 61-92, ripubblicato con leggere modifiche in Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Castelseprio, cit.; M. Cagiano de Azevedo, Esistono una architettura e una urbanistica longobarda?, in Atti del convegno internazionale sul tema: La civilt dei Longobardi in Europa - Roma e Cividale del Friuli 1971, Accademia Nazionale dei Lincei, quaderno 189, Roma 1974, pp. 1-41, a pp. 7-10.

con altri lavori a Castelseprio ed altrove, il quadro sta per cambiare, e quelle documentazioni sembrano ora piuttosto tipicamente tardoantiche ed altomedievali. Due case di legno scavate di recente a Luni appartengono sicuramente al periodo bizantino della citt, cio al tardo VI secolo, mentre, con la loro forma di casa lunga (Langhaus, longhouse) ed i loro buchi per pali, sembrerebbe a prima vista ancora pi germaniche delle case con muretti a secco di Castelseprio (fig. 2). Perci, almeno ipotizzabile che certi cambiamenti nell'architettura domestica (uso del legno, abbandono della malta, adozione a Luni della pianta a casa lunga) siano dovuti non ad influssi etnici ma a cambiamenti sociali ed economici. Si tratta forse non di nuove forme di casa introdotte da barbari, ma di forme locali molto antiche che hanno avuto una nuova importanza in epoca post-romana33. Direi che sia ancora da chiarire se i nuovi abitanti germanici abbiano veramente avuto un notevole influsso sulle citt, a parte quanto resta limitato ai loro particolari costumi di sepoltura. 1 1. Programmi per il futuro Per finire dovrei trattare anche di programmi per i prossimi dieci anni. Spero, per, che da quello che ho scritto sia gi chiaro cosa si debba fare. Dobbiamo assolutamente accumulare molti dati in pi, da pi scavi in pi citt. anche indispensabile che scaviamo e pubblichiamo bene (perch per l'Altomedioevo, come per ogni altro periodo, lo scavo poco rigoroso non serve a niente, anzi serve soltanto a confondere). Ed in tutte e due queste attivit, lo scavo e la pubblicazione, dobbiamo affrontare rigorosamente i vari problemi storici da risolvere: problemi di continuit urbana (ed anche di abbandono e formazione), di trasformazione, di base economica (artigianale, commerciale e di consumo), e di diversit ed influssi sociali, religiosi ed etnici. C' da fare non per un decennio, ma per almeno cento anni.

33 Cfr. anche G. P. Brogiolo, La campagna dalla tarda antichit al 900 ca. d.C, "Archeologia Medievale", X (1983), pp. 73-88.

Incastellamento e strutture abitative

Un uso non strumentale dell'informazione archeologica traspare dalle pagine di due storici, che alle fonti materiali dedicano ampio spazio per analizzare aspetti fondamentali della storia dell'insediamento medievale, e cio l'incastellamento e la struttura della casa rurale altomedievale. L'insediamento accentrato e fortificato (generalmente d'altura), costituisce uno dei caratteri dominanti il paesaggio rurale italiano, le sue origini, i1 suo sviluppo e le sue trasformazioni sono stati oggetto di riflessioni da parte di geografi e storici: aspetti istituzionali e politici, sociali ed economici trasformazioni e distruzioni sono stati illustrati in ricostruzioni di grande incisivit e capacit da Conti a Toubert, da Laicht a Vismara, da Cusin a Cammarosano, da Settia a Comba. Ma pochi hanno usato con sistematicit la documentazione materiale. Se per il Bassomedioevo, quando le fonti scritte sono abbondanti e largamente descrittive, l'informazione archeologica offre materiali per allargare la "qualit" della ricostruzione storica, per le fasi originarie e per cogliere i processi di trasformazione profonda che avvengono fra Tardoantico ed Altomedioevo nell'ambito delle forme di organizzazione del territorio l'archeologia strumento essenziale senza il quale una ricostruzione storica rischia di essere persino forviante. Spesso, ad esempio, le fonti scritte non ricordano le fasi a buche di palo, cio presenza di capanne e case di legno su quei siti che a livello documentario risulteranno incastellati a partire soltanto dal X -XI secolo. Gli autori dei due contributi che seguono, senza "piegare" i diversi tipi di fonti, usano gli "indizi" provenienti dagli uni e dagli altri con esemplare metodologia: la presenza di fasi pi antiche di quelle attestate a livello documentario nei siti poi incastellati pu essere una spia per cogliere un fenomeno di riconquista delle "sommit" generalizzata prima del fenomeno noto come "incastellamento"? e la diffusione dell'edilizia in legno un fatto legato a modelli importati dai popoli germanici o non piuttosto un retaggio "culturale" autoctono e profondamente ancorato alla societ e ai modi di vivere altomedievali? Le fonti scritte, che pure rimangono campo privilegiato degli autori lasciano margine a riletture sulla base dell'evidenza archeologica, che suggerisce utili indicazioni e producono dati oggettivi per riflessioni nuove1.

Il primo C. Wickham, Castelli e incastellamento nell'Italia centrale : la problematica storica , in Castelli. Storia e archeologia, a cura di R. Comba e A. A. Settia, Torino 1984, pp. 137-48; in questa relazione, tenuta dall'autore al convegno svoltosi a Cuneo nel 1981, condensato gran parte di quanto poi pubblicato nel volume C. Wickham, Il problema dell'incastellamento nell'Italia centrale:l'esempio di San Vincenzo al Volturno, Firenze 1985. Il secondo di P. Galetti, La casa contadina nell'Italia padana dei secoli VIII-X, "Quaderni Medievali", 16 (1983), pp. 6-28.

Chris Wickham Castelli e incastellamento nell'Italia centrale: la problematica storica

Tratter due aspetti distinti della problematica dell'incastellamento, legati a due zone diverse dell'Italia centrale. Per primo, sulla base dell'esperienza condotta nell'alta valle del Volturno nel Molise (il territorio del monastero di San Vincenzo al Volturno), tratter il problema della relazione tra storici e archeologi quando studiano la stessa zona. Vale la pena notare subito quanto rara sia ancora questa esperienza, specialmente per gli storici; e (fatto pi istruttivo), come rarissima sia la scelta degli archeologi in Italia di zone di studio che hanno documentazione storica adeguata: una importante causa contingente, questa, a mio parere, della spaccatura che esiste ancora fra le due discipline: perch, ad esempio, non c' alcuna ricerca sul campo in Lucchesia, in Sabina o nel Milanese? La documentazione storica importante nella valle del Volturno in gran misura di un tipo specifico, le carte di incastellamento, e queste sono naturalmente di rilevanza diretta per la ricerca archeologica; almeno per una volta, le due discipline dovrebbero poter convergere. Il secondo problema che voglio discutere quello, certamente non minore, delle cause dell'incastellamento in Italia centrale. Questo per nel contesto dell'Abruzzo e in una zona che ho studiato di recente, il circondario e la diocesi di Sulmona, il territorio e la diocesi altomedievale di Valva; essa interessante per la ragione classica che le teorie tradizionali sull'incastellamento non vi funzionano, e si deve scoprirne il perch. Questo mi porta a riconsiderare, ovviamente in breve, l'intera problematica sulle cause dell'incastellamento, e introdurvi alcuni nuovi elementi. Vorrei mettere in chiaro all'inizio che propongo di concentrarmi su un solo aspetto del processo di incastellamento, quello sull'accentramento dell'insediamento. A mio giudizio, incastellamento si mostra sempre pi un concetto macedonia un po' sfortunato, in cui si uniscono almeno tre processi storici separati: 1. incastellamento vero e proprio, la fortificazione di insediamenti preesistenti, o il costruite delle fortificazioni ad essi pi o meno vicine; 2. la creazione dei territori e della localizzazione giuridica associate ai castelli (cio la problematica tradizionale del Vaccari)1; 3. la concentrazione, l'accentramento, dell'insediamento, tramite la creazione di nuovi insediamenti o il convergere di quelli vecchi: normalmente dentro i castelli (cio fortificazioni) come nelle analisi classiche del Toubert2, ma non sempre. quest'ultimo il caso del quale parler, se non dico altrimenti. Qualche volta lo chiamer, genericamente, incastellamento, ma di solito tenter di ridisegnarlo accentramento, riservando incastellamento per i primi due processi. Il rapporto tra gli storici e gli archeologi stato sempre delicato. Gli storici tendono a pensare agli archeologi come a degli studiosi di supporto, per se stessi o per gli storici dell'arte, e li limitano al ruolo di fornitori di nuovi fatti per gli storici politici, o di nuovi begli oggetti per illustrare i libri seri degli storici dell'arte. Gli archeologi da parte loro sono stati spesso poco pi sofisticati nel costruire le loro tipologie, per le tipologie, datate arbitrariamente da legami con gli avvenimenti politici. Almeno ora storici e archeologi hanno iniziato ad interessarsi dello stesso campo, quello socioeconomico. Dovrebbe essere possibile pensare a questo campo come a una disciplina unificata, ma con apporti diversi basati su diversi tipi di materiale. Ma in pratica, io almeno ho trovato che le
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P. Vaccari, Le territorialit come base dell'ordinamento giuridico del contado nell'Italia medioevale, 2 ed., Milano 1963. 2 P.. Toubert, Les structures du Latium mdieval, Rome 1973.

cose non si risolvono tanto facilmente, perch i diversi tipi di materiale tendono ad essere associati con diverse basi di inchiesta, e con interessi separati dall'insieme: in altre parole, con problematiche diverse. Cos avviene a San Vincenzo, con implicazioni istruttive. Ho lavorato qui con una quipe di scavo e ricerche sul campo, guidate da Richard Hodges3, dell'Universit di Sheffield; il materiale storico che presento il mio (usando anche le analisi fatte da Mario del Treppo negli anni Cinquanta), il materiale archeologico di Richard Hodges e della sua quipe, specialmente del direttore delle indagini sul campo, Peter Hayes. La prima esperienza interessante a San Vincenzo che la sua storia insediativa sembra largamente divergente, a seconda che si privilegi la documentazione storica o quella archeologica. Il materiale storico abbastanza chiaro: una ventina di documenti del X secolo, quasi tutte carte per la fondazione di insediamenti sulla terra di San Vincenzo, una zona totalmente posseduta dal monastero e donata da vari duchi di Benevento nell'VIII secolo. Gli insediamenti con questi documenti sono segnati sulla prima carta (fig. 1). La documentazione manca di profondit storica, quasi nulla di specifico per la storia dell'habitat prima del 940 o dopo il 1000; ma ricchissima di documenti pi utili ed espliciti per la storia degli insediamenti (cio i livelli per la fondazione e popolamento di castelli), e include, se non sbaglio, pi della met di tutte le carte di tale genere sopravvissute per l'Italia centrale dei secoli X-XI. Secondo l'interpretazione classica questi documenti rappresenterebbero il ripopolamento di una valle deserta, dopo il sacco dato dai Saraceni a San Vincenzo nell'881, tramite la fondazione di una schiera di abitati accentrati o castelli (castra nei testi). Tale tesi sarebbe sostenuta dalle numerose vivaci constatazioni che si trovano nella nostra fonte del XII secolo per tutti questi documenti, il Chronicon Vulturnense. Non difficile per mostrare differenze fra le carte stesse, e fra le carte e il commento del cronista, che sollevano alcuni dubbi. Alcuni dei commenti pi retorici (ad esempio adhuc autem locus bestiis et avibus latibula prebens, hominibus omnino vacabat, per San Salvatore in Alife nel 950 circa) sono chiose a livelli per una terra che ovviamente gi occupata e coltivata. Alcune delle terre di San Vincenzo erano certo state abbandonate o ancora mai occupate, ma gran parte della zona era abitata continuamente.

R. Hodges, Excavations and survey at San Vincenzo al Volturno. Molise 1981 , "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 483-92; Id., Excavations and survey at San Vincenzo al Volturno. Molise 1982, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 299-310.

FIGURA 1 La terra di San Vincenzo al Volturno Non discutibile, per, che San Vincenzo raccolse la popolazione sopravvissuta, insieme con immigrati da tutta l'Italia centrale, in abitati accentrati, i quali furono anche, in molti casi, esplicitamente centri per il dissodamento della terra. Molti dei livelli non richiedono un reddito per i primi 3 o 5 anni, ci per permettere il ristabilimento di campi e vigneti. Cos, l'accentramento insediativo e il dissodamento, cio l'espansione agraria, vanno insieme, costituendo, per dirla con le parole di Del Treppo, centri di raccordo ove si annodino le maglie vieppi fitte della vita delle campagne4. L'impressione prima facie che la maggior parte degli insediamenti siano nuovi: i loro toponimi sono spesso termini geografici con ad-: ad ipsa Causa (un fiume), ad Ficus, ad ipsa Olivella e cos via.
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M. Del Treppo, La vita economica e sociale in una grande abbazia del Mezzogiorno: S. Vincenzo al Voltumo nell'alto medioevo, "Archivio Storico per le Province Napoletane", LXXXIV (1955), pp. 31-110.

Due altri punti vanno per aggiunti, anche in uno sguardo sommario come questo. Il primo che, mentre l'accentramento e il dissodamento vanno insieme in senso globale (una relazione sulla quale ritorner), non sempre appaiono nello stesso contesto. Parecchi livelli, come quello per Scapoli, un castrum dall'inizio, contengono doveri onerosi di dissodamento. Altri livelli per, come quelli per Colle, Fornelli e Valle Porcina, posti nella pianura e sui ricchi pendii della confluenza VolturnoVandra, non fanno alcun riferimento a tali doveri. Un'area almeno di probabile vecchio insediamento, quella di Olivella-Santa Maria Oliveto ai confini della terra del monastero e della piana di Venafro, con tutta evidenza ancora una zona di habitat sparso del X secolo, come pure alcune altre zone fra Venafro e Alife, fuori della terra di S. Vincenzo. Ma anche una delle carte per il dissodamento, quella per Ficus, cospicua per lassenza di ogni riferimento a un castello, e sembra essere un insediamento aperto, alla sua fondazione nel 995, quando finalmente ottenne delle fortificazioni, probabilmente nel tardo XI secolo, fu ribattezzato, con una certa mancanza di immaginazione, castro Pesclu. Dunque non c' un perfetto accoppiamento fra accentramento e dissodamento. L'accentramento di questa zona nel X secolo certamente rapido. Ma San Vincenzo sembra aver scelto se stabilire un abitato accentrato, incastellato o non, caso per caso. Il secondo punto l'assenza di ogni contesto militare in questi livelli. Nessuno fa riferimento alle mura (bench alcuni o tutti ne abbiano avute) o a servizio militare di sorta. Le parti della terra pi esposte a pericolo, nell'estremo sud, intorno a Olivella e a Santa Maria Oliveto, sono quelle che, dall'evidenza dei documenti, sono le ultime che formano insediamenti accentrati. Il contrasto con i castelli di Montecassino impressionante: il solo livello per Cassino del X secolo, per Sant'Angelo in Theodice, pone in gran rilievo la costruzione delle mura, e le milizie locali dei castelli della terra di Cassino hanno un'importanza evidente nella sua storia durante l'XI secolo. Non cos per San Vincenzo, ove infatti manca ogni accenno all'attivit militare locale, e anche alla difesa contro attacchi che divengono sempre pi di ordinaria amministrazione. Vorrei che ci sbarazzassimo dell'aspetto militare dell'incastellamento a questo punto, perch sta tornando di moda come spiegazione: qualunque sia la sua importanza per la fortificazione dei siti (e quest'ultima varia enormemente da luogo a luogo, come, evidentemente, da San Vincenzo a Cassino), il fattore pericolo non ha effetto duraturo sulle forme di insediamento nell'Italia centrale e non former parte delle mie analisi. Anche in altre regioni dove invece tale effetto esiste, naturalmente sempre necessario spiegare perch, siccome gli insediamenti fortificati non sono la sola risposta possibile al pericolo. Ma a San Vincenzo il pericolo sembra avere anche meno effetto sull'insediamento che altrove. Il materiale archeologico, dopo due stagioni di lavoro sul campo, ci d un quadro istruttivamente diverso: anzi in conflitto su alcuni punti. La documentazione storica ci dice poco sul periodo prima del secolo X ma si pensa generalmente che tutta la terra di San Vincenzo fosse incolta sino alla fondazione dell'abbazia, nel 700 circa, che provoc un po' di dissodamento. L'archeologia esclude senz'altro tale ipotesi: la vallata appare infatti disseminata di piccoli siti di et repubblicana e altoimperiale, non sparsi regolarmente, ma legati a tutta la buona terra della valle. Questi sono poi sostituiti da un numero alquanto minore di siti bassoimperiali pi grandi, secondo uno sviluppo che anche tipico di altre regioni d'Italia. Un sito - il complesso abbaziale stesso - mostra persino una certa continuit nel periodo altomedievale. Il nostro scavo ha mostrato che esso fu fondato, in tutta apparenza, direttamente sopra una villa tardoromana, e cos sparisce l'immagine della fondazione del monastero in una foresta vergine, gi presente in una vita dei fondatori scritta nel tardo VIII secolo. La valle non fu fittamente abitata - non lo ancora, n potrebbe esserlo - ma c' comunque una certa consistenza di materiale, e non possiamo dubitare su una qualche continuit generale di occupazione. La scoperta pi interessante, per, la storia della ceramica negli insediamenti sulle colline (tutti medievali, come accade di solito). Sette di questi insediamenti sono stati finora investigati un processo possibile perch in ogni caso l'habitat si spostato a un'altra sede, e qualche volta in tempi abbastanza recenti. Di questi sette, solo uno mostra un orizzonte della ceramica che comincia addirittura nei secoli X-XI. Due hanno ceramica che comincia nei secoli VIII-IX; quattro hanno mostrato sinora solamente la Proto maiolica, cio ceramica dai secoli, XIII-XIV circa,

bench alcuni di questi ultimi abbiano bisogno di ulteriore studio. Devo sottolineare che per questi dati mi fido degli archeologi di Sheffield; ma, nel caso che ci siano difficolt fra noi al riguardo posso aggiungere che la ceramica fina nell'Italia centro-meridionale di questo periodo normalmente ceramica dipinta in bande rosse, senza vernice, che pi comune della ceramica verniciata nel nord e cambia le sue forme in modo visibile; perci pi strettamente affidabile per la datazione. Essa stata datata normalmente dai livelli nello scavo al monastero stesso, che sta divenendo un sito straordinariamente ricco, quest'anno sono state ritrovate intere camere piene di affreschi del IX secolo. Non stata trovata ceramica medievale al di fuori di questi siti appollaiati sulla collina; i siti romani non sembrano avere sbocchi negli stessi luoghi, cio nella terra pi bassa. Uno dei siti che hanno la ceramica dei secoli VIII-IX; Vacchereccia, un castello documentato nel X secolo come fondazione apparentemente nuova; un altro, sopra Filignano, si trova in una zona che - devo ammettere - ritenevo, in base alla documentazione storica, fosse sempre stata di habitat sparso. Il sito con ceramica dei secoli X-XI circa del Colle Castellano, in una zona che dalla documentazione storica, fino al tardo XI secolo, sarebbe stata ad habitat sparso, poi accentrato. Tre dei quattro siti con la maiolica sono documentati gi nel X secolo: due come castelli, e uno (Ficus) come centro aperto. Ci sono qui certamente punti di convergenza, ma l'apparenza del materiale archeologico prima facie un po' imbarazzante per lo storico puro, poich d un quadro alquanto diverso da un incastellamento del X secolo. I risultati fnali dipendono naturalmente dalla quantit del materiale archeologico scoperto, con un lavoro pi fitto sul terreno. I dettagli qui non importano, specialmente in questa che una relazione metodologica; interessa invece l'approccio. Un archeologo, a cui si presentino alcuni siti inerpicati che cominciano nei secoli VIII-IX (e con un vuoto tipologico nel VII secolo), sapendo che la ceramica altomedievale molto meno comune, e perci meno reperibile della maiolica, potrebbe facilmente concludere che molti dei siti della vallata abbiano avuto origine prima del 900. Senza alcuna documentazione storica, cio in un contesto simile all'archeologia preistorica, potrebbe congetturare (e sarebbe totalmente giustificato nella congettura) che i siti romani del fondo valle avessero una tendenza ad essere sostituiti da siti in collina, intorno al IX secolo o forse prima. Ora, certamente possibile, e ovviamente necessario, conciliare questa congettura con la datazione storica dei centri dal X secolo in poi. Il modo pi convincente e probabile dire che i ricercatori sul campo hanno sottovalutato i siti sparsi dell'Altomedioevo, perch sono notoriamente difficili da trovare, specialmente sui pendii delle colline, dove, con tutta probabilit, era collocata la maggior parte. Lo sviluppo del X secolo, che si verifica a diverse velocit e in diverse zone della vallata, consisterebbe perci nell'accentramento conscio e diretto di un insediamento sparso entro siti vicini ed inerpicati, che gi esistevano come piccoli nuclei; in caso contrario non ci sarebbe stato bisogno che l'abbazia di San Vincenzo creasse i nuovi centri del X secolo con le note carte di livello. Questo quanto credo, ma ci si oppone al peso naturale e ai presupposti di ambedue i materiali, quello storico e quello archeologico. Per l'Altomedioevo tendiamo ad affidarci alla fortuna: non possiamo per permetterci di basarci su premesse scorrette e non riconosciute. Ma qui ambedue le parti devono ammetterlo: gli storici che vedono la fondazione, nel X secolo, di nuovi insediamenti su nuovi siti, perch cos dicono i documenti, pi o meno esplicitamente; e gli archeologi che vedono solo questi siti, gi esistenti da alcuni secoli, e concludono che essi siano stati a lungo i soli elementi insediativi della valle. Un'altra differenza metodologica interessante consiste nella spiegazione. Gli archeologi dell'insediamento, come gli storici, stanno andando oltre le necessit difensive come spiegazione automatica dei siti inerpicati accentrati, e ora tendono a dare rilievo alle loro funzioni nella concentrazione delle risorse, in relazione al paesaggio. Tale tendenza ha una chiara logica: si possono scavare pi facilmente gli elementi che riguardano le risorse. Ma il lavoro dell'archeologo ora si pone altri problemi: ad esempio qual' la grandezza ottimale di un insediamento, in questi contesti, secondo le limitazioni imposte dalla geografia e dall'antropologia? Dobbiamo considerare quanto grande esso dovrebbe essere prima che la convenienza di disporre, nelle vicinanze, di servizi non agricoli (fabbri, vasai ecc.) sia superata dallo svantaggio, per un contadino, di dover camminare

15 km per recarsi nei suoi campi - perch, ovviamente, pi grandi sono gli insediamenti, pi distanziati essi sono - e dallo svantaggio di avere troppi vicini che sono altrettanti potenziali nemici, circostanza abbastanza comune. Quando tali insediamenti divengono troppo grandi, nel terzo mondo di oggi, essi si spaccano e un nuovo centro viene costituito, con una parte della terra. Sospetto che tale esigenza sia alla base del raddoppiamento di insediamenti documentato in molte parti d'Italia. Nell'Italia del X-XI secolo (forse qualche volta nell'VIII, e abbastanza spesso nei secoli pi tardi, pure) la concentrazione dei servizi, in un periodo di crescita economica, diverrebbe abbastanza importante per assicurare una veloce nucleazione dell'habitat. La creazione di castelli inerpicati allora razionale nel senso economico, per questa concentrazione di servizi e, anche, generalmente per la loro collocazione, a met strada fra l'incolto sopra e il colto sotto. I campi parcellizzati, cos tipici dell'Italia contadina, come risultato secolare dell'eredit divisibile, danno anche pi razionalit a tali centri, perch se ogni contadino ha una ventina di campi sparsi, logico che tutti abitino un singolo centro, equidistante dalle loro terre. Questi tipi di analisi funzionali sono caratteristici di geografi e archeologi; questi ultimi, anzi, hanno oggi raggiunto in esse un livello molto avanzato per l'acutezza delle conclusioni. Molte di queste analisi sono anche, naturalmente, ben conosciute dagli storici, poich anch'essi sono capaci di imparare dai geografi: il lavoro del Toubert sul Lazio, per esempio, per l'importanza che d all'urbanisme villageois, mostra di conoscere bene tali argomenti; e il geografo Gribaudi scrisse cose simili in Italia gi nel 1951, con risultati scientifici rilevanti5. Ma gli storici vedono il problema da un altro punto di vista. Gli archeologi tendono a concentrarsi sulla funzione, gli storici sulla causa. Noi storici non possiamo sempre vedere che cosa si fece dentro un insediamento accentrato. possiamo per vedere chi lo costru o lo possedette pi tardi, e quali redditi estrasse dai suoi abitanti; questo ha effetto sull'intera direzione de nostri interessi. Torner infatti all'analisi della razionalit economica dei castelli fra poco, nella seconda parte della relazione, precisamente per questa ragione: l'analisi funzionale validissima ma non pu agire come spiegazione delle cause. Devo, naturalmente, chiedere scusa a tutti coloro, che si sentiranno, con tutta ragione, limitati da tali categorizzazioni arbitrarie. Ovviamente, la gran parte degli archeologi si interessa alle cause, e molti storici alle funzioni; n si possono separare i due concetti, nella vera analisi. Ma qui mi occupo dei tipi ideali, per fare delle distinzioni generalizzate. Gli archeologi che si interessano alle cause trovano molte difficolt nello stabilire, dall'evidenza archeologica, che cosa esse sono, nella realt. Gli storici lo trovano pi facilmente. Possiamo studiare la terra di San Vincenzo e mettere in evidenza che tutta la terra fu possesso di un singolo monastero, senza interruzione, dal 700 al 1050, accertare che sicuramente il monastero, almeno durante questo periodo, a dirigere i cambiamenti insediativi, dobbiamo perci cercare dei princip direttivi nelle fonti sopravvissute; possiamo subito trovare il dissodamento (cosa difficile a scoprire archeologicamente se fatta da siti preesistenti) come una risposta almeno parziale (non totale, certo, come vedremo). Il Toubert, quando studi la Campagna Romana e la Sabina, dominate ma non totalmente possedute da istituzioni ecclesiastiche, individu la potenzialit dell'urbanisme villageois, come qualsiasi archeologo avrebbe dovuto riconoscere, se alcuni dei siti fossero stati allora scavati, ma pot anche riconoscere come non avrebbe potuto un archeologo, la riorganizzazione territoriale che accompagn l'incastellamento nel Lazio, e lo stabilirsi del controllo sopra la popolazione contadina, che fu uno dei motivi per i quali essa fu raccolta in siti accentrati pi o meno pianificati. Ma per sapere come furono organizzati strutturalmente questi castelli, come funzionarono, quali tipi di attivit e di relazioni economiche ci furono, non abbiamo la documentazione, e perci nel grande libro di Toubert questi problemi tesero ad apparire a pi di pagina, nelle note. Per gli archeologi la situazione andrebbe capovolta. Qualche volta io trovo le preoccupazioni degli archeologi per quella che potrebbe essere chiamata la castellanistica un po' fuori luogo, come essi trovano fuori luogo la mia preoccupazione con il possesso e con il potere
5

D. Gribaudi, Sulle origini dei centri rurali di sommit (1951), pp. 19-33.

, "Rivista Geografica Italiana", LVIII

politico ed economico. Qui ritengo vi sia un vuoto incolmabile che sta nella specifica stessa della disciplina. Neppure penso che sia cosa inutile: il solo modo in cui le due discipline possono convergere, o anche essere utili fra di loro, di cominciare da basi veramente indipendenti. Ho gi fatto riferimento al problema delle cause nell'analisi dell'insediamento, ed su questo che voglio intrattenermi nella seconda met della relazione. Non torner, dunque, all'archeologia; in particolare perch il materiale documentario che citer dell'alto Abruzzo, una zona pi o meno archeologicamente intoccata. Nelle mie ultime discussioni, ho idealizzato un po' l'analisi dell'habitat. Come sappiamo tutti, scoprire quali forme di insediamento siano esistite in diversi luoghi del passato, cambiando ogni pochi chilometri, infatti cos difficile che spesso ci accontentiamo semplicemente di presentare i risultati empirici: l'insediamento fu qui accentrato, qui sparso, qui steso intorno ad un piccolo nucleo o fortificazione disabitata (il cosiddetto habitat centr); qui pi fitto, qui pi raro ecc. Dobbiamo considerare, per, perch forme diverse dell'habitat sono importanti storicamente. Perch importa se la gente viveva in forme sparse o accentrate? L'analisi dell'insediamento interessante solo nella misura in cui sia veramente una guida all'organizzazione socio-politica e socio-economica. E necessario esplorare quali elementi in questa sede hanno un valore veramente causativo.

FIGURA 2 Italia Centrale Le forme dell'insediamento dopo il X secolo in Italia centrale non rassomigliano a quelle dell'Italia centrosettentrionale. In quest'ultima, i castelli furono di solito una addizione a quadri insediativi preesistenti; qualche volta essi divennero centri temporanei nei secoli X-XI, poi talvolta si ritirarono ancora. Nel centro, i castelli divennero la nuova struttura insediativa di quasi tutta la regione da Grosseto alla Puglia, da Ascoli Piceno a Caserta (per non parlare, naturalmente delle zone

meridionali, di cui tratta Martin6), e in molte zone rimangono tuttora, quasi senza cambiamenti. Occasionalmente arrivarono prima del X secolo; qualche volta, non vennero mai; ma in generale il periodo, diciamo, dal 950 al 1100, il grande periodo dell'accentramento. Per questa ragione, le spiegazioni tendono ad essere generalizzate. Troppo generalizzate, a mio parere, perch presuppongono una gamma troppo omogenea di strutture socio-politiche o anche socio-economiche per essere probabile nel senso storico, e non concordano con i cambiamenti che veramente vi furono. Proporrei, sia pure un po' rozzamente, due tipi di spiegazioni per l'accentramento in Italia centrale: i processi strutturali, cio socio-economici, e i processi congiunturali, cio socio-politici. Ciascuno di questi ha i suoi sostenitori. Il Toubert ha messo potentemente in evidenza l'analisi strutturale; dal lato congiunturale il suo antagonista pi notevole probabilmente Hartmut Hoffmann7. Io penso che i due modi di analizzare siano inestricabili (proprio come nella vita reale, si potrebbe dire). Le analisi strutturali tendono a mettere in rilievo la croissance economica del X secolo, dissodamento, razionalizzazione agraria il lento aumento del commercio, i castelli come nodi di tutto. I castelli sono i fuochi razionali di tale crescita, come abbiamo visto; nei secoli X-XI, i signori dell'Italia centrale - Farfa, Subiaco, Velletri, Cassino, San Vincenzo, San Clemente di Casauria fra gli ecclesiastici (anche i signori laici fecero lo stesso, ma in maniera meno documentata) - decisero di metter i loro livellari dentro tali castelli, per reagire alla crescita e organizzarla. Ho detto altrove8 che questo modello richiede conoscenze economiche straordinarie, che non posso immaginare sul serio che la maggior parte dei signori dell'Altomedioevo avesse istintivamente; penso piuttosto che potesse ottenere organicamente tali conoscenze solo tramite l'esperienza dell'organizzare del dissodamento, nel presente o nel passato. Penso che ci sia qui un punto empiricamente verificabile, che non stato considerato finora: in certe zone lungamente abitate, come alcune parti della Campagna Romana, o del piano di Capua, l'accentramento notevolmente meno completo, come nel Nord; non c' l'esperienza dell'amnagement territorial che d ai signori l'esercizio necessario. Ma c' anche un altro punto, che rende difficile l'uso semplice di argomenti strutturali: se esiste un orientamento inesorabile verso l'accentramento insediativo per opera dei signori, a causa dell'evidente razionalit economica dell'habitat accentrato, perch non tutti lo fanno, almeno in zone di nuovo dissodamento? Ho notato che San Vincenzo non accentra il suo insediamento dappertutto. Delogu e Travaini hanno mostrato che non lo fa neanche Subiaco nel cuore delle sue terre9. Anche nelle vicinanze immediate di Farfa, non tutti gli insediamenti sono accentrati: un esempio Pomonte, uno dei castelli falliti dell'analisi toubertiana che, attraverso la sua ampia documentazione, mostra con chiara evidenza l'insediamento sparso sopravvissuto nel suo territorio. Qui, penso, sono rilevanti gli argomenti socio-politici che determinano la scelta. I tipi di scelte socio-politiche fatte dagli abitanti dell'Italia centrale sono simili a quelle fatte nell'Italia centro-settentrionale dello stesso periodo, perch, ovunque, eccetto nel Sud bizantino, il X secolo fu un periodo di indebolimento dello stato e di cristallizzazione dei poteri politici locali: i castelli sono nello stesso tempo centri militari, luoghi giuridici e simboli politici per tutto questo processo (bench nel Centro, diversamente dal Nord, l'aspetto giuridico sia secondario nell'incastellamento, e venga pi spesso pi tardi o anche mai). Ma, naturalmente, tutto ci possibile anche senza l'accentramento. Quando un signore accentra l'insediamento, la dimensione politica pi importante quella del controllo: sopra i contadini stessi, liberati di recente dalla pura dipendenza socio-economica dalla fine del sistema curtense e della schiavit; e sopra la terra, contro
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J M. Martin, Modalits de l'incastellamento et typologie castrale en Italie mridionale (X Storia e archeologia, a cura di R. Comba e A. A. Settia, Torino 1984, pp.89-104.

-XIIe sicles), in Castelli.

H. Hofman, recensione a P. Toubert, Forschungen", LVIII (1977), pp. 1-45.


8

Les structures du Latium mdival

, "Quellen und

C. Wickham, Studi sulla societ degli Appennini nell'alto medioevo, Bologna 1981.

P. Delogu, L. Travaini, Aspetti degli abitati medievali nella regione sublacense , "Archivio della Societ Romana di Storia Patria", CI (1978), pp. 17-34; L. Travaini, Rocche, castelli e viabilit fra Subiaco e Tivoli, "Atti e Memorie della Societ Tiburtina di Storia e d'Arte", LII (1979), pp. 65-97.

le rivendicazioni di rivali. Cos molto spesso l'accentramento diviene un gesto politico, un elemento sintagmatico nella retorica delle rivendicazioni per il potere politico. Subiaco non accentr l'insediamento nella sua terra, zona abbastanza isolata, ma lo fece nei possessi occidentali, verso Tivoli, dove la sua autorit fu geograficamente meno completa e pi contestata. Come ha descritto bene il Delogu10, Castel Sant'Angelo (ora Castel Madama) ne un esempio particolarmente chiaro: incastellato da Subiaco e dai Crescenzi nel 1038 (bench l'insediamento stesso sia anteriore), con una schiera impressionante di riorganizzazione territoriale esso si trova precisamente in una delle zone pi contestate con il vescovo e la citt di Tivoli. Questo tipo di processo fu normale in larghi tratti dell'Italia centrale. Anche la politica consistente dell'incastellamento/accentramento, praticata da Farfa, va posta nello stesso contesto: Farfa domin la Sabina, fondiariamente e politicamente, ma non possedette tutta la terra. Dovette, dunque, sostenere il suo potere, e il rimaneggiamento dell'insediamento fu un'iniziativa particolarmente evidente rivolta a tale scopo. Si potrebbe anche proporre che il processo sia stato imprenditoriale in senso politico: la fondazione da parte di Farfa di un castello fu spesso un pretesto per imporre la propria autorit in un territorio ove essa era contestata, ad esempio dagli abitanti locali ancora proprietari. Se questi abitanti venivano persuasi a stabilirsi dentro il castello, entravano cos anche nella clientela del monastero. L'iniziativa, in generale, ebbe successo; a Pomonte, per, essi non accettarono, ci che port, a mio parere, al fallimento del castello. Viceversa, in alcune zone, come nel cuore della terra di Subiaco, o nella maggior parte della terra di San Vincenzo, l'accentramento non fu politicamente necessario, perch un signore possedette tutta la terra di una zona relativamente vasta; l'accentramento, allora, non avvenne, malgrado la crescita economica. Come ho detto, io penso che si debbano sempre usare le spiegazioni socio-economiche e sociopolitiche insieme, senza contrapporle. Le ragioni socio-politiche, prese isolatamente, non spiegano abbastanza: non necessario che tale relazione fra accentramento e controllo esista ovunque, e non esiste affatto in molte parti dell'Europa. Da parte loro le spiegazioni socio-economiche sono troppo generiche e danno poco spazio alla possibile scelta dei singoli proprietari, poich un signore non deve necessariamente accentrare tutti i suoi insediamenti. Ma l'esistenza di una tendenza economica, che mostra l'accentramento dell'habitat come un processo razionale pi o meno evidente, d un peso al contesto socio-politico della scelta, probabilmente molto pi apparente al livello conscio, cio a livello ideologico. Non puro caso che Castel Sant'Angelo, il castello sublacense pi esposto politicamente, sia anche l'esempio meglio documentato della riorganizzazione territoriale sistematica. Ambedue gli elementi, quello strutturale e quello congiunturale, sono qui presenti e dobbiamo metterli insieme di continuo, privilegiando ora il primo, ora il secondo, ma ciascuno nel contesto dell'altro. Tutto questo funzioner, penso, per gran parte dell'Italia centrale. Tutto viene cos proposto nel contesto del controllo signorile, tutto fatto dai signori, per ragioni varie, ma ragioni che finora dipendono dal fatto che organizzato da loro. spesso vero anche il contrario: in zone con possesso frammentato, laccentramento spesso assente o incompleto. Ma non sempre. E che cosa accade o pu accadere in quelle zone del Centro dove si verifica l'accentramento senza che vi sia il predominio di singoli signori? Prender l'esempio di Valva-Sulmona, necessariamente in breve, come illustrazione del problema. Valva non stata certo un grande punto di riferimento storiografico nel passato, e dubito che gli ascoltatori conoscano molto al riguardo. Si tratta di una serie di vallate con sbocco nel piano di Sulmona, la Conca Peligna, rinchiusa da ogni parte dalle montagne pi alte dell'Appennino, il Gran Sasso a nord, la Maiella a est. Adesso Sulmona il suo centro, essa fu anche una citt romana, ma non rintracciabile nel Medioevo come vero centro urbano fino al pieno XII secolo. Prima del 1100, Valva non ebbe neanche un centro diocesano di citt, poich la cattedrale, san Pelino, fu una chiesa isolata, fuori della citt romana abbandonata di Corfinium. Oggi Valva una zona di
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P. Delogu, Territorio e cultura tra Tivoli e Subiaco nell'altro medioevo , "Atti e Memorie della societ Tiburtina di Storia e d'Arte", LII (1979), pp. 25-54.

insediamento altamente accentrato, vicino al 100 per cento; tutto 1'alto Appennino anzi, una delle parti d'Italia in cui l'insediamento pi accentrato, bench i centri siano pi piccoli di quelli della Puglia o della Sicilia. Una gran parte degli insediamenti attuali di Valva esistevano gi nel 1112, quando sono elencati in una bolla papale. Solo una minoranza fu fondata come castello. Nella Conca Peligna i centri moderni stanno cominciando, nei secoli tardo X e primo XI, a cristallizzarsi, uscendo da una struttura vaga e disgregata, caratterizzata da curtes e da loci, che quasi ovunque nella Conca devono rappresentare una forma di insediamento sparso. Questi nuovi centri non sono castelli, per, quasi tutti sono chiamati villae. Che cosa fosse esattamente una villa in questo momento non certo: tutti sappiamo quanto vaghi e vari siano i sensi di tale vocabolo. La rappresentazione, anche se imprecisa, che possiamo avere di queste ville (l'esempio meglio documentato Introdacqua, al confine meridionale del piano) per quella di un abitato accentrato su un pendio o su un promontorio, con le abitazioni che si estendono un pochino nella pianura, in modo pi aperto di quello che troviamo adesso. C' segno chiaro di un processo di accentramento, allora, che ha luogo attraverso il periodo 950-1050, ma non di incastellamento: i castelli come tali non sono comuni nelle nostre fonti fino al tardo XI secolo, quando arrivano i Normanni. Ci che sembra di trovare, allora, incastellamento nel senso di accentramento, esattamente come nel Lazio di Toubert, e nello stesso periodo, ma senza l'armamentario politico, militare, o giuridico che normalmente complica il problema. Ci avviene dentro un contesto politico ben diverso da quelli che abbiamo finora visto, perch la Conca Peligna non fu una zona dove dominarono grandi signori. Ce n'erano in Valva, nelle vallate tributarie a nord e a sud, pi vicine a basi ferme di potere signorile in Marsica e in Chieti. Ma quasi tutta la nostra documentazione per la Conca riguarda piccoli nobili e contadini di vari livelli di importanza: in un paese ben documentato, Pacentro, con in apparenza una forma insediativa simile a quella di Introdacqua, c'era una preponderanza enorme di proprietari contadini fino a tutto l'XI secolo. In breve, la Conca non fu una zona dove qualsiasi tipo di cambiamento insediativo controllato dall'alto sarebbe potuto accadere; l'accentramento quindi deve essere stato pi o meno spontaneo. Manchiamo pure di qualsiasi contesto socio-politico normale; c'era per la verit una sorta di vuoto nel potere politico in Valva dei secoli X-XI, e certamente mancava nella Conca ogni tipo di minaccia o politica o militare prima dell'avvento dei Normanni. Dobbiamo perci ricorrere a spiegazioni strutturali, ipotizzando cambiamenti socio-economici (non commercio, perch non c' tanta possibilit di scambi in Valva altomedievale), come avanzamenti agrari, dissodamento e un riordinamento della popolazione rurale in questo contesto.

Paola Galetti La casa contadina nell'Italia padana dei secoli VIII-X *

La maggioranza dei rustici durante l'Altomedioevo generalmente costruiva da s la propria abitazione. La costruzione delle case era infatti compresa tra i vari tipi di attivit che caratterizzavano il lavoro dei contadini, le cosiddette opera ruralia. Cos Carlo Magno, in un capitolare ecclesiastico del 789, riprendendo alcune disposizioni di suo padre, nel descrivere le attivit proibite nelle domeniche stabilisce: nec viri ruralia opera exerceant, nec in vinea colenda, nec in campis arando, metendo vel foenum secando vel sepem ponendo nec in silvis stirpare, vel arbores caedere, vel in petris laborare, nec domos construere, nec in horto laborare1 Cos un testo agiografico padano del secolo XI, la Vita Theobaldi, nel testimoniarci il progressivo mutarsi del paesaggio delle campagne anche per l'intervento degli eremiti, definisce le attivit legate all'edilizia vilissima ac laboriosa rusticorum opera2, La casa era inserita in un complesso che raggruppava elementi insediativi diversi, organizzati, strutturati e costruiti dal contadino. Per l'Altomedioevo d'altronde pi che di abitazione in senso stretto corretto parlare di nucleo abitativo, comprendente, oltre all'abitazione (cio alla residenza vera e propria), i servizi e i rustici, stalle, granai, fienili, tettoie, configurati quasi sempre come edifici separati dalla casa ma ad essa collegati in quanto raccolti attorno ad un cortile centrale, la curtis, all'aia, l'area, con un puteo che fornisce l'acqua, un orto, spesso una piccola vigna e alberi pomiferas; il tutto separato, per mezzo di recinzioni, siepi, fossati, dalle terre de foris3. Questo complesso di elementi insediativi diversi era sentito come un tutto unico, tanto che lo si indicava nei documenti con termini precisi: per lo pi sedimen, molto pi raramente cispide oppure casalivo, terra casaliva, casalina, o genericamente area e areale4 .
*Dalla presente ricerca esclusa la zona padana di tradizione bizantina, che riscontra una situazione profondamente diversa da quella dell'area di lungo dominio longobardo, sia per il nostro specifico problema che per la struttura stessa dell'economia e della societ. 1 Capitularia Regum Francorum , in Monumenta Germaniae Historica , 1, ed. A. Boretius, Hannover 1883, Admonitio generalis, n. 22, a. 789, p. 61. 2 Vita Theobaldi, in Bibliotheca Hagiographica Latina , Bruxelles 1898-1899, 8031 ; Acta Sanctorum,Jun . 3 (1701), IV, p. 593. Cfr. P. Golinelli, Elementi per la storia delle campagne padane nelle fonti agiografiche del secolo XI, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 87 (1978), pp. 6, 8s, 24. 3 Ad esempio: L. Schiaparelli, Codice Diplomatico Longobardo , Roma 1929-1933 [F.S.I. 62-63], I, n. 78, a. 742, p. 230; n. 83, a. 745, p. 246; II, n. 231, a. 769, p. 291; A. Gloria, Codice Diplomatico Padovano. Dal secolo sesto a tutto l'undicesimo, I, Venezia 1877, n. 17, a. 895, p. 33; n. 56, a. 970, p. 83; V. Fainelli, Codice Diplomatico Veronese. Dalla caduta dell'Impero Romano alla fine del periodo carolingio, I, Venezia 1940, n. 134, a. 832, p. 183; n. 189, a. 853, p. 286. Id., Codice Diplomatico Veronese del periodo dei re d'Italia, II, Venezia 1963, n. 21, a. 891, p. 26; n. 114, a. 912, p. 148. E. P. Vicini, Regesto della Chiesa cattedrale di Modena, I, Roma 1913 [Regesta Chartarum Italiae, 16], n. 16, a. 843, p. 24; n. 54, a. 968, p. 77. G. Tiraboschi, Storia della augusta badia di San Silvestro di Nonantola, Modena 1785, II, n. XLI, a. 861, p. 56. U. Benassi, Codice Diplomatico Parmense, I, Parma 1910, n. VIIII, a. 854, p. 24; n. XXVIIII, a. 898, p. 80. P. Torelli, Le carte degli Archivi Reggiani fino al 1050, Reggio Emilia 1921, n. VIII, a. 806, p. 25, n. LXXXVI, a. 998, p. 223. P. Galetti, Le carte private della Cattedrale di Piacenza (784-848), I, Parma 1978, n. 3, a. 791, p. 33; n. 17, a. 821, p. 57. F. Gabotto, Le pi antiche carte dell'Archivio Capitale di Asti, Pinerolo 1904, n. LXXXV, a. 961, p. 164; n. CXIII, a. 990, p. 219. Codex Diplomaticus Langobardiae, Torino 1873 [Monumenta Historiae Patriae, XIII], n. CCXLVI, a. 870, c. 416; n. CCCXIII, a. 882, c. 527; n. DLXXX, a. 947, c. 991; n. DCCLXXXIX, a. 978, c. 1386. Cfr. G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'Italia del secolo VII, in I caratteri del secolo VII in Occidente, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 23-29 aprile 1957, Spoleto 1958,1, pp. 128-31; G. Barni, G. Fasoli, L'Italia nell'alto Medioevo, Torino 1971, pp. 162-4, 618; P. Rich, La vie quotidienne dans l'empire carolingien, Paris 1973, pp. 128s. 4 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., II, n. 231, a. 769, p. 291. Codex Diplomaticus Langobardiae , cit., n. CCLXVI, a. 876, c. 446; n. CCCCXXXV, a. 910, c. 750. G. Drei, Le carte degli Archivi Parmensi dei secoli X-XI (dall'anno 901

da notare inoltre che questo stesso schema organizzativo era proprio sia delle case dei coltivatori dipendenti o dei liberi piccoli proprietari, sia dei centri domocoltili di grandi e medie aziende. Significativa al riguardo la descrizione di due curtes donate al monastero di San Zaccaria di Venezia dal conte Ingelfredo nel 914 e poste in Petriolo et Cona nel Padovano: si distingue il domo et cultile et sediminas earum cum curte, ortos et viridarios suos cum olivetas et pomiferas dai casalis massariciis cum casis, ortis, areis et sediminas earum5. Lo stesso avviene, nel 910, nella descrizione di una corte situata nel Veronese, locus ubi vocabulum est Duas Robores, lasciata in donazione testamentaria dal conte di Verona Anselmo al monastero di San Silvestro di Nonantola nel Modenese: il nucleo centrale della curtis con terris casalivis et sediminas earum cum curtis, ortis et viridario suo et cum arboribus et pomiferis distinto dai casalibus massariciis cum curtis, ortis, areis6. Le case erano costruite per la maggior parte di legno, o anche di canniccio, paglia, argilla seccata, materiali poveri cio, con il tetto di scandolae di legno o per lo pi di paglia; di legno erano anche le recinzioni artificiali costruite per proteggere e separare il nucleo abitativo dai campi o da altre abitazioni vicine7. Queste abitazioni potevano essere smontate e i materiali da costruzione, soprattutto il legno, potevano essere trasportati in altro luogo per servire all'edificazione di una nuova casa. quanto sembrano saggerire le indicazioni relative al conquestum, cio alla porzione di beni mobili alla quale l'affittuario aveva diritto allo scadere del termine contrattuale8, che ritroviamo in alcuni contratti di locazione stipulati nei secoli IX e X. Cos nel maggio 887 si stabilisce che il colono alla fine del periodo di locazione possa andarsene via dal podere portanto con s tutti i beni mobili, ad eccezione delle strutture edilizie: anteposito edificiis, casis9; lo stesso awiene nel 947-955 per una colonica in Valle Paltenate in vico Fosado10.Significative sono le vicende di un gruppo di uomini liberi che nel 920 chiedono all'abate di Nonantola di concedere loro a livello per ventinove anni case dentro le mura del castello di Nogara, con la possibilit, alla scadenza del contratto, di portare via quanto avevano accumulato, con un'unica riserva: post expletos annos tollemus nos vel nostris heredibus omnes mobilias nostras absque calumnia foris de ipso castello, anteposito edificiis
all'anno 1000), I Parma 1930, n. XV, a. 917, p. 66. Torelli, Le carte degli Archivi Reggiani, cit., n. LXXIII, a. 985, p. 191. Gloria, Codice Diplomatico I, cit., n. 40, a. 950, p. 59. C. Cipolla, Antichi documenti del monastero trevigiano dei santi Pietro e Teonisto, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo", 22 (1901), n. X, a. 790, p. 52. Cfr. P. Galetti, Per una storia dell'abitazione rurale nell'alto Medioevo: le dimensioni della casa nell'Italia Padana in base alle fonti documentarie, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 90 (1982/83), pp. 147-76. 5 Gloria, Codice Diplomatico I, cit., n. 29, p. 46. 6 Fainelli, Codice Diplomatico II, cit., n. 98, p. 127. 7 Schiaparelli, Codice Diplomatico , cit., II, n. 188, a. 765, p. 173. Codex Diplomaticus Langobardiae , cit., n. CLII, a. 843, c. 262; n. CCIX, a. 859, c. 346; n. CCCLXXIV, a. 897, c. 620; n. DLVI, a. 940, c. 948. Vicini, Regesto della Chiesa, cit., n. 22, a. 869, p. 38; n. 27, a. 886, p. 44; n. 54, a. 968, p. 77. Benassi, Codice Diplomatico, cit., n. VIIII, a. 854 p. 24, n. XIX bis, a. 888, p. 61. Drei, Le carte, cit., n. XIV, a. 917, p. 63. Galetti, Le carte, cit., n. 34, a. 843, p. 90. Torelli, Le carte degli Archivi, cit., n. IX, a. 822, p. 27. Gabotto, Le pi antiche carte, cit., n. XXXIX, a. 909, p. 64. Fainelli, Codice Diplomatico I, cit., n. 292, a. 884, p. 443. Gloria, Codice Diplomatico I, cit., n. 64, a. 980, p. 91. L'Editto di Rotari rivolge particolare attenzione a danni di vario tipo fatti a siepi e recinzioni costruite, per racchiudere lo spazio abitativo, con assi e pertiche di legno: Edictus ceteraeque Langobardorum Leges, in Monumenta Germaniae Historica, Fontes iuris germanici antiqui in usum scholarum, ed. F. Bluhme, Hannover 1869, rr. 282, 283, p. 57; rr. 300, 303, 304, p. 58. Cfr. Fasoli, Aspetti, cit., p. 130 s. Sulle case contadine e sui materiali da costruzione: Barni-Fasoli, L'Italia nellalto Medioevo, cit., pp. 162s, 617s; G. Duby, L'economia rurale nell'Europa medievale, Bari 1972 (I ed. Paris 1962), 1, pp. 7-11; Rich, La vie, cit., pp. 128s.; G. Fourquin, Le premier Moyen Age, Le temps de la croissance, in Histoire de la France rurale des origines 1340, a cura di G. Duby, A. Wallon, 1, Paris 1975, pp. 296s., 303s., 515s. Cfr. inoltre M. De Bouard, Manuel d'archologie mdivale. De la fouille l'histoire, Paris 1975, pp. 48-63, 67-76; S. Roux, La maison dans l'histoire, Paris 1976, pp. 116, 120-4; J. Chapelot, R. Fossier, Le village et la maison au Moyen Age, Paris 1980, pp. 255-327; J. Le Goff, La civilt dell'Occidente medievale, Torino 1981, pp. 222-8. 8 Sul conquestum: B. Andreolli , Ad conquestum faciendum. Un contributo per lo studio dei contratti agrari altomedievali, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XVIII (1978), 1, pp. 109-36. 9 Fainelli, Codice Diplomatico 1, cit., n. 295, a, 887, p. 447. 10 Id., Codice Diplomatico II, cit., n. 239, a. 947-955, p. 363.

castri et edificiis casis 11. Nel 936 le stesse persone, assieme ad altre, chiedono che venga confermata dal monastero modenese la concessione del 920, ma la clausola relativa al conquestum non compare pi nella nuova peticio, e soprattutto, per la costruzione delle case, non si indica pi il legno, che era l'unico materiale edilizio menzionato nel precedente livello, ma muras et petras12. Allorch quindi si vuol rendere l'insediamento di questi uomini all'interno del castello meno provvisorio, pi stabile, i capifamiglia si orientano nella scelta di materiali da costruzione pi resistenti e meno precari. Che la pratica di smontare le case per reimpiegarne i materiali in nuove costruzioni non sia caratteristica di una zona determinata, legata a particolari usi locali (i documenti sopra citati sono infatti tutti relativi al Veronese), ma sia diffusa un po' dappertutto, ce lo testimonia il fatto che la medesima clausola relativa al conquestum la ritroviamo in un'area lontana, nel Piacentino. Nel giugno dell'847 infatti un uomo libero di nome Martino ottiene a livello per ventinove anni dal vescovo di Piacenza Seofredo dei beni in Tressedenti, pertinenti all'oratorio di San Fiorenzo di Fiorenzuola, con la clausola che ad expleti libelli cum omni suo foris exeat suprascripto petitor vel suos heredes, anteposito edificio13 Il legno era il materiale maggiormente utilizzato nell'edilizia (e non solo!14); poteva costituire il materiale esclusivo di una costruzione o poteva comunque entrarci in parte, come ad esempio nell'armatura dei tetti o nei pali di sostegno dei muri altrimenti 16 . edificati15. L'Altomedioevo stato infatti giustamente definito il mondo del legno Particolarmente significative sono due rubriche dell'Editto di Rotari che indicano il legname come elemento base per le costruzioni: r. 282: Si quis de casa erecta lignum quodlibet aut scandolas furaverit, conponat solidos sex; r. 283: Si quis de lignamen adunatum in curte aut in platea ad casam faciendam furaverit, conponat solidos sex17. Gli uomini dei primi secoli del Medioevo avevano d'altronde a disposizione nell'Italia padana vastissime foreste, da cui potevano trarre con facilit il materiale da costruzione, tendevano anzi a prendere e utilizzare ci che era a portata di mano, comprensibile scelta in un'et in cui i trasporti erano divenuti difficili. Cos, ad esempio, i carpentieri che lavorano alla copertura del tetto della chiesa di Santa Maria di Castelseprio scelgono per le travature il legno di castagno dei boschi locali, invece del legno di quercia, migliore del primo, di cui sicuramente v'era disponibilit non lontano, sulle prealpi varesine18. A questo si deve aggiungere il bagaglio di cognizioni ed esperienze nella tecnica costruttiva proprio del popolo longobardo, portato, come gli altri popoli nordici e germanici, ad identificare ogni architettura con le costruzioni in legno e a far risalire l'arte del costruire ad origini e impieghi campestri19. La costruzione di un edificio in legno era
Ivi, n. 168, a. 920, p. 219. Ivi, n. 218, a. 936, p. 316 13 Galetti, Le carte, cit., n. 41, a. 847, p. 103. 14 Era di legno la stragrande maggioranza degli oggetti, da lavoro o utili alla casa. Il metallo era infatti scarsamente presente nel settore della strumentazione agricola. Cfr. V. Fumagalli, Precariet dell'economia contadina e affermazione della grande azienda fondiaria nell'Italia Settentrionale dall'VIII all'XI secolo, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XV (1975), 3, pp. 4-6; Id., Il Regno Italico, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, II, Torino 1978, p. 150s; M. Baruzzi, I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia. Note sull'attrezzatura agricola nell'alto Medioevo, "Studi Romagnoli", XXIX (1978), pp. 423-46. 15 Cfr. soprattutto J. Decaens, Recherches recents concernant la maison paysanne en bois au Moyen Age en Europe du Nord-Ouest, in La construction au Moyen Age. Histoire et archologie, Actes du Congrs de la Socit des Historiens Mdivistes de l'Ensegneiment Suprieur Public, Besan,con, 2-4 Juin 1972, Paris 1973, pp. 125-36; De Bouard, Manuel d'archologie, cit., pp. 48-53, 67-74; Le Goff, La civilt cit., pp. 222-4. 16 Ivi, p. 222. 17 Edictus, cit., rr. 282, 283, p. 57. 18 G. P. Bognetti, S. Maria Foris Portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi , in G. P. Bognetti, G. Chierici, A. De Capitani D'Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Milano 1948, pp. 11-511, ora in L'et longobarda, II, pp. 11-673 alle pp. 3-24. 19 G. De Angelis d'Ossat, Tecniche edilizie in pietra e laterizio , in Artigianato e tecnica nella societ dell'Alto Medioevo occidentale, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 2-8 aprile 1970, Spoleto 1971, Il, p. 547. Cfr. anche U. Monneret De Villard, L'organizzazione industriale nell'ltalia longobarda durante l'Alto Medioevo, "Archivio Storico Lombardo", s. V, XLVI (1919), pp. 10-2; M. Cagiano de Azevedo, Esistono una
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inoltre pi economica, perch poteva essere portata a termine utilizzando i materiali stessi sul luogo e senza l'intervento di artigiani specializzati da fuori, di magistri, sfruttando le conoscenze tecniche e le esperienze costruttive dei contadini nella carpenteria. Se consideriamo i dati, non molto numerosi, che i documenti ci forniscono sulla strumentazione agricola, negli elenchi di attrezzi sono spesso compresi anche strumenti da taglio e da carpenteria (che, nel caso di alcuni attrezzi, sono indispensabili ovviamente anche per lavori di potatura degli alberi e raccolta di legname leggero). Sull'equipaggiamento dei poderi contadini si sa ben poco; maggiori informazioni le abbiamo per i centri dominici di curtes facenti capo a grandi propriet20, Comunque sappiamo tra l'altro che nell'812 in Toscana un certo Altiperto, uomo libero, al momento di prendere a livello un podere, riceve in dotazione dal proprietario oggetti di vario tipo, tra cui una scure e roncole per sfrondare gli alberi21, che nella corte di Griliano (forse nel Bresciano) di propriet del monastero di Santa Giulia di Brescia, nel massaricio ventotto manentes devono corrispondere come canone anche ferro e attrezzi gi lavorati, tra cui secures III, mannaria I22. Due polittici altomedievali di area padana, il breve recordacionis del monastero di San Tommaso di Reggio Emilia, attribuito al X secolo, e l'inventario della corte di Migliarina, presso Carpi, sempre del secolo X, ci forniscono elenchi di attrezzi agricoli per vari centri aziendali23. Cos, in base al polittico reggiano, sul domocoltile dello stesso monastero troviamo registrate, tra l'altro, materia I, secure II, secias [seghe] III; su quello della curte de Inciola, Enzola nella bassa pianura reggiana, securis II, mannaria I; a Zeola, Sciola di Tizzano nel Parmense, mannarias II; nella curte de Citonio, Cedogno nel Parmense, mannaria I; e a Curciliano sempre mannaria I. Nella corte di Migliarina sono elencati invece dolatoria una, secure una, secies VI, [. . .] asia una, assione uno, rasoria una, falce potatoria una, tappolis dui, secio uno: asce, accette, scuri, seghe, pialle, un vero e proprio corredo per lavorare il legno. Pi in generale, quella guida per la gestione dei posssessi regi che il Capitulare de villis al capitolo 42 elenca, tra la suppellettile e la strumentazione che dovevano essere presenti in ogni centro aziendale, soprattutto attrezzi, non tanto destinati al lavoro dei campi, ma a quello del legno, alla carpenteria o alla falegnameria24. D'altronde si presupponeva che i liberi proprietari, presenti capillarmente nel territorio prima dominato dai Longobardi e poi dai Franchi possedessero particolari e precise capacit tecniche costruttive, se tra i servizi pubblici che erano dovuti appunto dai liberi homines, exercitales arimanni in epoca carolingia, come gi in et longobarda, oltre a quello militare, alla custodia armata dei placiti, alla manutenzione delle vie di comunicazione era compresa anche la manutenzione ma soprattutto la costruzione dei ponti25. Alcuni di questi, ormai decaduti per al ruolo di dipendenti di una curtis di propriet del monastero di San Colombano di Bobbio,
architettura e una urbanistica longobarda? in La civilt dei Longobardi in Europa, Roma-Cividale del Friuli, 24-28 maggio 1971, Roma 1974, pp. 294-8. 20 Fumagalli, Precariet, cit., pp. 4-6, Baruzzi, I reperti, cit. pp. 430-4. 21 W, Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus, Tbingen 1971, n. 73, a. 812, p. 144. 22 Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi , a cura di A. Castagnetti, M. Luzzati, G. Pasquali, A. Vasina, Roma 1979 [F.S.I., 104], S. Giulia, a cura di G. Pasquali, p. 54. Per i problemi di identificazione della localit: G. Pasquali, La distribuzione geografica delle cappelle e delle aziende rurali descritte nell'inventario altomedievale del monastero di S. Giulia di Brescia, in San Salvatore di Brescia. Materiali per un museo. I, II, Brescia 1978, p. 148. 23 Inventari, cit., S. Tommaso di Reggio , a cura di A. Castagnetti, pp. 196-8; Corte di Migliarina , a cura di A. Castagnetti, p. 204. Per l'identificazione dei centri domocoltili di S. Tommaso: V. Fumagalli, La resa della terra e i patti colonici, in Id., Coloni e signori nell'Italia settentrionale. Secoli VI-XI, Bologna 1978, p. 72. 24 Capitularia I, cit., Capitulare de villis , n. 32, p. 87; Capitulare de villis . Cod Guelf. 254 Helmst. der Herzog August Bibliothek Wolfenbttel, ed. C. Bruhl, Stuttgart 1971, p. 59. Cfr. W. Metz, Zur Erforschung des Karolingischen Reichsgutes, Darmstadt 1971, pp. 8-21; Duby, L'economia rurale, cit., pp. 30s, B. Fois Ennas, Il Capitulare de villis, Milano 1981, pp. 140-2. 25 Capitularia Regum Francorum, in Monumenta Germaniae Historica, II, edd. A.Boretius, V. Krause, Hannover 1897, Capitulare Papiense, a 850 ex., n. 213, p. 87s; Edictum Pistense, a. 864, n. 273, p. 322. Sui liberi del re e la costruzione dei ponti: G. Tabacco, I liberi del re nell'Italia carolingia e postcarolingia, Spoleto 1966, pp. 102-5.

continuano ad esercitare nella seconda met del IX secolo tali diritti/doveri propri della condizione di uomo libero, anche se come prestazioni di lavoro dovute alla grande propriet monastica nella quale sono stati attirati. Le due Adbreviationes de rebus omnibus Ebobiensi Monasterio pertinentibus dell'862 e dell'883 ci elencano infatti per il centro di Virdi, oratorium sancti Hilarii, Valverde (Pavia): XXX arimanni, XX ex his secant pratum in Caulo [Coli, Piacenza], et faciunt pontem de parte monasterii in Papia, et unusquisque illorum facit opera ad monasterium ebdomadas V26. E comunque soprattutto la contrattualistica che ci fornisce chiare indicazioni sull'attivit edificatrice dei rustici. Tra gli obblighi del concessionario nei confronti del concedente spesso infatti richiesta la costruzione della casa di abitazione e degli edifici secondari del sedimen a spese o, pi probabilmente ad opera del colono27. Nell'837 in un livello per beni in Ostiglia il locatario promette di lavorare et excollere et superabitare [. . .] ibi et super ipsa terra casa et canalibus faciendo, curte et orto claudere28 e nell'843 Orsone, uomo libero, per beni ottenuti in locazione nel Piacentino, si obbliga super resedendum et casa palia tecta inibi levandum29; pi avanti, nel settembre 869, il colono si impegna ad laborandom, colendum, tegia palliaticia continendum, canales edificandom [...] edifcias faciendum ut [...] rebus et tegia palliaticia meliorentur su terre nel Modenese, a Collegara30. Nel marzo 917 Orso ottiene a livello degli appezzamenti di terreno, su uno dei quali aveva edifcato tria paliatecta31, e nell'ottobre del 940 a Novate, nel Milanese, un livellario si impegna in casina residere et ens continere, conciare, coperire, claudere32; nell'agosto 910 a chi prende in locazione ariale uno una cum aquimolo suo in fluvio Tartaris in porto de Rovescello si fa obbligo addirittura di provvedere a super ipso ariale molinum edifcare [...] cum tecto super se abente et rodas et cum universis municionibus et fabrica sua (ma in questo caso si trattava di persone del mestiere, di mugnai)33. Il colono doveva occuparsi anche dei lavori di manutenzione, miglioria, riparazione delle abitazioni sui fondi che otteneva in conduzione, oltre che delle opere di recinzione e riparo del nucleo abitativo. In una charta promissionis rogata nel febbraio del 773, questa volta per di ambito toscano (territorio di Lucca), si richiede espressamente ticta recopiriendum, et ipsa casa recludendum cum petra et tabula, et [...] sepi recuciandum et ipsa porta cludendum et defindendum34; o pi genericamente si raccomanda, nell'845, per beni in Ostiglia, di casa seo et canalibus [. . .] staurando, curte, ortum, aream faciendo35; e nel 907, per beni a Borgo Panigale nel Bolognese, di metato, curte, orto et kanale restaurandum36. Esistevano per degli addetti alle costruzioni, specialisti, sui quali conviene soffermarci per evidenziare la particolare qualificazione della loro attivit costruttiva, rivolta a soddisfare soprattutto i gusti di una committenza ristretta e di un certo livello sociale. La documentazione avara di notizie a loro riguardo: questo silenzio delle fonti , crediamo, un ulteriore conferma del fatto che la maggior parte delle abitazioni era opera degli uomini che in esse vivevano, non di
Inventari, cit., S. Colombano di Bobbio 1-4, a cura di A. Castagnetti, I, a. 862, p. 135; 2, a. 883, p. 156. Sugli arimanni dipendenti dal monastero di Bobbio cfr. Tabacco, I liberi, cit., pp. 100-6. Sulla decadenza dei liberi homines e sulla diffusione della curtis: B. Andreolli, M. Montanari, L'azienda curtense in Italia. Propriet della terra e lavoro contadino nei secoli VIII-XI, Bologna 1983 pp. 69-84. 27 Ad esempio, Vicini, Regesto, cit., n. 5, a. 813, p. 7; n. 27, a. 886, p. 44. Cipolla, Antichi documenti, cit., n. XVII, a. 829, p. 69. Benassi, Codice Diplomatico, cit., n. XVIIII bis, a. 888, p. 61. 28 Tiraboschi, Storia della augusta badia, cit., n. XXXIII, a. 837, p. 50. 29 Galetti, Le carte, cit., n. 34, a. 843, p. 90. 30 Vicini, Regesto, cit., n. 22, a. 869, p. 38. 31 Drei, Le carte, cit., n. XIV, a. 917, p. 63. 32 Codex Diplomaticus Langobardiae, cit., n. DLVI, a. 940, c. 948. 33 Fainelli, Codice Diplomatico II, cit., n. 95, a. 910, pp. 122s. Lo stesso avviene per un altro molendino in valle Fontense: Ivi, n. 164, a. 920, p. 214. 34 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., II, n. 281, a. 773, p. 402. 35 Tiraboschi, Storia, cit., n. XXXVI, a. 845, p. 52. 36 Drei, Le carte, cit. n. VI, a. 907, p. 43.
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personale specializzato, la cui attivit era rivolta per lo pi alla costruzione di edifici pubblici civili, religiosi, o privati di una certa importanza, non certo di case di impianto semplice ed elementare, fatte di materiali poveri, che non abbisognavano di tecniche particolarmente complesse e raffinate. Questa appunto l'immagine che, come si visto, la documentazione scritta ci fornisce dell'edilizia contadina, che trova riscontro per nei dati che ci sono forniti dagli scavi archeologici. Questi ultimi, per l'Italia settentrionale, come del resto per tutta la penisola, sono pochi relativamente agli insediamenti rurali minori e all'edilizia privata altomedievali, mentre sono pi numerosi per i secoli del pieno e soprattutto del Bassomedioevo. Basta sfogliare le pagine della rivista "Archeologia Medievale", che riporta notizie degli scavi svolti nel corso di ogni anno, per rendersene conto. Del resto, la stessa disciplina dell'archeologia medievale di recente sviluppo nel nostro paese37, rispetto al resto dell'Europa occidentale che gi da tempo ha avviato ricerche sulle costruzioni civili e, nello specifico, sulla dimora rurale, anche se i secoli dell'Altomedioevo sono anche in questo caso poco coperti38. Comunque, gli scarni dati forniti dagli scavi effettuati a Castelseprio39, presso la pieve di Santa Maria di Val Tenesi sul lago di Garda40, a Refondou presso Savignone in Liguria, e a Luscignano in Lunigiana41, a Luni42, a Bagnoregio in Toscana43. Ci confermano quanto si detto sulle abitazioni rurali.
P. Delogu, Archeologia medievale, in Atti del Convegno dell'Associazione dei Medioevalisti Italiani, Roma, 31 maggio-2 giugno 1975, pp. 1-17. 38 Dei bilanci degli scavi sulla casa contadina per la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, il Belgio, la Germania, ci sono forniti da: Decaens, Recherches, cit.; De Bouard, Manuel, cit., pp. 67-74, Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 79-134. In Francia per l'Altomedioevo sono da ricordare, tra l'altro, gli scavi a Isle-Aumont nell'Aube (De Bouard, Manuel, cit., p. 67 e nota 233 con la bibliogr.) a Mandeure (Ivi, p. 67 e nota 234 con la bibliogr.), a Bourcheuil, nel Pasde-Calais (Fourquin, Le premier, cit., p. 296), ma soprattutto gli scavi fatti a Brebires, a sud di Douai (P. Demolon, Le village mrovingien de Brebires (Vle-Vlle sicles), Arras 1972; De Bouard, Manuel, cit., pp. 67-9 e fig. I a p. 68; Fourquin, Le premier, cit., pp. 303, 304, 311). In Gran Bretagna, su impulso di M. Beresford (Lost villages in England, London 1954) e del Deserted Medieval Village Research Group, sono stati effettuati numerosi scavi di villaggi abbandonati, le cui notizie appaiono nella rivista "Medieval Archeology", ma per lo pi per il pieno e basso Medioevo. Cfr. M. Beresford, Villages dserts: bilan de la recherche anglaise, in Villages dserts et histoire conomique XIeXVIIIe sicles, Paris 1965, pp. 533-80, con la bibliogr. e la notizia degli scavi alle pp. 573-80. Per i secoli dell'Altomedioevo sono da ricordare, tra l'altro, gli scavi a Catholme nello Staffordshire, V/VI secolo - X (Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 95-97), a Chalton nell'Hampshire, VI-VII secolo (Ivi, pp. 103-6), a West Stow, V-VI secolo (Ivi, p. 119), a Mucking, V/VI-VIII secolo (Ivi, p. 123). Per i Paesi Bassi sono stati effettuati scavi di case che datano dal VII all'XI secolo a Leens (De Bouard, Manuel, cit., p. 70 e nota 244 con la bibliogr.), a Kootwijk nel Gelderland (Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 88-95) e a Odoorn (Ivi, p. 123). In Germania sono stati studiati, tra l'altro, gli insediamenti di Warendorf, in Westfalia, il centro pi importante (W. Winkelmann, Die Ausgrabungen in der frahmittelalterlichen Siedlung bei Warendorf, in Neue Ausgrabungen in Deutschland, Berlin 1958, pp. 492-517; Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 79-88), risalente al VII-VIII secolo, quello di Gladbach (Rich, La vie, cit., p. 128s; De Bouard, Manuel, cit., p. 70 e nota 248; Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 97 e 117) in Renania come il centro di Haldern (Decaens, Recherches, cit., p. 126) e le due localit di Kirchheim in Baviera e di Hedeby (De Bouard, Manuel, cit., p. 70 e note 248 e 249 con la bibliogr.). Ricordiamo anche gli scavi a Wlfingen-am-Kocher, VI-XII secolo, e a Burgheim, VII-IX secolo (Chapelot, Fossier, Le village, cit., p. 97s), a Morken (Ivi, p. 128) e a Feddersen Wierde, centro risalente al I-V secolo (Ivi, pp. 106-10). 39 Cagiano de Azevedo, Esistono, cit., p. 296; "Archeologia Medievale" VI (1979), Notizie degli scavi, schede 1978, p. 321; G. P. Brogiolo, S. Lusuardi Siena, Nuove indagini archeologiche a Castelseprio, in Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sull'Alto Medioevo, Milano, 21-25 ottobre 1978, Il, Spoleto 1980, pp. 475-500. 40 Sui risultati degli scavi presso questa pieve ed anche di altri nel Canton Ticino e ad Albenga, con le relative indicazioni bibliografiche, cfr. G. P. Brogiolo, Lettura archeologica di un territorio pievano: l'esempio Gardesano, in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell'alto Medioevo: espansione e resistenze, in Atti della XXVIII Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 10-16 aprile 1980, I, Spoleto 1982, pp. 281-300. 41 Per Savignone e Luscignano, T. Mannoni, Il castello di Molassana e l'archeologia medievale in Liguria, "Archeologia Medievale" I (1974), p. 12; Ivi, Notizie degli scavi, schede 1971-'73, p. 270; "Archeologia Medievale",III (1976), pp. 309-25. 42 W, Ward Perkins, Lo scavo nella zona Nord del foro, in Scavi di Luni, II, a cura di A. Frova, Roma 1977, pp. 633-8; "Archeologia Medievale", Notizie degli scavi, I (1974), schede 1971-'73, p. 270, III (1976), schede 1975, p. 330; IV (1977), schede 1976, p. 251; V (1978), schede 1977, p. 485; VI (1979), schede 1978, p. 322; VII (1980), p. 476.
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Le maestranze specializzate nell'attivit costruttiva dedite esclusivamente a tale lavoro, a cui dobbiamo, come si detto, non tanto l'edificazione delle minori costruzioni quanto quelle degli edifici di carattere pubblico e delle fondazioni ecclesiastiche (pubbliche e private), sono rappresentate da quei magistri della cui opera abbiamo scarse testimonianze nelle carte altomedievali (tenendo conto anche dell'abbondante documentazione toscana), proprio a causa probabilmente dell'eccezionalit e alta qualificazione della loro attivit. Negli anni 728-729, Trasualdus vir devotus, nel dotare di alcuni beni la chiesa di San Terenzio in vico Colonia nel territorio di Lucca da lui fondata, fa esplicito riferimento al fatto che questa era stata costruita per manum artificum a fundamentis44; sempre a Lucca, nel 737 troviamo, tra i testimoni che sottoscrivono una charta adfiliationis, Tendoaldus magister45; e come testimone ad una vendita, nel novembre 815, Pauloni magestro filio quondam Domnigoni, questa volta nell'Italia settentrionale, nel Piacentino46. A questi professionisti va attribuita, a vari livelli, secondo preparazione e provenienza, una certa attitudine artistica, che ci testimoniata da opere scultorie o costruttive firmate dall'artefice, dal magister. Sappiamo cos che Ursus magester cum discepolis suis Iuvintino et Iuviano ha lavorato nella prima met dell'VIII secolo al ciborio della chiesa di San Giorgio di Valpolicella; che a Iohannes magister dobbiamo l'opera, dell'anno 736, per lo scoto Cumiano, a Bobbio; che Paganus lavora (negli anni 751-754 o subito dopo 1'800) all'oratorio di Santa Maria in Valle a Cividale; che Gennarius magester marmorarius lavora a Savigliano nel 755, e che Pacificus, morto nell'anno 844, un artista molto versatile (ma si tratta di un personaggio singolare, un arcidiacono, tra l'altro, del cui livello di capacit professionale non conosciamo per ora altri casi, almeno per quanto riguarda uomini di Chiesa), se l'iscrizione che lo riguarda recita: quicquid auro vel argento et metallis ceteris, quicquid lignis ex diversis et marmore candido, nullus unquam sic peritus in tantis operibus47. Le carte private ci documentano invece, in un atto rogato a Lucca nel luglio 754, 1'attivit di un certo Auripert pictor, ricordato anche in una charta firmitatis del febbraio 763; e di un altro pictor, di nome Eribertus, in un documento veronese dell'aprile 86548. Artigiani qualificati, specializzati pi propriamente nella costruzione di edifici, sono da ritenersi il Godefrit viri honesti magistro murarum che presenzia in qualit di testimone il 19 dicembre 737 a Vianino (Parma) ad un atto di vendita di terra alla chiesa di San Pietro di Varsi e che doveva probabilmente occuparsi della parte muraria di una costruzione, e quel Natalis homo transpadanus magister casarius che nei primi anni del IX secolo erige (con probabilit partecipando attivamente all'opera di costruzione) e dota la chiesa di San Pietro e Santa Maria a Lucca49.
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M. Cagiano de Azevedo, Due casae longobarde in Tuscia, in Atti del Convegno internazionale di archeologia medievale, Palermo-Erice, 20-22 settembre 1974, Palermo 1976, pp. 101-3. 44 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., I, n. 42, a. 728-729, p. 144. 45 Ivi, n. 62, a. 737, p. 196. 46 Galetti, Le carte, cit., n. 13, a. 815, p. 51. 47 Sulle iscrizioni apposte dai vari magistri sulle loro opere e sulla bibliogr. ad esse relativa: Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p. 36 nota 1, p. 64 nota 2. Cfr. anche P. L. Zovatto, L'arte altomedievale, in Verona e il suo territorio, II, Verona 1964 pp. 51523; C. G. Mor, L'autore della decorazione dell'Oratorio di S. Maria in Valle a Cividale e le possibili epoche in cui pot operare, "Memorie Storiche Forogiuliesi", XLVI (1965), pp. 20-36; Cagiano de Azevedo, Esistono, cit., pp. 325, 327. Sull'arcidiacono Pacifico: C. G. Mor, Dalla caduta dell'impero al Comune, in Verona e il suo territorio, cit., pp. 70, 76-82 86. Ricordiamo anche due iscrizioni che riguardano due magistri attivi nell'Italia centrale rispettivamente nella chiesa di S. Maria in Fianello di Sabina (VIII secolo) e all'altare della chiesa di S. Pietro di Ferentillo (739): Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p. 36, nota 1. 48 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., I, n. 113, a. 754, p. 329; II, n. 170, a. 763, p. 127. Fainelli, Codice Diplomatico, I, cit., n. 231, a. 865, p. 353. 49 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., 1, n. 64, a. 737, p. 203. Memorie e documenti per servire all'istoria del Ducato di Lucca, a cura di D. Barsocchini, V, p. II, Lucca 1837, n. CCCXXII, a. 800, p. 192 (il regesto del Barsocchini fa riferimento al t. IV, p. 11 n. 6: qui con la data 805). Per l'individuazione delle competenze dei magistri murarum e l'identificazione del magister casarius del documento toscano con un artigiano addetto alle costruzioni: Bognetti, S. Maria, cit., rispettivamente alle pp. 490 e 493, nota 228 (in polemica con Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p. 50, nota 5).

Si trattava comunque di uomini liberi, che certamente si valevano dei diritti/doveri propri della condizione dell'uomo libero (quasi sempre li troviamo presenziare in qualit di testi alla rogazione di vari negozi giuridici); potevano avere anche una certa qual rilevanza sociale (Auripert pictor delle carte degli anni 754 e 763 possedeva numerosi beni e il magister Pacificus veronese, di cui ci resta l'iscrizione, era un arcidiacono, personaggio di spicco a Verona50) e certamente spesso svolgevano la loro attivit spostandosi all'interno del Regnum ed anche fuori51. Troviamo infatti numerosi magistri qualificati come transpadini nelle carte del monastero di Farfa, tra i testimoni alla stesura di varie contrattazioni giuridiche52. Professionisti dell'edilizia, al confronto di chi, servo dipendente di un privato, non andava pi in l della rudimentale capacit di tirare in piedi una rozza baracca o di obbedir materialmente alle minute prescrizioni di un tecnico53 dovevano essere quelle maestranze indicate nella documentazione come magistri commacini, come quel Rodpertu magistrum Cummacinum che nel 739 aliena, con un atto di vendita rogato a Toscanella, casa cum vinea, clausura, citina, terra di sua propriet54. Non ci interessa in questa sede stabilire se il termine Commacini indica che si trattava di artigiani provenienti dal territorio di Como oppure uomini operanti cum machinis (considerando le impalcature, gli argani e i verricelli di cui probabilmente erano provvisti) o espletanti il loro compito cum maciones (etimologia significante artigiani associati), o di maestranze specializzate provenienti dalla Commagene (ve ne erano due, una danubiana e una asiatica) al seguito dei Longobardi al tempo dell'invasione55, ma di segnalare e di precisare la loro attivit sia come costruttori, sia come imprenditori, organizzatori tecnici dei lavori56. soprattutto la legislazione longobarda che ci permette di avere un'idea delle opere che ad essi venivano commissionate e della loro organizzazione del lavoro. Le due rubriche 144 e 145 delle leggi di Rotari ci mostrano come un magister commacinus potesse avere con s nell'opera di restauro o di fabbrica ex novo di un edificio dei collegantes, dei consortes, cio persone legate a lui dalla compartecipazione all'impresa [144], che potevano essere anche altri magistri commacini [145]. Siamo quindi di fronte a rudimentali imprese di costruzioni che assumevano in appalto un lavoro. Oppure accettavano anche di dirigere l'opera dei servi di un padrone57. I1 Memoratorio de mercedes comacinorum58, un vero e proprio tariffario per le prestazioni che ad essi si richiedevano, dei tempi di Grimoaldo o di Liutprando, in cui il Bognetti vede la testimonianza di una decadenza di questi artigiani qualificati da liberi imprenditori a dipendenti regi59, specifica con estrema precisione le opere che erano in grado di effettuare.
Per Auripert pictor cfr. nota 48. Per Pacifico cfr. nota 47. La legislazione longobarda prevede che i magistri, che sono in questo caso assimilati ai negotiatores, possano intra provincia vel extra provincia ambulare liberamente durante il regno di Liutprando; possono farlo con una epistola regis.. aut voluntate iudicis sui durante il regno di Astolfo: Edictus, cit., Liutprandi Leges, a. VIII, cap. 18 III, p. 93, Ahistulfi Leges, a. I, p. Chr. 750, cap. 6, p. 163. 52 I. Giorgi, U. Balzani, Il Regesto di Farfa di Gregorio di Catino, Roma 1879-1914, II, n. 61, a. 765, p. 62; n. 240, a. 819, p. 197; n. 274, a. 824, p. 227; n. 259, a. 825, p. 214. 53 G. P. Bognetti, I capitoli 144 e 145 di Rotari ed il rapporto tra Como ed i Magistri Commacini, in L'et Longobarda, IV, Milano 1968 (I ed. in Scritti di Storia dell'Arte in onore di M. Salmi, Roma 1961, pp. 155-71), p. 452. 54 Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., I, n. 71, a. 739, p. 216. 55 Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., pp. 37-51; Bognetti, S. Maria cit., pp. 484-504; Id., I capitoli, cit.; Cagiano de Azevedo, Esistono, cit., pp. 325s. Una sintesi delle varie posizioni in M. Salmi, Maestri comacini o commacini?, in Artigianato e tecnica, cit., I, pp. 409-24. 56 Sulla loro attivit di costruttori insiste Bognetti nelle due opere cit. alla nota 55 mentre Monneret de Villard, nello studio ivi citato (p. 46) insiste soprattutto sulla loro funzione di capomastri impresari, distinguendoli dai vari magistri murarum, di cui coordinavano l'attivit. 57 Edictus, cit., Edictus Rothari, r. 144 De magistros commacinos, pp. 29s; r. 145. De rogatos aut conductos magistros, p. 30. Cfr. Monneret de Villard, L'organizzazione cit., p. 46s.; Bognetti, S. Maria cit., pp. 492s; Id., I capitoli cit., pp. 434s; C. G. Mor, Gli artigiani nell'alto Medioevo, in Artigianato e tecnica, cit., I, p. 205s. 58 Edictus, cit., Capitula extra Edictum vagantia, Memoratorio de mercedes comacinorum, pp. 147-9. Vedi anche F. Beyerle, Die Gesetze der Langobarden, Weimar 1947, pp. 324-7. 59 Bognetti, S. Maria, cit., pp. 493-5, 503s.
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Conviene soffermarci su di esse, in quanto testimoniano la sopravvivenza, per una ristretta committenza, di tecniche edilizie che richiedevano capacit professionali particolari. Inizialmente viene fissato il prezzo di base di un edificio con il solo piano terreno (sala) coperto di tegole e quello di un edificio con un piano superiore (solario) sempre coperto di tegole; si passa poi al prezzo del muro secondo il suo diverso spessore, delle costruzioni che avevano richiesto un secondo ordine di impalcature, della decorazione e struttura delle pareti secondo due diverse tecniche (opus gallica e opus romanense) e della costruzione degli archi. Viene poi indicato il prezzo dell'armatura lignea del tetto e dei rinforzi delle travature principali, del tetto, che poteva essere o in scandolae lignee o in tegole, delle fondazioni e di alcuni lavori di rifinitura, come l'esecuzione di una stanza con camino, di chiusure per le finestre in legno o di telai per vetri di gesso, di lastre e colonne di marmo. Da ultimo si fissano i compensi per la costruzione di forni con tubi fittili al modo romano e di pozzi di diversa profondit60. Come si vede, si tratta di capacit tecniche che niente hanno a che vedere con la costruzione delle semplici ed elementari abitazioni contadine, mentre a loro dobbiamo probabilmente quanto di rilevante dell'arte architettonica del periodo longobardo ancora oggi ci resta. Nel corso del IX secolo le testimonianze dell'attivit di questi liberi artigiani/costruttori diventano sempre pi rare (scarse lo erano gi prima, come si detto), mentre cominciamo a trovare documentati artigiani specializzati nella attivit di costruzione dipendenti dei grandi proprietari terrieri, concentrati nei centri domocoltili delle aziende curtensi. Ci ricordano i servi ministeriales docti aut probati che l'Editto di Rotari elenca tra il personale che un grande proprietario teneva presso di s, che utilizzava per le attivit artigiane e le industrie domestiche e ai quali attribuiva un notevole valore. Se confrontiamo infatti tra loro le composizioni pecuniarie previste per l'uccisione dei servi, possiamo notare come i 50 soldi previsti per la morte di un servo ministeriale costituiscano una pena piuttosto elevata, indice dell'alto valore che si attribuiva a questa categoria di servi, pari solo a quella stabilita per l'uccisione di un magister porcarius, che nell'ambito di un'economia di tipo prevalentemente silvo-pastorale in qualit di addetto alla custodia del branco dei maiali, l'animale da carne allora per eccellenza, aveva una notevole importanza61: per 1'uccisione di un servo ministeriale [r. 130], 50 soldi d'oro; per l'uccisione del suo aiutante [r. 131], 25 soldi d'oro per l'uccisione di un servo massaro [r. 132], 20 soldi d'oro; per l'uccisione di un servo bifolco [r. 133], 20 soldi d'oro; per 1'uccisione di un servo rusticano [r. 134], 16 soldi d'oro; per 1'uccisione di un maestro porcaro [r. 135], 50 soldi d'oro; per 1'uccisione del suo aiutante [r. 135], 25 soldi d'oro; per 1'uccisione di un maestro pecoraio, capraio e armentario [r. 136], 20 soldi d'oro; per 1'uccisione di un loro aiutante [r. 136], 16 soldi d'oro. Ad essi si doveva tra l'altro anche la manutenzione, riparazione e costruzione degli edifici, all'interno probabilmente della grande propriet, come ci suggerito dalla rubrica 145 dell'Editto di Rotari: Si quis magistrum commacinum unum aut plures rogaverit aut conduxerit ad opera dictandam aut solatium diurnum prestandam inter servos suos, domum aut casa sibi facienda62. Il magister commacinus poteva venire ingaggiato quindi da un proprietario per dirigere o aiutare i suoi operai servi nelle costruzioni. Sullo scorcio del primo trentennio del IX secolo (833-835) l'abate di Bobbio Wala, nel compilare un breve memorationis dei beni del monastero di San Colombano, elabor uno schema di pianificazione delle risorse del cenobio, con indicazioni per la loro gestione. Per quel che riguarda l'attivit artigianale, Wala aveva organizzato una serie di ministeria (officine centrali), controllati tutti dal prepositus, che doveva occuparsi di omnis laboratio agrorum et vinearum et edifitiorum, figulorumque, ma affidati ciascuno ad un responsabile, che doveva al tempo stesso controllare il lavoro dei servi e provvedere probabilmente all'approvvigionamento del materiale necessario per
Edictus, cit., nota 58. Per l'analisi del testo del Memoratorio: U. Monneret de Villard, Note sul memoratorio dei maestri commacini, "Archivio Storico Lombardo", XLVIII (1920), pp. 1-16; Bognetti, S. Maria, cit., pp. 493-500. 61 Edictus, cit. Rothari, rr. 76, p. 23; rr. 130-136, p. 27s. Cfr. P. Delogu, Il Regno Longobardo, in P. Delogu, A. Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, I, Torino 1980, pp. 3-216, a p. 73. 62 Edictus, cit., Rothari, r. 145 p 30.
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farli funzionare. Cos, per il settore che a noi interessa, Wala suggerisce che il magister carpentarius provideat omnes magistros de ligno et lapide, preter eos qui ad cetera officina deputati sint, id est qui butes et bariles seu scrinia vel molendina, casas atque muros faciunt 63. Questi magistri non dovevano limitare la loro attivit al solo centro dominicale del monastero e utilizzavano sia il legno che la pietra; ma, se consideriamo i loro compiti principali e il fatto che comunque erano soggetti alla sovrintendenza di un carpentarius, la lavorazione prevalente ci appare essere stata quella del legno, che d'altronde, come si gi visto, era il materiale pi diffuso nell'edilizia. Con il termine carpentarius inoltre si indicava allora proprio l'addetto alla lavorazione del legno64. Questa organizzazione che Wala vuole dare al monastero piacentino si inscrive nella linea suggerita dal Capitulare de villis, degli inizi del IX secolo, che, nel fissare le regole per una buona organizzazione e gestione dei possessi regi, stabiliva che in ogni centro curtense ci dovessero essere iudices che avessero sotto il loro controllo bonos [...] artifices, id est [...] carpentarios [. . .] nec non et reliquos ministeriales65. Alcuni di questi carpentieri, della Val d'Intelvi e di Besozolo (cio di Bizzozzero presso Castelseprio), li ritroviamo dipendenti dal monastero di San Pietro in Ciel d'Oro in Pavia nel 929 (e cos pure nel 962 e nel primo trentennio dell'XI secolo) in un atto di conferma di beni per il monastero pavese, che fa riferimento ad un diploma di re Liutprando66. interessante notare come la specializzazione nell'arte della carpenteria sembri tramandarsi tra queste famiglie: omnes carpentarios illos quos predictus locus [...] possedisse in valle quae dicitur Antelamo vel eos qui sunt in vico Besozolo cum filiis filiabusque vel omni agnitione eorum [. . .] indefesse operando deserviant tam vel posteri eorum in supra fato coenobio si legge nel 929 e nelle successive conferme di Ottone I e Corrado II67. Ma non era tanto sull'attivit di questi artigiani costruttori raccolti nei centri residenziali curtensi che si basava la possibilit di realizzare quell'autosufficienza che si pu considerare come mito della societ altomedievale, quanto piuttosto con il progressivo rafforzarsi della grande propriet e con il diffondersi dell'azienda curtense, sullo sfruttamento delle risorse del massaricio, sul quale troviamo documentato, anche per il nostro settore, una forma diffusa di artigianato rurale contadino68. Cos nei due inventari bobbiesi dell'862 e dell'883 sono dipendenti della corte di Luliatica (localit non identificata, ma nel Pavese) septem fictales, sette affittuari che, oltre a corrispondere unusquisque caseum libras XLI, vervicem dimidium; alius reddit oleo libras V, picula libras V; tertius bracales II; quartus et quintus et sextus reddunt vervices II, segale sextarios III; alio grano modia III, faciunt vineam et cooperiunt casas cum suo ligno69 e, pi avanti, nel

C. Cipolla, Codice Diplomatico del monastero di San Colombano di Bobbio fino all'anno MCCVIII, Roma 1918 [F.S.I., 52-53], I, n. XXXVI, p. 140s. 64 C. A. Mastrelli, Le denominazioni dei mestieri nell'alto Medioevo, in Artigianato e tecnica, cit., pp. 318-20. Sul lavoro del carpentiere: Storia della tecnologia, a cura di C. Singer, E. J. Molmyard A. Ruper Hall, T. I. Williams, II, Torino 1962 (I ed. Oxford 1956), pp. 244-8, 395-402. 65 Capitularia I, cit., Capitulare de villis, n. 32, r. 45, p. 87; Capitulare de villis. Cod. Guelf 254, ed. cit., p. 60. 66 L. Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, Roma 1924 [F.S.I., 38], n. XX, a. 929, pp. 59s. Per il precetto di re Liutprando, al quale il testo del 929 si richiama: C. Brhl, Codice Diplomatico Longobardo, III, I, Roma 1973 [F.S.I., 64], n. 14, a. 714 (falso) pp. 48s. Diplomata Regum et Imperatorum Germaniae. I Conradi I, Heiurici I et Ottonis I Diplomata, ed. T. Sickel, in Monumenta Germaniae Historica, Hannover 18791884, n. 241, a. 962, p. 340, Die Urkunden den Konrads II, ed. H. Bresslau, in Monumenta Germaniae Historica, Hannover-Leipzig 1909, 1, n. 75, a. 1027, p. 87s., n. 186, a. 1033, p. 247. 67 Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p. 68s. Su di essi vedi anche Bognetti, S. Maria, cit., pp. 26, 487s. e note 220, 221, 494s. 68 V, Fumagalli, Strutture materiali e funzioni nell'azienda curtense. Italia del Nord: sec. VIII-XII, "Archeologia Medievale", VII (1980) pp. 25-7. Le osservazioni del Fumagalli sono state riprese da P. Toubert, Il sistema curtense: la produzione e lo scambio interno in Italia nei secoli VIII, IX, X in Annali della Storia d'Italia Einaudi, VI, Torino 1983, p. 36. Cfr. anche Andreolli, Montanari, L'azienda, cit., pp. 16s., 118-21. 69 Inventari, cit., S. Colombano di Bobbio, cit., 1, a. 862, p. 137; 2, a. 883, p. 158.

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Breviarium de terra Sancti Columbani (secolo X-XI), uno scultor, di nome Giovanni, tiene due sortes del beneficio di Homo70. Cos, anche per il massaricio di corti di propriet del monastero di Santa Giulia di Brescia, sullo scorcio del secolo IX, ci sono testimoniate attivit legate all'edilizia. Nella corte di Alfiano (Alfianello, Brescia, e Alfiano Vecchio, Cremona, vicinissime e separate dal fiume Oglio) vi sono quaranta sortes super quas sedunt manentes XL, cum ipso canevario et sunt de ipsis VIII magistri ad muros et casas et buttes faciendum; hec est redditus eorum: de grano modium tercium, vinum medium et ad fictum porcos XX, berbices XX, pullos LXX, de argento solidos X, opera in ebdomada dies XC71. Questi otto manentes hanno s una qualificazione particolare, ma sono soprattutto contadini. pensabile che espletassero le operae richieste in qualit di costruttori a disposizione dei bisogni del centro domocoltile: un impegno che li distoglieva dal lavoro sul loro podere per pi di due giornate lavorative alla settimana (la media delle novanta giornate richieste per tutti i quaranta manentes). Nella curte Cervinica (forse Sernga nel Bresciano) troviamo sors una, super quam sedet manentem I, qui reddit de grano modia III, vinum medium, berbicem I, denarios XXX, de rapas modium I, fava sestarium I, scandolas CCCC72. Si tratta dunque di un contadino carpentiere, dal momento che deve corrispondere delle scandolae, cio delle tavole di legno per la copertura dei tetti delle abitazioni. Sembrano dediti esclusivamente ad un lavoro artigianale invece i servos VIII qui petras tantummodo operantur insediati su tre sortes dipendenti dal centro domocoltile della corte di Summolacu, a nord del lago di Garda73. Non devono infatti corrispondere alcun canone, e inoltre l'avverbio tantummodo (solamente) oltremodo significativo: sono scalpellini, lapicidi. I prodotti manufatti di questi artigiani, sia pietra lavorata che scandolae, non erano utilizzati solo per soddisfare le esigenze dei centri domocoltili da cui dipendevano le sortes sulle quali essi risiedevano, o dell'intero complesso delle medesime corti Cervinica et Summolacu, ma dovevano probabilmente avere una circolazione pi ampia all'interno dell'insieme della propriet del monastero bresciano; cos l'attivit degli artigiani/costruttori dipendenti dal centro di Alfiano doveva avere un raggio di azione pi ampio di quell'organizzazione curtense. Doveva cio esistere una rete di scambi tra le varie aziende parti di un grande complesso fondiario, con la conseguente circolazione di prodotti tra le diverse aree ed una certa mobilit della manodopera stessa, soprattutto di quella specializzata 74. Le prestazioni di operae artigianali degli affittuari dipendenti (oltre naturalmente al lavoro del personale specializzato concentrato nei centri domocoltili) garantivano quindi una relativa autosufficienza della grande propriet fondiaria per quel che riguarda l'attivit edilizia, cos come d'altronde avveniva anche per altri settori artigianali75. Questi contadini (in larga misura gi piccoli proprietari), attratti sempre pi massicciamente nel corso del secolo IX nella grande propriet curtense, che fabbricavano e riparavano i loro attrezzi agricoli, le suppellettili domestiche e costruivano da s, per la maggior parte, la propria abitazione, ci testimoniano l'universale ruralizzazione delle attivit, il loro chiudersi e contrarsi all'ambito delle grandi propriet fondiarie76.

Ivi, 4, secolo X-XI, p. 189. Inventari, cit., S. Giulia, cit., p. 81s. Per l'identificazione della corte di Alfiano: Pasquali, La distribuzione, cit., p. 159. 72 Inventari, cit., S. Giulia, cit., p. 68. Per l'identificazione della corte Cervinica: Pasquali, La distribuzione, cit., p. 153. 73 Inventari, cit., S. Giulia, cit., p. 61. Per l'identificazione del centro di Summolacu: Pasquali, La distribuzione, cit., p. 151. 74 Id., I problemi dell'approvvigionamento alimentare nell'ambito del sistema curtense, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 93-116; Andreolli, Montanari, L'azienda curtense, cit., pp. 16s, 120. Galetti, Per una storia, cit. 75 P. S. Leicht, Operai artigiani agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, Milano 1959, pp. 58-71. 76 Fumagalli, Il Regno Italico, cit., p. 150; v. inoltre p. 151-3.
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La ceramica

L'indagine sulla ceramica postclassica ha catalizzato le energie degli archeologi medievali in quest'ultimo quindicennio. Al centro dell'interesse non stata la ceramica in s e per s, quanto piuttosto la ceramica come strumento di lavoro archeologico. Dopo decenni di studi concernenti le produzioni "coperte" (maioliche, ingobbiate, invetriate) con taglio generalmente da storia delle arti minori, era necessario razionalizzare il campo costruendo tipologie che permettessero di utilizzare il fossile guida per eccellenza come strumento di datazione degli strati da un lato e dall'altro come strumento di comprensione di contesti sociali e funzionali. Accanto a monografie relative a produzioni regionali e subregionali, si sono elaborate carte di distribuzione e si letta la ceramica come spia di traffici e rapporti ad ampia gittata: rimane ancora molto lavoro da fare soprattutto per quei secoli compresi fra il VII e il XII-XIII, nell'Italia centro-settentrionale in particolare, dove la parcellizzazione dei centri di produzione e l'adozione di tecnologie estremamente povere impone un tipo di indagine a livello microterritoriale. Diversa per certi aspetti l'impostazione della ricerca in altre parti della penisola dove, come nell'Italia meridionale e in Sicilia, certi apparati produttivi hanno conservato assetti di fabbrica e di commercializzazione a scala pi ampia. I primi "affondi" sulla ceramica come strumento del lavoro archeologico sono rintracciabili negli Atti dei convegni internazionali della ceramica di Albisola, giunti ormai al diciassettesimo anno di vita, come nella rivista "Archeologia Medievale", mentre il corpus de I bacini ceramici medievali delle chiese di Pisa, di G. Berti e L. Tongiorgi (Roma 1981) costituisce un punto di riferimento essenziale per la circolazione delle ceramiche nell'intero Mediterraneo. Ma gli strumenti pi complessi ed esaurienti di cui si sono dotati gli archeologi medievali, e sui quali possiamo trovare, oltre ad una bibliografia esauriente per l'intera penisola e l'Europa mediterranea, anche gruppi di studi sia su tipologie specifiche che sui pi diversi aspetti della produzione, della circolazione e della funzione della ceramica, sono gli atti dei congressi internazionali su La ceramica medievale del bacino occidentale del Mediterraneo, tenuti a Valbonne nel 1978 (Parigi, 1980) e a Siena nel 1984 (Firenze 1986). In quest'ultimo volume segnaliamo in particolare quei saggi relativi alle produzioni dell'Italia centro meridionale e di Roma, che costituiscono punti di riferimento estremamente aggiornati sulle produzioni delle aree in questione, che presentano caratteristiche ben diverse dal quadro delineato da tempo per l'Italia centro settentrionale. In questa occasione presentiamo le conclusioni di uno studio a livello regionale, la Liguria, che, a distanza di anni dalla sua comparsa rimane un modello ancora insuperato e certamente esemplificativo di un contesto che comprende almeno l'intera Italia centro-settentrionale tirrenica: si tratta della sintesi storica che conclude il volume di Tiziano Mannoni, La ceramica medievale a Genova e nella Liguria 1.
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Genova-Bordighera 1975, pp. 164-181.

Tiziano Mannoni La ceramica medievale a Genova e nella Liguria

1. noto che l'organizzazione della produzione ceramica nell'Impero romano appare complessa e stratificata, con al vertice prodotti di tipo industriale, diffusi da poche grandi fabbriche, e subordinate produzioni pi o meno regionali. Il carattere "industriale" va identificato con la standardizzazione dei prodotti e dei metodi di fabbricazione, che sono sempre tecnicamente buoni (omogeneizzazione degli impasti, grandi forni a temperatura ed atmosfera costanti), sia che si tratti di manufatti pregiati (sigillate), sia d'uso comune, che spesso usufruirono di questo tipo di organizzazione produttiva (anfore, olpi, lucerne ecc.)1. difficile stabilire se esisteva nel Tardoimpero un'organizzazione locale di tipo artigianale, nel senso medievale del termine, poich anche molte ceramiche comuni di tipo grossolano presentano forme standardizzate e diffusione di mercato in grandi aree. In compenso documentata una produzione quasi casalinga delle grandi ville rurali2. L'approfondimento di questa stratificazione della produzione del Tardoimpero sarebbe ovviamente molto importante per capire le ceramiche dell'Altomedioevo. Quando si parla quindi di continuit o discontinuit, almeno in campo ceramico, si dovrebbe precisare di quali aspetti della complessa produzione tardoantica si intende parlare. evidente che l'intera organizzazione romana non continua nel Medioevo. facile d'altra parte ipotizzare che il danno peggiore sia derivato ai prodotti di tipo industriale a causa del diminuito o mancato mercato; la loro produzione tuttavia continu a sopravvivere per molti secoli nel Nord-Africa e nel Mediterraneo orientale. da dove continuarono ad esempio a provenire, anche in Liguria, fino al Tardomedioevo, anfore scanalate, e dove, pur mutando le forme, le tecniche romane vennero ereditate dal mondo arabo. certo, comunque, che insieme allorganizzazione industriale scompare, per non pi ricomparire, la tecnica delle vernici sintetizzate, propria delle sigillate. Le loro imitazioni (in alcune forme e nel colore) continuano forse anche oltre ai secoli VI o VII. ma prive della caratteristica vernice3. Una vera continuit della produzione industriale romana (sia comune, sia pregiata) nelle rozze ceramiche altomedievali. si pu vedere in alcune forme tardoimperiali che persistono per molti secoli, come il boccale trilobato a basso ventre ed ansa schiacciata4 ed il catino tronco-conico o emisferico. Mentre la seconda una forma elementare, e perci la continuit potrebbe essere casuale, il boccale trilobato costituisce invece una delle forme atte alla mescita delle bevande, che, diffusasi nel Tardoimpero, si pu documentare quasi continuamente fino al Tardomedioevo ed ai giorni nostri. I vuoti altomedievali sono dovuti alla mancanza di scavi. I vasi a fiasco, invece, che Cfr R. C. A. Rottlnder, Is a provincial-roman Pottery standardized? " Archeometry", 9 (1966), pp. 76-91, e 10 (1967), pp. 35-47. 2 Lo studio tecnologico e tipologico di queste fabbriche minori purtroppo ancora da fare.
Si pu anche ritenere di derivazione romana la pittura in ocra rossa applicata su certe ceramiche medievali. anche per la sua precoce comparsa in Renania. regione nella quale le sigillate provinciali tardoromane presentano una lunga sopravvivenza, cfr I Hurst. Red-painted and glazed Pottery in Western Europe "Medieval Archaeology". XIII (1969). pp qs 110. 112. ma finora non stato dimostrato che si tratti di vernici sinterizzate e quindi della continuit della autentica tecnica romana. Altri tipi dipinti con ocra rossa sono di origine mediterranea (Spagna, Bisanzio, Italia meridionale), sarebbe perci importante stabilire a quale gruppo appartengano i reperti liguri.
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Si notano in realt tre tipi di sezione dell'ansa, dovuti a diverse tecniche di foggiatura: sezione a sella (foggiatura al tornio), prevalente nei boccali tardoromani o del XII-XIII secolo; sezione appiattita (a nastro), nei boccali depurati altomedievali; sezione ellittica (a mano), nei boccali grezzi.

assieme ai boccali costituiscono i prodotti tecnicamente migliori dell'Altomedioevo, si possono ritenere derivati dalle olpi per perdita dell'ansa. Una certa tendenza alle decorazioni ottenute durante la tornitura (striature dritte e ondulate), o stampigli geometrici, che si potrebbero ritenere di influenza barbarica, ma gi ben sviluppata nella ceramica romana del IV secolo, tende a continuare nel Medioevo. Una estinzione, di valore non trascurabile sul piano del costume e dell'economia domestica, si pu notare invece per quanto riguarda le funzioni del vasellame. Scompaiono ad esempio con le sigillate i servizi ricchi di forme destinate ai vari usi della mensa, e con essi piatti, scodelle e vasi potori individuali5. Il motivo principale per il quale si pu dunque parlare di continuit della produzione romana che fino al secolo XII non sembra comparire nulla di nuovo dal punto di vista ceramico, ma si pu solo tenere conto di ci che scompare. 2. L'esistenza in et romana di un substrato locale per quanto riguarda i vasi ceramici di tradizione preistorica, come le olle e i cinerari, non si pu certo negare, anche se in alcune regioni dove le tecniche locali si sono maggiormente evolute, probabilmente a contatto con nuove fabbriche di tipo industriale, tali prodotti non presentano pi tipici aspetti primitivi. In Liguria, in particolare, dove praticamente la tornitura stata introdotta soltanto con la romanizzazione, la produzione locale ben distinguibile anche in et romana (la cosiddetta rozza terracotta locale)6. E probabile che, dato il nuovo assesto dell'economia, anche la diffusione dei prodotti locali subisca in tale periodo delle variazioni: certe forme degli orli delle olle, e soprattutto le analisi mineralogiche, dimostrano l'esistenza di mercati municipali e regionali; tuttavia aree di produzione e di diffusione della ceramica indigena esistevano gi in et preromana7. Il recipiente tipico che va collocato nel flone del substrato locale l'olla. Di questa forma elementare si conosce una serie di tipi abbastanza continua che va dall'et del Ferro fino al secolo XIII per i centri urbani e XV per le aree ad economia chiusa della montagna. I vuoti nella serie si riferiscono all'Altomedioevo, non gi perch le olle abbiano subto un'interruzione, ma per la mancanza di livelli datati negli scavi medievali finora effettuati. Se si escludono alcuni esemplari molto grossolani foggiati a mano che indicherebbero il ritorno in una fase dell'Altomedioevo di almeno una parte della produzione locale a livelli preistorici, i rimanenti prodotti indicano l'esistenza di mercati regionali e subregionali, all'interno dei quali le olle, come gi in et imperiale, presentano tipiche materie prime e forme costanti. Si gi in parte parlato dei catini tronco-conici ed emisferici privi di rivestimento, vasi molto meno frequenti delle olle. Non sono per ora documentati dal VII all'XI secolo, ma probabilmente sostituiscono le forme analoghe della produzione industriale tardoromana e scompaiono con l'introduzione di forme aperte da tavola di classe superiore (invetriate, ingobbiate). Le loro grandi dimensioni e la mancanza di tracce di fuoco, che conferma l'uso da tavola, potrebbero significare Le ultime forme delle stesse sigillate e loro imitazioni sono ovunque costituite solo da catini emisferici e tronco-conici: J. W. Hayes, Late roman Pottery, Roma 1972, G. Bass, Un avventuroso viaggio commerciale bizantino, "Le Scienze", 39 (1971), p. 28; G. Fingerlin, J. Garbsch, J. Werner, Gli scavi nel castello longobardo di Ibligo-lnvillino (Friuli). Relazione preliminare delle campagne del 1962, 1963 e 1965, "Aquileia Nostra", XXXIX (1968), p. 117; I. Baldassarre, Le ceramiche delle necropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino, "Alto Medioevo", I (1967), figg. 3 e 10. 6 N. Lamboglia, Gli scavi di Albintimilium e la cronologia della ceramica romana , parte I, Bordighera 1950. La persistenza della produzione indigena ovviamente maggiore nelle aree montane che hanno resistito pi a lungo alta penetrazione romana (M. Leale Anfossi, Una stipe votiva (?) a Caprauna, "Rivista Ingauna Intemelia", XVII (1962), pp. 56-8. 7 T. Mannoni, La ceramica dell'et del Ferro nel Genovesato , "Studi Genuensi", VIII (1970-71), pp. 3-26.
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l'introduzione nella mensa di un unico tipo di recipiente, forse ad uso collettivo. Un riaffioramento del substrato preromano si pu invece vedere nelle ciotole ad impasto vacuolato. Per i cosiddetti "testi" non si pu parlare di substrato locale in quanto non sono mai stati trovati fra i reperti di et romana, mentre i rari esemplari, di incerta funzione, appartenenti all'et del Ferro non sono tali da permettere una ipotesi di riaffioramento culturale. Abbastanza chiaro invece l'abbinamento di questi primitivi strumenti per la cottura di farinacei all'economia agricola medievale dell'Appennino orientale funzione che probabilmente ha determinato dopo il primo tipo altomedievale foggiato con terra delle olle, l'uso di una terra speciale, uso che continuato fino ai giorni nostri con piccole varianti nelle forme dei bordi e nelle tecniche di foggiatura8. Postmedievale sembra invece per ora l'origine del testo grande da pane. 3. Sulla ceramica longobarda esistono ricerche esaurienti e specializzate9, e proprio per questo possibile affermare che non sono stati fino ad oggi rinvenuti in Liguria oggetti tipici di tale produzione (vasi con decorazioni a "stralucido" o stampigliatura)10. Ma evidentemente la ceramica prodotta direttamente dai Longobardi in Italia, con tecniche decorative di tradizione protostorica che gi in Pannonia venivano applicate su forme di influenza romana, non pu esaurire il problema della produzione dei secoli VI-VIII. Anzi proprio la mancanza di tali prodotti in Liguria, se verr confermata da successivi scavi altomedievali, starebbe a confermare che forse i Longobardi stessi avevano gi abbandonato la loro ceramica tradizionale nella met del VII secolo, quando hanno appunto occupato la Liguria. L'interesse principale va quindi rivolto alla produzione romana di et longobarda, che anche fuori della Liguria pi frequente della ceramica longobarda vera e propria11, utilizzando quest'ultima per il suo valore cronologico pi preciso. D'altra parte la ceramica altomedievale italiana non sembra aver subito particolari influenze dalla produzione longobarda in quanto le forme (boccali, "fiaschi", catini ed olle) possono derivare, in vario modo, come si visto, dalla produzione industriale romana e dal substrato locale; gli stessi vasi a fiasco longobardi non derivano da una tradizione protostorica (n formale, n funzionale), ma sembrano un'interpretazione semplice, priva di ansa, dei "versatoi" a basso ventre del Tardoimpero, e perci assai vicini ai vasi a fiasco locali. Ma mentre questi ultimi presentano reminiscenze di una tecnica industriale e decorazioni a striatura frequenti nei prodotti d'uso comune del Tardoimpero, i "fiaschi" longobardi presentano tecniche di impasto, cottura e decorazione (stralucido e stampigliatura) di tradizione protostorica. Se dunque un'influenza barbarica vi stata, Per la produzione dei "testi" non necessita un artigianato organizzato, ma essa tradizionalmente inserita nelle attivit complementari dei contadini; che ne fanno anche un modesto commercio locale, in proposito cfr. T. Mannoni, Il "testo" e la sua diffusione nella Riviera di Levante, "Bollettino Ligustico, XVII (1965), pp. 49-64. Ci nel Medioevo era possibile anche per le olle e catini foggiati a tornio lento con la stessa terra di gabbro usata per i "testi", e che presentano inoltre una cottura non elevata e poco uniforme, tipica delle fornaci "a catasta". Meno probabile sembra l'ipotesi dei "vasai erranti", in quanto le fornaci da laterizi non sono documentate in Liguria prima del XIII secolo e ad esse si dovrebbero attribuire comunque prodotti con cottura migliore. Una conferma, invece, della prima ipotesi si pu vedere in una importante fonte medievale a proposito delle attivit dei contadini nel mese di dicembre: "e si possono far le corde de' vimini, le ceste, le gabbie e molti altri arnesi, e stovigli di bisogno" (Trattato della Agricoltura di Piero de' Crescenzi, Milano 1805, p. 328). 9 Si tratta praticamente di caratteristici vasi per bere: "fiaschi", boccali e bicchieri (O. von Hessen, Die Langobardische Keramik aus Italien, Wiesbaden 1968). 10 Due frammenti problematici provenienti dagli scavi di Genova S. Silvestro sono attribuibili al periodo protostorico. 11 I vasi longobardi sono predominanti nei corredi sepolcrali della Pianura Padana e del Friuli, meno frequenti rispetto alla produzione romana nei centri urbani della stessa area, rari, anche nei corredi sepolcrali, nell'Italia centrale.
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essa sul piano decorativo, gi presente nella ceramica tardoromana (stampigliature); rapporto che potrebbe per anche essere inserito nella tendenza generale del gusto estetico tardoantico all'astrazione geometrica. Ma l'influenza si nota in senso contrario nelle forme e, quello che pi conta per l'archeologia, non tanto sul piano estetico, ma funzionale. Un'altra variante barbarica del versatoio tardoromano il "pegau" francese, che si collega ai boccali laziali con beccuccio di et carolingia e posteriore, ma anch'essa manca nei reperti liguri12 . 4. Credere che l'enorme ribasso qualitativo e quantitativo subto dalla ceramica nell'Altomedioevo sia tutto da imputarsi ad un deterioramento eccessivo dell'economia in generale, e pi specificamente di quella domestica, potrebbe essere poco aderente alla realt, anche sulla base degli stessi dati di scavo. Le percentuali della pietra ollare e del vetro, ad esempio, fra i reperti archeologici di questo periodo sono molto alte rispetto a quelle di periodi ricchi di buona ceramica. A ci fanno riscontro le informazioni provenienti dagli inventari patrimoniali dei secoli XII-XIII (molto rari sono quelli altomedievali, ed inesistenti in Liguria), i quali segnalano, oltre a qualche recipiente di terra, altri in pietra, metallo (rame, ferro), vetro e legno; i primi da fuoco ed i secondi, ovviamente, da tavola )13. noto per che i metalli sono sempre stati riutilizzati, il legno pu essere bruciato e comunque molto raramente si conserva nei depositi archeologici, lo stesso vetro veniva in buona parte rifuso, come hanno dimostrato gli scavi delle vetrerie medievali14. E di ci bisogna tenere conto nelle valutazioni quantitative rispetto alla ceramica. Per il vetro e per la pietra ollare, dei quali si conoscono come si detto i reperti di scavo, si pu d'altra parte parlare di una continuit dal periodo imperiale. I bicchieri a calice cilindrico su basso e tozzo stelo ne sono una prova15; un mutamento nella tipologia dei bicchieri si nota solo a partire dal XII secolo con il sopravvento delle forme cilindriche apode a fondo rientrante, legate al diffondersi delle vetrerie forestali. Per la pietra ollare si nota per primo, rispetto al Tardoimpero, un assottigliamento delle pareti, mentre il fondo rimane piano e spesso16; in et comunale anche il fondo si fa sottile e convesso mentre le dimensioni dei recipienti aumentano fino a raggiungere quelle dei lavezzi in pietra moderni. Andrebbe inoltre appurato se anche i recipienti da fuoco in metallo siano stati largamente usati nel periodo tardoantico17.

La Liguria ha sempre fatto parte dell'area di diffusione del boccale a bocca trilobata, come la maggior parte delle altre regioni italiane, escluse cio le regioni meridionali per i periodi dominati dalle produzioni bizantina e araba (nelle quali la bocca trilobata praticamente assente), se quelle padane per la produzione longobarda, mentre il Lazio, a partire dall'et carolingia, fa parte, come la maggior parte dell'Europa, dell'area del boccale con bocca rotonda spesso fornita di un beccuccio applicalo in una delle sue varie forme: a cannone, schiacciato, incorporato al bordo. 13 L. Mannoni Sorar, G. Barbero, Recipienti domestici medioevali negli inventari notarili genovesi, in Atti VI Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1973, pp. 43-66. 14 T. Mannoni, A medieval glasshouse in the Genoese Apennines , Italy, "Medieval Archaeology", XVI (19721, p. 143s. Gli stessi venditori di oggetti di vetro hanno sempre raccolto i vetri rotti per la rifusione. 15 Essi probabilmente cominciano a sostituire gi nel periodo tardoromano i caratteristici bicchieri in ceramica, che nelle ultime sigillate mancano completamente. 16 I piccoli recipienti subcilindrici in pietra ollare rinvenuti a Luni (A. Frova, Scavi di Luni , Roma 1973, tav. 75) sono molto simili a quelli di altri siti altomedievali (Castelseprio, Invillino e Torcello). 17 A questo fine informazioni positive sembrano provenire dallarcheologia sottomarina. G. Bass. Un avventuroso viaggio cit. p. 28.

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Per il legno, oltre agli inventari domestici, esistono importanti documenti commerciali della prima met del XIII secolo che attestano l'esportazione da parte dei "tornitori" liguri in Sardegna, Sicilia e NordAfrica di scodelle, conche, taglieri e mortai per diverse migliaia di pezzi18. Se l'abbandono dei complessi servizi da tavola dell'Impero segna almeno nella maggior parte delle famiglie, un mutamento nel costume, la funzionalit dei recipienti comuni non sembra dunque compromessa dal decadimento della ceramica in quanto essa viene rimpiazzata da altre materie pi funzionali. La porosit e la scarsa resistenza alle escursioni termiche delle olle altomedievali non rendono certo questi prodotti pi utili in cucina dei lavezzi di pietra19 o dei poinoli di rame, questi ultimi per certamente pi costosi anche se assai pi durevoli. Lo stesso vale forse per i boccali e catini grezzi rispetto al legno e al vetro. Questi fatti provano per che non tutte le tecniche sono decadute (metalli e pietra ollare richiedono tra l'altro materie prime meno usuali), e che forse non bastano le consuete considerazioni sul diminuito commercio e consumo per spiegare il fatto che un artigianato locale non abbia potuto ereditare dall'organizzazione industriale romana certe tecniche per produrre ceramiche funzionali. Forse lo stesso artigianato non derivato dall'organizzazione produttiva romana, ma dai vasai delle ville, da una mai spenta tradizione protostorica locale. D'altra parte la stessa produzione altomedievale, pur nella sua semplicit, presenta, sotto certi aspetti, una diffusione in larghe aree, e spesso le forme sono simili in regioni diverse dell'Europa, dal che si potrebbe dedurre che i modelli circolavano anche in questo periodo, ed il costume della gente comune era molto simile ovunque20. Solo nei particolari pi intrinseci come gli impianti si notano le influenze delle barriere locali alla diffusione di merci21. dunque difficile al momento attuale stabilire perch una decadenza della ceramica si instauri stabilmente e soprattutto si protragga cos a lungo, anche quando cio, con la prima et comunale, tutte le attivit risentono di un miglioramento. Ci difficile da spiegarsi se non pensando che una radicata tradizione tecnologica, di produzione e di consumo, di recipienti funzionali non ceramici abbia ritardato il riaffermarsi di buone tecniche ceramiche e quindi il largo consumo dei loro prodotti. solo verso il XII secolo che i vasi comuni si fanno pi sottili (terre selezionate), ben torniti e ben cotti. Le olle assottigliano il fondo, che si fa convesso e, eliminando le difformit di spessore del piede, diventano pi resistenti agli sbalzi di temperatura. Compaiono i tegami con fondo analogo, ed entrambi presentano le prime impermeabilizzazioni interne con invetriatura, costituendo i primi esemplari di pentolame invetriato da fuoco cos come giunto fino ai giorni nostri. Quali siano i fenomeni che hanno prodotto queste rapide trasformazioni difficile da stabilire. La pietra ollare ed il rame non scompaiono, come attestano gli scavi e gli inventari notarili, mentre i prodotti grezzi si attardano solo nelle aree economicamente isolate, ultimi rappresentanti di una produzione millenaria.

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N. Calvini, E. Puizulu, V. Zucchi, Documenti inediti sui traffici commerciali tra la Liguria e la Sardegna nel secolo XIII, I, Padova 1957, R. S. Lopez, L'attivit economica di Genova nel marzo 1253 secondo gli atti notarili del tempo, "Atti della Societ Ligure di Storia Patria", LXIV (1935), pp. 163-270. 19 Ci ancora valido, come gi stato detto, nel XVI secolo. 20 In tutti i paesi europei non soggetti agli Arabi e a Bisanzio fino al secolo XII, ed anche al XIII, predominano ceramiche locali prive di rivestimento, pi o meno grezze, costituite da olle, catini e boccali. Talvolta le somiglianze formali si spingono, forse casualmente anche ai dettagli, come si pu constatare, ad esempio, confrontando le olle liguri tipo 13 e quelle coeve del Friuli, cfr. Fingerlin, Garbsch, Werner, Gli scavi, cit., fig. 15. 21 Il maggiore frazionamento subregionale si constata in Liguria per i prodotti foggiati a tornio lento, attribuibili ai secoli X-XII, periodo nel quale la Liguria divisa in marche, mentre si vanno affermando da una parte i comuni e dall'altra le aeree feudali.

5. L'invetriatura costituisce certamente una tecnica semplice ed efficace per migliorare le prestazioni e talora anche il pregio estetico della ceramica; perci si d una certa importanza al suo ruolo nel Medioevo. Essa, gi usata in et romana, pare certamente presente in Italia negli ultimi secoli del primo millennio22, ma il suo impiego generalizzato si ha solo dopo il Mille. Diversi pareri, talora con accenti polemici, sono stati espressi sulle invetriate dei secoli VI-VIII, per i quali secondo alcuni autori non si avrebbero ritrovamenti sicuri, secondo altri invece latradizione romana non avrebbe mai subto soluzione di continuit23. In realt gli esemplari portati ad esempio dai sostenitori della continuit sono pochi e tipologicamente legati alla produzione tardoromana, tanto da comprendere i dubbi di chi li ritiene oggetti riutilizzati. Ma anche accettando la versione della continuit, la ceramica invetriata altomedievale non sembra costituire un prodotto diffuso, che giuoca quindi un ruolo importante nell'ambito della cultura materiale, rispetto alla costante produzione di ceramica grezza e priva di rivestimento. Ci, al di sopra di ogni polemica retorica, resta probabilmente il fatto fondamentale confermato dalla irregolare distribuzione delle stesse invetriate altomedievali, la maggiore continuit delle quali forse da ricercare in alcune aree della Pianura Padana24. Per quanto riguarda la Liguria, in particolare ad Albenga e Ventimiglia, si nota nel Tardoimpero un crescente impiego dell'invetriatura per recipienti di uso comune, in contrasto con le rare e pregiate coppe decorate in rilievo dell'Altoimpero. Probabilmente alcuni grossolani prodotti invetriati dei livelli altomedievali possono rappresentare materiali rimaneggiati, ma anche la continuazione delle invetriate tardoromane. Resta pur sempre difficile, in tal caso, spiegare come una tecnica, che ha conferito nel Tardoimpero una maggiore funzionalit ai vasi ceramici da fuoco, possa essere stata applicata anche nell'Altomedioevo senza mantenere questa sua importante funzione, mentre, come stato esposto nel paragrafo precedente, la pietra ollare ed il rame hanno ampliamente sostituito le olle grossolane fino all'introduzione nel XIII secolo della invetriatura del pentolame da fuoco. Forse gli stessi vasi da fuoco invetriati tardoromani costituiscono il primo passo di un mutamento nei recipienti da cucina, che culmina con il loro completo decadimento nell'altomedioevo. Non si deve neppure pensare che l'esistenza di un'arte vetraria, con altra origine, svolta in ambienti e con procedimenti spesso diversi da quelli della invetriatura della ceramica, debba necessariamente avere influenzato l'arte ceramica decaduta ad attivit minore, e della migliore funzionalit della quale probabilmente non si sentiva bisogno perch sostituita da altri materiali funzionali. A Genova e a Savona d'altra parte si sono scavati livelli altomedievali assolutamente privi di ceramiche invetriate. Rari sono comunque per ora in Liguria reperti sicuramente classificabili nelle invetriate altomedievali di tipo laziale. I primi prodotti invetriati che compaiono agli inizi del secondo millennio mostrano fomme da tavola ed un livello tecnologico generale assai superiore alla produzione locale priva di rivestimento essi sembrano provenire dal Nord-Africa. Una continuit della invetriatura del periodo romano esisterebbe dunque in tutti i modi attraverso la mediazione mediterranea.

Nonostante il diffondersi degli scavi medievali il gruppo nettamente pi importante di invetriate databili prima del Mille rimane ancora quello del Foro Romano, cfr. B. Boni, Locus Juturnae, "Notizie Scavi", 1901; D. Whitehouse, Forum Ware, "Medieval Archaeology", IX (1965), pp. 55-63; O. Mazzucato, La ceramica a vetrina pesante, Roma 1972.
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G. Ballardini, L'eredit ceramistica dell'antico mondo romano, Roma 1964; D. Whitehouse, The medieval glazed pottery of Lazio, "Papers of the British school at Rome, XXXV (1967), pp. 4086. D Whitehouse, Nuovi elementi per la datazione della ceramica a vetrina pesante, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 583-7. D. Manacorda e altri, La ceramica medioevale di Roma nella stratigrafia della Cripta Balbi, in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, Firenze 1986, pp. 511-44.
Le invetriate altomedievali sembra che siano molto frequenti, ad esempio, a Castelseprio.

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6. Uno dei meriti degli scavi di archeologia medievale degli ultimi decenni stato quello di segnalare come alcuni tipi di pregiate ceramiche islamiche, pi raramente bizantine, databili ai secoli XI-XIII, e gi conosciute in Italia perch inserite come ornamenti architettonici sulle facciate di chiese o altri edifici pubblici, i cosiddetti "bacini", siano presenti anche nei rifiuti domestici, denunciandone perci un uso diverso da quello gi noto. Le tecniche impiegate nella fabbricazione di tali prodotti esotici (ingubbiature bianche, smaltature bianche o vivamente colorate, decorazioni dipinte policrome e a lustro metallico, oppure graffite), ma soprattutto la costante presenza di ricchi motivi decorativi, sia astratti, sia figurati, creano nei secoli XI-XII un incolmabile distacco dal livello delle produzioni locali, non solo liguri e italiane, ma di tutta Europa, ancora confinate nelle ceramiche grezze e prive di rivestimento, o, al massimo, con una invetriatura monocroma a decorazioni plastiche ottenute in foggiatura. Il distacco tale da non permettere in tale periodo tentativi di imitazione locale, di fatto finora non identificati, e da spiegare la meraviglia che certe ceramiche islamiche e bizantine debbono avere destato nei primi europei che nel corso dell'XI e soprattutto nel XII secolo, a seguito delle prime crociate e di attivit marinare, cominciavano a frequentare il Mediterraneo. Da ci facile quindi immaginare come i "bacini" costituissero rari oggetti esotici da portare in patria come trofei, ricordi o doni, e ci forse anche da parte di mercanti intenzionati a crearne un mercato25. La Liguria, e Genova in particolare, che certamente, per il ruolo preminente svolto nella riconquista politica e mercantile del Mediterraneo sin dai primi tempi, sono state fra gli intermediari delle pregiate ceramiche islamiche o bizantine, non ne hanno destinato ai propri monumenti che pochi esemplari rispetto, ad esempio, a Pisa e Pavia. I "bacini" islamici decorati in Liguria sono infatti limitati ad una decina, e collocati sull'abside di S. Paragorio di Noli e sulla facciata di S. Ambrogio vecchio di Varazze26; non possibile stabilire purtroppo a quale tipo e periodo appartenessero quelli mancanti sulla facciata di S. Stefano e sulla torre nolare di S. Donato a Genova. Anche i frammenti provenienti dagli scavi sono legati a palazzi preminenti, come quelli vescovili o di grandi famiglie di Genova e Savona; anche se un inventario della met del XII secolo elenca una scutellam pictam de Almeria in una modesta famiglia mercantile27. I tipi presenti in Liguria provengono prevalentemente dal Mediterraneo occidentale (invetriate o smaltate dipinte magrebine), pi raramente da quello centro orientale, sono piuttosto rari finora i "lustri" egiziani e le graffite bizantine. L'importazione delle rare ceramiche esotiche dei secoli XI-XIII stabilisce probabilmente un gusto ed una consuetudine nelle classi agiate che non cessano anche quando nei secoli successivi la produzione locale si evolve tecnicamente e stilisticamente. Soprattutto il commercio genovese delle "ispano-moresche" di Malaga, delle quali Genova ha il monopolio, ed anche di Valenza, nei secoli XIV e XV assume volumi giganteschi, a giudicare sia dai reperti di scavo per quanto riguarda il mercato interno sia dalla documentazione scritta per quanto riguarda quello esterno28. Si
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Mercanti salernitani, amalfitani e caietani, che sono i primi a realizzare gli itinerari commerciali tra il Mediterraneo e il Tirreno fino a Pisa, e l'Adriatico fino a Pavia, offrono doni in quest'ultima citt agli inizi dell'XI secolo (A. Solmi, Onorantiae Civitatis Papiae, informazione di G. Rebora). 26 Comunicazione non pubblicata di H. Blake, F. Aguzzi e T. Mannoni al III Convegno Internazionale della Ceramica di Albisola (1970); si veda anche: D. Whitehouse, La Liguria e la ceramica medievale nel Mediterraneo, in Atti IV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1971, tav. I. 27 Secondo il Vitale il testatore un oste, forse di origine catalana o provenzale, molto interessato all'ambiente delle Crociate, che potrebbe avere partecipato alla presa di Almeria avvenuta dieci anni prima del testamento (cfr. V. Vitale, Vita e commercio nei notai genovesi dei secoli XII e XIII, "Atti della Societ Ligure di Storia Patria", LXXII (1949), p. 90.
Sui motivi storico-economici che hanno determinato l'esplosione commerciale delle "ispano-moresche", e sul peso esercitato da Genova su tale fenomeno (spesso i documenti chiamano le ceramiche spagnole genovesche) si veda: G. Rebora, La ceramica nel commercio genovese alla fine del Medioevo, "Studi Genuensi", IX (1972), pp. 87-93.
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potrebbe persino pensare, almeno per il tipo tardo di Malaga poco documentato altrove, ad una imitazione speculativa, ma le analisi degli impasti confermano l'uso di terre spagnole. 7. Con i "bacini" decorati dei secoli XI-XII sulle chiese si trovano spesso scodelle monocrome verdi, corrispondenti per i caratteri tipologici e tecnologici alle invetriate verdi che si trovano nei livelli archeologici dello stesso periodo, e che le analisi mineralogiche indicano come provenienti dal Mediterraneo orientale, dal Nord-Africa e dal sud della Spagna, paesi nei quali le monocrome verdi sono state forse assai pi frequenti di quanto si pu dedurre dalle grandi monografie ispirate alla stilistica29. questo un accertamento che andrebbe fatto su larga scala e, se l'indicazione archeologica ligure venisse confermata, le monocrome verdi potrebbero rappresentare la prima considerevole corrente di importazione di ceramiche d'uso e ad essa si potrebbe attribuire quell'influenza che giustifica l'improvviso sviluppo nel secolo XIII della invetriatura sui vasi comuni di produzione locale. Non va dimenticato che Genova gi massicciamente presente nel Mediterraneo occidentale nel XII secolo30, e che poteva quindi essere, assieme a Pisa, il veicolo di tale corrente. Negli scavi stratigrafici di Genova e di Savona le scodelle verdi di importazione, assieme a scodelle con ingubbio e vetrina monocroma di colore paglierino ("ingobbiata chiara"), costituiscono di fatto i primi vasi da tavola ed anche i primi prodotti invetriati che compaiono a fianco alla monotona serie altomedievale di olle, boccali e catini privi di rivestimento. Nel XIV secolo, o forse gi nel XIII, si constata una imitazione locale delle "invetriate verdi" da tavola, il "servizio verde". Esso alquanto rozzo, principalmente costituito da catini tronco-conici con tesa, ancora destinati all'uso collettivo. Per l"'ingubbiata chiara" non vi sono per ora evidenti indicazioni sulla provenienza, ma la parentela tipologica pi prossima si pu stabilire con analoghi prodotti dell'ambiente bizantino31; le analisi mineralogiche escludono i componenti tipici del Nord-Africa e della Spagna meridionale, e non escludono, per il tipo pi tardo, una produzione locale. Un fatto significativo dal punto di vista del costume domestico che le prime ceramiche d'uso importate sono recipienti da tavola (piatti e scodelle), praticamente assenti nella attardata produzione ceramica altomedievale, e che a partire dal XII secolo, almeno nell'ambiente urbano il servizio ceramico da tavola, in base ad una globale valutazione dei reperti di scavo, si sviluppa, sia qualitativamente sia quantitativamente con una tendenza ai colori chiari e bianchi che costituiscono un fatto nuovo nelle stoviglie dei paesi europei.

G. Marais, Les poteries et faences de la Qal'a des Ben Hammd . Costantina 1913. L. Llubi, Ceramica medieval espofiola, Barcellona 1967, documenta solo forme chiuse alle quali si pu mettere in relazione il tipo 26. Per le invetriate islamiche si veda anche: H. Blake, La ceramica medievale spagnola e la Liguria, in Atti V Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1972, p. 57s. D'altra parte invetriate verdi nei secoli Xl-XII si trovano ovunque nel Mediterraneo, cfr. Whitehouse, La Liguria cit., p. 269s. D.Cabona, A. Gardini, O. Pizzolo, Nuovi dati sulla circolazione delle ceramiche mediterranee dallo scavo di Palazzo Ducale a Genova, in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, Firenze 1986, pp.453-82. 30 A1 1088 data il sacco di Mehda ed i connessi accordi commerciali, al 1136 l'incursione e il conseguente fondaco genovese di Bugia; al 1146-48 la conquista di Almeria e Tortosa, al 1149 il fondaco di Valenza, cfr. A. Schaube, Storia del Commercio dei popoli latini del Mediterraneo sino alla fine delle Crociate, Torino 1915, p. 386; T. O. De Negri, Storia di Genova, Milano 1968, pp. 211 e 260. Il rinvenimento di giare islamiche occidentali si pu mettere in relazione all'importazione di merci in esse contenute. 31 G. Brett, W. J. Macaulay, R. B. K. Stevenson, The Great Palace of the Byzantine Emperors, First Report, Oxford 1947, pp. 31-63. Si veda anche: Whitehouse, La Liguria, cit., pp. 269-70. All'ingubbiata chiara si possono associare le invetriate tipo 35a.

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Un tipo che ha conferito un netto impulso a tale sviluppo, e che per primo ha anche introdotto forme decorate d'uso, la "graffita arcaica". La sua stretta parentela tipologica, stilistica e cronologica con le graffite policrome del XIII secolo rinvenute nei castelli crociati del Medio Oriente32 (a Pisa e in Provenza la graffita arcaica si data a partire dal secondo quarto del XIII secolo)33, e la mancanza di rapporti immediati con le graffite islamiche e bizantine 34, possono far pensare ad un tipo occidentale del quale non si conoscerebbe l'origine (le graffite mancano tra l'altro nei paesi islamici occidentali), oppure ad un prodotto dei vasai mediorientali assoggettati ai regni crociati, in seguito imitato o fabbricato dagli stessi vasai in Occidente. La seconda ipotesi spiegherebbe l'origine del tipo, anche le differenze esistenti tra la "protograffita" e la "graffita arcaica" padano-adriatica rispetto a quella tirrenica; differenze che, come per i "bacini", indicano quanto le due diverse vie marittime abbiano avuto pi importanza della relativa vicinanza terrestre. I tipi iniziali delle due aree, infatti, sono pi diversi tra loro delle relative evoluzioni successive. Una produzione savonese di "graffita tirrenica" l'unica provata da scarti di produzione e dalle analisi mineralogiche, ma ancora oscura la sua data di inizio anche se sicuramente anteriore alla met del XII secolo. Si tratta comunque della prima ceramica prodotta in Liguria con una decorazione autonoma rispetto alla foggiatura del vaso, la quale pu avere dato origine a quella forma di artigianato, tipicamente medievale, che riunisce nei manufatti la reiterazione dei tipi e dei motivi decorativi ad una certa individualit e freschezza stilistica del singolo prodotto. Mentre la Liguria sembra aver giuocato fin dall'inizio un ruolo importante nell'uso e diffusione dell'"ingubbiata chiara" e della "graffita tirrenica", lo stesso non si pu dire per la "maiolica arcaica" che comincia ad affiancarsi ai tipi precedenti verso la fine del secolo XIII con forme e decorazioni caratteristiche della Toscana35. Anche se la tecnica dello smalto stannifero era gi nota C, N. Iohns, Medieval slip-Ware from Pilgrims' Castle Atlit (1930-31) , in The Quarterly of the Department of Antiquities in Palestine, III, 1934; A. Lane, Medieval Finds at Al Mina in North Syria, "Archeologia", LXXXVII (1938), pp. 19-79. Si veda anche: Whitehouse, La Liguria, cit., pp. 271-5. H. Blake, The medieval incised Slipped pottery of north-west Italy, in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, Firenze 1986, pp. 317-52. I genovesi sono presenti ad Antiochia fra il 1098 e il 1268, ma gi nel 1065 una loro flotta mercantile scambiava merci nei porti della Siria. Certa sembra pure l'esportazione da Tiro di ceramica e vetro verso l'Occidente. Schaube, Storia del Commercio, cit., pp. 83 e 199; W. Heyd, Le colonie commerciali degli italiani in Oriente nel Medio Evo, Venezia-Torino 1866-1868, pp. 155-71. La "graffita tirrenica" raggiunge anche i centri minori della Liguria coinvolta nelle Crociate, mentre assente in certe aree isolate come la Lunigiana. 33 G. Berti, L. Tongiorgi, I bacini medievali delle chiese di Pisa , Roma 1981. D. Dmiams d'Archimbaud, Les cramiques mdivales italiennes et la Provence, in Atti III Congresso Storico Liguria-Provenza (1973) (in corso di stampa). M. Picon, G. Dmians D'Archimbaud, Les importation de cramiques italiques en Provence mdivale: tat des question, in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, cit., pp. 125-36. La diffusione della graffita arcaica tirrenica sembra legata a territori che hanno avuto molto peso nelle prime Crociate. 34 S. Gelichi, La ceramica ingubbiata medievale nell'Italia nord-orientale , in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, cit., pp. 353-408. I motivi decorativi della graffita arcaica, pur essendo presenti nelle ceramiche bizantine ed islamiche coeve e pi antiche, sono usati con associazioni, stile e spesso anche tecniche caratteristici che ne fanno una classe indipendente dalle produzioni del Mediterraneo orientale. La forma principale (scodella con tesa ad orlo in rilievo) si direbbe tipica del Mediterraneo occidentale. Prodotti sicuramente bizantini sono invece le anfore scanalate, ma esse sono state molto probabilmente introdotte in Liguria allo stato di contenitori di merci inviate dalle numerose colonie di Oltremare. 35 Il boccale a piede svasato del XIV secolo caratteristico della Toscana meridionale e dell'Umbria (cfr. ad esempio H. Blake, Descrizione provvisoria delle ceramiche assisiane e discussione sulla maiolica arcaica, in Atti IV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1971, figg. 6, 7, 21,
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in Liguria nel XIII secolo, essa solo documentata su laterizi per usi architettonici36; soltanto nel secolo XIV si nota una diffusione delle stoviglie smaltate, con o senza decorazioni dipinte, e dalla fine del secolo documentata una produzione savonese delle stesse37. Il tipo savonese di "maiolica arcaica" corrisponde alla tarda produzione pisana38, e costituisce la ceramica pi diffusa e caratteristica in Liguria fino agli inizi del XVI secolo. Non si hanno prove (scarti di fabbrica e dati cronologici sicuri) di una presunta produzione locale di Albenga, che sembrerebbe essere pi antica. La "maiolica arcaica" introduce un servizio da tavola completo (sei forme) e, forse anche per la sua maggiore funzionalit, soppianta gradualmente la "graffita arcaica", continuando con l'aiuto delle imitazioni ingubbiate quella penetrazione negli ambienti sociali meno ricchi gi iniziata da quest'ultima. Il boccale della "maiolica arcaica" il primo versatoio di ceramica fine molto diffuso. 8. La Liguria non partecipa attivamente al complesso fenomeno italiano che, sotto lo stimolo della pregiata ceramica spagnola del XIV-XV secolo, determina l'abbandono della medievale "maiolica arcaica" per creare una maiolica rinascimentale, ben presto indipendente nella tematica decorativa e cromatica, espressione di un gusto e di una sensibilit originali. Tale fenomeno non sembra in genere coinvolgere direttamente le citt marinare legate ai grandi mercati internazionali. La nuova maiolica italiana, particolarmente quella prodotta nel contado fiorentino39; compare tuttavia subito in Liguria come prodotto di importazione a fianco alla "ispano-moresca", ma senza stimoli o influenze sulla produzione locale, ancora ferma agli schemi medievali; tuttavia la "maiolica arcaica", sempre pi povera e solo funzionale in confronto con le ceramiche importate, subisce una continua involuzione stilistica. 26, 27, 29 e 30); esso abbinato in queste regioni ad un recipiente aperto tronco-conico, che non oggetto d'importazione in Liguria, e che sembra derivare come forma dai catini grezzi, mentre nella "maiolica arcaica" pisano-ligure le forme aperte derivano da quelle mediterranee della "graffita arcaica". Per le origini e sviluppo della maiolica arcaica si veda: G. Liverani, La maiolica italiana fino alla comparsa della porcellana europea, Milano 1958, pp. 10-3; Whitehouse, La Liguria, cit., pp. 275-9; Blake, Descrizione, cit., pp. 367-74; G. Berti, L. Cappelli, R. Francovich, La maiolica arcaica in Toscana, in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, cit., pp. 483-510. 36 A. Cameirana, Esempi di prime smaltate a Savona. Il pavimento dell'antico convento di S. Francesco, "Faenza", LIX (1973), pp. 132-7. Si vedano inoltre le piastrelle monocrome.
Gli scarti di fornace savonesi solo di recente sono stati scavati con metodo e quindi datati archeologicamente (A. Cameirana, Contributo per una topografia delle antiche fornaci ceramiche savonesi, in Atti del II Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1969, pp. 61-72), perci si assumono come termine post quem per la produzione della maiolica arcaica savonese i gi citati documenti dei vasi pisani operanti a Savona, cfr. F. Noberasco, La ceramica savonese, Savona 1925, p. 5s. I presunti scarti di fabbrica genovesi si riducono per ora ad alcuni frammenti di biscotto.
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Cfr. G. Berti, L. Tongiorgi, Ceramica pisana . Secoli XIII-XV, Pisa 1977. Tenuto conto che la corrispondenza per molti manufatti si spinge ad una identit, che una produzione genovese non ancora dimostrabile, che quella savonese tarda, ad opera di pisani e non molto diffusa, si pu pensare che Genova abbia sempre importato maiolica arcaica toscana, prima tramite Pisa, poi da Pisa stessa, oramai politicamente piegata e rivolta ad una sopravvivenza mercantile; si tenga conto della quasi inesistenza di vasai nei documenti genovesi di questo periodo rispetto a Pisa: L. Tongiorgi, Pisa nella storia della ceramica, I e II, "Faenza", L (1964), pp. 125-39 e LVIII (1972) pp. 3-24. Le forti importazioni possono anche trovare una spiegazione economica nella "rivoluzione dei trasporti" verificatasi alla fine del XIV secolo (Rebora, La ceramica, cit., p. 88), e costituirebbero la premessa di quelle certamente provate del XVI secolo.
Cfr. G. Cora, La maiolica di Firenze e del contado, Firenze 1973. Questa merce,assieme a qualche pezzo di "maiolica arcaica" fiorentina, passa evidentemente per Pisa, che dagli inizi del XV secolo sotto il dominio fiorentino, e che, come si detto, probabilmente gi esporta a Genova la propria "maiolica arcaica". Anche i tipi successivi di maiolica italiana, e cio della seconda met del XV secolo e della prima del XVI, sono sempre toscani e in massima parte di Montelupo.
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Dal secondo quarto del XV secolo al primo del XVI si ha di conseguenza in Liguria un periodo particolarmente ricco di tipi ceramici, stratificati in classi di diverso valore. Con l'avvento della maiolica italiana non cessa il commercio delle ceramiche spagnole, che a Genova sembrano arrivare per tutto il periodo, con tipi che non rispecchiano pi lo splendore del periodo precedente, ma ancora molto usati. Alla "maiolica arcaica" tarda si accompagnano gli ultimi prodotti della locale "graffita tirrenica" e le graffite policrome di tipo padano40, che assieme costituiscono una classe meno pregiata. Una classe locale a parte costituita dalla "graffita monocroma", probabilmente primo tipo di una serie di ceramiche conventuali che si evolve nel periodo successivo. Restano infine i prodotti da tavola ingubbiati ed invetriati monocromi ed il pentolame invetriato da fuoco che presenta tipi standardizzati e molto diffusi. Naturalmente l'intera serie presente solo nelle citt e nei castelli, mentre nelle campagne compaiono solo le classi pi povere. Al vasellame va inoltre aggiunto l'abbondante commercio ed uso di piastrelle da rivestimento spagnole, che in questo periodo passano dalla monocromia alla decorazione policroma "a cuenca"41. Genova, che raggiunge nel XV secolo una estesa organizzazione mercantile di tipo moderno e che completa praticamente la sua espansione territoriale sulla Liguria42, e in particolare la sua classe mercantile, non sembra in un primo tempo favorire la produzione di una propria ceramica originale. E quando, nel secondo quarto del XVI secolo, cento anni in ritardo rispetto ai principali centri della maiolica italiana, decide di creare una propria produzione di maiolica, se utilizza per le innovazioni tecniche ceramisti dell'Italia centrale43, per i caratteri estetici (formali, cromatici e decorativi) decide di attingere alla ceramica turca44. Ad eccezione dei boccali all'italiana, della prima met del XVI, e di altre decorazioni meno diffuse ("quercuate", "a paesi"), la decorazione blu di imitazione

Data la distribuzione, si ritengono tipi prodotti in Liguria da vasai padani, cfr. G. Pessagno, Cenni storici sulla ceramica ligure, in O. Grosso, Le gallerie d'arte del Comune di Genova, Genova 1932. T. Grandis, Scarti di fomace ad Albisola, in Atti del XIII Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1980, pp. 319-26. 41 L. Panelli, Piastrelle del secolo XVI di fabbricazione genovese, "Atti della Societ Ligure di Storia Patria", IX (LXXX111) (1969), pp. 231-6. Mentre per i laggioni dipinti del XVI secolo si sono trovati scarti di fornace a Genova e Savona, non sono state finora rinvenute prove di produzioni locali di quelli "a cuenca". vero che gli impasti dei due tipi sono molto simili, ma le analisi mineralogiche non escludono una possibile produzione valenzana. Non si pu escludere quindi che i laggioni con decorazione "a cuenca" siano sempre stati importati dalla Spagna assieme al vasellame e venduti, come questo, su altri mercati come prodotti "genoveschi" (si veda sopra al punto 6). In questo caso i laggioni dipinti policromi del XVI secolo sarebbero una continuazione locale che riprende in parte i motivi moreschi, ma con una tecnica diversa, dopo la decadenza spagnola, e le ordinazioni documentate a Savona nel XV secolo dovrebbero ritenersi riferite a laggioni monocromi. 42 Cfr. J. Heers, Gnes au xvme sicle , Paris 1961 (trad. it.: Genova nel Quattrocento , Milano 1984); Rebora, La ceramica, cit. Interessante soprattutto la tendenza dei nuovi mercanti a promuovere nuovi metodi di vendita ed una produzione sempre pi di serie, fenomeno quest'ultimo riscontrabile anche nelle "ispano-moresche" del XV secolo, cfr. T. Mannoni, Analisi mineralogiche e tecnologiche delle ceramiche medievali. Nota II, in Atti V Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1972, p. 122. 43 Lo dimostrano da una parte i documenti sulla famiglia da Pesaro a Genova nel 1525 (G. Pessagno, Cenni storici, cit.), dall'altra le nuove tecniche di cottura e formule di composizione degli smalti confrontate con quelle del Piccolpasso, cfr. T. Mannoni, Innovazioni tecnichenell'arte ceramica delXVI secolo inLiguria, "Le Machine",II (1969-70) pp. 101-4. 44 Cfr. G. Farris, V. A. Ferrarese, Contributo alla conoscenza della tipologia e della stilistica della maiolica ligure del XVI secolo, "Atti della Societ Ligure di Storia Patria", IX (LXXXIII) (1969), pp. 187-222.

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orientale costituisce la base della produzione di Genova, Savona e Albisola per pi di un secolo45, sostituendo nelle famiglie agiate la maiolica italiana e la ceramica spagnola ormai completamente decaduta, ma soprattutto sostituisce quest'ultima come prodotto genovesco nei mercati internazionali. Anche le piastrelle, che entrano come ornamento delle nuove e sontuose dimore della nuova classe di potere, subiscono una trasformazione, lasciando la tecnica a stampo e la decorazione rigidamente geometrica spagnola, per una decorazione dipinta con motivi geometrico-vegetali e qualche elemento rinascimentale di produzione locale46. Il secolo XVI vede inoltre la fine dei tipi medievali ("graffita arcaica", "graffita monocroma" e "maiolica arcaica"), ma il mercato locale ha ancora bisogno di ceramiche a basso costo, che i genovesi preferiscono importare anzich produrre. Tolto il pentolame, che in parte viene anch'esso importato da Antibo, forse perch pi funzionale47, e le graffite conventuali, il vasellame d'uso viene importato direttamente da Pisa, dove si comprano i tipi di valore pi basso e l'incidenza del trasporto minima, pi raramente imitato ad Albisola48. La "graffita a stecca", la "graffita tarda" e la "marmorata" sono ceramiche molto resistenti all'uso e sobriamente decorate in modo veloce; la loro diffusione grande e raggiunge assieme al pentolame i centri minori delle campagne, dove assieme alle "tofane" di legno, vengono principalmente usate le forme ampie per uso collettivo, retaggio di un costume domestico medievale che giunger fino ai giorni nostri. Sulla base dei dati fin qui esposti si pu tentare una prima periodizzazione della ceramica medievale in Liguria, con lo scopo anche di fornire un provvisorio quadro riassuntivo di tutto il lavoro. 1. Secoli V-VII. Non vengono introdotti in Liguria nuovi tipi ceramici rispetto a quelli della articolata produzione tardoromana, la quale per contro si va progressivamente deteriorando e sfaldando nella propria organizzazione. Diventano pi rozzi e si riducono nella diffusione e nelle Cfr. G. Olivari, Notazioni iconografiche e stilistiche nella maiolica ligure del XVII secolo , in Atti IV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1971, pp. 59-90. La produzione a Genova, iniziata probabilmente dai da Pesaro, continua con i Cagnola fino almeno al 1630 (G. G. Musso, E. Grendi, Ceramologia post-medievale a Genova. Note d'archivio, "Notiziario di Archeologia Medievale", Aprile 1973, p. 11); scarti di produzione di questo periodo sono stati rinvenuti in un pozzo di via S. Vincenzo, e prodotti "di terra fatti a Genova a modo di porcelletta" sono citati in un inventario del 1633, cfr. J. Costa Restagno, Ricerche d'archivio: la suppellettile ceramica nel SeiSettecento, in Atti VI Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1973 p. 101. 46 Panelli, Piastrelle, cit.; G. Farris Contributo alla conoscenza delle piastrelle cinquecentesche savonesi, in Atti III Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1970, pp. 195-204. Si veda quanto gi detto nella nota sui laggioni "a cuenca". 47 Si tratta di una terra alquanto retrattaria. Pentole di Antibo si trovano negli scavi gi nei livelli del XV e XVI secolo, ma la maggior quantit viene da quelli del XVII, ci in accordo con la documentazione scritta: D. Presotto, Arrivi a Genova di vasellame di Antibes dal 1560 al 1640, in Atti V Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1972, pp. 275-98. 48 Pisa sembra specializzarsi in questo periodo in prodotti tecnicamente buoni, poco costosi, evitando l'uso di ingredienti pregiati ed operando in grandi serie con un minimo di gradevole decorazione; questi caratteri, abbinati al trasporto marittimo, devono essere ottimi per la grande diffusione, come confermano i dati archeologici e quelli d'archivio (D. Presotto, Notizie sul traffico della ceramica attraverso i registri della Gabella dei Carati (1586-1636), in Atti IV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1971, pp. 3350). Il fenomeno della "graffita tarda" e "marmorata" pisane si pu paragonare in questo senso a quello della "taches noires" albisolese tra XVIII e XIX secolo. Sulle imitazioni liguri: M. Milanese, Graffita a girandola, graffita tarda ed altri tipi ceramici postmedievali da uno scarico di fomace di Albisola superiore, in Atti del XV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1982, pp. 123-44.
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forme i prodotti di tipo industriale, mentre meglio resistono le semplici produzioni locali, affiancate da una relativa abbondanza di vetro, metalli e di pietra ollare. 2. Secoli VIII-X. I pochi reperti assegnabili a questo periodo per cronologia relativa, provengono tutti dalle grandi serie stratigrafiche, e sono costituiti principalmente da forme elementari eseguite ad un livello tecnico molto basso, che sembrano stabilizzarsi come residuo di una tradizione locale preromana e romana. Per mancanza di livelli databili non ancora possibile fare distinzione all'interno del periodo e perci stabilire se alcuni prodotti migliori d'importazione, alcuni dei quali invetriati appartengano ancora al periodo precedente e costituiscano gi una ripresa in atto prima del Mille. 3. Secoli XI-XII. Mentre la produzione locale si attarda nella maggior parte del territorio in tecniche e forme altomedievali, in alcune aree si nota un certo miglioramento tecnico e formale, che vede tra l'altro le prime applicazioni di rivestimenti vetrosi a vasi da fuoco ed opacizzati monocromi alle ceramiche architettoniche; ci nonostante la ceramica domestica non raggiunge quella funzionalit che le permetterebbe di contrastare la concorrenza di altri materiali (pietra, metalli, vetro e legno), i quali anzi in questo periodo si affermano maggiormente ed i recipienti di legno sono oggetto di esportazione dalla Liguria. In coincidenza delle riprese attivit marinare si notano inoltre nei crescenti centri urbani diverse importazioni dal Mediterraneo che vanno dai pregiati bacini decorati al vasellame da tavola monocromo ed infine ai contenitori di merci. Sulla base della tipologia dei prodotti importati forse possibile suddividere il periodo in almeno due parti. 4. Fine XIII-XIV secolo. Dalle aree a prevalente economia mercantile scompaiono le ceramiche grezze, convertite con una certa continuit di forme nelle prime depurate o invetriate locali da tavola e da bottega e in pentolame invetriato, mentre alcune forme grezze resistono nelle aree ad economia chiusa. All'accelerato mutamento in atto nei prodotti comuni non probabilmente estranea la consistente produzione e diffusione della "graffita tirrenica" e dei tipi ad essa collegati, e quindi l'introduzione di vasai che possono avere creato le prime fabbriche liguri di ingubbiata e "graffita arcaica". Diventano inoltre pi numerose le importazioni della Spagna moresca, rispetto a quelle degli altri paesi mediterranei, mentre si fa consistente il consumo della "maiolica arcaica" toscana. 5. Fine XIV-inizi XVI secolo. Il forte aumento nel volume del traffico marittimo delle ceramiche si realizza in Liguria su due fondamentali canali mercantili: quello spagnolo che fornisce i tipi pregiati, non solo per il mercato interno, ma anche per quello esterno abilmente sviluppato dalla nuova classe mercantile, e il canale pisano, dal quale, oltre ad almeno una parte della "maiolica arcaica", provengono anche i prodotti dell'area fiorentina. Molto meno frequenti le importazioni dall'area padana, e forse si tratta di vasai padani trasferiti in Liguria rarissime quelle da paesi europei. Nel frattempo l'artigrianato locale, sotto la spinta mercantile, si evolve verso una produzione di serie, nella quale la reiterazione banale dei motivi spesso prevale sulla ricerca stilistica, ma che rende possibile una grande diffusione dei manufatti. Savona, in particolare, accogliendo anche il contributo di vasai pisani, organizza una propria produzione di "maiolica arcaica" e dei tipi da essa dipendenti che affianca a quella della graffite e del pentolame. 6. Inizi XVI-inizi XVII secolo. Con la decadenza della ceramica spagnola, il ruolo di quest'ultima nel mercato interno ed in quello internazionale, ancora in espansione, viene assegnato alla maiolica ligure, prodotta con le nuove tecniche importate dall'ltalia centrale, ed imitando decorazioni in monocromia azzurra tipiche delle pregiate ceramiche turche. Anche le piastrelle policrome spagnole vengono sostituite con quelle dipinte locali. La vecchia organizzazione medievale si spacca fra le nuove e presto rinomate manifatture di maiolica e chi si riduce a produrre pentolame (in parte per anche importato da Antibo) ed altri recipienti comuni per il mercato locale. Gli altri

tipi decorati ad uso popolare. graffite e marmorate. vengono importate in grandi quantit da Pisa, da dove passano anche le maioliche fiorentine di tipo corrente mentre rari sono i prodotti padani. Continua una produzione locale di graffite conventuali che si allarga all'imitazione di quelle pisane. Segni materiali di una economia povera ed autarchica della montagna ligure, sono infine ravvisabili nella continuazione della produzione contadina dei ''testi''.

I vetri

Anche per il vetro, esattamente come per la ceramica o meglio la maiolica, il nome di una citt o di un centro (Faenza per la maiolica e Murano per il vetro), evocava quasi integralmente l'intero complesso produttivo della penisola, viceversa le recenti ricerche sul campo, come i pi sistematici spogli documentari, hanno evidenziato una realt molto pi articolata. In particolare lo scavo di una fornace da vetro in territorio ligure e recenti ricerche di superficie nel territorio di Gambassi e Montaione (Fi), hanno mostrato affinit produttive che potrebbero essere l'indice di un ruolo propulsivo svolto dai centri toscani, i cui artigiani troviamo disseminati a livello documentario in molte parti della regione e nell'Italia centrosettentrionale, come ben esemplificato anche saggio di Sergio Nepoti pubblicato di seguito1. L'apertura di cantieri archeologici sulle aree produttive destinata ad offrire nuovi ulteriori elementi per la conoscenza della circolazione dei prodotti di vetro, e non escluso che anche per il vetro emerga per il Bassomedioevo un assetto di organizzazione del lavoro parcellizzato e disseminato in modo omogeneo ovunque in forme del tutto simili a quanto successo per la ceramica. Se per le produzioni bassomedievali comincia timidamente a delinearsi un quadro, ben poco sappiamo per l'Altomedioevo; una sola fornace stata scavata a Torcello all'inizio degli anni Sessanta, mentre pi noti sono i tipi prodotti presenti in minor quantit negli scavi2.
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Per una storia della produzione e del consumo del vetro a Bologna nel tardo Medioevo, "Il Carrobbio. Rivista di Studi Bolognesi", IV (1978) pp. 321-33. 2 D. Schiaffini, Contributo ad una prima sistemazione tipologica dei materiali vitrei alto medievali, "Archeologia Medievale", XII (1985), pp. 667-88.

Sergio Nepoti Per una storia della produzione e del consumo del vetro a Bologna nel Tardomedioevo

La storia della produzione e del consumo del vetro nell'Italia preindustriale, e in particolare nel periodo medievale, ancora in gran parte sconosciuta se si escludono poche aree circoscritte, bench la quantit di informazioni disponibili sia notevolmente aumentata negli ultimi anni con la progressiva diffusione dell'archeologia medievale e di ricerche improntate alla storia della cultura materiale. Prima dell'ultimo ventennio le notizie sul vetro medievale italiano riguardavano quasi esclusivamente la produzione veneziana, per la quale erano state esaminate fonti documentarie, che testimoniano l'attivit dei vetrai a partire dai secoli X e XI ma soprattutto dal secolo XIII, e fonti iconografiche, abbastanza ricche di contenitori di vetro dal secolo XIV1; le altre zone di produzione documentate dai secoli XIII e XIV o pur essendo considerate importanti non suscitavano un analogo interesse per gli studiosi, come nel caso della ligure Altare2 o non venivano neppure considerate particolarmente notevoli, come avvenuto per l'area fiorentina3. Tale diversit di interesse si spiega considerando che gli studi sul vetro, come avveniva per altri manufatti di produzione artigianale collocati nella categoria delle "arti minori", erano condotti prevalentemente con criteri storico-artistici, trascurando tutta la complessa problematica del ruolo nella vita quotidiana e dell'organizzazione della produzione e del commercio4: solo nel caso di Venezia era possibile passare rapidamente dai documenti medievali, riguardanti soprattutto la produzione degli oggetti d'uso comune, ai vetri pregiati delle epoche successive giunti fino alle collezioni pubbliche e private contemporanee. Analogamente uno scarso interesse era suscitato dai frammenti recuperati negli sterri, che, essendo in genere poco numerosi, di piccole dimensioni e con una limitata gamma di decorazioni, in pratica non consentivano di costruire con i soli criteri stilistici una cronologia ed una tipologia legata alle aree di produzione, come invece veniva fatto per i reperti ceramici. Per l'Altomedioevo la mancanza di dati era pressoch totale, se si escludono alcuni oggetti rinvenuti in tombe del periodo longobardo, e ne veniva dedotto che l'attivit vetraria, ad alto contenuto tecnologico, si era estinta in Italia, come altre tecniche per le quali mancano le prove di una continuit fra l'epoca romana ed il Bassomedioevo, per fiorire nell'area bizantina e poi nel Medio Oriente islamico, ed essere infine reimportata dai Veneziani dalle coste orientali del Mediterraneo. Queste conclusioni si ritrovavano anche nei trattati di storia della tecnica, che per quanto riguarda il vetro non si erano molto modificati dal secolo

Cfr. in particolare G. Monticolo , I Capitolari delle Arti veneziane , Roma 1905, A. Gasparetto, Il vetro di Murano dalle origini ad oggi, Venezia 1958; G. Mariacher, Il vetro soffato da Roma antica a Venezia, Milano 1960 2 Cfr. E. Bordoni, L'industria del vetro in Italia e i trattati commerciali. L'arte vetraria in Altare, Savona 1879. 3 Le numerose informazioni contenute in G. Taddei , L'arte del vetro in Firenze e nel suo dominio , Firenze 1954, hanno avuto una scarsa eco negli studi successivi. 4 Per una precisa puntualizzazione di tali problemi ed un concreto esempio dei pi recenti criteri di ricerca sui vari tipi di contenitori cfr. L e T. Mannoni, Per una storia regionale della cultura materiale: i recipienti in Liguria, "Quaderni Storici", 31 (1976), pp. 229-60.

scorso fino ai recenti anni Cinquanta5, mentre nelle principali sintesi di storia economica e sociale dell'Europa preindustriale il vetro, insieme alla maggior parte dei manufatti di uso quotidiano in metallo, legno, ceramica, pietra o osso, non veniva nemmeno preso in considerazione. Lo scavo italo-polacco del 1961-62 a Torcello ha cambiato sostanzialmente la situazione, con il rinvenimento dei resti di una fornace vetraria databile al VII-VIII secolo nella piazzetta tra la chiesa di Santa Fosca ed il Palazzo del Consiglio, ora sede del museo6. Oltre ai resti delle strutture nello scavo di Torcello si sono rinvenuti frammenti di crogiuoli, scarti di lavorazione e frammenti di calici a gambo, questi ultimi confrontabili con parte dei calici rinvenuti, come si gi accennato, in tombe del VII secolo7. Numerosi frammenti di calici a gambo ed anche scorie e scarti testimonianti una produzione vetraria sono stati trovati poi negli scavi effettuati negli anni 1962-73 nel castello longobardo di Ibligo-Invillino in Friuli, abbandonato nell'VIII secolo8, ed anche in alcuni altri insediamenti altomedievali scavati si sono recuperati vetri in quantit discrete9. Questi rinvenimenti dunque indicano che la produzione del vetro almeno nell'Italia settentrionale, continuata nell'Altomedioevo, anche se bisogna sottolineare che normalmente i frammenti di vetro presenti negli strati altomedievali sono pochi, spesso conservati male e di difficile classificazione. Va per anche considerato che rispetto alla diffusione nell'uso quotidiano la presenza quantitativa nei rifiuti in genere ridotta, per il vetro come per i metalli, dal recupero dei rottami per la rifusione, che in tutte le epoche ha alimentato un flusso commerciale parallelo a quelli delle materie prime e dei manufatti.

Si possono confrontare ad esempio la parte dedicata al vetro in J. Labarte, Histoire des arts industriels au Moyen Age et l'poque de la Renaissance, Paris 1872-752, vol. III, pp. 363-98, e D. B. Harden, Glass and Glazes, in C. Singer, E. J. Holmyard, A. R. Hall, T. I. Williams, A History of Technology, II, T h e Mediterranean Civilisations and the Middle Ages c. 700 B.C to c. A.D. 1500, Oxford 1956, pp. 311-46 (ed. italiana, Torino 1962), anche se quest'ultimo, ottimo conoscitore del vetro nell'area mediterranea dall'Antichit pre-romana al Medioevo, pone in rilievo il problema degli oggetti dalle tombe di et longobarda. 6 Lo scavo stato oggetto di numerose pubblicazioni, dedicate in particolare all'analisi della fornace per il vetro: A. Gasparetto, Les fouilles de Torcello et leur apport l'histoire de la verrerie de la Vntie, dans le Haut Moyen-Age, VIIe Congrs International du Verre, Bruxelles 1975, Comptes Rendus n. 239, pp. 1-8; E. Tabaczynska, Glashtte aus dem VII-VIII Jahrhundert auf Torcello bei Venedig. Ausgrabungen 1961-1962, ivi Comptes Rendus n. 238, pp. 1-3; A. Gasparetto, A proposito dell'officina vetraria torcellana, "Studi Veneziani" VIII (1966) pp. 3-18, Id., A proposito dell'officina vetraria torcellana. Forni e sistemi di fusione antichi, "Journal of Glass Studies", IX (1967), pp. 50-75; E. Tabaczynska, Remarks on the Origin of the Venetian GlassmaLing Centre, 8th International Congress on Glass 1968, London 1969, pp. 20 ss.; L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Commento archeologico ai reperti naturali antichi e medievali scoperti a Torcello (1961-62), "Memorie di Biogeografia Adriatica", VIII (1969-70), pp. 89-105, L. Leciejewicz, Gli insediamenti protourbani della laguna veneta prima del sorgere della citt di Venezia alla luce degli scavi di Torcello, in Atti del Colloquio internazionale di Archeologia Medievale. Palermo-Erice 1974, Palermo 1976, pp. 45-58; E. Tabaczynska, Aspetti archeologici dell'artigianato medievale, ivi. pp. 41922; L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62, Roma 1977. 7 Il possibile collegamento stato sottolineato anche a proposito del calice di vetro rinvenuto nella tomba 46 degli scavi fiorentini di Santa Reparata, del 1965-73, che viene datato alla fine del VII secolo: O. Von Hessen, Reperti di et longobarda dagli scavi di Santa Reparata, "Archeologia Medievale", II (1975), pp. 211-4. 8 Cfr. G. Fingerlin, J. Garbsch, J. Werner, Gli scavi nel castello longobardo di Ibligolnvillino. Relazione preliminare delle campagne del 1962, 1963 e 1965, "Aquileia Nostra", XXXIX (1968), cal. 57-136. 9 Per la Lombardia cfr. E. Tabaczynska, Szkla wczesnosredniowieczne z Castelseprio (Les verres du haut Moyen Age de Castelseprio), "Archeologia Polski", XVI (1971), pp. 295-307; per la Liguria cfr. il contributo di T. Mannoni in Scavi di Luni: relazione preliminare delle campagne di scavo 1970-1971, a cura di A. Frova, Roma 1973, pp. 886-90 per l'Emilia-Romagna vanno segnalati i reperti, ancora inediti, dallo scavo imolese di Villa Clelia-Castrum S. Cassiani e da quello ravennate di Classe.

Il recente moltiplicarsi degli scavi archeologici postclassici in Italia10 ha fornito nuove informazioni sul vetro soprattutto dal Tardomedioevo in avanti, proporzionalmente alla quantit dei frammenti negli strati, che, limitata quasi sempre a poche decine di pezzi fno al secolo XV aumenta poi notevolmente. I rinvenimenti pi significativi per il Tardomedioevo sono comunque ancora in numero abbastanza ridotto e possono essere elencati in una rapida rassegna. In Liguria gli scavi urbani sono stati affiancati dalle ricerche sulle fonti documentarie, dall'archeologia di superficie e dall'indagine toponomastica nel territorio appenninico, ottenendo una prima carta di distribuzione delle sedi di produzione in et preindustriale, ed stata individuata e scavata una vetreria, databile fra gli ultimi decenni del XIV secolo ed i primi del XV, sul Monte Lecco presso il valico della Bocchetta, dove veniva coltivata una vena quarzosa e si sfruttava il bosco per il combustibile, per produrre vetri d'uso comune destinati probabilmente alle mescite pubbliche11. A Pavia nello scavo effettuato all'interno della Torre Civica stato riportato alla luce un livello di attivit artigianali chiaramente collegato ai lavori di rifacimento della cattedrale adiacente e databile intorno al 110012, che conteneva quasi cinquecento frammenti residui della fabbricazione di vetrate multicolori con anche decorazioni dipinte, raccolti probabilmente per la rifusione insieme a frammenti di altri oggetti ed anche di "pani" a calotta sferica di diverse provenienze, testimonianti un traffico di vetro in questa forma da vetrerie dove veniva effettuata una prima fusione, depurazione e coloritura, a luoghi dove veniva rifuso e soffiato13. Un numero inferiore di dati disponibile finora per l'Italia centrale e meridionale, dove mancano rinvenimenti di vetrerie: fra quelli conosciuti i ritrovamenti pi notevoli di vetri tardomedievali si sono avuti nel Lazio, con gli scavi dei pozzi di scarico domestico a Tuscania14, e in Puglia, negli scavi del Castello di Lucera, dove insieme a vetri islamici sono venuti alla luce anche probabili prodotti locali15.
Sulle possibilit ed i limiti dell'archeologia medievale, ed i suoi rapporti con la ricerca storica nel senso pi generale vedere il volume Archeologia e geografia del popolamento, "Quaderni Storici", 24 (1973), ed in particolare sui problemi e sull'evoluzione delle ricerche italiane fino a quel momento il contributo di T. Mannoni e H. Blake, L'archeologia medievale in Italia, ivi, pp. 833-60, dal 1974 relazioni di scavo, saggi e discussioni sull'archeologia medievale, la cultura materiale, gli insediamenti ed il territorio vengono pubblicati annualmente nella rivista "Archeologia Medievale". 11 Per la relazione di scavo della vetreria di Monte Lecco, la ricostruzione del funzionamento della fornace, l'analisi della tecnologia impiegata e dei tipi di prodotti vedere: T. Mannoni, A Medieval Glasshouse in the Genoese Apennines, Italy, "Medieval Archaeology" XVI (1972), pp. 143 ss.; S. Fossati, T. Mannoni, Lo scavo della vetreria medievale di Monte Lecco, "Archeologia Medievale", II (1975), pp. 31-97; L. Castelletti, I carboni della vetreria di Monte Lecco, ivi, pp. 99-121. per un panorama delle ricerche e dei dati sulla produzione ligure: M. Calegari, D. Moreno, Manifattura vetraria in Liguria tra XIV e XVII secolo, ivi, pp. 1329; il complesso pi numeroso di vetri rinvenuti negli scavi urbani pubblicato in D. Andrews, Vetri, metalli e reperti minori dell'area Sud del Convento di San Silvestro a Genova, ivi, IV (1977), pp 162-207. 12 Cfr. H. Blake , Scavo nella Torre Civica di Pavia, 1972. Notizia preliminare , "Archeologia Medievale", I (1974), pp. 149-70; B. Ward-Perkins, Scavi nella Torre Civica di Pavia. Le fasi di attivit artigianali, ivi, V (1978), p. 93-121; S. Nepoti, I vetri dagli scavi nella Torre Civica di Pavia, ivi, pp. 219-38. 13 Il commercio di simili lingotti di vetro, veneziani, islamici e cinesi, era noto solo per un'epoca molto posteriore: cfr. R. J. Charleston, Glass "cakes" as Raw Material and Articles of Commerce, "Journal of Glass Studies", V (1963), pp. 54-68. 14 Cfr. W. Lamarque, The Glassware , in J. Ward-Perkins, J. Johns, B. Ward-Perkins, W. Lamarque, M. Beddoe, Excavations at Tuscania, 1973: Report on the finds from six selocted pits, "Papers of the British School at Rome", XLI (1973), pp. 117-33. 15 Sugli scavi di Lucera vedere: D. B. Whitehouse, Ceramiche e vetri medioevali provenienti dal Castello di Lucera, "Bollettino d'arte", LI (1966), 3-4, pp. 171-78; sempre per la Puglia cfr. D. B. Harden, Some Glass Fragments mainly of the12 th-I3th century A.D. from Northern Apulia, "Journal of Glass Studies", VIII (1966), pp. 70-9; un importante rinvenimento di vetri segnalato anche nello scavo dell'insediamento rupestre di Varcaturo presso Massafra, in provincia di Taranto: Archeogruppo di Massafra, Ricerche archeologiche negli insediamenti rupestri medievali, Massafra 1974. La produzione dell'Italia meridionale e della Sicilia pone
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Anche in Sicilia si sono invece scoperti resti di impianti produttivi medievali, oltre a quelli pi antichi di Sofiana, associati a monete del IV secolo16: una vetreria riferibile ai secoli XIV-XV stata individuata presso le mura del Castello di Cefal Diana17 e scorie e rifiuti di lavorazione sono stati trovati a Palermo negli scavi alla Zisa18, mentre una abbondante quantit di frammenti di vetri del XIV secolo, comprendente esemplari sia di importazione sia di presumibile produzione locale, stata rinvenuta sempre a Palermo negli scavi dello Steri19 ed un recupero notevole di vetri attribuiti al secolo XIII awenuto a Gela durante le demolizioni del quartiere S. Giacomo20, inoltre sono state intraprese ricerche sul territorio e sulle fonti scritte e iconografiche21. Mancano comunque per ora anche per il Tardomedioevo sintesi almeno a livello regionale che forniscano serie tipologiche dei recipienti di vetro in rapporto alla cronologia ed anche le ricerche tendenti a ricostruire la storia della produzione, dei commercio e dei consumi in questo settore hanno tuttora una diffusione limitata. Venendo finalmente all'Emilia Romagna, come si potuto constatare essa non figura tra le regioni con rinvenimenti archeologici di particolare rilievo, se si escludono alcuni scavi pi recenti inediti, e la mancanza di dati ancora pressoch totale anche per quanto riguarda le fonti documentarie22, mentre l'iconografia abbastanza ricca, a partire dalla ben nota serie di tavole imbandite negli affreschi trecenteschi di Pomposa, dove il rapporto fra i contenitori di ceramica e quelli di vetro a favore di questi ultimi, poich mentre i primi sono per lo pi di utilizzo comune, ogni commensale ha a disposizione un proprio bicchiere o calice di vetro. In questo quadro ci si proposti di presentare una serie di notizie, relative soprattutto al secolo XIV, sulla produzione del vetro a Bologna, raccolte con una prima ricerca di sondaggio sulle fonti documentarie edite ed inedite ritenute pi promettenti, quali gli statuti comunali, le tariffe daziarie ed i memoriali. In una rubrica degli statuti del comune di Bologna del 1288, che precisa la tariffa daziaria per l'esportazione delle merci, secondo un elenco abbastanza dettagliato, compaiono sia i vetri lavorati sia i vetri rotti, soggetti ad un'imposta rispettivamente di quattro e due soldi per salma23. Vetro lavorato e vetro rotto con un'imposta rispettiva salita a sette e cinque soldi per
anche il problema del rapporto con quella simile riscontrata a Corinto, dove negli scavi del Foro Romano sono state trovate due vetrerie, attive a quanto pare fra l'inizio del secolo XI ed il saccheggio del 1147, per le maestranze delle quali stata fatta l'ipotesi di un trasferimento in tali aree: cfr. G. R. Davidson, A Medieval GlassFactory at Corinth, "American Journal of Archaeology", XLIV (1940), pp. 297-324; Id. Corinth, vol. XII, The minor Objects, Princeton, New Jersey, 1952, pp. 76-122. 16 Alcune strutture di forni, scorie e numerosi frammenti vitrei sono stati scoperti negli scavi del 1961: cfr. D. Adamesteanu, Nuovi documenti paleocristiani nella Sicilia centro-meridionale, "Bollettino d'Arte", XLVIII (1963), p. 264. 17 Cfr. M. Bonanno, F. D'Angelo, La vetreria di Cefal Diana ed il problema del vetro siciliano nel medioevo , "Archivio Storico Siciliano", XXI-XXII (1972), pp. 337-48. 18 Cfr. V. Tusa, Sull'archeologia medioevale (con accenni agli scavi eseguiti allo Steri e alla Zisa) , in Atti del Colloquio Internazionale di Archeologia Medievale. Palermo-Erice 1974, Palermo 1976, p. 108. 19 Cfr. G. Falsone, Gli scavi allo Steri , in Atti del colloquio internazionale di Archeologia Medievale. PalermoErice 1974, cit., p. 121 s. 20 Cfr. F. D'Angelo, Produzione e consumo del vetro in Sicilia , "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 37989. 21 Cfr. ivi e Bonanno, D'Angelo, La vetreria di Cefal, cit. 22 Come conseguenza compare solo un breve accenno al vetro nelle pi aggiornate sintesi sulla produzione e sul commercio medievali nella regione: cfr. R. Greci, Produzione, artigianato e commercio in Emilia nel Medio Evo, in Storia della Emilia-Romagna, vol. 1, Bologna 1975, pp. 489-518; A. I. Pini, Produzione artigianato e commercio a Bologna e in Romagna nel Medio Evo, ivi, pp. 519-47. Si consideri per contrasto l'elevato numero di ricerche da un secolo a questa parte sui recipienti di ceramica, stimolato soprattutto dagli studiosi faentini, anche se tali ricerche sono state condotte prevalentemente con un'ottica storico-artistica. 23 Statuti di Bologna dell'anno 1288 , a cura di G. Fasoli e P. Sella, Citt del Vaticano 1937, Lib. III rubr. V, pp. 118 e 120: "...de salma... vitreorum laboratorum... quattuor solidos bononinorum; . . . de salma vitreorum fractorum. . . duos solidos bononinorum".

salma, figurano anche nella tariffa daziaria in vigore per i fiorentini esportanti merci dal territorio bolognese, che risalirebbe al 1317, e che presenta un elenco pi ampio e sistematico di mercanzie24; si trova qui in elenco, soggetto al pagamento di due soldi per salma, anche il manganesi da bicchieri25, il biossido di manganese, impiegato per ottenere vetri incolori, in quanto ossida il ferro quasi sempre presente nelle materie prime utilizzate e ne compensa il colore giallo-bruno risultante con la propria tinta purpurea. In quest'ultima tariffa compaiono anche i crogiuoli, grugiuoli, con un'imposta di nove soldi per salma26, necessari per l'attivit vetraria ma non riferibili esclusivamente a questa; mancano invece o comunque non sono identificabili in entrambi gli elenchi le principali materie prime per produrre il vetro: il quarzo, in blocchi di cava o in ciottoli fluviali che venivano cotti e ridotti in polvere per pestaggio o con mulini, oppure le sabbie silicee, e per quanto riguarda i fondenti alcalini le uniche fonti individuabili nella tariffa del 1288 sono il tartaro delle botti da vino e le ceneri di cerro27 ma anche in questo caso va considerato che gli alcali oltre che per la fabbricazione del vetro servivano anche per altre produzioni, ad esempio per gli smalti e, soprattutto, per ottenere detergenti e saponi per l'industria tessile e l'igiene personale. Poche novit sono riscontrabili nelle due successive tariffe daziarie bolognesi che ci sono pervenute: nel 1351, durante il dominio di Giovanni Visconti, abbiamo l'appalto ad un milanese del dacium merchadandie et sigilini, che contiene solo per l'imposta sul transito e sull'esportazione un elenco dettagliato delle merci, dove si trovano ancora il manganese da migluoli ed il vetro lavorato e rotto, mentre compaiono per la prima volta crestalli e overa de crestalli, che per sono da riferirsi a cristalli di rocca piuttosto che a vetro incolore o proprio a cristallo al piombo, considerata anche l'imposta elevata alla quale sono sottoposti28; nel 1383 abbiamo le norme del dazio delle mercanzie con tariffe dettagliate sia per l'esportazione, dove si ritrovano le stesse voci rilevate per il 1351 e con le stesse imposte, sia per l'importazione a Bologna, dove abbiamo ancora soltanto le voci gi notate, qui con imposta differente29, e vale solo la pena di rilevare che il manganese qui definito a miglolis sive ciatis. Alla fine del Trecento - inizi del Quattrocento infine risale la redazione pi complessa ed organica di norme e tariffe relative alla gabella delle mercanzie, che priva di data ma si pu collocare, in base alle addizioni datate che nello stesso codice la precedono e la seguono, fra il 1396 ed il 1405: in tale redazione, che rester sostanzialmente immutata, tranne che per l'ammontare delle imposte, fino al Seicento, mentre per le merci esportate o in transito la tariffa analoga a quelle del 1351 e del 1383, per le merci importate a Bologna la tariffa molto pi ricca di voci e queste sono suddivise secondo le
L. Frati, Tariffa daziaria fra il Comune di Bologna e quello di Firenze (1317), Firenze 1903, p. 22 Ivi p. 18. 26 Ivi p. 17. 27 Statuti del 1288 , cit., p. 120: ". . . de salma taxi et cineris de cerro . . . duos solidos bononinorum ". Nella vetreria scavata a Monte Lecco si potuto rilevare che veniva usato minerale quarzoso piuttosto che sabbia, e come fondenti alcalini con ogni probabilit potassa lisciviata dalle ceneri di legna insieme a soda commerciale piuttosto che ottenere gli alcali dalla calcinazione dei tartrati del vino: cfr. Fossati, Mannoni, Lo scavo della vetreria, cit. Sembra che il procedimento fosse analogo anche per la Toscana dove si estraeva una roccia detta "tarso" in cave presso Pisa e Massa Carrara, e si usavano anche ciottoli dal letto dell'Arno e sabbie per la produzione pi comune: cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 30. Anche per le gabelle toscane del secolo XIV e degli inizi del XV sulle merci connesse alla manifattura del vetro vedere ivi, p. 11s. 28 Archivio di Stato di Bologna (in seguito A.S.B.), Comune, Difensori dell'avere, 83, cc. CXXIIv-CXXVIr: crestalli e overa de crestalli per soma libre 6, per centonaro solidi 24, per dexina solidi 2 denari 5 (per i fiorentini 1'imposta ridotta rispettivamente a 1. 5. s. 20, s. 2); manganexe da migluoli per soma s. 3, per centonaro d. 7 (per i fiorentini s. 2 e d. 5); vedro lavorado per soma s. 10, per centonaro s. 2, per dexina d 2 e l/2 (per i fiorentini rispettivamente s. 6, s. 1 e d. 2 e l/2, d. 1 e 1/2); vedro rotto per centonaro s. 1, per dexina d. 1 e 1/5. 29 A.S.B., Comune. Difensori dell'avere, 84, cc. XXXllv-XXXIVr: manganexe a miglolis sive ciatis pro salma s. 3; vitro laborato pro salma s. 15; vitro fracto pro salma s. 5.
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compagnie delle arti bolognesi alle quali sono pertinenti30. Sotto gli Speziali si ritrova qui il manganexe da migluoli con imposta per centonaro de pexo solido 1, ma un complesso pi numeroso di voci relative al vetro, sia per le materie prime che per i manufatti, compare sotto i Merciai, Setaioli e Quattro Arti, che sono raggruppati insieme: vi si trovano le clessidre, arluogli de vedro cum sabion d'una hora l'uno solidi 2 per cascuna docina, arluoglio de vedro de pi d'una horadinari 2 per cascuna hora d'arluoglio; il quarzo macinato, preda pesta da migluoli per centonaro de pexo dinari 4; gli occhiali, anche se non sono citate le lenti, ochiali de busso, d'avuolio e de burala per lirta de pexo solidi I dinari 6; gli specchi, spiechi de legno stagnodi vedradi cum smalto e sena smalto per centonao de pexo solidi 5, vedro da spiechi per centonaro de pexo solidi 6; terra pistoiese, presumibilmente per laterizi refrattari, per costruire le fornaci da vetro, terra pistoiexe da fare fornaxe da minoli per centonaro de pexo dinari 6, vetro con decorazioni pregiate, vedro lavorado al modo de Damasco per livra de pexo dinari 6, oltre al vedro lavorado d'one raxon salvo che da spiechi per centonaro de pexo solidi 3, ed ai rottami, vedro rotto per centonaro de pexo dinari 6. Evidentemente le informazioni ricavabili da tariffe daziarie sono limitate a dati qualitativi sul traffico commerciale, a parte i rapporti di incidenza dell'imposta, comunque l'esistenza di un commercio di vetri lavorati, di rottami e di manganese alla fine del Duecento indice di una certa attivit di vetrai, che infatti trova conferma in altre fonti: nel pi antico estimo cittadino rimasto, del 1296-97, un Johanellus quondam Petri qui facit artem vitrorum denuncia 270 lire dal commercio di olio e 400 lire in oggetti di vetro lavorato31, inoltre la tomba di una famiglia de Ciatis compare nel sepoltuario del 1291 del convento di S. Domenico32. La prevista introduzione in citt di materie prinne per il vetro e per le fornaci testimonia una produzione locale alla fine del Trecento sulla quale, come si vedr, maggiori informazioni sono.fornite da altri documenti. Va sottolineato inoltre come i bicchieri siano spesso rappresentativi del vetro lavorato in genere, essendo gli oggetti maggiormente prodotti, al punto che gli artigiani come si constater sono identificati come fabbricanti di bicchieri. A questo proposito interessante rilevare che il termine bichirarius o de bicheriis, che corrisponde a quello in uso nell'area fiorentina33, sembra testimoniato a Bologna solo nel XV secolo, mentre nel Trecento nei documenti bolognesi i bicchieri vengono indicati col termine ciati, da cui de ciatis, dal latino.cyathus, oppure col termine miuoli o migluoli, da cui miolarus o de miolis una denominazione che risulta diffusa, con varianti locali come moolli, moioli, miogli, in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Ritornando agli statuti comunali bolognesi, nella redazione de1 1352 presente una rubrica de vasis vitreis fiendis, nella quale sulla base dell'osservazione che vasa vitrea sunt multo solito cariora et debiliora, quod contingit ex eo quod est penuria magistrorum et solummodo certis licet ipsa facere, viene stabilita la possibilit per chiunque cittadino o forestiero di realizzare extra circulas et muros civitatis Bononie fornaces aptas et abiles ad faciendam miolos, inghistarias, bocalitos et alia vasa vitrea, e di vendere liberamente tali oggetti purch non fuori del distretto bolognese34. La scarsit di vetrai potrebbe essere spiegata e collegata ad un fenomeno pi generale considerando che si pochi anni dopo la
Ivi, cc. LXXXXVIIr.-CXXXVIr A. I. Pini, Gli estimi cittadini di Bologna dal 1296 al 1329. Un esempio di utilizzazione: il patrimonio fondiario del boccaio Giacomo Casella, "Studi Medievali", s. III, XVIII (1977), pp. 111-59, alla p. 123 nota 53. 32 Archivio del Convento di San Domenico in Bologna, Sepolture I (sono grato per la segnalazione alla dott.ssa Rossella Rinaldi). 33 Cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., in particolare l'appendice documentaria. 34 A.S.B., Comune, Statuti del 1352, c. CCVIIv. La rubrica era gi stata segnalata, anche per gli statuti successivi, con trascrizione parziale in G. Arias, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell'et dei Comuni, Torino-Roma 1906, appendice VI, p. 455.
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peste del 1348; per lo stesso anno 1352 un libro destimo fiorentino riporta l'iscrizione di nove bicchierai, ma mancano possibili confronti precedenti35. Nella rubrica statutaria citata compaiono per la prima volta accanto ai bicchieri denominazioni di altri contenitori: se i bocaliti sono probabilmente boccali con la bocca trilobata, le inghistarie dovrebbero essere le bottiglie con corpo sferoidale, rientranza conica alla base e lungo collo con bocca svasata a tromba, documentate sia nell'iconografia che nei rinvenimenti archeologici (fig. 1), che venivano chiamate in modo simile, ingrestarie o inghistere, anche a Venezia dal secolo XIII36. Va rilevato inoltre che per le fornaci prevista la collocazione fuori dal centro cittadino, evidentemente per scongiurare gli incendi: un'analoga preoccupazione da parte dei veneziani aveva fatto concentrare i vetrai a Murano gi dalla fine del secolo XIII, per a Bologna in epoca successiva sono testimoniate fornaci annesse alle botteghe di vendita in zone centrali della citt, come anche a Firenze37. La stessa rubrica presente negli statuti del 135838 e del 1376 39, mentre in quelli del 1389 40 diventa pi complessa e ricca di informazioni, poich dopo aver ribadito la possibilit di impiantare fornaci, questa volta intus et extra civitatem, ed aver precisato che i manufatti devono essere realizzati con vetro bene cotto et bene temperato e senza impurit che ne provochino una facile rottura o addirittura lo scoppio spontaneo, fissa i rapporti fra qualit del vetro, peso e prezzo per i prodotti pi comuni, per alcuni dei quali prevista una gamma di diverse capacit (vedere appendice doc. I e la tabella 1). Questa volta accanto alle inghistarie, ai bocaliti ed ai ciati compaiono anche gli orinali41, che sono previsti cum coperta, e le zuche, anch'esse col rivestimento, da identificarsi evidentemente secondo le dimensioni con damigiane e fiaschi, questi ultimi documentati dalla fine del Trecento soprattutto in Toscana, dove fino ai nostri giorni sono rimasti il tipo di contenitore pi usato per il vino e sono stati oggetto di una produzione specializzata, affiancata da artigiani rivestitori, testimoniati a Firenze dal 144742. Per le bottiglie, i bocaliti ed i bicchieri prevista la produzione in due tipi di vetro, verde e bianco cristallino, quest'ultimo ovviamente pi pregiato, mentre la mancata indicazione per orinali e zuche sembra indicare che per questi si usasse comunemente solo il vetro verde. Le diverse capacit riscontrabili nella rubrica statutaria per i bocaliti e le zuche permettono di ricostruire una scala plausibile per i vari contenitori, per la quale non invece molto indicativo il peso, che varia con la forma e viene qui fissato per evitare l'eccessiva fragilit, infatti i fiaschi sono pi leggeri delle bottiglie e dei boccali ma hanno la protezione del rivestimento.

Cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 15 s. Cfr., anche per gli altri termini, L. Zecchin, Denominazioni antiche dei prodotti muranesi , "Vetro e Silicati", XIII (1969), 2, pp. 25-8. 37 Per la collocazione nel secolo XVI delle fornaci in aree centrali di Firenze, in cortili retrostanti alle botteghe, e per la documentazione di incendi, dovuti in particolare alla sistemazione della legna in palchi sopra le fornaci stesse per farla seccare, cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 27 s. e appendice, docc. XXI e XXIV. 38 A.S.B., Comune, Statuti del 1358, c. CLXXXIIv. 39 A.S.B., Comune, Statuti del 1376, c CCLXXVIr. 40 A.S.B., Comune, Statuti del 1389, c CCCLXXIIr-v. 41 Per un probabile orinale in vetro rinvenuto a Tuscania cfr. Lamarque, The Glassware, cit. n. 15, p. 121 s., fig. 33 e tav. XXVa. 42 I rivestitori o fiascai usavano, come ancora oggi, un'erba palustre detta schiancia e ricoprivano sia fiaschi nuovi sia usati, il che rese abbastanza facili le frodi quando alla fine del Cinquecento fu introdotto come garanzia di capacit un bollo di piombo attaccato alla veste, sostituito solo dal 1629 da un bollo di vetro col giglio fiorentino, applicato al collo: cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., pp. 38-46 e appendice, docc. V, Vlll e XV; per bolli di vetro con scudi crociati sulle bottiglie rinvenute nello scavo della vetreria di Monte Lecco cfr. Fossati, Mannoni, Lo scavo della vetreria, cit., p. 58 s.
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FIGURA 1 Vetreria di Monte Lecco nellAppennino tra Genova ed Alessandria, databile alla fine del secolo XIV-inizi del XV. Ricostruzione, in scala, delle principali forme prodotte sulla base dei reperti di scavo Le zuche sono evidentemente i recipienti pi grandi, con unit di misura la quarta, per la quale sono previsti multipli e un sottomultiplo, la meza, confrontabile con il "mezzo quarto" che si ritrova anche a Firenze come contenuto del fiasco da vino comunemente usato e per il quale stata calcolata un'equivalenza a litri 2,2843; per l'inghistaria prevista una sola misura e come confronto possibile utilizzare la capacit delle bottiglie rinvenute nella vetreria di Monte Lecco, stimata fra 850 e 900 centimetri cubici44; per i bocaliti, distinti in bocalitus de meza e bocalitus de piola et terarola, meno facile dedurre le capacit e rimane anche da chiarire per la misura pi piccola la differenza che sembra esistere tra due oggetti di peso e costo equivalente; parrebbe comunque trattarsi di capacit inferiori a quella dell'inghistaria: in questo caso la specificazione de meza non sarebbe riferita alla quarta come per le zuche e si potrebbe pensare invece ad un contenuto corrispondente rispettivamente alla met e ad un terzo in rapporto a quello delle bottiglie. Poco chiara rimane infine la distinzione che si riscontra per i bicchieri fra ciati gambasini e ciati cristalini: le denominazioni non sembrano riferirsi a diverse qualit di vetro poich per entrambi i tipi prevista la produzione verde e incolore, n suggeriscono una differenza di forme che si possa ricondurre all'esistenza di bicchieri apodi e calici con stelo, si pu solo rilevare che quelli gambasini sono pi leggeri ed economici, che la gamma dei prezzi unitari varia da uno a tre denari e che in ogni caso quelli in vetro incolore devono essere pi pesanti. Nella stessa rubrica statutaria viene anche stabilito che i vetrai devono essere soggetti alla societ dei Salaroli, e questo per ora l'unico dato sulla collocazione di questi artigiani nell'ambito delle corporazioni bolognesi, se si trascura la ricordata tariffa divisa per arti nella quale i Salaroli non figurano e che sembrerebbe suggerire un'appartenenza ai Merciai o alle Quattro Arti, prima della fine del secolo XV, quando
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Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 43 Fossati, Mannoni, Lo scavo della vetreria cit., p. 65.

TABELLA 1 Tip i, caratteristiche e prezzi dei contenitori d'uso comune in vetro prodotti a Bologna, secondo le norme degli statuti comunali del 1389 (cfr. appendice I). Contenitore Inghistaria Inghistaria Bocalitus de meza Bocalitus de meza Bocalitus de pigola et tergarola Bocalitus de pipola et tergarola Orinalis Ciati gambasini Ciati gambasini Ciati cristalini Ciati cristalini Zuche de meza Zuche de quarta Zuche de duabus quartis Zuche maiores duarum quartarum *Cum coperta. cominciano a comparire dei bichirarii nelle matricole dei Fabbri45. Questo passaggio ai Fabbri nel Cinquecento riscontrabile anche per i ceramisti, un'altra categoria di artigiani che necessitano di fornaci e che produeono contenitori d'uso comune46, mentre un fenomeno analogo documentato per Firenze, dove nel secolo XIV i bicchierai costituivano un membro dell'Ars Oliandolorum, Biadaiolorum, Bicchieraiorum et Casciaiuolorum e facevano anche parte dell'arte dei Medici e Speziali, per poi passare verso il 1400 all'arte dei Chiavaioli, Ferraioli e Calderai47. Informazioni su vetrai attivi a Bologna sono ricavabili da un contratto del 139148 (vedere appendice, doc. II), nel quale Francesca di Filippo, vedova di Pietro de Ciatis de Gambassi, che ha perso anche il figlio Jacopo ed alla quale sono rimaste in eredit le attrezzature per la produzione vetraria del marito e del figlio, si associa con Pietro di Bartolo di Giovanni de Gambassi de Ciatis, il quale si impegna a pagarle ottocento lire in quattro anni per l'acquisto
A.S.B., Comune, Capitano del Popolo, Libri Matricularum delle societ d'Armi e d'Arti V: Blasius lacobi de Pilatis de zuchis alias de bicheriis capelle Sancii losep compare insieme al figlio Geronimo nel 1481 (c. CCLXXXVIIIIv), seguito poi da alcuni altri nel secolo successivo. 46 Sulla produzione di ceramiche a Bologna fino al secolo XVI vi sono stati studi e polemiche alla fine del secolo scorso e all'inizio di questo da parte di bolognesi e faentini: in particolare C. Malagola, Memorie storiche sulle maioliche di Faenza, Bologna 1880, pp. 36-42 e passim; L. Sighinolfi, Per la storia dell'arte ceramica, "Faenza", IV (1916), 3, pp. 79-82. Anche per questa produzione comunque necessaria una revisione critica dei documenti, anche alla luce dei recenti rinvenimenti archeologici. 47 Cfr. Taddei, L'arte del vetro , cit., pp. 14s e 33-7. interessante comunque notare che a Firenze e a Pisa nel secolo XV si riscontrano investimenti e partecipanze in cui sono collegate botteghe e fornaci di vetrai con botteghe di formaggiai o pizzicagnoli: cfr. ivi, pp. 17 e 19 e appendice, docc. II e XVI. 48 A.S.B., Comune, Memoriali n. 317, cc. CVIr-v.
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Qualit del vetro verde bianco cristallino verde bianco cristallino verde bianco cristallino verde bianco cristallino verde bianco cristallino

Peso unitario in bolognini piccoli once 7 9 once 7 12 once 5 1/2 6 once 5 1/2 7 once 3 4 once 3 5 once 3 10* libre 1/13 12/12 libre 1/11 12/8 libre 1/8 12/5 libre 1/7 12/4 once 3 9* once 4 1/2 16* once 8 24* in proporzione 8 per ogni quarta alle precedenti oltre le prime due

Peso unitario

della met degli oggetti di vetro, dei rottami, degli attrezzi metallici, dei beni mobili in genere pertinenti alla lavorazione del vetro e delle fornaci esistenti in una casa posta nella cappella di San Remigio: egli promette anche di saldare i debiti di Pietro e Jacopo, ricever in prestito da Francesca centonovantadue lire a termine di quattro anni e condurr a mezzo con lei la domus seu statio deputata ad artem et misterium ciatorum per dieci anni, pagando un affitto annuo di trentacinque lire49. Oltre a consentire la localizzazione di una fornace bolognese questo documento ci d un'interessante testimonianza sulla localit di origine di questi vetrai, Gambassi, un centro della Val d'Elsa con attivit di vetrai documentata dalla prima met del Trecento. Notizie di produzione vetraria nello stesso periodo si hanno anche per altri tre comuni vicini, San Gimignano, con fornaci documentate dal 1265, Montaione, che ricavava la legna per le vetrerie dalla selva di Camporena e San Miniato che disputava al preeedente i diritti sulla selva50, e quest'area e in particolare Gambassi oltre a costituire una notevole coneentrazione di impianti specializzati diedero origine ad una migrazione di vetrai anche al di fuori della Toscana. Se a Firenze numerosi bicchierai originari di Gambassi sono noti dal 142751, come si rilevato a Bologna sono presenti alla fine del Trecento, e per Ravenna documentata nel 1365 una societ ad artem de mioliis, per cinque anni, fra un cesenate che partecipa con un capitale di cento lire ed un cittadino ravennate originario di Gambassi che oltre a cinquanta lire si impegna a fornire le materie prime e l'attrezzatura necessarie52; anche a Modena la prima fornace da bicchieri documentata, nel 1339, fu impiantata da artigiani fiorentini nella via dei Grasolfi, chiamata poi de miolis53. Le dimensioni della diffusione dei vetrai toscani dalla fine del 1200 sono sottolineate dalla testimonianza di vetrai fiorentini a Genova dal 1297, nonch di un artigiano di Gambassi a Sassello nel Savonese nel 1314, di vetrai dalla stessa area a Murano dal 1315, e dalla documentazione a Palermo nel 1344 e 1345 di due societ per la produzione del vetro fra mercanti palermitani che forniscono il capitale e artigiani di Firenze e San Miniato54. Ritornando alla produzione bolognese, i documenti esaminati consentono di ricavare una discreta quantit di informazioni per il secolo XIV, ma rimangono ampie lacune di conoscenza sulla struttura delle fornaei55, l'approvvigionamento delle materie prime e del
Attraverso un altro documento, la donazione nel 1413 da parte di Francesca di questa fornace ai frati Francescani, tale fabbrica era la pi antica nota anche al Guidicini, cfr. G. Guidicini, Cose notabili della citt di Bologna, Bologna 1868, vol. I, p. 425. 50 Taddei, L'arte del vetro , cit., p. 10. A Gambassi potrebbe risalire l'origine dell'attributo gambasini incontrato per i bicchieri negli statuti del 1389, sebbene ci non ne chiarisca le caratteristiche n la contrapposizione a cristalini; l'attributo compare anche altrove ed in particolare in documenti muranesi dal 1311, cfr. Zecchin, Denominazioni, cit., 5p. 27s. 51 Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 16s e appendice, docc. II, III, VI, IX. 52 Il documento pubblicato in S. Bernicoli, Arte e artisti in Ravenna. III. Di un'antica vetreria , "Felix Ravenna" 9 (1913), p. 353 s. Il fomimentum necessarium costituito da duodecim miliaria sablonis a vitro, quinque paria de forbicibus ad incidendam lanam et quinque moglas ad pingendum pannum de maglis a miolis, sex somas de metallo a miolis, novem canellas a miolis, septem puntellos, unam capzam ad ponendam vitrum et tres cazzas ad mutandam vitrum, duos ratarellos, unam rasuram grossam, unam cazzolam pannorum, unum par de moglis ab archis, unum paleum ad misidandam, unam rasuram parvam, quindecim padellas, unum miliare de mutoncellis, unum de ferro, unam stateram grossam cum catena, Vl libras terre de Rezzo sex capsonos inter magnos et parvos. 53 Cfr. Comune di Modena, Museo Civico Medievale Moderno, Guida, s.d. Sala X vetrina VII. Anche a Bologna un tratto dell'attuale via Farini era denominato Miola o Migliola o via del Miolo, cfr. M. Fanti, Le vie di Bologna, Bologna 1974, p. 316. 54 Per la Liguria cfr. A. Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante (1265-1321), "Atti Soc. Ligure Storia Patria", XXXI (1901), 1, p. XI; per Murano Zecchin, Denominazioni, cit., p. 27; per la Sicilia Bonanno, D'Angelo, La vetreria di Cefal, cit. p. 346, docc. 1 e 2. 55 Per la discussione sulla struttura e sul funzionamento delle vetrerie nell'Antichit e nel Medioevo sulla base delle fonti documentarie e dei risultati di alcuni scavi vedere Gasparetto, A proposito dell'officina vetraria torcellana, cit.
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eombustibile, il numero, la dislocazione, la durata d'esercizio e la produttivit degli impianti, il numero, le funzioni e la situazione economica degli occupati nella manifattura vetraria, nonch sulla produzione dei vetri da finestra, delle lenti e di altri oggetti realizzati in vetro, come lampade e calamai, e soprattutto mancano per ora dati sui consumi in rapporto alle diverse classi sociali. Per avere delle risposte a questi problemi sono necessarie ulteriori indagini sistematiche sulle fonti scritte ed anche un maggior numero di scavi stratigrafici; le ricerche inoltre andrebbero estese oltre il termine cronologico che qui ci si posti, per chiarire la transizione, riscontrabile a Bologna56 come in altre localit, nella seconda met del Quattrocento ad un monopolio produttivo che arriver fino alla fine del secolo XVIII, quando la privativa sar tempestivamente rivenduta al Senato bolognese prima dell'arrivo dei Francesi, che, tra le altre cose, abolivano tali privilegi. Appendice I Archivio di Stato di Bologna, Archivio del Comune, Statuto del 1389, Libro VI, rabr. LVII, cc. CCCLXXII r-v. De vasis vitreis fiendis et aliis capitulis rubrica. Quia vasa vitrea sunt multo solito cariora et debiliora, quod contingit ex eo quod [est] penuria magistrorum et solumodo certis licet ipsa facere, volentes talibus obviare et ut de talibus copia habeatur, merito duximus statuendum quod quilibet civis vel forensis possit libere et impune facere et fieri facere intus et extra civitatem Bononie fornaces aptas et habiles ad faciendum miglolos, inghistarias, boccalitos et alia vasa vitrea, de bono vitreo bene cotto et bene temperato et sine aliqua immissione ex quibus faciliter non rompantur vel a se ipsis sclopentur seu frangantur, sub pena aliter facienti scu aliter fieri facienti et magistro fornacis quinque solidorum bononinorum pro quolibet vase, de quibus et omnibus infrascriptis notarius fanghi et stratarum cognoscere et inquirere possit et teneatur et culpabiles punire et quibus possit acusare et denuntiare, et ipsos miglolos, inghistarias, boccalittos et alia vasa vitrea facere et fabrigare et fieri et fabricari facere ac etiam conducere et conduci facere ad civitatem Bononie undecunque et illa vendere possint et teneantur cuilibet emere volenti, dummodo non possint ipsa vasa vitrea integra scu fracta nec etiam tasum conducere extra districtum Bononie per aliquem, pena conducenti pro qualibet vice XXV librarum bononinorum et ammissionis rerum, et quilibet possit acusare et habeat medietatem condennationis. Et quilibet veniens ad faciendum miglolos et alia vasa vitrea eos faciat in civitate vel comitatu, sit et esse intelligatur immunis ab omnibus oneribus realibus vel personalibus vel mixtis que imponerentur per comunem Bononie vel aliquam aliam universitatem comuni Bononie subiectam. Et potestas teneatur facere preconizari predicta infra quindecim dies a die publicationis presentium statutorum. Et debeant dicta vasa vitrea fieri et esse infrascriptarum manerierum, infrascripti ponderis et qualitatis ipsaque dari debeant et vendi in civitate Bononie quibuscunque emere volentibus pro infrascriptis pretiis et non pro maioribus,
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La privativa fu concessa nel 1472 dai Sedici Riformatori ai Malvezzi, che la mantennero, a parte un breve periodo all'inizio del Cinquecento in cui la ebbe Nascentorio Nascentori, che vantava un'attivit vetraria familiare di 150 anni a Bologna (cfr. Una fabbrica di vetri a Bologna gi secolare al tempo di Clemente VII, "Archivio Storico dell'Arte", II, 1889, p.l69-71), finch nella seconda met del secolo XVII pass in dote ai Bentivoglio: Filippo Bentivoglio vendette infine il diritto al Senato nel 1792 per 15.000 scudi cfr. A.S.B., Archivio del Reggimento, Assunteria d'Arti, Recapiti per la privativa dei vetri e G. Guidicini, Cose notabili della citt di Bologna, cit., vol. 1, p. 425 e vol. II, p. 57.

pondus vero et qualitates infrascriptarum manerierum vasorum vitreorum et pretium pro quibus dari et vendi debent sunt hec videlicet: inghistaria vitri viridis ponderis VII untiarum pro novem denariis parvis bononinorum; inghistaria vitri albi cristalini ponderis VII untiarum pro duodecim denariis parvis bononinorum; bocalitus vitri viridis de meza ponderis quinque untiarum et dimidie pro sex denariis parvis bononinorum; bocalitus vitri albi cristalini de meza ponderis quinque untiarum et dimidie pro septem denariis parvis bononinorum; bocalitus vitri viridis de pigola et tergarola ponderis trium untiarum pro quatuor denariis parvis bononinorum; bocalitus vitri albi cristalini de pigola et tergarola ponderis trium untiarum pro quinque denariis parvis bononinorum, orinalis ponderis trium untiarum pro decem denariis parvis bononinorum cum coperta, ciati gambasini vitri viridis ponderis ad rationem tredecim pro libra duodecim pro XII denariis parvis bononinorum, ciati gambasini vitri albi cristalini ponderis ad rationem XI pro libra, octo pro XII denariis parvis bononinorum; ciati cristalini vitri viridis ponderis ad rationem octo pro libra, quinque pro XII denariis parvis bononinorum; ciati cristalini vitri albi cristalini ponderis ad rationem Vll pro libra, quatuor pro Xll denariis parvis bononinorum; zuche de meza ponderis trium untiarum pro novem denariis parvis bononinorum cum coperta; zuche de quarta ponderis quatuor untiarum et dimidie pro XVI denariis parvis bononinorum cum coperta; zuche de duabus quartis ponderis octo unziarum pro XXIII lor denariis parvis bononinorum cum coperta; omnes allie vero zuche maiores duarum quartarum a dictis duabus quartis supra ponderis pro qualibet quarta secundum ratam ponderis aliarum zucharum predictarum, pro octo denariis parvis bononinorum pro qualibet quarta ultra duas quartas cum coperta, et omnia alia vasa vitrea cuiuscunque alterius maneriei pro iusto et competenti pretio exhiberi et dari emere volentibus actenta ratione supradictarum. Sub pena cuilibet contrafacienti ammissionis vasi cuiuslibet in quo fuerit contrafactum et dimidie extimationis seu valoris dicti vasi. Et ut predicta melius observentur volumus quod quilibet magister exercens dictam artem sit subiectus et obediens massario et sotietati artis salarolorum civitatis Bononie, pro qua obedientia et subiectione et fideiussione prestanda exigi ab eis non possit ultra solidos quinque pro quolibet et habeantur pro vere exercentibus artem et membrum artis salarolorum quo ad omnia que disponuntur de dictam artem vel membrum exercentibus et massarius dicte artis teneatur singulis duobus mensibus semel visitare quamlibet stationem dictorum vitrorum et ipsos punire et condennare secundum formam suprascriptam [...]

II Archivio di Stato di Bologna, Archivio del Comune, Memoriali n. 317, 1391, cc.CVI r-v Millesimo trecenteximo nonageximo primo inditione quartadecima, die vigeximotercio mensis februarii. Petrus quondam Bartholi olim Johannis de Gambassi de Ciatis habitator Bononie in capella Sancti Remigii, adultus personaliter comstitutus in presentia sapientis et discreti viri domini Johannis de Lapis legum doctoris et civis Bononie, petiit a dicto domino Johanne sibi dari et ipsius decreto comstitui et decerni in suum curatorem Dominicum quondam Guidonis de Manzolis cartolarium et Bononie civem capelle Sancti Josep, ibidem presentem et aceptantem, specialiter ad interponendum et prestandum auctorizandum suam presentiam et comsensum, promissioni quam facere intendit idem adultus domine Francisce quondam Philipi uxori olim Petri de Ciatis de Gambassi, heredi et hereditario nomine recipienti quondam Jacobi sui filii et flii dicti quondam Petri, de octingentis libris bononinorum in una parte ad terminum quatuor annorum hodie inchoandorum, pro precio et extimacione precii plurium rerum et bonorum mobilium, ut est vitrum et laboratum et non et stracii et feramenta et alia de quibus plene patebit in instrumento venditionis inferius

describendo, vendendarum per dictam dominam Franciscam ipsi adulto pro dicto precio. Et similiter confessioni quam facere intendit ipse adultus de dictis rebus a se habitis et traditis et comsignatis sibi per ipsam dominam, promissionique etiam quam facere intendit ex causa dicte venditionis de dando satisfaciendo et persolvendo de suo proprio et suis expensis cuidam Johanni de Placentia naute, Petro del Pigaglo de Ciatis et domine Lasie Nannis speciarii capelle Sancti Laurentii de Guarinis, de omni et quocumque debito olim comtracto et facto tam per dictos Jacobum et Petrum simul vel alterum ipsorum divixii et de omni et toto eo quod ab ipsis comuniter vel divisim habere et percipere deberent. Item etiam promissioni quam ipse adultus facere intendit predicte domine de centumnonagintaduabus libris bononinorum in alia parte, quas dictus adultus confiteri intendit se habuisse et recepisse ex causa mutui de puro amore et gratia speciali a dicta domina Francischina ad terminum quatuor annorum hodie inchoandorum et pro rata et parte ac terminis anuatim prout et de quibus in instrumento inde confitiendo inferius declarabitur. Item conductioni quam facere intendit a dicta domina Francisca ad terminum decem annorum proxime venturorum de medietate pro indivixo cum se ipso unius domus seu stationis deputate ad artem et misterium ciatorum posite Bononie in capella Sancti Remigii iuxta suos confines in instrumento de predictis fiendo aponende et clarius describende, promissioni de utendo et fruendo arbitrio boni viri et de dando et solvendo pro pensione et nomine pensionis anuatim libras tregintaquinque bononinorum terminis in dicto instrumento describendis, et de ipsam stationem in fine termini in eodem statu restituendo [...]. Venditio rerum mobillium. Eisdem millesimo inditione mense die testibus, habito agnato iurante consentiente aserente et dicente ut supra, domina Francisca quondam Philipi uxor olim Petri de Ciatis de Gambassi, heres et hereditario nomine Jacobi eius quondam filii et filii quondam Petri, ex ipsius Jacobi testamento et ultima voluntate scripta in millesimo trecenteximo octuageximonono inditione duodecima die primo octubris, animo et intentione dictam hereditatem adeundi et in ea se immiscendi sponte et excerta [scientia] per se et suos heredes dedit vendidit et tradidit Petro quondam Bartolli olim Johannis de Gambassi de Ciatis heredi substituto per dictum quondam Jacobum in dimidia hereditate ipsius testamenti, ibidem presenti pro se et suis heredibus recipenti et ementi, cum protestatione tam quam ipse Petrus fecit et promixione quod non intendit per aliqua in presente instrumento apponenda dicte substitutioni vel aliquibus in dicto testamento contentis ullatenus derogare set ea semper ipsi salva fore, dimidietatem pro indivixo cum dicto Petro omnium et singullorum ciatorum, fiallarum, zucharum et aliorum vasorum vitreorum ac omnis quantitatis vitri laborati et non laborati, seu fracti et contussi, strazzorum, ferri seu feratii et aliarum quarumcumque rerum mobillium deputatarum ad usum et pro usu faciendi et laborandi vitrum, ac etiam fornacum existentium in una domo comuni ipsorum domine Francisce ut heredis predicte et Petri predicti, posita Bononie in capella Sancti Remigii, iuxta viam publicam a duobus lateribus, iuxta heredes Nicolay de Castellis, iusta heredes Michaelis Solasse [. . .]

I metalli

Nel saggio seguente, esemplare quanto poco noto1, Marina Baruzzi, partendo dall'analisi di alcuni reperti provenienti dallo scavo imolese di Villa Clelia, imposta un'indagine sull'attrezzatura agricola dell'Altomedioevo e mette in evidenza come la fonte materiale sia estremamente efficace per ridiscutere problemi di cronologia, diffusione e tecnologia gi dibattuti dalla storiografia medievale sulla base di un'evidenza prevalentemente scritta ed iconografica. Non solo, lo spunto e lo stimolo proveniente da materiali in contesti archeologici certi, spinge l'autrice ad affrontare, seppure marginalmente, aspetti legati alla produzione e alla circolazione del ferro nell'Altomedioevo. Un tema che soltanto recentemente ha nuovamente catalizzato l'interesse della storiografia medievale dopo molti decenni di disinteresse. Attraverso le fonti e la pi recente letteratura (V. Fumagalli) ci viene mostrato come nel bresciano nel IX e X secolo, la lavorazione metallurgica non costituisse soltanto parte di attivit in centri dominici, ma fosse disseminata nell'artigianato contadino che indirizzava le proprie capacit produttive non solo all'autoconsumo ma anche alla soluzione dei censi dovuti. Contemporaneamente, oltre ai centri signorili e agli artigiani contadini, producevano oggetti in metallo artigiani di mestiere sia in area urbana che rurale. Il quadro che emerge quindi di grandissimo interesse dimostrando la polverizzazione della produzione che doveva avere una simmetria notevole con l'attivit estrattiva (un tema non affrontato ovviamente nel saggio), che si attuava in forme di "erosione" di ogni piccolo affioramento anche superficiale. Sar soltanto con i nuovi bisogni della citt di pietra, in epoca romanica, che estrazione e attivit metallurgica si specializzeranno dando vita ad insediamenti con vocazione specifica in forme per destinate a mutare velocemente per le radicali trasformazioni tecnologiche, soprattutto nel quadro dello sfruttamento della forza idraolica nella lavorazione metallurgica, che spinse allo sviluppo dei centri produttivi presso i corsi di acqua.
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I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (Imola). Note sull'attrezzatura agricola nell'Altomedioevo, "Studi Romagnoli", XXIX (1978), pp. 423-46.

Marina Baruzzi I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (Imola). Note sull'attrezzatura agricola nell'Altomedioevo

Nel corso della campagna di scavi del 1978 presso Villa Clelia a Imola, sono state riportate alla luce le tracce di un insediamento probabilmente identificabile con il castrum Sancti Cassiani, la sede vescovile che affianc la citt di Imola fino alla fine del XII secolo. Fra i numerosi importanti reperti di tale scavo, si segnala il rinvenimento, in strati differenti, di numerosi oggetti in ferro, la maggior parte dei quali riconoscibile come parte trinciante di strumenti di lavoro. Un primo gruppo stato rinvenuto nello strato di intonaci databile al VI secolo1. Al momento del ritrovamento, l'intero gruppo poggiava su una graticola in ferro e gli oggetti si trovavano ingrumati in un unico blocco di forma vagamente rettangolare; ci lascia supporre che essi fossero originariamente raccolti in un contenitore. Si tratta di una dozzina di pezzi, tra cui lame di diversi attrezzi, alcune delle quali presentano ancora tracce di legno nell'immanicatura: un vero e proprio corredo di strumenti, difficilmente riferibile, tuttavia, ad un'attivit artigiana, vista l'eterogeneit d'uso dei pezzi presenti. Il maggior numero di attrezzi da porre in relazione con attivit di lavorazione del legno. Troviamo infatti due scuri, di dimensioni simili ma di foggia leggermente diversa: una (1170 g) fornita di una grossa cassa a sezione quadrangolare, che si prolunga in una piccola nuca squadrata (fig. 1, a); 1'altra presenta un corpo pi compatto, la nuca appiattita fino a confondersi nella cassa, la lama leggermente arrotondata; il suo peso leggermente inferiore: 900 g (fig. 1, b). Il peso delle lame e la superficie di taglio non sono tali da suggerire trattarsi di scuri da abbattimento: piuttosto, per la robustezza della cassa e l'angolazione delle superfici, esse potevano essere impiegate da taglio, per diramare, come cuneo per legni teneri. Si affiancano ad esse due piccole scuri ad alabarda (a forma di mannaia) rispettivamente di 610 e 960 g (fig. 1, g ed h). La larga superficie del taglio, utile per spaccare e squadrare tavole, equilibrata dalla cassa pesante. Completa il gruppo degli attrezzi da taglio uno strumento di piccole dimensioni (450 g) identificabile con un'ascia (fig. 1, c) piuttosto che con una zappa, anche se la posizione della lama e la sua foggia sono nei due attrezzi spesso simili. La prima, tuttavia, consta generalmente di un corpo pi corto e compatto e di una cassa pi robusta, adatti ad affrontare la maggiore resistenza opposta da legno e radici; la zappa invece pu presentare una cassa anche molto sottile, e la sua lama raggiungere dimensioni notevoli. La lama della nostra ascia, di forma allungata, si presenta leggermente arcuata; il lembo tagliente perpendicolare all'asse del manico; la cassa si prolunga in una stretta nuca, quasi a formare una piccola scure dalla lama arrotondata.

Per la datazione degli oggetti e la localizzazione dei rinvenimenti si vedano i contributi di M. G. Maioli in Imola dall'et tardo romana allalto medio evo. Lo scavo di Villa Clelia, Imola 1979; Id., La campagna di scavo 1979 a "Villa Clelia" (Imola): relazione preliminare, in "Studi Romagnoli", XXIX (1978), pp. 329-46. Una parte consistente della medesima annata della rivista raccoglie gli Atti delle giornate di studio che la Societ di Studi Romagnoli ha dedicato ai risultati degli scavi (Imola, dicembre 1979). I disegni delle figure 1 e 2 (a cui si fa riferimento nel testo) sono stati realizzati da Miria Mazzetti, che ringrazio.

FIGURA 1, a-f Reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (secolo VI)

FIGURA 1, g-n Reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (secolo VI) Ancora alla lavorazione del legno erano destinate la sgorbia (450 g) (fig. 1, f) e, forse, le due lamine di forma semicircolare (fig. 1, d ed e) terminanti alle estremit a doppio uncino (predisposte per una doppia immanicatura?), probabilmente attrezzi destinati alla scortecciatura dei tronchi. Alla frantumazione del terreno sembra invece destinato il lungo piccone (fig. 1,l) che presenta due strette superfici taglienti opposte e perpendicolari tra loro, adatto soprattutto allo scasso di terreni accidentati e rocciosi (450 g). Infine troviamo un martello del peso di 1080 g (fig. 1, m); una lama fortemente corrosa e contorta, al punto da essere ormai irriconoscibile, in cui visibile l'occhio per l'alloggiamento di un manico (fig. 1, i); ed una vanga o pala (fig. 1, n). Quest'ultimo un attrezzo di

piccole dimensioni- (960 g); la lama, a taglio arrotondato, leggermente incurvata, e l'immanicatura, che presenta ancora tracce di legno, forma con essa un ampio angolo, suggerendo trattarsi di una pala anzich di una vanga, anche perch le spalle spioventi e strette dell'attrezzo non sembrano poter offrire una buona presa al piede del lavoratore. L'attrezzo presenta tuttavia una grossa lamina ricurva di metallo sulla parte anteriore dell'immanicatura: forse un vangile deformato? Si tratterebbe allora senza dubbio di una vanga, il principale strumento di lavoro nella piccola coltura, per compiere a mano lavori di scasso e rivoltamento del terreno, e per completare l'insufficiente lavoro dell'aratro nel campo. Del secondo gruppo di strumenti fanno parte quattro pezzi, rinvenuti in una zona di rimaneggiamento dello strato altomedievale, databile attorno al Mille. Si tratta di una scure, in buono stato di conservazione (1180 g), con le superfici disposte simmetricamente a forma di cuneo del tutto simile a quella del gruppo precedente, anch'essa munita di grossa cassa e nuca quadrangolare, col lembo tagliente leggermente obliquo (fig. 2, a); un'ascia (560 g) dalla cassa sottile, prolungantesi in una nuca compatta ed appiattita (fig. 2, b); un oggetto di peso notevole (2120 g), appuntito simmetricamente, che presenta 1'aspetto di un piccone, sprovvisto tuttavia di foro centrale per alloggiare il manico (fig. 2, c); ed infine una lama di coltello di grandi dimensioni e peso (2300 g), probabilmente - come vedremo - il coltro di un aratro (fig. 2, d). Ritrovamenti di strumenti in ferro di et medievale, soprattuto in numero consistente, sono piuttosto rari (anche perch il materiale, raro e prezioso, era soggetto a continui reimpieghi). Sotto questo profilo i ferri degli scavi di Villa Clelia assumono un'importanza ed un interesse del tutto particolari ai fini di una migliore conoscenza dell'equipaggiamento tecnico altomedievale, tenuto conto della scarsit di informazioni utilizzabili a questo proposito, ed offrono l'occasione per alcune considerazioni di carattere pi generale sull'attrezzatura agricola a disposizione dei contadini. Nell'insieme, i reperti imolesi costituiscono un piccolo campionario di lame di quelli che furono, oltre alle falci, gli strumenti essenziali dell'attivit agricola nell'Altomedioevo: zappe, vanghe, aratri, asce, scuri; gli stessi attrezzi che, pur eccezionalmente, vengono registrati nei documenti altomedievali tra i mobilia presenti sui poderi dei contadini dipendenti e sulle terre gestite direttamente dai proprietari.

FIGURA 2 Reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (fine secolo X- inizi secolo XI) Strumenti di lavoro quotidiano, soggetti ad una usura relativamente lenta, gli attrezzi dotati di parti metalliche venivano fatti oggetto di accurata manutenzione e di continne riparazioni. Il loro forzato abbandono, come pu essere il caso del gruppo di ferri del VI secolo riposti tutti insieme forse in una cassetta, o il loro smarrimento, come forse accaduto ai reperti erratici rinvenuti nello strato pi tardo, dovette costituire una perdita di entit non trascurabile. E certo non era fatto di poco conto, se il recupero della lama di un falcastrum - una piccola falce per tagliare i rovi2-, staccatasi dal manico
ferramentum. . . quod a falcis similitudine falcastrum vocatur (Gregorio Magno, Dialogi, a cura di U. Moricca, Roma 1924, II, VI, p. 89). La definizione ripresa da Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XX, XIV, 5 (ed. W. M. Lindsay,
2

e scivolata in un lago, poteva diventare oggetto di miracolo nell'agiografia altomedievale3. Che la perdita delle parti metalliche degli attrezzi da lavoro potesse rappresentare un serio danno economico confermato dall'esame delle fonti documentarie contemporanee - le carte private in particolare - da cui si ricava una generale impressione di scarsa presenza di metallo nel settore della strumentazione agricola. L'Altomedioevo stato felicemente definito una civilt del legno4. Il bosco, sulla cui estensione in quell'epoca e sul cui ruolo nella vita economica non qui luogo per insistere, non forniva allora soltanto sostentamento per animali e uomini, ma anche il materiale primario per la costruzione della stragrande maggioranza di attrezzi, macchinari, edifici e costruzioni di vario tipo. Pale, forche, rastrelli, badili, vanghe e spesso anche l'aratro erano fabbricati esclusivamente in legno, riservando alle parti trincianti di pochi strumenti l'impiego del metallo5. Non di rado questo era destinato a rivestire come semplice rinforzo una parte soltanto dell'attrezzo: la punta dell'aratro o il bordo delle vanghe, come ben testimonia l'iconografa contemporanea6, Non a caso, negli elenchi di attrezzi agricoli sono talora compresi anche strumenti di carpenteria che servivano alla loro fabbricazione7. Alcuni elenchi di attrezzi agricoli sono rintracciabili nei "polittici", inventari di terre, coloni e redditi stesi dai grandi proprietari altomedievali - enti ecclesiastici e monastici - per una ricognizione dei loro possessi. Fra IX e XI secolo non sono pochi i documenti di questo tipo, talora assai lunghi e dettagliati8, Ma anche in essi, che pure costituiscono una fonte di fondamentale utilit per le ricerche di storia agraria9, le notizie sugli strumenti di lavoro sono rare e sommarie: su tredici polittici altomedievali di area padana, solo due - come vedremo - presentano inventari di questo tipo. Fra di essi, quello relativamente pi ricco di informazioni a questo riguardo il breve recordacionis del monastero di S. Tommaso di Reggio Emilia, attribuito al X secolo10. In esso tracciato, per ogni curtis, un elenco di prodotti, attrezzi, servi e bestiame presenti sul centro aziendale11. Apprendiamo, cos, che una zappa, una mannaia, due scuri, tre seghe, otto falci messorie sono a disposizione dei 62 servi (fra maschi e femmine, adulti e bambini) che lavorano sulla corte principale del monastero nell'area gestita in economia; essi possono inoltre utilizzare due coppie di buoi per l'aratura, effettuata con uno strumento prowisto di rinforzo metallico (oltre a due gioghi sono infatti registrati

Oxford 1911): Falcastrum a similitudine falcis vocatum: est autem ferramentum curvum cum manubrio longo, ad densitatem veprium succidendam. Hi et runcones dicti, quibus vepres secantur, a runcando dicti. Esattamente a questo scopo era impiegato l'attrezzo nel racconto di Gregorio (cfr. nota seguente). Il termine, sinonimo di runco, come questo assente negli scritti degli agronomi latini, ad eccezione di Palladio (cfr. D. K. White, Agricultural implements of the roman world, Cambridge 1967, pp. 91 ss.). La tarda comparsa di ambedue i termini fa supporre allo studioso that implement was a specialized form of falx invented in later times: una sorta di falcetto innestato su un lungo manico, di cui si pu vedere riprodotto un esemplare (conservato presso il Museo Nazionale di Napoli) nello studio citato (tav. 9b). 3 Narra Gregorio che Benedetto un giorno affid ad un lavoratore goto l'incarico ut de loco quodam vepres abscinderet, quatinus illic fieri hortus deberit. Nel corso del lavoro, la lama dell'attrezzo cadde nell'acqua del lago sulla cui sponda si trovava il goto, che tremebundus, corse a denunciare damnum quod fecerat, chiedendo di essere punito. Ma Benedetto tulit de manu Gothi manubrium, et misit in lacum: et mox ferrum de profundo rediit, adque in manubrium intravit, qui statim ferramentum Gotho reddidit dicens: "ecce labora, et noli contristari" (Dialogi, cit. p. 89). 4 J. Le Goff, La civilt dell'Occidente medievale, Milano 1969, p. 251. 5 Cfr. G. Duby, L'economia rurale nell'Europa medievale, I, Bari 1970, p. 30s. 6 Una buona raccolta di esempi tratti dall'iconografia medievale inglese quella apprestata da W. O. Hassall, Notes on Medieval Spades, in The Spades in Northern and Atlantic Europe, a cura di A. Gailey e A. Fenton, Belfast 1970, pp. 304. 7 Vari esempi in Duby, L'economia rurale, cit., I, p. 30. 8 Essi sono ora riuniti (e nuovamente editi) nel volume Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi , a cura di A. Castagnetti, M. Luzzati, G. Pasquali, A. Vasina, [F.S.I., 104], Roma 1979. 9 Si vedano, ivi, le accurate bibliografie premesse ad ogni polittico e la bibliografia aggiuntiva alle pp. XV-XVI. 10 Ivi, n. IX, pp. 195-9 (a cura di A. Castagnetti). 11 A ci fa seguito la registrazione dei proventi relativi ai poderi aggregati ai singoli centri domocoltili, che per non fornisce dati sull'attrezzatura agricola.

due vomeri). Non molto diversa la situazione nelle altre cinque corti descritte nel polittico, delle quali ugualmente si registra l'attrezzatura rinvenuta sulla pars dominica 12. Notiamo che tra i beni mobili di cui sono dotate le aziende alcuni soltanto - i pi rilevanti - vengono registrati: per lo pi compaiono utensili da cucina, contenitori per derrate alimentari di vario tipo, soprattutto quelli di grandi dimensioni, ed infine attrezzi da lavoro, ma probabilmente solo quelli dotati di parti metalliche, tralasciandosene molti altri - che pure dovevano essere presenti - di pi semplice e comune fabbricazione. difficile perci esprimere una valutazione sulla consistenza dell'equipaggiamento tecnico di queste aziende, senza contare che non sappiamo nulla della sua effcacia. Le laconiche informazioni dei documenti sembrano suggerire una generalizzata carenza di strumenti agricoli di metallo: conclusione cui, in effetti, gli storici dell'economia nella maggior parte dei casi - pur con qualche eccezione13 - pervengono 14. Ma due elementi, almeno, vanno tenuti presenti, per non incorrere in conclusioni affrettate: da un lato, l'organizzazione del lavoro all'interno del sistema curtense; dall'altro, la realt del paesaggio altomedievale e le sue peculiarit produttive. Per quanto riguarda il primo punto noto che la lavorazione dei campi tenuti in economia era affidata per gran parte alle prestazioni di opere (cio alle giornate di lavoro) dei coloni dipendenti, i quali presumibilmente portavano con s i propri attrezzi, necessari alle diverse operazioni agricole, e spesso anche i buoi per l'aratura (e forse lo stesso strumento aratorio): l'ingiunzione medietatem cum bovis et medietatem cum manibus, che pi frequentemente ricorre a proposito delle corves nei patti colonici15, non sembra infatti riferirsi solo al tipo di lavoro da eseguire, ma anche all'equipaggiamento che i coloni sono tenuti - se possibile - a portare con s16.
A Sciola, nella montanga parmense, sono annotate una falcina, due zappe due mannaie, un vomere per l'aratro, due buoi; i servizi qui sono 36. A Vercallo, nell'alta collina reggiana, dove lavorano 5 servi, non registrata la presenza di alcun attrezzo. A Cedogno, nella stessa zona, ci sono - a disposizione di 33 servi - due zappe, una mannaia, due falci messorie, una setia; anche un giogo e due buoi compaiono nell'elenco, ma non c' menzione del vomere: forse sul suolo leggero di questa azienda collinare era considerato sufficiente l'impiego di un aratro di legno temperato al fuoco, il cui lavoro sarebbe stato poi completato a mano. A Curciliano, ubicato probabilmente in alta collina o in montagna, 7 servi dispongono - oltre che del giogo, di un vomere e di un numero imprecisabile di buoi (la carta in questo punto abrasa) di una mannaia, due zappe, due falcine e tre falci messorie. Relativamente meglio equipaggiata rispetto all'estensione del terreno signorile (di cui possiamo farci un'idea in base alla quantit dei prodotti che vi sono coltivati) sembra essere la corte di Enzola, nella bassa pianura reggiana vicina al Po; qui per 13 servi vi sono tre buoi, due gioghi, due vomeri, quattro zappe, due scuri, una mannaia e quattro falci messorie. Per l'identificazione delle localit, cfr. V. Fumagalli, Storia agraria e luoghi comuni, "Studi Medievali", s. 3, IX (1968), pp. 949-65, a p. 955. 13 Si veda ad esempio R. Delatouche, Regards sur l'agriculture aux temps carolingiens , "Journ. des Savants", 1977/2, pp. 73-100, a p. 78 ss. Per un periodo pi tardo, le ricerche di P. Toubert sull'area laziale hanno individuato la presenza di artigiani del ferro sul fronte della colonizzazione, pour fournir la conqute rurale un outillage dont nous n'avons aucune raison de minimiser la valeur l'excs (Les Structures du Latium mdival. Le Latium mtidional et la Sabine du IXe sicle la fin du XIIe sicle, I, Rome 1973, p. 230). 14 Cos, ad esempio, Duby, L'economia rurale , cit., p. 24 ss., Le Goff, La civilt , cit. p. 256 ss.; J. Dhondt, L'Alto Medioevo, Milano 1970, p. 124; G. Fourquin, Le Premier Moyen Age, in Histoire de la France rurale, a cura di G. Duby e A. Wallon, I, Paris 1975, p. 331 ss. 15 Un elenco dei contratti con coltivatori editi (limitatamente all'Altomedioevo e all'ltalia del Nord) in M. Montanari, L'alimentazione contadina nell'alto Medioevo, Napoli 1979, Appendice a pp. 481-5. Un aggiornamento del medesimo elenco in Id., La corve nei contratti agrari altomedievali dell'ltalia del Nord, in Le prestazioni d'opera nelle campagne italiane del Medioevo, Bologna 1987. L'ingiunzione ricorre in questa stessa forrna anche nel citato polittico di S. Tommaso di Reggio: medietatem cum bovis et medietatem cum manibus (Inventari, cit., pp. 196-8). 16 Esplicite indicazioni in tal senso si rinvengono nella documentazione d'Oltralpe, ove gli inventari espressamente precisano che i dipendenti devono recarsi a lavorare il terreno dominico con i loro propri attrezzi (cfr. Delatouche, Regards sur l'agriculture, cit., p. 78). Un capitolare di Carlo Magno dell'anno 800, relativo al pago Cenomannico ma che pu avere un significato pi generale, si riferisce ai coloni tenuti ad opere di aratura cum suis animalibus [. . .] cum suo aratro in campo dominico, precisando che se non hanno animali a sufficienza, devono prestare opere manuali pi numerose (Capitularia Regum Francorum, edd. A. Boretius, V. Krause, Monumenta Germaniae Historica, Leges, 1, Hannover 1883, n. 31). Nella documentazione dell'Italia del Nord mancano attestazioni altrettanto esplicite riguardo alle corves, ma per le opere di trasporto in alcuni contratti si fa precisare ai coloni che si bubus non abuerimus at manibus aciuvare debeamus (cos in P. Federici Codex diplomaticus pomposianus, in appendice, a Id., Rerum pomposianarum historia monumentis illustrata, Roma 1781, pp. 397-591, n. LXVII, a. 1025, pp. 496s; cfr. Montanari, L'alimentazione,
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Per valutare, dunque, l'adeguatezza della strumentazione agricola altomedievale, non possiamo prescindere dall'attrezzatura dei poderi contadini. Non manca chi - sia pure in via ipotetica - sostiene una sua migliore qualit, e maggiore consistenza, rispetto alle aziende signorili: il Modzelewski, ad esempio, ritiene che diversamente dal signore, il colono avesse ogni interesse ad investire in attrezzi i pur magri proventi del suo lavoro17. La tesi interessante, ma difficilmente verificabile, dato che sull'equipaggiamento dei poderi contadini sappiamo ancor meno di quanto si pu accertare per i centri dominici. I riscontri documentari fino al X secolo sono davvero pochi: basti pensare che su oltre 160 contratti con coltivatori stipulati nell'ltalia del Nord fra VIII e X secolo uno soltanto fornisce indicazioni a proposito degli attrezzi. Si tratta del contratto di livello stipulato nell'anno 853 fra il monastero veronese di S. Maria in Organo e i fratelli Lusiverto e Luvenperto, i quali devono premunirsi per poter mantenere, una volta scaduta la locazione, la propriet dei pochi beni che si sono portati dietro all'ingresso nel podere18, e cio, per quanto riguarda gli attrezzi agricoli, otto zappe, cultra una, giuntezos (= correggiati) duos, falces [. . .] torias tres 19 . Quali, in concreto, fossero i risultati di un'agricoltura praticata con tali mezzi, uniti ad una concimazione insuffciente e a rotazioni irregolari20, dato rilevare dalle rese unitarie dei cereali, che il gi citato inventario del monastero di S. Tommaso ha permesso al Fumagalli di calcolare alcuni anni or sono: esse oscillano, nelle parti domocoltili delle singole aziende, tra 1'1,7 e il 3,8 per uno21. Pi basse nelle propriet ubicate in zone collinari o di montagna, esse risultano relativamente pi alte nelle zone pi adatte alla coltivazione dei cereali dell'alta e della bassa pianura; in ogni caso si tratta di rendimenti esigui, spia di un livello tecnologico decisamente basso. Entra per in causa a questo punto la seconda delle due considerazioni sopra accennate: la realt del paesaggio altomedievale e la sua tipologia economica. In effetti, in quel sistema produttivo il settore cerealicolo aveva una importanza relativa, in certi casi addirittura secondaria, rispetto ad altre realt produttive legate oltre che allo sfruttamento intensivo degli orti - soprattutto all'utilizzo degli spazi incolti: selve, pascoli, paludi. Questi costituirono nell'Altomedioevo, non meno dei coltivi, una fonte di approwigionamento costante per gli uomini, per la possibilit di pascolarvi grandi greggi di maiali e di ovini e caprini, di esercitarvi la caccia, la pesca, la raccolta dei frutti spontanei22. La caratterizzazione fortemente silvo-pastorale dell'economia altomedievale va tenuta ben presente per

cit., nota 21 a p. 231; e vedi P. Allegri, I contratti con coltivatori nella Romagna dei secoli IX-XII, tesi di laurea, relatore M. Montanari, Universit di Bologna, a.a. 1978-79, pp. 268, 281). Sulle corves contadine vedi ora il volume Le prestazioni d'opera cit. 17 K. Modzelowski, La transizione dall'antichit al feudalesimo , Storia d'Italia Einaudi. Annali , 1, Torino 1978, pp. 3109, a p. 98. Anche il Delatouche (Regards, cit., pp. 89-91) suppone una migliore attrezzatura (e una maggiore produttivit) dei poderi contadini rispetto alle terre tenute in economia dai signori. 18 V, Fumagalli, Le prestazioni di opere sul dominico in territorio veronese nel secolo IX , in Id., Coloni e signori nell'Italia settentrionale. Secoli VI-XI, Bologna 1978, pp. 1735, a p. 28. Sul problema dei beni mobili accumulati dai coloni nel periodo di permanenza sul podere (conquestum) e la possibilit di disporne, vedi B. Andreolli, A d conquestum faciendum. Un contributo per lo studio dei contratti agrari altomedievali, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XVIII (1978), 1, pp. 109-36. 19 V. Fainelli, Codice diplomatico veronese , I, Venezia 1940, n. 189, pp. 285-7 (ma vedi Fumagalli, Le prestazioni, cit., per una pi corretta e completa lettura del passo). 20 Cf. Duby, L'economia rurale, cit., p. 37, Montamari, L'alimentazione, cit., p. 162. 21 Fumagalli, Rapporto fra grano seminato e grano raccolto, nel polittico del monastero di S. Tommaso di Reggio , in "Rivista di Storia dell'Agricoltura", VI (1966), 4, pp. 360-2; Id., Storia agraria e luoghi comuni, cit., pp. 953-5. Sulla scorta della vecchia edizione dell'inventario curata dal Torelli l'autore indicava come indice massimo di resa il 3,3 per uno; il valore 3,8 calcolabile per la corte centrale del monastero (per cui il Fumagalli indicava uma resa 2,8) in base alla lettura del documento proposta recentemente dal Castagnetti (Inventari, cit., p. 196). Sulle rese cerealicole nel Medioevo vedi, ora, M. Montanari, Rese cerealicole e rapporti di produzione. Considerazioni sullItalia padana dal IX al XV secolo, in "Quaderni medievali", 12 (1981), pp. 32-60. 22 Cfr. per questo soprattutto V. Fumagalli, Terra e societ nell'Italia Padana. I secoli IX e X , Torino 1976, pp. 3 ss.; Id., Il regno Italico, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, II, Torino 1978, pp. 57 ss.; Montanari, L'alimentazione contadina, cit., pp. 19 ss. e 221ss.

valutare nella loro giusta portata i dati forniti dalle fonti, a cominciare dalla stessa carenza di strumenti agricoli. La realt fsica degli spazi incolti costitu lungo tutto l'arco del Medioevo una presenza con cui gli uomini dovettero misurarsi quando vollero conquistare nuove terre all'agricoltura. signifcativo pertanto osservare che nei documenti scritti, cos come nei riscontri iconografici e nei reperti archeologici (anche in quelli imolesi), accanto agli attrezzi per la lavorazione del suolo gli strumenti da taglio - per diradare rovi, tagliare rami, attaccare il bosco e abbattere quella che i documenti chiamano silva infructuosa23 - sono una costante fissa. Sotto questo profilo particolarmente interessante l'inventario della corte di Migliarina, nella pianora emiliana presso Carpi24. Nel X secolo, epoca di stesura dell'inventario questa era una vera e propria corte pioniera ai margini di una grande foresta, che nelle annate buone - quando glande bene prinde - poteva ingrassare ben 4.000 maiali25. Fra gli attrezzi di questa corte sono registrate asce, accette, scuri, seghe, pialle: dolatoria una, secure una, secies VI, sappes VII, asia una, asione uno, rasoria una, falce potatoria una, tappolis dai, secio uno26. Un vero e proprio corredo da boscaiolo. Non diversamente funzionale alle caratteristiche delle terre- in buona parte incolte - che Altiperto homo liber prende a livello nell'812, in Toscana, appare l'elenco di attrezzi che gli vengono consegnati al momento di entrare sul podere: questo composto di quattro appezzamenti a vigna e di due moggi di terra ad pastenandum, per la coltivazione dei quali egli potr utilizzare tzappa una, marcione unum; l'altra parte del podere formata da una cetina - zona di recente diboscamento27- di dieci moggi: una scure, un runcone, un runcilione ed una falce mensuria costituiscono il resto dell'equipaggiamento 28. Se ora ci soffermiamo ad esaminare quali fossero i centri di produzione del metallo e degli arnesi metallici, notiamo che nell'organizzazio ne economica della grande propriet, complessivamente tendente all'autosufficienza, la produzione di manufatti artigianali era prevista talora nei centri dominici, ad opera dei servi prebendari. Dal breve memoriationis dell'abate di Bobbio Wala, stilato forse fra 1'833 e 1'83529, apprendiamo quali erano i principi ispiratori dell'organizzazione economica curtense. Si tratta infatti di uno schema di pianificazione delle risorse dei diversi possessi del monastero, con indicazioni precise per la loro gestione. Una serie di officine avrebbe dovuto provvedere alla fabbricazione di tutti i manufatti necessari al normale funzionamento dell'azienda. Ogni settore doveva essere affidato ad un responsabile, che al tempo stesso si occupasse del lavoro dei servi e dell'approvvigionamento del materiale necessario. Cos, per il settore che a noi interessa, Wala suggerisce che camararius abbatis provideat omnes fabros scutarios [. . .] et ipse provideat omnia ferramenta 30. Alle diverse necessit del grande complesso monastico, inoltre, rispondeva la specializzazione - per quanto possibile - delle singole aziende, in base alle risorse locali: cos Wala Gardam deputavit ad oleam, Luliaticam ad ferrum31. Se presso questa corte, ubicata nel Pavese 32, si praticasse anche un'attivit
Per tale espressione cfr. G. Tiraboschi, Storia della augusta badia di S. Silvestro di Nonantola , II, Codice diplomatico, Modena 1785, n. XXXIII, a. 837, p. 50s; n. XXXVI, a. 845, p. 52 s. 24 Inventari, cit., n. X, pp. 201-4 (a cura di A. Castagnetti). 25 Il dato si ricava dalla decima (400 maiali) che la corte riscuote annualmente, se la produzione delle ghiande va bene, dai coloni che utilizzano la selva (ivi, p. 203). 26 Ivi, p. 204. 27 Cfr. B. Andreolli, Recensione a W. Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus , Tbingen 1974, "Rivista di Storia dell'Agricoltura, XVII (1977), 1, pp. 137-42, a p. 141. 28 Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus , cit., n. 73, a. 812; cfr. ivi, nota I a p. 145, l'identificazione di alcumi attrezzi e di altri oggetti citati nel testo. E vedi Fumagalli, Precariet dell'economia contadina e affermazione della grande azienda fondiaria nell'ltalia Settentrionale dall'VIII all'XI secolo, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XV (1975), pp. 327, a p. 4s. 29 C, Cipolla, Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio, I, Roma 1918, doc. XXXVI, a. (833-835?). 30 Ivi, p. 141. 31 Ivi, p. 140. 32 Inventari, cit., p. 137 nota 1.
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estrattiva o solo la lavorazione del metallo, non sappiamo; certo che, negli anni successivi, dai dipendenti di questa corte provengono manufatti in ferro: dei sette fictales registrati nel breve bobbiese dell'anno 862, uno deve corrispondere come canone annuo cinque vomeri33, e lo stesso numero di vomeri tenuto a prestare ancora al momento della stesura di un secondo breve, nell'88334. Non sappiamo invece di dove provenisse il ferro che i dipendenti della corte di Sorlasco, nel Pavese, erano tenuti a trasportare fino a Piacenza35. Notizie relativamente abbondanti e sistematiche sono quelle che sugli attrezzi e sul metallo grezzo ci fornisce l'inventario dei beni del monastero femminile di S. Giulia di Brescia, databile agli anni a cavallo fra IX e X secolo36. In esso non documentata alcuna attivit artigianale presso il monastero; ma molti dei poderi dipendenti, ubicati nelle ricche colline metallifere delle prealpi lombarde, forniscono come canone ferro o attrezzi gi lavorati, in quantit rilevante37. 30 libbre di ferro rendono 8 manentes insediati su una sors dipendente dalla corte di Cassivico, 60 libbre di ferro riscuote da 83 servi la corte di Bradellas in Val Camonica; 20 libbre il fictum corrisposto ogni anno da un manens della corte di Borgonato; 20 vomeri, 3 scuri, una mannaia, 2 forche di ferro (che qui compaiono per la prima volta nella documentazione medievale dell'Italia del Nord) ed altre 100 libbre di ferro vengono dai dipendenti della corte di Griliano; 5 vomeri da tre manentes di Mairano; 4 vomeri e 4 falci sono consegnati alla corte di Odolo; 130 libbre di ferro provengono dal beneficium dell'amministratore Pietro, legato alla corte di Vuassaningus, forse Siniga in comune di Pisogne38. Sono complessivamente 340 libbre di ferro39, 29 vomeri, 3 scuri, 1 mannaia, 4 falci, 2 forche, a testimonianza di un'attivit artigiana diffusa, in zone naturalmente ricche di giacimenti minerari ferrosi, come le colline bresciane40. Queste notizie ci testimoniano un fatto importante: la lavorazione dei metalli non aweniva solo sui centri dominici, ma anche (forse soprattutto) in una forma diffusa di artigianato rurale, contadino, i cui prodotti erano destinati non al mercato - o non solo ad essoma alla soddisfazione delle esigenze di autosufficienza dell'economia curtense. Pochi altri documenti lasciano intrawedere qualche aspetto di questa attivit: oltre al caso della corte bobbiese di Luliatica che abbiamo appena considerato, due falces prataricias sono pagate come canone da due dipendenti della corte di Verriana, nel Pistoiese, che appare fra i possedimenti del monastero di Bobbio nell'adbreviatio, non datata, assegnabile agli anni fra IX e X secolo41. E ancora la preoccupazione di procurarsi strumenti di lavoro dovette spingere l'abate di Nonantola Pietro, nel 907, a commutare il canone in natura corrisposto da Gudepertus faber, titolare di un podere nel Comasco, con il prodotto della sua attivit artigianale, obbligandolo a consegnare ogni anno, entro il mese di aprile, quindici falci prataricias, di cui vengono stabilite - fatto del tutto eccezionale - anche le dimensioni42.
Ivi n. VIII/1 pp. 121-44 (a cura di A. Castagnetti), a p. 137. Ivi n. VIII/2 pp. 145-65 (a cura di A. Castagnetti), a p. 158. 35 Ivi pp. 143 (a. 862) e 164 (a. 883). 36 Ivi n. V, pp. 41-94 (a cura di G. Pasquali). 37 Per la rilevanza del dato anche in un ambito geografico pi ampio cfr. Duby, L'economia rurale, cit., 1, p. 32. 38 Inventari, cit., pp. 65, 72, 56-57 54, 69, 63, 71. Per l'identificazione delle localit vedi (oltre alle note in calce al testo dell'inventario) G. Pasquali, La distribuzione geografica delle cappelle e delle aziende rurali descritte nell'inventario altomedievale del monastero di S. Giulia di Brescia, in San Salvatore di Brescia. Materiali per un museo, II, Brescia 1978,pp. 142-l67. 39 A titolo puramente indicativo si pu osservare che secondo il Delatouche una buona zappa richiedeva circa 800 grammi di ferro (Regards, cit., p. 80). Il dato concorda con i reperti degli scavi imolesi di Villa Clelia: il peso dei ferri oscilla infatti tra i 500 ed i 1200 grammi. Dunque, con 340 libbre di metallo si sarebbe potuto costruire un numero consistente di attrezzi (anche senza assegnare alla libbra il valore ottimale di mezzo chilogrammo). 40 Sull'importanza della produzione di ferro delle miniere bresciane nel Medioevo cfr. R. Sprandel, Das Eisengerverbe in Mittelalter, Stuttgart 1968, p. 111 ss. 41 Inventari, cit., n. VIII/3, pp. 166-175 (a cura di A. Castagnetti), a p. 173. 42 Codex Diplomaticus Langobardiae, Torino 1873, n. CCCCXXII, cc. 730-731. Per questo documento vedi anche oltre, nota 49 e contesto.
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Il terzo polo della produzione di attrezzi in ferro, assieme ai centri signorili e all'artigianato contadino, era quello degli artigiani di mestiere, operanti nelle campagne o nelle citt. Le menzioni di fabbri specializzati si moltiplicano nei documenti gi a partire dai secoli IX e X43, attestando uno sviluppo progressivo della loro attivit e della loro rilevanza sociale, collegata con una prosperit economica che si manifesta nel possesso della terra44. Da questo punto di vista non forse senza significato trovare menzione di un Iohannes faber, possessore fondiario nel primo documento imolese conservatoci, risalente all'anno 96445. Fin dal secolo X, e poi nell'XI e nel XII, la documentazione imolese attesta una straordinaria presenza e vitalit di questa categoria artigiana, presente sia in citt sia negli insediamenti minori del contado46. Nello stesso castrum S. Cassiani, entro la cui area sono stati effettuati gli scavi di cui ci stiamo interessando abbiamo esplicitamente attestati almeno quattro fabbri47. Quanto alla tipologia degli attrezzi, alla loro conformazione, alla loro efficacia d'impiego, informazioni di questo tipo sono assolutamente eccezionali nelle fonti documentarie altomedievali: unica nel suo genere la descrizione dettagliata delle dimensioni che devono avere le falci fienaie fornite al monastero di Nonantola dal fabbro lombardo sopra ricordato, secondo il contratto dell'anno 90748. N molto pi utili risultano a tale scopo i trattati enciclopedici, come le Etymologie di Isidoro di Siviglia o il De universo di Rabano Mauro, costellati di ardite fantasie (o, al meglio, di dotte citazioni) anche l dove ci si attenderebbero descrizioni precise49. In realt, soprattutto i reperti archeologici, e in qualche misura l'iconografia, possono fornirci indicazioni concrete sugli attrezzi, sulla loro foggia e taglia, anche se il riscontro fra menzioni scritte, immagini e oggetti sempre delicato e spesso problematica l'instaurazione di precise corrispondenze, a volte a rischio di fraintendimenti50. Risultati concreti si possono tuttavia attendere, se la lettura delle fonti si unisce all'osservazione delle immagini51 e soprattutto all'esame - a cominciare dalla pesatura - degli oggetti giunti fino a noi.
Cfr. sull'argomento anche Modzelewski, La transizione, cit., pp. 75, 87. Cfr. C. Violante, La societ milanese nell'et precomunale, Bari 19742, p. 60. 45 S. Gaddoni G. Zaccherini, Chartularium Imolense, I, Imola 1912, n. 1, p. 4: a tercio latere [di una mansione que est edificata in monte castro Imola] tenente lobannes faber per livello de ipsius [del monastero di S. Vitale] iura. 46 Ivi, passim (si veda il dettagliato indice onomastico in fondo al II vol.). 47 Ivi,II, n. 738, a. 1140, p. 318: Ugo faber (cfr. 1, n. 78, a. 1144, p. 117: Ugo Iohannis fabri); 1, n. 208, a. 1160, p. 270 (Guido faber: cfr. n. 257, a. 1168, p. 322); n. 217, a. 1161, p. 281 (Romesinus faber: cfr. n. 218, a. 1161, p. 281); 11, n. 767, a. 1187, p. 358 (Bernardus faber). 48 Cfr. sopra nota 43 e contesto. L'interpretazione di queste misure, bench ostacolata dall'abrasione del testo nelle parti che ci interessano, pone alcuni problemi di interesse non secondario. Il documento stabilisce, che le falces prataricias bonas quindecim cum [.. .] ferreas eatum [. . .] sicut necesse est segandum. Sed tale debeant esse [. . .] ut sint unaquaque longa pedes legitimos doos manualis ad mediocrem haminem, quod sunt duos pedes, semisses quattuor [. . .]; che a mio awiso si potrebbe interpretare cos: ogni falce sia lunga due piedi, e il manico adatto ad un uomo di media statura, cio lungo due piedi e quattro semissi. In questo caso ci troveremmo di fronte ad un tipo di falce fienaia il cui manico ha scarso sviluppo in confronto alla lama forse del tipo "italico" descritto da Plinio in opposizione ad un tipo di manico lungo utilizzato ai suoi tempi in Gallia ed in seguito diffusosi altrove (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, ed. C. Mayheff, Leipzig 1892, XVIII, 28, 5 (261); cfr. White, Agricultural implements, cit., pp. 98-103). Caratteristica principale di questo attrezzo quella di tagliare l'erba non rasoterra, ma ad una certa altezza dal suolo, e di poter essere utilizzato con una mano sola. Esso inoltre - secondo l'indicazione di Plinio poteva essere maneggiato anche inter vepres, fra gli sterpi: destinazione, che certo poteva riuscire utile nell'Altomedioevo, quando la lotta all'incolto era un'attivit quotidiana del lavoro agricolo. Raffigurazioni medievali di falci di questo tipo provengono dall'area fiamminga dove ancora oggi esse sono in uso (cfr. ivi, p. 89, e tav. 10). 49 Sulla sostanziale astrattezza e ripetitivit dei trattati altomedievali vedi Fumagalli, Terra e societ, cit., p. 157 s. 50 Per gli equivoci derivanti, ad esempio, dalla non corretta identificazione dei vari tipi di falces menzionati dagli autori latini, in particolare a proposito della falx foenaria, cfr. J. Le Gall, Les 'falces' et la 'faux', in Etudes d'archologie classique, II, ( la mmoire de M. Launey), "Annales de l'Est", Mm. 22 (1959), 4, pp. 55-72. 51 Una raccolta sistematica di immagini del XII secolo (le raffigurazioni dei Mesi) che per la forte ripetitivit dei soggetti rappresentati si offrono come buon punto d'osservazione per l'indagine storica, ho condotto nella tesi di laurea, discussa nell'a.a. 1975-76 con il prof. V. Fumagalli presso l'Universit di Bologna: Iconografia e storia agraria: le occupazioni dei Mesi nell'arte medievale padana. In particolare cf. le pp. 2 ss., per una rassegna delle problematiche
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A titolo esemplificativo, vorrei soffermarmi sui problemi relativi alla identificazione dello strumento al quale era probabilmente fissato il coltello rinvenuto nello strato altomedievale degli scavi di Villa Clelia. Che si tratti di un attrezzo da taglio pi sostanzioso che un semplice coltello appare subito chiaro dalle sue dimensioni; la foggia ed il peso possono suggerirne l'identificazione con un coltro e l'appartenenza ad uno strumento aratorio. A questo proposito pu risultare utile un raffronto con il peso di alcuni coltri realizzati alla met del '400 da un fabbro casentinese. Sull'attivit di questo ha riferito Laura De Angelis, utilizzando un taccuino di lavoro in cui si trovano registrati peso e prezzo dei singoli manufatti eseguiti dall'artigiano52.Tra questi compaiono dodici coltri, il cui peso oscilla tra le 7 libbre e le 101ibbre e mezzo, cio tra i 2 e i 3 chilogrammi53. Il coltro rinvenuto a Imola pesa 2 chilogrammi e 3 etti. A che tipo di strumento aratorio apparteneva questo coltro? Non facile dirlo. Molto spesso degli aratri antichi non si conservano che le parti metalliche, cio il vomere e, quando sia presente, il coltro: ma sulla scorta di questi soli elementi non possibile risalire con certezza all'attrezzo originario. E questo tanto pi vero quanto pi ci si allontana nel tempo e scarsi sono i riferimenti per affrontare il problema nel suo insieme. Quali forme e quali caratteristiche tecniche avessero gli aratri in et medievale, nelle diverse aree geografiche e soprattutto in quella mediterranea, che stata finora la meno studiata54, resta un problema aperto55. La complessit e variet di attrezzi che caratterizzano le carte etnologiche d'Italia degli strumenti aratori56 invitano a guardarsi da eccessive semplificazioni57. Un utile criterio di classificazione, per individuare le caratteristiche discriminanti degli aratri, quello che li distingue in due classi principali in base alle caratteristiche tecniche delle parti lavoranti ed alle funzioni che esse assolvono58. Un primo tipo di aratro59 caratterizzato dal vomere
relative alla critica delle fonti iconografiche per ricerche di interesse rurale. Su questi temi vedi ora P. Mane, Calendriers et techniques agricoles (France-Italie, XIIe-XIIIe sicles), Paris 1983. 52 L. De Angelis, Intorno all'attivit di Deo di Buono, fabbro casentinese, "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 42932 (e Appendici, p. 433 ss.). 53 Ivi, p. 433. 54 Per l'Europa del Nord esistono numerosi contributi. Oltre al classico P. Leser, Entstehung und Verbreitung des Pfluges, Mnster i.W. 1931, un folto numero di interventi si pu reperire nella rivista danese "Tools and Tillage" edita a partire dal 1968 a cura di alcuni tra i pi qualificati specialisti del settore: A. SteensFerg, A. Fenton, G. Lerche. Si veda inoltre A. Steensberg, Aratro e colture nell'Europa nordica medievale, "Quaderni Storici, XXXI (1976), pp. 85-109, con una aggiomata bibliografia. Per il Bassomedioevo, un'indagine puntuale stata condotta da S. Anselmi, Piovi perticari e buoi da lavoro nell'agricoltura marchigiana del XV secolo, ivi, pp. 202-28. 55 Un approccio metodologico alla problematica d'insieme, con particolare riguardo alle fonti iconografiche, offerto da B. Gille, Recherches sur les instruments du labour au Moyen Age, "Bibliothqe de l'Ecole de Chartes", 1962, pp. 1-38. 56 Si veda ad esempio in C. Grassi, Parole e strumenti del mondo contadino. L'aratro, Storia d'Italia Einaudi, VI, Torino 1976, pp. 471-5, una carta degli aratri basata essenzialmente sulle caratteristiche costruttive degli strumenti. Per una rappresentazione cartografica che tenga conto della distinzione di tipo funzionale, tra aratri simmetrici e aratri asimmetrici, con particolare riguardo per questi ultimi, vedi G. Forni, Aratri ed altri mezzi tradizionali mantovani per la lavorazione del suolo, nella storia generale dell'aratro, in Arte e lavoro nella civilt padana, San Benedetto in Polirone 1977, pp. 213-30, a p. 223. 57 Gli studi di Steensberg relativi all'Europa del Nord e quelli di Anselmi pertinenti l'area marchigiana (vedi sopra, nota 54) invitano ad attenuare e articolare la tradizionale separazione fra Europa mediterranea, area dassica di diffusione dell'aratro "semplice", ed Europa del Nord dove troverebbe largo impiego l'aratro "pesante". In proposito cfr. la letteratura ricordata da Anselmi (anche se egli non ha potuto evitare un incidente di lettura dovuto alla ambigua traduzione di un brano di J. Heers, Le Travail au moyen ge, Paris 19682, p. 19; infatti, nell'edizione italiana del lavoro (Messina 1973, p. 24) i termini aratro e coltro mal restituiscono, in una lingua che non ha conservato due temmini distinti per indicare i due tipi di aratro, rispettivamente i francesi charrue ed araire. Da ci prende origine l'equivoco per cui l'area di diffusione dei singoli strumenti nella traduzione italiana, capovolta rispetto all'originale, inducendo Anselmi ad accogliere questa tesi come altemativa a quella della storiografia tradizionale). La ricerca di Anselmi ha dimostrato come si possa verificare la compresenza di diversi strumenti aratori in una stessa area, coerentemente con esigenze diverse di coltura e di lavorazione del suolo. 58 A. G. Haudriccurt, M. J. Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue travers les sicles, Paris 1955. Sull'importanza e la maggiore funzionalit di tale classificazione rispetto ad altre precedenti cfr. C. Poni, Gli aratri e l'economia agraria

simmetrico, eventualmente accompagnato da due ali egualmente simmetriche, che esegue un lavoro superficiale di scasso sollevando ai lati le zolle del terreno smosso. Asimmetriche, invece, le parti lavoranti dell'altro tipo di aratro, in cui il vomere presenta una met pi sviluppata, e la sua azione di taglio orizzontale della zolla completata dalla presenza, sul medesimo lato dello strumento, di un asse obliquo che ha la funzione di rivoltare completamente la zolla: il versoio60. Questo strumento asimmetrico - che una proposta vorrebbe fosse chiamato plovo61, richiamandosi ad una terminologia gi in uso nei secoli scorsi in Italia62 e che si riallaccia ad una radice comune alle lingue germaniche per indicare l'aratro asimmetrico63 - pratica sul terreno un lavoro pi profondo, grazie anche all'azione trinciante di un coltello - il coltro posto verticalmente sull'asse del timone, davanti al vomere 64. Se ci si dilungati su questa distinzione per un motivo non secondario alla questione che a noi interessa. Infatti, molti storici sono concordi nell'assegnare alla diffusione dell'aratro asimmetrico un ruolo di protagonista in quella che viene definita la "rivoluzione agraria medievale, che avrebbe interessato tutta l'Europa occidentale, compresa l'Italia settentrionale, a partire dal secolo XI65. Tuttavia, a tutt'oggi i tempi e le aree di diffusione dell'aratro asimmetrico nell'Europa medievale restano per gran parte da defnire66. Nulla, poi, sappiamo del suo ruolo nell'area padana. Ci che pu essere utile in questo momento cercare di definire i termini del problema per quanto riguarda l'area che a noi interessa, in modo da poter mettere a frutto ogni informazione che come il ritrovamento imolese - possa apportare nuovi contribuiti all'indagine.
nel Bolognese dal XVII al XIX secolo, Bologna 1963, p. 6. In seguito F. Sach, Proposal for the Classifcation of Prelndustrial Tilling Implements, "Tools and Tillage", I (1968), pp. 3-27, ponendosi 1'obiettivo di separare nettamente il punto di vista fommale da quello funzionale, ha inteso offrire due differenti schemi d'indagine (cio due diversi tipi di classificazione, che tengano rispettivamente conto della distinzione betwecn the kind of am implement according to ils function and the type according to its shape) per la ricerca sulle basi materiali di una societ, da uma parte, e quella etnologica dall'altra. M. J. Brunhes Delamarre, nel recensire il lavoro di Sach, esprime alcune riserve sul metodo adottato, osservando che la ripartizione proposta non tiene conto della forza motrice (attelage) e ribadendo i pericoli insiti in una classificazione formaliste degli strumenti aratori, basata unicamente sui criteri costruttivi ("Etudes rurales", 1970, pp. 129-31). 59 Questi aratri possono avere, in circostanze deterrninate, diversi montaggi dando luogo a strumenti abbastanza differenti tra loro. Vedi ad esempio i primi risultati di una ricerca sul campo condotta da G. Caselli, Per uno studio tipologico dell'aratro con particolare riferimento alla regione toscana, "Archeologia Medievale", IV (1977), pp. 28196, che adotta, se pure con qualche riserva, la tipologia degli aratri simmetrici proposta da Haudricourt e Brunhes Delamarre, offrendone una sintetica documentazione grafica ed iconografica. 60 Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., p. 15. La distinzione fra i due tipi di aratri, come ha ben messo in luce Carlo Poni, gi era esposta con chiarezza e propriet di linguaggio dell'agronomo bolognese Vincenzo Tanara, il quale, nel descrivere gli aratri in uso nel "piano" bolognese alla met del '600, scriveva: Il pi non ha che una tavola e non alza che una gleba over laga. Ma l'ar, che ha due tavole quali in punta si vanno a congiunger sopra il vomero, alza due glebe rivolgendone una da una parte e una dall'altra (Poni, Gli aratri, cit., p. 4; cfr. V. Tanara, L'economia del cittadino in villa, Bologna 1644, p. 411). 61 Forni, Aratri, cit., p. 35s, poi ripresa in Una proposta terminologica per semplifcare e chiarire la nomenclatura italiana dell'aratro, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XVII (1977), 3, pp. 137-44. 62 Forni, Una proposta, cit. pp. 140-2. Una interessante serie di dati linguistici collegati alla voce plovum, tratti dail'Atlante Linguistico Italiano per precisare la diffusione geografica del temmine, in G. B. Pellegrini, Terminologia agraria medievale in Italia, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'Alto Medioevo, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 22-28 aprile 1965, Spoleto 1966, pp. 605-61, a p. 620s (nota 13). 63 Diversamente che nella lingua italiana, infatti, come noto, in molte lingue europee si sono mantenuti due diversi temmini per indicare le due diverse classi di strumenti (ibid). 64 L'impiego dell'uno o dell'altro tipo di aratro d luogo ad una lavorazione profondamente diversa dal suolo, che lascia tracce evidenti nei rialzi del terreno (Steensberg, Aratro e colture, cit., p. 86). Per le connessioni aratro/forma dei campi il dibattito ripreso nelle sue linee essenziali in Anselmi, Piovi perticari e buoi, cit., nota 9, p. 217. 65 Cos, ad esempio, il Duby ritiene possa giustificarsi il successo agricolo verificatosi nell'Europa dell'XI-XII secolo (Il problema delle tecniche agricole, in Id. Terra e nobilt nel Medio Evo, Torino 1971, pp. 36-47: trad. del testo gi pubblicato in Agricoltura e mondo rurale, cit., pp. 267-83). 66 Diverse ricerche archeologiche hanno interessato l'area danubiana. Sui loro risultati cfr. Forni, Una proposta, cit., p. 139.

Molti studiosi concordano nell'affermare che il mondo romano conobbe esclusivamente aratri simmetrici, adatti a suoli leggeri ed accidentati come quelli mediterranei, sui quali essi praticano uno scasso non troppo profondo, che rimuove la terra evitando una eccessiva evaporazione ed erosione67. Tra gli scrittori latini, Plinio quello che ha descritto gli aratri in uso ai suoi tempi con maggior ricchezza di dettagli, come sempre attento ad annotare curiosit e novit68. Come noto, grazie ad un passo della sua Naturalis Historia, in cui sono elencati diversi tipi di vomeri e lame per aratri, che siamo informati che nel I secolo d.C. era conosciuto e diffuso - perlomeno in Rezia - un tipo di aratro dotato di un ampio vomere e che presentava una novit allora piuttosto eclatante rispetto agli strumenti aratori mediterranei familiari a Plinio: la presenza di un avantreno a ruote69. Se un tale tipo di aratro si sia presto diffuso anche in area padana, non sappiamo. Contribuisce per a farlo credere la nota testimonianza di Servio, del IV secolo, che nel commentare un passo delle Georgiche (1, 174), identifica il currus del testo virgiliano con un tipo di aratro munito di ruote diffuso ai suoi tempi nella regione nativa del poeta, l'area mantovana70. Da un punto di vista tecnico, l'adozione delle ruote non implica necessariamente un diverso tipo di aratura; essa tuttavia sembra rappresentare la risposta pi idonea alle esigenze di lavorazione di suoli pesanti e argillosi, dove la tendenza dell'aratro ad infossarsi non pu essere facilmente arrestata come nei suoli pi leggeri del Sud - dalla pressione del piede e della mano dell'aratore71. L'aratro a ruote probabilmente rappresent una fase intermedia di evoluzione dall'aratro simmetrico a quello asimmetrico72. Grazie al miglioramento della trazione fu facilitato, su terreni pesanti e in climi piovosi, l'impiego di un aratro che adottasse vomeri di pi ampie dimensioni, rendendosi inoltre possibili nuove e importanti trasformazioni dello strumento. L'applicazione del versoio e, pi tardi, del vomere asimmetrico e del coltro sarebbero stati perfezionamenti ulteriori dell'attrezzo, che gli avrebbero conferito la sua conformazione pi tipica ed una pi completa effcacia di lavoro. La localizzazione e l'individuazione delle fasi di questa evoluzione presentano tuttavia alcuni problemi, dovuti sia alla scarsit del materiale documentario che alla reale difformit del processo. Per ci che concerne i reperti archeologici, va tenuto presente che il vomere continu probabilmente a lungo ad essere fabbricato in forma simmetrica, bench montato su strumenti di tipo asimmetrico73: ci pu rendere difficile interpretare correttamente ritrovamenti archeologici di vomeri e capire a che tipo di aratro appartenessero. La presenza, poi, del coltro, se non affiancata
In talune occasioni essi potevano essere inoltre usati obliquamente, per eseguire una aratura inclinata. Le descrizioni di aratri romani giunte fino a noi non sono numerose, e per lo pi attinenti alle singole parti con particolare interesse per l'etimologia dei temmini che le designano. Uno studio approfondito di tali menzioni, unitamente ad una documentazione relativa all'iconografia contemporanea ed ai reperti archeologici stato condotto da White, Agricultural implements, cit., pp. 123-45 (si vedano anche le tavv. 10, 11, 12). 69 Plinio, Naturalis Historia, cit., XVIII, 172: latior haec quarto generi et acutior in macronem fastigata eodemque gladio scindens solum et acie laterum radices herbarum secans, non pridem inventum in Raetia Gadioe duas addere tali rotulas, quod genus vocant plaumorati, cuspis effigiem palue habet. Il brano, lacunoso, presenta non poche difficolt di interpretazione, e ha dato luogo a diversi emendamenti, soprattutto per il temmine plaumoratum che compare solo in questo passo. Cfr. White, Agricultural implements, cit., pp. 141, 213. Una aggiomata letteratura sull'interpretazione del temmine segnata in Forni, Una proposta, cit., p. 138. 70 Currus autem dixit propter morem provinciae suae in quo aratra habent rotas quibus iurantur (Servii grammatici qui feruntur in Vergilii Bucolica et Georgica commentarii, ed. C. Thilo, Leipzig 1887, III, 1, 173). Motivi di ordine filologico oltre che tecnico hanno indotto a ritenere errata l'interpretazione di Servio, che porterebbe ad anticipare di alcuni secoli la comparsa di un avantreno a ruote fissato all'aratro. Cfr. Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., pp. 100-2. Ancora di recente, tuttavia, Steensberg (L'aratro nell'Europa nordica, cit., p. 88) ha sostenuto che gi Virgilio descrive un assolcatore fissato su un carro a ruote di uso comune nelle terre di Lombardia. Lo stesso in M. Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, Torino 1973, p. 61. 71 Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., p. 330 ss. (anche per quanto segue). Per M. Bloch (I caratteri, cit., p. 60) la presenza o meno delle ruote costituisce la caratteristica discriminante delle diverse tipologie di aratri. 72 Un aratro di questo tipo raffigurato su una formella bronzea collocata nel portale di S. Zeno a Verona, realizzata verso la met dell'XI secolo. 73 Gille, Recherches, cit., p. 30.
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da altri elementi, difficilmente rappresenta, da sola, un elemento sufficiente a stabilire che ci si trova in presenza dei resti di un aratro asimmetrico. Come vedremo, il coltro poteva anche far parte di uno strumento aratorio dotato di questa sola lama74. Da ultimo, bisogna tener conto del fatto che il versoio fu per lungo tempo costruito in legno, e quindi pu non aver lasciato tracce di s nel terreno. Un esame sistematico della documentazione iconografica a questo proposito potrebbe offrire informazioni molto utili, sia riguardo alla cronologia, sia riguardo a problemi pi strettamente tecnici75. Nella documentazione scritta, per l'area che a noi interessa, un primo possibile accenno all'esistenza di due distinti strumenti aratori si trova nell'editto di Rotari (anno 643) al capitolo 288, De plovum76. A quale tipo di aratro il termine plovum, qui giustapposto ad aratrum, si riferisca, impossibile sapere; certo per che pi tardi un termine derivante dalla stessa radice indichier l'aratro asimmetrico in molti paesi dell'Europa nord-occidentale, ed anche nella documentazione dell'area padana e marchigiana77. In seguito, per tutto l'Altomedioevo, la documentazione scritta dell'Italia padana non sembra fare alcun accenno alla tipologia degli aratri, n, tantomeno, al plovum. La maggior parte delle menzioni che abbiamo registrato sono riservate - abbiamo visto - al vomere: tra i censi in natura costituiti da manufatti in ferro, i vomeri hanno la preminenza assoluta78; ma nulla ci dato di sapere sulla sua conformazione, n gli scavi, per quanto a mia conoscenza, hanno portato nell'area padana contributi di qualche interesse. Si potrebbe tuttavia pensare che l'assenza di menzioni dell'altra parte dell'aratro asimmetrico necessariamente in ferro, il coltro, significhi molto semplicemente che esso non era ancora utilizzato, e che l'unico tipo di strumento in uso sia rimasto a lungo il tradizionale aratro simmetrico, anche sui terreni della bassa pianura padana, sui quali la sua azione poco efficace avrebbe certamente dovuto essere completata dal lavoro della vanga. L'unico riscontro documentario relativo ad un coltro non ci fornisce elementi sufficienti per sapere esattamente di che cosa si tratti. In un documento dell'anno 853, in cui compare 1'unico elenco di strumenti a disposizione di un colono, tra gli altri si trova ricordata cultra una: certo uno strumento da taglio di notevoli dimensioni, ma non sappiamo con certezza a quale uso adibito79. In questa situazione, il ritrovamento a Imola di un coltro, databile intorno agli inizi dell'XI secolo, costituisce un dato di notevole interesse, che forse pu indurre la soggestiva ipotesi di una precoce testimonianza di uno strumento aratorio di tipo asimmetrico in un'area in cui esso certamente diffuso alcuni secoli pi tardi80. Ma la scarsit di indizi documentari (scritti, iconografici, archeologici) non permette di prendere chiaramente posizione in questo senso; n, forse, va
Cfr. oltre, nota 82 e contesto. Si vedano ad esempio gli interessanti risultati di una breve indagine sulle miniature inglesi tra X e XIV secolo, che ha portato ad una prima periodizzazione della diffusione di differenti strumenti aratori nell'isola (Gille, Recherches, cit., p. 10). 76 Si quis plovum aut aratrum alienum iniquo animo capellaverit, conponat solidos tres, et si furaverit, reddat in actogild (Edictus ceteraeque Langobardorum leges, ed. F. Bluhme, Monumenta Germaniae Historica, Fontes iuris Germ. antiqui in us. sch., Hannover 1869, p. 57). 77 Uno spoglio della documentazione per aree ben detemminate, volto a individuare la comparsa di termini legati alla stessa radice del plovum di Rotari, di cui danno sporadica testimonianza i dizionari, sarebbe a mio avviso una ricerca fruttuosa. 78 Vedi sopra, p. 159. 79 Vedi sopra, nota 19 e contesto. Ancora per tutto il Medioevo il termine mantenne questo significato: nel D e controversia mensium di Bonvesin de la Riva (seconda met del XIII secolo) Novembre brandisce un cultrum [. . . acutum, quo porcos iugulat. Cfr. G. Orlandi, Letteratura e politica nei 'Carmina de mensibus' ('De controversia mensium') di Bonvesin da la Riva, in Felix Olim Lombardia. Studi di storia padana dedicati dagli allievi a Giuseppe Martini, Milano 1978, pp. 103-95, a p. 160 (vv. 264-5). Nella redazione volgare del componimento, ad opera dello stesso autore, leggiamo: Novembre pigli in man un cortel de bech). Cfr. G. Contini, Le opere volgari di Bonvesin da la Riva, Roma 1941. Sui vari significati di cultrum in et medievale vedi il Glossarium del Du Cange, s.v. 80 Esso doveva ormai essere largamente diffuso quando lo statuto della Societ dei Fabbri di Bologna del 1397, suddividendo in dieci gruppi (membri) gli artigiani del ferro attivi in citt, ne disciplina la produzione prevedendo tra l'altro la fabbricazione di coltre da pio da parte del membro dei fieri gruossi e di feracieri. Cfr. M. G. Tavoni, Gli statuti della societ dei Fabbri dal 1252 al 1579, Bologna 1974, p. 52.
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trascurata l'ipotesi, sopra accennata, che una lama di tal fatta fosse collocata su uno strumento indipendente, come quello di cui abbiamo notizia per l'et romana. L'interesse suscitato dal passo di Plinio ricordato poc'anzi ha lasciato un po' in ombra il resto del brano, in cui l'autore descrive i diversi tipi di lame utilizzabili per fendere il terreno. Delle quattro ricordate, una in particolare detta culter, ed cos descritta: si chiama "coltro" il ferro ricurvo usato per tagliare la terra dura prima che essa venga pi profondamente scassata dal vomere che ne segue le tracce81. E questa l'unica menzione di un culter adibito ad uso aratorio negli scrittori latini. Esso stato identificato non come parte dell'aratro, ma come uno strumento a s stante- simile a quello oggi ancora in uso in alcune zone dell'area alpina- diverso e staccato dall'aratro vero e proprio, la cui funzione quella di tagliare il terreno verticalmente per facilitare il successivo passaggio del vomere nell'aratura di terreni pesanti o ghiacciati durante l'inverno82. Non da escludersi che uno strumento del genere fosse in uso nell'Italia del Nord medievale: una verifica sul piano iconografico renderebbe l'ipotesi pi attendibile. Allo stato attuale delle ricerche, il ritrovamento di un pezzo isolato non sufficiente ad individuare a quale tipo di strumento aratorio esso appartenesse. Tuttavia, nel caso imolese, sia che si voglia attribuire il coltro ad un aratro vero e proprio, sia che si ipotizzi l'esistenza di uno strumento separato, chiaro che ci troviamo di fronte ad un attrezzo che risponde alla necessit di una lavorazione pi profonda del terreno83, al rinnovamento del quale non era ritenuto sufficientemente idoneo il solo scasso del vomere di un aratro simmetrico, in un'area in cui, pi tardi, l'aratro asimmetrico avr larga diffusione.

Plinio, Naturalis Historia, cit., XVIII, 171: culter vocatur inflexus praedensam, priusquam proscindatur, terram secans futurisque sulcis vestigia praescribens incisuris, quas resupinus in arando mordeat vomer. Per le diverse interpretazioni a cui il passo ha dato origine, soprattutto in relazione alla conoscenza a posteriori dell'impiego moderno del coltro nell'aratro asimmetrico, cfr. White, Agricultural implements, cit., p. 132. Sull'argomento vedi G. Forni, Latino rustico culter = vomere o coltello d'aratro? Aspetti ergologico-storici e semantici dell'etimologia dell'italiano coltro, in "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XXVI (1986), 1, pp. 23-35. 82 Cfr. Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., p. 108 ss. Il ritrovamento di coltri di epoca romana in Gran Bretagna e in Irlanda ha fatto supporre ad alcuni studiosi l'esistenza di aratri di tipo asimmetrico in quei paesi per l'epoca romana. Tuttavia, secondo Haudricourt e Brunhes Delamarre, tale interpretazione sarebbe da respingere in quanto distorta dall'esperienza moderna (analoghi rilievi, sul piano documentario, possono essere rivolti alle interpretazioni di cui alla nota precedente). 83 Forse non senza significato ricordare, con Haudricourt e Brunhes Delamarre (L'Homme et la charrue, cit., p. 110), che strumenti di questo tipo - coutriers - non si trovano nelle regioni mediterranee dal suolo leggero ed asciutto, che richiede generalmente una aratura superficiale: aPline avait d en voir ou entendre parler, propos de rgions plus septentrionales, au climat plus humide et au sol plus profond et compact (ivi, p.111).

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I resti organici

I1 cantiere archeologico appare sempre pi un laboratorio dove si incontrano e si confrontano "scienziati" e "umanisti", dove lo stesso confine fra le due culture si confonde: non infatti improbabile trovare archeologi che si specializzano in settori di ricerca che sembravano off limits, come ad esempio problemi di carattere mineralogico, petrografico e paleobotanico per poter impostare correttamente analisi che altrimenti risultano inutili appendici ed abbellimento di edizioni di scavo, oppure "scienziati" confrontarsi con i problemi della stratigrafia di un determinato sito per cogliere il senso del proprio lavoro in laboratorio. I1 deposito archeologico oggi non viene pi selezionato, esso stesso, materialmente, fonte di ricerca con il suo contenuto "naturale", attraverso la lettura sedimentologica e dei pollini possibile ad esempio contribuire alla ricostruzione dei quadri ambientali, individuando diffusioni di specie arboree altrimenti non documentabili; oppure attraverso la raccolta dei materiali osteologici contribuire ad una storia dell'alimentazione che offre quantit e qualit di informazioni che integrano, surrogano e parlano al posto di un'informazione scritta disomogenea e da un punto di vista cronologico e da un punto di vista geografico. I problemi della raccolta dei dati e della loro elaborazione insieme ad una prima sintesi generale sono i temi del saggio elaborato da Maria Ginatempo riproposto nelle pagine seguenti1 relativo al problema di una storia alimentare fondata sulla base dei materiali archeozoologici, che pone fra l'altro il problema del valore del campione archeologico in una prospettiva estremamente concreta e stimolante.
1

Archeologia Medievale", XI (1984), pp. 35-61.

Maria Ginatempo Per la storia degli ecosistemi e dell'alimentazione medievali: recenti studi di archeozoologia in Italia

Alla storia dell'alimentazione sono possibili, com' noto, diversi tipi di approccio. E non soltanto in base al differente tipo di fonti utilizzate (documentarie e letterarie; archeologiche; iconagrafiche; orali ecc.) oppure in base alle necessarie "deviazioni" specialistiche che quest'area tematica pu richiedere. L'alimentazione infatti appare come un nodo in cui confluiscono, si intersecano e possono essere osservati molti degli aspetti o livelli secondo i quali si considera generalmente suddivisa o composta la realt che si vuole analizzare. A seconda delle scelte di priorit, dunque, e analogamente ad altri was ist disciplinari, come ad esempio la cultura materiale, lo studio dell'alimentazione pu prendere direzioni tra le pi divergenti. All'interno di ogni sistema alimentare che si intende ricostruire sembrano infatti giocare contemporaneamente: le strutture ambientali, cos come sono date per condizionamento "naturale" e soprattutto per condizionamento e modificazione umana (si mangia ci che l'ambiente in grado di produrre); le strutture tecnico-produttive, sia per quanto riguarda direttamente la produzione alimentare, sia meno immediatamente per quanto riguarda l'organizzazione tecno-economica nel suo complesso (si ma mangia ci che l'uomo in grado di produrre); le strutture degli scambi e le stratificazioni sociali, sia nel senso della circolazione e distribuzione dei beni alimentari (ripartizione dei prodotti e differenziazioni sociali dei consumi: non sempre si mangia ci che si produce), sia in relazione ai modi complessi in cui i rapporti di produzione retroagiscono o determinano la produzione stessa (ripartizione dei mezzi di produzione e livello delle forze produttive, ma anche in senso ristretto influenza dei mercati, ecc.); infine, ma senza pretese di esaurire l'argomento, le strutture mentali, i rituali, il linguaggio e l'estetica alimenare, sia nel caso di preferenze alimentari non motivabili con un determinismo tecno-ambientale, sia per ci che concerne le tecniche di preparazione dei cibi e tutti quei sottili meccanismi di identificazione etnica o sociale che passano attraverso il gusto e la qualit dei cibi, o pi in generale attraverso il numero praticamente infinito di associazioni alimentari possibili, anche a partire da un numero finito di prodotti e dai ferrei condizionamenti biologici dell'organismo umano1. Impossibile poi dimenticare un altro aspetto fondamentale che traversa tutti quelli frettolosamente elencati, ossia le retroazioni che le strutture alimentari hanno sulla storia del corpo. Accanto allo studio delle tecniche del corpo e delle modificazioni storiche e sociali della struttura fiscia (e genetica) dell'organismo umano a queste connesse, a fianco della paleopatologia e della storia della medicina, non possono certo mancare studi che, assunta l'alimentazione come uno dei

Cfr. per quest'ultimo aspetto in generale A. Leroy Gourhan, Il gesto e la parola , trad. it. Torino 1977, pp. 338-45 e F. Braudel, Capitalismo e civilt materiale (secoli XVXVIII), trad. it., Torino 1977, pp. 126-97. Pi specificamente per il Medioevo i lavori e le tendenze ricordati in G. Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, "Studi Storici", 3 (1982), pp. 603-15 a p. 612, in margine al convegno Problemi di storia dell'alimentazione nell'Italia medievale promosso da Archeologia Medievale. Su alcune preferenze alimentari divergenti dall'andamento dei prezzi dei prodotti G. Pinto, Le fonti documentarie bassomedievali, "Archeologia Medievale", VIII (1981) pp. 39-58, a p. 57 s. Su alcuni rituali legati al ruolo alimentare della castagna G. Chernbini, La civilt del castagno in Italia alla fine del Medioevo "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 247-80, a p. 279 s.

principali veicoli delle stesse modificazioni storiche del corpo umano, tendano a comprendere e mettere a fuoco il peso delle strutture alimentari sul piano demografico, economico-produttivo2. Un tipo di approccio, per, pu essere quello che, senza operare alcuna scelta di priorit, finisce, pur partendo da intenti rigorosamente e ottimamente interdisciplinari, per circoscrivere il campo dell'alimentazione finalizzandolo a se stesso, per creare - analogamente a quanto avvenuto per la cultura materiale o per i villaggi abbandonati o per l'abitazione rurale - un contenitore tematico, estremamente fecondo e ricco di stimoli, ma destinato quasi a essere demotivato dalle stesse ricerche a cui ha dato origine o rinnovata vitalit. Questo tipo di approccio latente, mi pare, in alcuni dei saggi dell'ottavo numero di Archeologia Medievale, interamente dedicato alla storia dell'alimentazione medievale- sembra infatti comportare alcuni rischi. Ad esempio il rischio di un descrittivismo, connesso probabilmente con il fatto che lo scopo risulta quello di ricostruire l'alimentazione in una data situazione, piuttosto che risalire dalle strutture alimentari ad altre strutture portanti dello stesso contesto. Oppure il rischio opposto di uno sforzo di modellizzazione all'interno del "contenitore" - a titolo di esempio si ricordino i tentativi di definire una volta per tutte il motivo chiave dell'abbandono dei villaggi, che pure sono stati fatti - sforzo che non pu che vanificarsi di fronte all'evidente differenziarsi e opporsi dei contesti, di fronte a ci che rimane in qualche modo esogeno al "contenitore", ma che risulta alla fin fine molto pi significativo. Infine, un altro inconveniente sembra quello strettamente metodologico dell'uso di procedimenti circolari, di serpenti che si mordono la coda, al fine di colmare le lacune o le incertezze delle fonti. Intendo dire che quando si deve fare i conti con fonti indirette, frammentarie o di difficile quantificazione - e se si parla di societ medievale ci awiene molto di frequente - e all'interno di questo tipo di approccio, appare a volte legittimo owiare a carenze o distorsioni dei dati sull'alimentazione, o meglio sui consumi alimentari, ricorrendo ad esempio a informazioni sulla struttura ambientale o tecnicoproduttiva, e alle carenze dei dati su quest'ultima con i dati sull'alimentazione, usando cos indifferentemente l'uno e l'altro ordine di informazioni, magari contemporaneamente, come indicatori e come "indicata". In questo senso le scelte di priorit possono consentire una collocazione stabile degli indicatori indiretti, e di conseguenza un pi accurato controllo e una resa euristica migliore. Ma, un esempio pu forse chiarire meglio tutto ci. Ammesso che solo raramente ci si trova di fronte a situazioni di completa coincidenza di produzione e consumo, se l'interesse del ricercatore , poniamo, verso la capacit di resistenza alle malattie o verso i ritmi dello sviluppo puberale nei cui confronti, com' noto, svolgono un ruolo improtante i consumi alimentari (o meglio il bilancio proteico), le informazioni sulle strutture ambientali, sul rapporto agricoltura/allevamento, o in generale sulla produzione carnea o casearia possono costituire degli ottimi indicatori indiretti e fornire preziosi elementi sulle strutture alimentari, ma chiaro che parleranno correttamente solo se controllati e accuratamente tarati in base alle variabili connesse con le direzionalit sociali, sia a livello quantitativo che qualitativo, dei surplus alimentari. Allo stesso modo, se l'interesse si dirige verso le strutture ambientali e le forme di sfruttamento del territorio, i dati sui consumi alimentari possono dirci molto sulla produzione e possono essere assunti come indicatori indiretti del sistema ecoculturale entro il quale sono avvenuti, ma necessario - prioritario, direi - trovare gli strumenti pi adatti per renderli fruibili e depurarli dagli elementi di "disturbo" costituiti essenzialmente dal divergere di produzione e consumo, o meglio per individuare, valutare e collocare all'interno di un sistema complesso questi stessi elementi.
Cfr. ad esempio M. S. Mazzi, Consumi alimentari e malattie nel Basso Medioevo , "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 321-37 e Id., Salute e Societ nel Medioevo, Firenze 1978, pp. 158 ss.; A. M. Nada Patrone, Il cibo del ricco ed il cibo del povero. Contributo alla storia qualitativa dell'alimentazione. L'area pedemontana negli ultimi secoli del Medioevo, Torino 1981 e Id., Trattati medici diete e regimi alimentari in ambito pedemontano alla fine del Medioevo, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 369-92; G. Forniciari, F. Mallegni, Alimentazione e paleopatologia, ivi, pp. 353-68.
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Entriamo cos nel cuore stesso del discorso. I reperti archeozoologici si presentano essenzialmente come fonti sui consumi carnei, sia perch provengono per lo pi da avanzi di pasto, sia perch il primo e pi consistente livello di informazioni da essi offerte concerne comunque il rapporto uomo/animale (sia selvatico che domestico) in termini di uccisioneconsumo, in particolare per i contesti urbani ma anche per gli insediamenti rurali3. D'altro canto, l'interesse prevalente negli studi di archeozoologia - e in chi scrive - si focalizza sulla possibilit di far luce sugli ecosistemi del passato4 a partire dal settore nevralgico dell'allevamento e della produzione di beni alimentari proteici, ossia su quello che possiamo considerare come un secondo livello di informazioni dei reperti faunistici e che si riferisce al rapporto uomo/animale vivo. In base a questa scelta di priorit - operata sempre entro il campo della storia dell'alimentazione o almeno a partire da esso - si determina l'oggetto della nostra discussione. Assunta la divergenza tra produzione e consumo come asse protante dell'intera riflessione e la subordinazione delle informazioni archeozoologiche sui sistemi produttivi a quelle sui consumi come punto di partenza, si concentrer l'attenzione sulla fruibilit dei reperti faunistici per la storia degli ecosistemi medievali e su alcuni metodi per aumentare o realizzare questa fruibilit. Si cercher inoltre di fare il punto dei risultati a tutt'oggi ottenuti in Italia dalla ricerche in questo senso. L'ottica in cui Graeme Barker da un lato e Judith Cartledge dall'altro propongono di analizzare i problemi della rappresentativit dei campioni faunistici consiste nella ricostruzione - il pi dettagliata possibile - della storia del campione stesso, dall'animale vivo al reperto che giunge sul tavolino dell'archeozoologo dopo aver subito una serie complessa di modificazioni, sia umane che naturali5. Judith Cartledge propone di vedere ci come quattro processi: 1. produzione, allevamento o cattura; 2. attivit successive alla morte dell'animale; 3. trasformazioni successive all'interramento;
A proporre di vedere le potenzialit delle fonti archezoologiche in termini di ricostruzione del rapporto umano/animale J. Cartledge, Faunal Studies and urban archeology, in Archeology and Italian Society, a cura di G. Barker e R. Hodges, Oxford 1981, pp. 91-7 a pp. 91 e 93. Cfr. anche M. Montanari, L'alimentazione contadina nell'alto Medioevo, Napoli 1979 p. 244s. 4 naturalmente ii pi vicino alle suggestioni della nuova e stimolante epistemologia archeologica (si veda sul paradigma ecologico Ga. Maetzke, Metodi e problemi dell'analisi delle fonti archeologiche, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 9-24, a p. 14s.; in generale sulla new archaeology, l'ecologia culturale e il materialismo antropologico, G.Kezich, Tra materialismo e metafisica. Note sulla cultura materiale, "La Ricerca Folklorica", 2 (1980), pp. 130-5, a pp. 132-5, J. Barrau, Ecologia, in Il laboratorio dell'etnologo, a cura di R. Cresswell, Bologna 1981, II, pp. 13-59 e anche B. Hodges, Method and Theory in medieval Archeology, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 7-37; cfr. inoltre Gu. Maetzke e altri, Problemi dell'analisi descrittiva sui siti archeologici pluristratificati, "Archeologia Medievale", IV (1977), pp. 7-45 e il pi vicino agli interessi della nuova storiografia agraria (cfr. a questo proposito quanto ricordato da M. Montanari, Storia, alimentazione e storia dell'alimentazione: le fonti scritte altomedievali, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 25-38, a p. 32 o, a titolo di esempio, la sintesi di G. Cherubini, Le campagne italiane dall'XI al XV secolo, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, IV, Torino 1981, pp. 265-448 o Montanari, L'alimentazione contadina, cit. o P. Toubert, Feudalesimo mediterraneo. Il caso del Lazio medievale, ed. it., Milano 1977 sul Lazio altomedievale, o G. Pinto La Toscana nel Tardo Medioevo. Ambiente, economia rurale, societ, Firenze 1982, cap. I sulle strutture ambientali della Toscana tardomedievale). Si veda inoltre G. Barker, R. Hodges, Archeology in Italy, 1980: new directions and mis-direcrions, in Archeology and Italian Society, cit., pp. 1-16, in generale sui nuovi indirizzi dell'archeologia italiana. In generale sui problemi dell'analisi dei consumi e sulla loro irrinunciabile dimensione sociale cfr. W. Kula, Problemi e metodi della storia economica, Milano 1972, pp. 224 ss., sulle fonti archeologiche pp. 300-10. L'unico studio di archeozoologia divergente da queste direzioni risulta quello di Ch. Beck Bossard, L'alimentazione in un villaggio siciliano del XIV secolo sulla scorta delle fonti archeologiche, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 311-20, focalizzato consapevolmente sulla ricostruzione dei regimi alimentari, piuttosto che dei sistemi produttivi. 5 G. Barker, Studi sulla fauna e l'economia medievale in Italia , "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 59-70, a pp. 60 ss.; Cartledge, Faunal studies, cit., p. 91.
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4. scavo (archeologico). Barker considera l'azione di "disturbo" di 5 fattori: 1. selezioni alimentari non coincidenti con il sistema produttivo; 2. luoghi, tempi e modi di macellazione; 3. tipi di seppellimento; 4. caratteristiche del suolo; 5. metodi e tecniche di scavo. Come si vede, Barker- che tende dichiaratamente a esaminare la rappresentativit dei campioni fannistici per la ricostruzione del sistema economico-produttivo, mentre la Cartledge sembra parlare in generale, pur se dichiara che il compito dell'archeozoologia di ricostruire il sistema di relazioni uomo/animale - si mostra pi sensibile ai problemi di produzione/consumo e considera i sistemi di allevamento (o di caccia) con tutte le loro implicazioni come la base su cui agiscono i vari fattori di "disturbo", come il nucleo di informazioni a cui arrivare dopo aver eliminato l'influenza di questi ultimi. La Cartledge invece sembra includere il punto nevralgico delle selezioni alimentari nel primo processo (produzione), o nel primo e nel secondo, stabilendo un discrimine (la morte dell'animale) che risulta tutto sommato poco significativo ai nostri fini. Naturalmente entrambi pongono in eguale misura l'accento sulla variabile costituita dalle tecniche di scavo e - sia pure con qualche differenza data dal fatto che l'uno pone l'attenzione sui fattori di trasformazione e l'altra sulle trasformazioni stesse - sulla distanza che separa l'archeologo dalle ossa animali ad attivit di produzione-consumo conclusa. ormai quasi ovvio che diverse tecniche di scavo determinano campioni faunistici condizionati in modo differente e a pi livelli di informazione e che, costituendo il momento della produzione dei dati, l'adozione di tecniche accurate la prima condizione della fruibilit del campione. Meno scontato, anzi in pieno sviluppo, lo specifico campo d'indagine che da ci viene aperto: da un lato si tende a stabilire come (e quanto) e su quali informazioni agiscano le differenti tecniche di scavo, mettendo a punto strumenti di valutazione per una migliore lettura e per una adeguata comparizione dei campioni gi prodotti; dall'altro si cerca di costruire coerenti strategie per i casi in cui non possibile l'applicazione integrale delle tecniche che meno condizionano il campione faunistico (il setacciamento a secco)6. Allo stesso modo ormai evidente che le caratteristiche del suolo, la profondit del seppellimento, il tipo di deposito e naturalmente le vicissitudini del contesto materiale da cui provengono i resti ossei possono avere un'incidenza determinante sui processi di frammentazione, sulla sopravvivenza delle ossa di questa o quella specie, di questo o di quel tipo, con queste o quelle informazioni, e di conseguenza sulle quantificazioni che il campione consente e richiede. Anche ci apre un campo d'indagine teso a comprendere come e quanto queste variabili causino distorsioni sui dati archeozoologici, e a rendere comparabili i diversi campioni, tramite accurati sistemi di controllo e procedimenti statistici a volte molto sofisticati7. Mai usciamo un attimo dall'ottica proposta dai due studiosi inglesi o meglio dai loro rispettivi schemi. I problemi inerenti le tecniche di scavo e i processi di trasformazione posteriori al
Cfr. soprattutto, G. Barker, Dry bones? Economic studies and historical archeology in Italy , in Papers in Italian Archeology, I, part. 1, a cura di H. Mc. K. Blade, T. W. Potter e D. B. Whitehouse, Oxford 1978, pp. 35-49, a pp. 35 s., 42 e 45; J. M. Maltby, The variability of faunal samples and thair effects upon ageing data, in Ageing and Sexing Animal Bones from Archeological Sites, a cura di B. Wilson, C. Grigsons, S. Payne, Oxford 1982, pp. 81-90, a p. 82, Barker, Studi sulla fauna, cit., pp. 62-4; Id., L'economia del bestiame a Luni, in Scavi di Luni II, a cura di A. Frova, Roma 1977, pp. 725-35, a p. 725s., in rapporto agli scavi di Luni e alle variazioni dei campioni prodotti con tecniche diverse. 7 Barker, Dry bones?, cit. p. 37, Maltby, The variability, cit., pp. 81-9 e bibliografia da entrambi riportata. Cartledge, Faunal Studies, cit., pp. 91 e 94.
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deposito delle ossa - e gli specifici campi di ricerca che essi richiedono - non sono certo meno determinanti di altri problemi. Tuttavia, essi possono apparire agli occhi di uno storico, non tanto un campo estraneo e specialistico al punto da indurre una sorta di delega agli addetti ai lavori - ci infatti pu essere vero per la messa a punto di alcuni strumenti di valutazione, ma non in generale, n nell'eventuale utilizzazione dei dati archeozoologici, n in forme pi complete e auspicabili di collaborazione 8 -, quando qualcosa di strumentale, di essenziale per la fruibilit della fonte, ma il cui interesse si esaurisce in ci, ossia nella funzione di depurare i dati da fattori di vero e proprio disturbo. Infatti, si tratta di processi che avvengono come si detto ad attivit di produzione-consumo gi conclusa e che solo secondariamente riguardano l'attivit e la vita della comunit nel preciso contesto in cui viene studiata ed rappresentata dai reperti osteologici (si pensi al caso limite degli scavi nei villaggi abbandonati). Inoltre, non a caso questi processi costituiscono potenziale distorsione sia per la ricostruzione dei consumi alimentari che per indagini sull'economia o sugli ecosistemi. Voglio giungere a dire che, a differenza dell'analisi dei processi di trasformazione delle ossa animali nella terra, l'individuazione e la ricostruzione di tutto ci che succede a esse prima dell'eliminazione e del definitivo interramento costituisce qualcosa di pi che la semplice - si fa per dire - conquista di una migliore fruibilit della fonte. Si identifica infatti necessariamente con la comprensione raggiungibile non solo tramite informazioni "contestuali", ma anche tramite potenzialit delle stesse fonti archeozoologiche - di alcuni importanti processi che, per awenire all'interno di un complesso sistema socioeconomico (o ecoculturale), solo provvisoriamente possono essere considerati fattori di disturbo. Considererei dunque i due ordini di problemi relativi alla rappresentativit dei campioni faunistici su due piani differenti, l'uno riferito alla correttezza dei procedimenti di produzione ed elaborazione dei dati, l'altro alla lettura e interpretazione globale di questi ultimi. Prima di passare decisamente ai problemi concernenti squisitamente l'uso di fonti che riflettono prima di tutto i consumi alimentari al fine di risalire alle strutture ambientali e tecnicoproduttive (o agli ecosistemi), sembra opportuno fermare l'attenzione su alcune questioni che riguardano la rappresentativit dei campioni faunistici nei confronti degli stessi consumi alimentari. Questi problemi possono essere raggruppati in due ampi settori, l'uno pi generale e l'altro pi specifico e direttamente collegato alla possibilit di redistribuzione delle carcasse (di parti dello stesso animale) tra differenti luoghi di uno stesso sito o tra siti tra di loro in relazione, ossia alle modalit e soprattutto ai luoghi della macellazione e dello scarico dei rifiuti. Se infatti vero che i campioni faunistici riflettono il consumo pi direttamente che la produzione, altrettanto vero che, soprattutto in contesti urbani, luoghi differenti possono riflettere contesti socioculturali diversamente alimentati, solo se si in grado di verificare che non esistono scollamenti tra il luogo di consumo e quello di scarico degli avanzi di pasto (si pensi ad esempio la possibilit che questi ultimi o parte di essi venissero gettati fuori dalle mura della citt o come sembra che avvenisse a Londra9 - in un fiume ecc.) o anche tra il luogo di macellazione e seppellimento (o riciclaggio) di alcune parti della carcassa e il luogo del consumo/seppellimento delle altre. Quest'ultimo fattore agisce in forma pi mediata dando luogo a campioni che, sbilanciati ad esempio a favore delle specie consumate intere, oppure diversamente condizionati in differenti periodi, risultano correttamente leggibili solo dopo attenti controlli e dopo confronti operati su larga scala, ossia tra campioni diversamente rappresentativi non soltanto di consumi socialmente differenziati, ma anche di diversi meccanismi di macellazione-consumo-scarico10.
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Si veda ad esempio quanto proposto in Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, cit., p. 606. Cartledge, Faunal Studies, cit., p. 94 10 Barker, Studi sulla fauna , cit., pp. 61s; Cartledge, Faunal Studies , cit., pp. 91, 94, 95; e soprattutto Maltby The variability, cit., pp. 81-9, dove si mostra come con raffinati procedimenti e a partire da campioni ampi, numerosi e soprattutto opportunamente differenziati possibile distinguere tra incidenza della sopravvivenza differenziale delle ossa nella terra, incidenza delle diverse tecniche di scavo e incidenza delle attivit di macellazione-scarico.

L'esempio di quanto verificato a Exeter11 a questo proposito illuminante, e se da un lato pu indurre un certo scoraggiamento per l'archeozoologia in Italia dove non esiste ancora nessun complesso di campioni faunistici paragonabile a quello di Exeter per estensione, ragionata differenziazione interna e profondit di elaborazione, dall'altro lato per ricorda inequivocabilmente come l'arma euristica pi importante, per una valida lettura di dati che presi alla lettera o isolatamente sarebbero molto ingannevoli, risieda nella possibilit di sottoporre a continui confronti (o integrazioni) campioni differenziati in base alle molte variabili descritte12. Riprenderemo comunque pi avanti il discorso su questa variabile in quanto, sempre a partire dagli studi su Exeter, stato verificato che essa agisce fortemente anche sulla determinazione delle et di morte, cio su un ordine di informazioni cardine ai fini della storia degli ecosistemi. Su un piano pi generale gli ostacoli pi importanti che si pongono alla ricostruzione dei consumi alimentari dai campioni faunistici possono essere identificati, oltre che nella gi accennata esigenza di disporre di campioni rappresentativi di consumi socialmente differenziati, nella indubbia difficolt di accedere all'universo dei valori assoluti13. Infatti, se vero che le fonti archeozoologiche possono fornire ottime risposte sulla reciproca importanza delle varie risorse carnee e casearie nell'alimentazione e nella gerarchia socioeconomica dei consumi, cio sulla qualit dei regimi alimentari proteici e in parte sulla variet della dieta, difficilmente esse potranno parlare sulla quantit di questi consumi, sia in relazione alla complessiva dieta o meglio alle diverse diete, sia in assoluto, cio in un tentativo di definire il consumo pro capite dei gruppi sociali14. Inoltre, queste fonti sembrano tacere anche sui ritmi stessi della dieta e sul carattere quotidiano/festivo di alcuni consumi15. Naturalmente ci non nega il valore di quanto possono dirci le fonti archeozoologiche sui regimi alimentari medievali - che diventa tanto pi importante, quanto pi si constata che le fonti documentarie o letterarie, dove sono presenti, taceranno per sempre su molti aspetti pregnanti e significativamente messi in luce dai reperti faunistici -, ma vuole solo delineare, gli spazi che rimangono estranei a queste fonti o illuminati solo in negativo. Veniamo dunque alle questioni centrali di questa riflessione - cio ai modi in cui i dati archeozoologici ci parlano degli ecosistemi - e consideriamo alcune linee generali di esse
J. M. Maltby, Faunal Studies or urban sites: The animal bones from Exeter , 19711975, University of Sheffield 1979, e Id., The variability, cit. 12 Si veda anche Barker, Dry bones? , cit., pp. 44-6; Id., Studi sulla fauna , cit., pp. 63-5 e 67 e Cartledge, Faunal Studies, cit., p. 95. 13 Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, cit., 14 Ivi, p. 614. Ci, pur non essendo un limite proprio delle fonti documentarie, comunque un limite generale dello stato attuale delle ricerche sulla storia dell'alimentazione o meglio il loro punto d'arrivo ideale. Cfr. ancora ivi, n. 39 per i casi in cui sono stati svolti lavori in questo senso, ai quali da aggiungere il recentissimo G. Nigro, Gli uomini dell'irco, Firenze 1983, sui consumi carnei a Prato alla fine del '300. Ancora sui consumi carnei si veda il convincente quadro delineato da F. Leverotti, Il consumo della carne a Massa all'inizio del XV secolo: prime considerazioni, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 227-39, mettendo in relazione le fonti sulle macellazioni di Massa Lunense all'inizio del Quattrocento con altre fonti fiscali. Da questi due lavori emerge chiaramente come le fonti sulle macellazioni da sole avrebbero parlato soltanto sul ruolo reciproco delle diverse risorse carnee e non sull'ammontare relativo del consumo carneo individuale e dei gruppi sociali. 15 Anche questo un aspetto ricostruibile solo con fonti documentarie (o letterarie). Cfr. Leverotti, Il consumo della carne, cit., p. 233 s.; S. Frescura Nepoti, Macellazione e consumo della carne a Bologna: confronto tra i dati documentari e archeozoologici per gli inizi del secolo XV, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 281-99, a pp. 286-8; e Nigro, Gli uomini dell'irco, cit., pp. 25-41. Sui problemi specifici delle fonti documentarie bassomedievali e in particolari sulla tendenza di esse a illuminare prevalentemente la dieta di gruppi particolari e non sempre socialmente rappresentativi, oppure la dieta degli strati sociali privilegiati piuttosto che quella dei ceti meno abbienti, il mondo urbano piuttosto che quello rurale, l'alimentazione che passa per il mercato piuttosto che l'autoconsumo, e i consumi principali (cereali o sostitutivi) piuttosto che quelli minori, ma alla fin fine connotatori dei vari regimi alimentari, cfr. M. Aymard, M. Bresc, Nourritures et consommation en Sicilie entre XIVe et XVllle sicle, "Mlanges de l'Ecole Franaise de Rome. Moyen Age-Temps modernes", 87 (1975), pp. 535-81, a pp. 535-8 e Pinto, Le fonti documentarie, cit. Per le fonti scritte altomedievali Montanari, Storia, alimentazione, cit..
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prendendo l'esempio dei campioni faunistici provenienti dai contesti medievali urbani. Esiste, infatti, la domanda se sia legittimo usare i metodi dell'archeozoologia- sviluppati nell'analisi di comunit preistoriche, dunque in situazioni di sostanziale autosussitenza - per lo studio della societ medievale, e soprattutto bassomedievale, la quale, nonostante la permanenza di enclaves protostoriche e gli indubbi caratteri di arretratezza agraria, indiscutibilmente una societ complessa, stratificata e urbanizzata. Ma, porsi questa domanda in generale pu non essere un buon punto di partenza o pu condurre ad affermare conclusioni, come ad esempio quella di ritenere legittima l'archeozoologia solo in situazioni di identit di produzione/consumo (in contesti altomedievali ad esempio, o nelle enclaves di cui sopra, o ancora solo in contesti rurali particolarmente arretrati ecc.)16. Cosa che appare un po' come gettar via il bambino con l'acqua di bagno. chiaro infatti che i campioni faunistici urbani, oltre a presentare i problemi pi sopra descritti, avranno nei confronti dell'ecosistema prevalente o meglio del sistema agrario che connota il territorio una rappresentativit molto attenuata o problematica, cos come chiaro che il consumo alimentare da essi indicato non rifletter che una parte (forse piccola) della produzione agricola dell'area territoriale in cui il sito urbano inserito. Tuttavia, anche se non sempre si pu dire che in un contesto urbano la relazione uomo/animale si limita a quella uomo/animale morto, o acquistato presso i produttori e strettamente finalizzato al consumo17, molto probabile che campioni del genere riflettano un consumo privilegiato, in altre parole una produzione specificamente diretta al mercato urbano e da esso influenzata, un drenaggio (spazialmente ben connotato) di eccedenze agricole. Come non considerare che, anche quando il sistema agrario dello stesso contesto storico dovesse risultare del tutto eterogeneo a quello che il campione faunistico urbano superficialmente assunto indicherebbe, un tipo di produzione del genere esiste e trova posto in un sistema non necessariamente omogeneo, ma profondamente stratificato e discontinuo? Come trascurare, su un piano diverso di riflessione, che le fonti archeozoologiche consentono, ad accurate letture e tramite adeguati confronti tra dati provenienti da contesti differenziati in un'area territoriale, di far luce sul problema della direzionalit dei surplus, sulla distribuzione dei prodotti o ancora sulla diversificazione della produzione indotta dalla domanda urbana? Certo, i problemi in questo senso sono molti: una volta verificata l'attrazione del mercato (e del macello) urbano - nota giustamente J. M. Maltby18 -, come rapportare tra loro quantitivamente i diversi tipi di produzione animale dei singoli siti o aree del territorio, quella ad esempio di carne diretta al consumo urbano (e rappresentata nei campioni faunistici della citt, ma difficile da quantificare in generale e anche perch i prodotti provenienti da varie parti del territorio sono raggruppati insieme, con scarse o nessuna possibilit di distinzione), con quella diversamente finalizzata o direttamente consumata dalle comunit? Come valutare l'importanza relativa dei diversi indirizzi produttivi dell'allevamento nel sistema agrario, e
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Anche porsi questa domanda in relazione ai contesti medievali urbani pu portare a conclusioni che prestano il fianco a critiche. Ad esempio Cartledge, Faunal Studies, cit. p. 93s. argomenta che 1'archeozoologia medievale legittima e remunerativa perch le sue difficolt rispetto a quella preistorica non sono maggiori, grazie alla possibilit di informazioni "contestuali" (ma la questione non sembra essere quante difficolt esistano, quanto piuttosto quali e quanto risolverle sia fecondo), e che l'archeozoologia urbana godrebbe in pi di una serie di "semplificazioni" date dalla particolare struttura sociale urbanacome ad esempio l'accentramento delle attivit di macellazione e raccolta dei rifiuti, il fatto che il rapporto uomo/animale si riduce a quello uomo/prodotti animali (fauna domestica) - e note gi, almeno a livello generale, per gli studi sul contesto storico. Questo tipo di argomentazioni, se non si indica insieme quali sono le potenzialit informative delle fonti archeozoologiche e se non si ha presente che la corrente di informazioni tra queste fonti e quelle sui "contesti" e deve essere a doppio senso rischia di far pensare che il ruolo dell'archeozoologia sia solo di confermare alcune tendenze generali gi individuate per altra via, ossia che si riduca a ben poca cosa. 17 Cos Cartledge, Faunal studies , cit., p. 94, si veda nota precedente. Su forme di allevamento di bestiame all'interno delle mura cittadine, cfr. ad esempio Porci e Porcari nel Medioevo, a cura di M. Baruzzi, M. Montanari, Bologna 1981, p. 70. 18 Maltby, The variability, cit., p. 87 s.

soprattutto come individuare la soglia dopo la quale l'influenza del mercato urbano diventa fattore di trasformazione strutturale dello stesso sistema agrario? Sono domande a cui al momento non certo facile (o possibile) rispondere; tuttavia, esse spingono a riflettere sul fatto che, pur se le citt sono state definite anomalie del popolamento19, vero che nulla ci pu essere di anomalo o di esogeno, se si considera una civilt come un sistema complesso, e che in un ottica pi globale errato identificare il sistema agrario con il sistema ecoculturale. Il problema semmai - e soprattutto ci un'esigenza irrinunciabile per gli archeologici e per dar luogo a coerenti strategie di scavo - di individuare un certo numero di modelli spaziali20 che servano da guida e da punto di partenza alle ricerche storiche e archeologiche in questo senso. Inoltre, bene soffermarsi ancora sull'ultima delle domande avanzate- domanda urbana e trasformazioni strutturali del sistema agrario - in quanto contiene delle implicazioni importanti e non esenti da equivoci. A volte, infatti, si portati ad assumere che a un aumento della popolazione urbana e anche a un miglioramento delle sue condizioni di vita - delle quali i regimi alimentari sono evidentemente un aspetto importante - debbano corrispondere un aumento della produttivit delle campagne e una ristrutturazione del sistema produttivo21. Questo datato, ma tenace modello - per il quale alcuni studiosi anglosassoni spezzano ancora qualche lancia - proviene, com' noto, dagli studi sull'evoluzione post-medievale che la realt inglese ha conosciuto ed per essa probabilmente valido. Ma, se viene trasportato di peso non solo alla realt mediterranea, ma anche al Medioevo rurale mediterraneo, interpretando l'espansione urbana dei secoli XI-XIII come prova dell'aumentata produttivit delle campagne22, esso rischia di appannare la comprensione di pi di un carattere di arretratezza e di contraddittoriet della cosiddetta colonizzazione medievale e della sostanziale fragilit del sistema agrario mediterraneo. Tutto ci stato ampiamente superato dalla storiografia agraria contemporanea23, tuttavia una certa rigidit teorica, nell'interpretazione dei dati sulle eccedenze agricole e nella fattispecie quelli sui consumi carnei privilegiati, pu viscosamente persistere e far dimenticare che probabilmente non il volume delle eccedenze a caratterizzare e differenziare le civilt precapitalistiche (o non soltanto esso) ma tutta un'altra serie di processi, tra i quali quelli di stratificazione sociale, direzionalit e intensit di drenaggio dei surplus stessi. Torniamo all'interpretazione dei dati archeozoologici. Da un lato si situa dunque l'ipotesi che l'aumento della popolazione urbana sia leggibile in essi come miglioramento della qualit del bestiame e del suo sfruttamento in direzione della produzione carnea, in altre parole come aumento della produttivit animale in inscindibile relazione con quello della produttivit agricola in generale24. Dall'altro inevitabile la riflessione che non affatto automatico che
Braudel, Capitalismo e civilt materiale, cit., p. 380. Sul problema della costruzione e applicazione dei modelli "spaziali" per la nuova archeologia, Hodges, Method and Theory, cit., pp. 13 ss. 21 Ad esempio Barker, Studi sulla fauna , cit., p. 67 s., nel riferire sugli studi di Exeter, per i quali (cfr. Maltby, Faunal Studies, cit.) quando descritto rappresenta l'ipotesi di ricerca; cos anche in Cartledge, Faunal Studies, cit., p. 93. 22 Ci latente anche nell'opera meno recente di P. Jones, cfr. P. Jones, Per la storia agraria italiana nel Medio Evo: lineamenti e problemi, in Id., Economia e societ nell'Italia Medievale, Torino 1980, pp. 191-247, a pp. 194s., 202-4 ecc. (l'anno si riferisce all'ultima edizione italiana, prima ed. 1964). 23 Sui caratteri di arretratezza dell'agricoltura mediterranea e dell'espansione dei secoli XI-XIII, si veda ad esempio P. Jones, La societ agraria medievale all'apice del suo sviluppo. L'Italia, in Storia economica Cambridge, 1, L'agricoltura e la societ rurale nel Medioevo, Torino 1976, pp. 412-526, particolarmente a pp. 446-65, oppure Cherubini,Le campagne italiane, cit., soprattutto a pp. 271-315 e 326-35, o ancora G. Haussmann, Il suolo nella storia d'Italia, in Storia d'Italia Einaudi, I, Torino 1972, pp. 61132, a pp. 73-102, o il "dassico" F. Braudel, Civilt e imperi del Mediterraneo nell'et di Filippo II, Torino 1976 pp. 245-54 o pp. 44-80. Sulla fragilit dell'assetto tecnoambientale nella Toscana medievale cfr. Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, cit., p. 23. Sui processi di degradazione dei boschi mediterranei cfr. E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, Torino 1981, pp. 3-100. 24 Maltby, Faunal Studies, cit., e Barker, Studi sulla fauna, p. 67s.
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l'incremento demografico urbano significhi un aumento nella domanda di carne, n che l'aumento della domanda e dei consumi carnei urbani costituisca un reale ed efficace stimolo per la produttivit e per la trasformazione dei sistemi agrari. Questi infatti potrebbero trovarsi al centro di numerosi circoli viziosi che impedirebbero o ridimensionerebbero in modo deciso ogni sviluppo. Verificare l'una e l'altra tendenza, com' facilmente intuibile, molto pi che arduo. Basti dire, per, che da un lato negli studi archeozoologici su Exeter25 viene ribadita, in relazione ai dati medievali, l'assenza di nesso tra incremento demografico urbano e ristrutturazione del sistema agrario, mentre dagli studi sull'alimentazione siciliana emerge prepotentemente come i consumi carnei del Bassomedioevo e dell'et moderna seguano le curve demografiche in funzione nettamente inversa, cio che all'aumento della popolazione non corrisponde un aumento della produzione, ma un aumento dei prezzi dei prodotti carnei e un peggioramento della qualit e della quantit dell'alimentazione26. In generale poi, da credere che in contesto mediterraneo, dove mezzadria o colonia parziaria, transumanza e latifondo connoteranno la realt agraria fino alle soglie dell'et contemporanea, anche i dati archeozoologici post-medievali parlerebbero in senso contrario all'ipotesi "inglese"27 . Tuttavia, le potenzialit delle fonti archeozoologiche non si limitano al pur prezioso contributo circa la dimostrazione che la realt mediterranea uno spazio bianco rispetto al cosiddetto "modello inglese". Queste fonti, infatti, nonostante tutte le cautele espresse fin qui e nonostante si debba passare sempre attraverso il filtro costituito dai consumi alimentari e dalle implicazioni e deviazioni che essi comportano, possono fornire decisive informazioni su quello che stato definito un carattere strutturale del modo di produzione mediterraneo28, ossia sull'incapacit del sistema produttivo di integrare organicamente - forse nemmeno nel modo ancora arretrato e circolarmente vizioso proprio dei paesi d'open field - agricoltura e allevamento e sulla tendenza opposta a tenere l'animale al margine della vita e delle pratiche agrarie. Sarebbe a dire che possono dirci molto, e su una scala potenzialmente priva dei limiti cronologici e spaziali propri delle fonti documentarie, su uno di quei circoli viziosi che sembrano aver svolto un ruono non indifferente nel rendere l'agricoltura mediterranea incapace di trasformarsi strutturalmente per secoli, nonostante la presenza di eventuali stimoli allo sviluppo quali i mercati, la domanda cittadina e i suoi incrementi ecc. Questi ultimi, e in particolare la domanda urbana, potrebbero essere stati soddisfatti secondo soluzioni (e feed-back negativi) specificamente mediterranei (il sistema mezzadrile ad esempio, o altre forme di intensificazione del drenaggio dei surplus), sui quali le stesse fonti archeozoologiche hanno qualcosa da dirci. Inoltre, possono fornirci informazioni sull'utilizzazione (stagionale o no) degli spazi incolti, del patrimonio boschivo o meno in generale, sullo sfruttamento delle risorse carnee provenienti da quelle popolazioni animali che legano il loro ciclo biologico al bosco e alle sue variazioni storiche o comunque all'outfield. Come dar torto dunque a Graeme Barker quando, dopo aver individuato nell'interpretazione delle fonti archeozoologiche tre livelli di complessit crescente - dalla dieta della singola
Maltby, Faunal Studies, cit., e Id. The variability, cit. Aymard, Bresc, Nourritures cit., pp. 549 ss., A. Giuffrida, Considerazioni sul consumo della carne a Palermo nei secoli XIV e XV, "Mlanges de l'Ecole Franaise de Rome, Moyen Age-Temps modernes", 87 (1975), pp. 583-95, a p. 594, Cherubini, Le campagne italiane, p. 328. 27 Cfr. a titolo di esempio C. Pazzagli, L'agricoltura toscana nella prima met dell'Ottocento , Firenze 1973, pp. 235312. 28 Toubert, Feudalismo mediterraneo , cit., p. 69. Ma sul contrapporsi di agricoltura e allevamento come limite e contraddizione di fondo dell'agricoltura mediterranea cfr. anche gli studi citati alla nota 23 e soprattutto Jones, La societ agraria, cit., e Cherubini, Le campagne italiane, cit. In relazione alla Toscana ottocentesca e al sistema mezzadrile (nel suo punto di maggiore perfezionamento) cfr. Pazzagli, L'agricoltura toscana, cit.,pp. 60ss e 235-312 (allevamento), 322-31 (concimazioni).
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comunit, alle sue basi economiche e i suoi sistemi di sussistenza, ai sistemi di redistribuzione in complesse economie di mercato, dall'animale nella dieta, al ruolo delle popolazioni animali nell'ecosistema e nell'economia-, definisce gli studi e le tecniche archeozoologici the archaeological key to understanding the changing relationship between town and country29? Oppure quando definisce questi studi come parte essenziale di un approccio completo al sito e al territorio e come un grosso sforzo richiesto all'archeologia e agli archeologi, che non si pentiranno certo per averlo fatto e ne raccoglieranno i frutti30? Ma vediamo in modo pi dettagliato quali sono le informazioni fornite dai reperti ossei animali. Generalmente da essi vengono tratti questi ordini di dati: 1. diverse specie animali; 2. relativa importanza di ciascuna specie nel campione, calcolata tramite: a) b) c) d) numero dei frammenti; numero minimo di individui; peso dei frammenti; stima della carne;

3. et al momento della macellazione o della morte; 4. dimensioni, da cui possono essere dedotte; a) sesso; b) razze; c) livelli nutritivi; 5. composizione anatomica, tipo di frammentazione e macellazione, stato di conservazione e resistenza/fragilit. Quest'ultimo ordine di dati rappresenta naturalmente lo strumento con il quale saggiare l'incidenza delle variabili che vanno dalle tecniche di scavo, alle trasformazioni posteriori al deposito, ai meccanismi di macellazione-consumo-scarico, mentre il primo svolge il ruolo di delimitare l'universo significativo dei frammenti identificabili, a volte meno della met delle ossa rinvenute31. Il secondo e il terzo invece costituiscono allo stesso tempo il nucleo principale e pi fecondo di informazione e il settore pi delicato, pi soggetto alle variabili di disturbo e pi problematico. Se ci pi che ovvio nei confronti del calcolo della frequenza relativa delle diverse specie animali, che dovrebbe costituire, al di l delle distorsioni informative, lo specchio della relativa importanza delle risorse carnee provenienti da ciascuna specie nel regime alimentare e in seconda istanza quello del ruolo di ciascuna specie nella produzione, nell'economia e nell'ecosistema, meno owio invece nei confronti dell'et di morte. Queste infatti insieme al sesso e alle misure di ciascun tipo di popolazione animale, dovrebbero indicare in modo abbastanza diretto la natura dello sfruttamento di ogni specie da parte
Barker, Dry bones? cit., pp. 40 e 46. Id., Studi sulla fauna, cit., p. 68. 31 Barker, Dry bones?, cit., p. 37. Il problema della identificazione delle specie nel campione non certo da sottovalutare e un aspetto di esso ad esempio l'impossibilit in molti casi di distinguere i resti caprini e ovini (ci stato possibile finora solo nel caso di S. Maria in Civit, cfr. R. Hodges, G. Barker, K. Wade, Escavation at D85 (Santa Maria in Civit): an early medieval hilltop settlment in Molise, "Papers of British School at Rome", 35 (1980), pp. 70-124, a p. 102s.). Sulla maggiore pericolosit (ecologica) dell'allevamento caprino rispetto a quello ovino e sulla distruttivit del morso delle capre, cfr. ad esempio, Sereni, Terra nuova, cit., pp. 42-4. Per ci in relazione alla "civilt del castagno" e su alcune norme che regolamentavano rigidamente l'allevamento caprino, cfr. Cherubini, La civilt del castagno, cit., p. 262.
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dell'uomo (naturalmente si prendono in considerazione quasi soltanto le specie principali di allevamento). stato tuttavia verificato - sempre a partire dai dati di Exeter- che le attivit di macellazione possono spesso distruggere ossa con informazioni sull'et o meglio causare una loro diversa dislocazione in pi luoghi del sito e dunque campioni diversamente condizionati32. Ci naturalmente agisce soprattutto per i campioni piuttosto ampi, quelli cio che consentono una vera e propria quantificazione delle varie et di morte, mentre la maggioranza dei campioni italiani sembra consentire a questo proposito solo valutazioni poco pi che indicative. Comunque non solo la ridotta dimensione dei campioni a causare questo: attraverso la fusione delle epifisi infatti possibile ottenere solo indicazioni approssimativamente ante quem o post quem, mentre l'analisi condotta attraverso la dentizione e l'usura dei denti risulta pi precisa, ma per lo stato ancora pionieristico di queste tecniche, ancora approssimativa. Sia l'una che l'altra tecnica si basano inoltre su parametri tratti dalla moderna zootecnia e inducono dunque a una complessiva sottovalutazione delle et di morte del bestiame medievale. I dati o meglio le indicazioni in questo senso vanno dunque assunti in generale, come ordini di grandezza e mai come precisi e assoluti valori33 . Queste informazioni sono tuttavia essenziali in quanto indicano l'indirizzo produttivo dell'allevamento. Ad esempio, per quanto riguarda i caprovini, una prevalenza di bestiame femminile adulto, accanto a resti di agnelli o castrati, indica una produzione prioritariamente casearia, mentre la prevalenza di bestiame ovino adulto dei due sessi indicherebbe una specializzazione verso la produzione di lana e la predominanza di animali giovani o giovanissimi una produzione destinata a soddisfare una domanda di carne34. Per i bovini, un campione faunistico composto da resti di bestiame adulto o decisamente vecchio indica che l'animale ucciso era alla fine del suo ciclo lavorativo (le bestiae inutiles)35, che la funzione principale di questa specie era l'armatura, o in generale la produzione di energia meccanica e che poco spazio per essa rimaneva nel sistema agrario36. Viceversa una presenza pi o meno alta di bestiame bovino giovane indica un indirizzo dell'allevamento verso la produzione carnea e probabilmente importanti trasformazioni nel sistema agrario e nelle tecniche agricole (tra cui l'introduzione delle colture da foraggio). Non sempre per i dati archeozoologici sono cos caratterizzati e leggibili, anche perch spesso ci si trova di fronte, oltre a particolari forme di consumo, anche sistemi produttivi effettivamente poco specializzati e in cui alcune specie - particolarmente i caprovini - erano allevati con una polivalenza di funzioni. Inoltre, ovviamente necessario tenere conto dell'importanza relativa delle tre specie principali e del ruolo delle specie selvatiche. Ad esempio nel caso di una netta predominanza di caprovini nel campione e di una struttura d'et ben connotata da femmine adulte e maschi molto giovani, possibile pensare a una primitiva economia pastorale37, tanto omogenea ed estesa da non ammettere consumi carnei privilegiati se non entro i limiti costituiti dal surplus di agnelli (semmai da verificare la direzionalit di questi ultimi e dei prodotti caseari). Ma, quando questa specie occupa un posto minore o anche quando la struttura d'et (e di sesso) si limita a indicare la presenza di animali sia giovani che vecchi, pi giusto pensare a una produzione poco specializzata (in contesto rurale) o a un consumo solo in parte privilegiato o ancora a una debole influenza della domanda di carni migliori (in relazione a campioni urbani, o provenienti da siti per altri motivi privilegiati).
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Maltby, The variability, cit., si veda anche nota 10. Barker, Dry bones?, cit., p. 38. Si stanno per mettendo a punto nuovissime tecniche che dovrebbero consentire indicazioni assolute sull'et di morte e che si basano sulle linee di crescita leggibili nelle sezioni dei denti reperiti, cfr. J. P. Coy, R. T. Jones, K. A. Turner, Absolute agening of cattle from tooth sections and its relevance to archeology, in Agening and Sexing, cit., pp. 127-40 e in generale tutto il volume di cui questo lavoro fa parte. 34 Barker, Studi sulla fauna, cit., p. 59 s. 35 Jones, Societ agraria, cit., p. 464. 36 Sui limiti tecnologici e del sistema agrario che si celano dietro a ci Braudel, Capitalismo e civilt materiale , cit., pp. 250-9, 80-2, e in generale gli studi citati alle note 23, 28 e 35. 37 Barker, Studi sulla fauna, cit., p. 59 s.

Laddove un bestiame bovino macellato invariabilmente adulto non lascia dubbi sul tipo di sistema agrario (e tecnologico) dell'area territoriale in esame, la presenza di bovini pi giovani risulta di problematica interpretazione, sia per le oggettive difficolt di quantificazione di questi dati, sia perch implica l'intera questione del rapporto tra domanda urbana e trasformazioni tecno-produttive dell'agricoltura e socioculturali dell'ambiente e richiede l'analisi della natura del campione e del contesto storico pi generale. Per quanto riguarda i suini, la popolazione animale pi direttamente legata alla funzione di produzione di proteine nobili e, per antonomasia, la pi "economica" - nel senso del lavoro e del grado di sviluppo tecnoambientale che richiede-, le informazioni sull'et risultano secondarie e ci parlano, insieme a quelle sulle misure, pi dei livelli nutritivi, dei ritmi di crescita e del grado di specializzazione del loro allevamento, che della loro funzione nell'economia- questa viene indicata gi in modo ampio dalle frequenze nel campione. E tuttavia interessante notare, in base al suggerimento di Graeme Barker38, come una predominanza crescente dei suini rispetto alle altre specie possa indicare processi degnerativi dell'economia agraria e delle strutture ambientali, specie se in zone marginali o che per un motivo o per l'altro si apprestano a diventare tali. Questo suggerimento richiede comunque alcune sfumature e precisazioni, o meglio un'applicazione attenta al tipo di contesto in cui si riscontra la predominanza o l'aumento dei suini. vero infatti che i maiali non sono soltanto la popolazione animale pi "economica", ma anche, in quanto onnivori, potenziali concorrenti ecologici dell'uomo39 e conseguentemente potenziale sintomo di disfunzioni a livello del rapporto popolazione/risorse. Ma vero anche che la prevalenza dei suini, soprattutto se si considera che i campioni fannistici ci parlano soltanto in termini di rapporti percentuali tra le varie specie e non dei valori assoluti di ciascuna di esse, pu indicare fenomeni diversi e anche contrapposti. nota ad esempio l'importanza dei suini nel sistema agrario altomedievale almeno in relazione all'area padana-, all'interno del quale essi risultano lo specchio del ruolo decisivo dell'economia silvo-pastorale, della disponibilit e del "libero" accesso alle risorse dei boschi e dell'incolto, e infine di un regime alimentare variato e probabilmente pi equilibrato o elastico di quelli dei secoli successivi all'XI40. D'altro canto una presenza dominante dei suini pu indicare un equilibrio in cui si esasperata anche a sfavore dei caprovini la tendenza a tenere l'animale al margine di un sistema che non consente la produzione o il reperimento del nutrimento per esso, ovvero un sufficiente rapporto ager/saltus. Un equilibrio in cui i suini, per le loro capacit di riciclare i rifiuti o in generale per il loro carattere "economico", risultano l'unica possibile fonte di proteine nobili, accanto a pochi caprovini allevati con pi funzioni, eventualmente il bestiame da cortile e ancor meno bovini tenuti al minimo indispensabile per l'aratura. Ancora, da rilevare come nemmeno la verosimile relazione bosco-incolto/maiali in contesti altomedievali sia da assumere in modo automatico in quanto possibile che, per motivi tutti da indagare, l'outfield venisse utilizzato in modo diverso da quello che stato definito modello "longobardo", ossia che non si verificasse la scelta nei confronti della popolazione suina41. Da un lato, dunque, una situazione di scarsa o scarissima pressione demografica e di larga disponibilit di risorse - sia pure in termini di prelievo da bosco e incolto - e la scelta "culturale" verso i suini, dall'altro in sistema che, in opposte condizioni demografiche e in un capovolto rapporto di ager/saltus-silva, trova i suoi equilibri (o le sue precariet) nell'esasperazione della cerealicoltura. Conseguentemente a ci l'aumento dei maiali oltre una
Barker, L'economia del bestiame, cit., p. 729 s., in relazione ai dati di Luni. Cfr. anche Barker, Dry bones?, cit., p. 42 s. 39 Cfr. ad esempio Barrau, Ecologia, cit., p. 51 s. e R. A. Rappaport, Maiali per gli antenati. Il rituale nell'ecologia di un popolo della Nuova Guinea, Milano 1980, pp. 192 ss. 40 Montanari, L'alimentazione contadina, cit., pp. 225-44, 425-31 e 469-80. 41 Baruzzi, Montanari, Porci e Porcari, cit., p. 20s. e Montanari, L'alimentazione contadina, cit., pp. 245-50 e 402-4.
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certa soglia - il problema stabilire quale - pu significare certo la rottura di alcuni equilibri, ma in pi sensi: da una parte crisi territoriale da spopolamento e deumanizzazione", boschi e paludi che avanzano, o ancora processi di marginalizzazione di alcune microregioni; dall'altra l'esplosione delle contraddizioni proprie di un certo tipo di economia contadina, il superamento delle soglie di tollerabilit dell'ambiente nei confronti di irrazionali sfruttamenti agricoli e nei confronti di una popolazione animale che non certo tra le meno pericolose42. ora venuto il momento di saggiare concretamente le potenzialit di queste fonti sulla base di quanto a tutt'oggi si fatto in Italia in termini di produzione di dati e di interpretazioni di questi. A ci opportuno premettere che un tentativo, non tanto di sintesi, quanto di intensificazione dei confronti tra dati provenienti da contesti differenziati, incontra grossi limiti nello stato stesso delle ricerche e nel fatto che non sempre al momento attuale i campioni faunistici si presentano legittimamente comparabili o che non sempre possibile, sulla base di ci che attualmente edito, ricostruire e impadronirsi dei necessari strumenti di stima in relazione alle numerose variabili - di disturbo e no - descritte sopra. Per una disciplina in rapido e recente sviluppo ci naturalmente inevitabile, e costituisce piuttosto un sintomo di vitalit che un segno negativo. Inoltre, appare comunque opportuno tentare uno sforzo di sistmatizzazione, che, per quanto prowisorio, tenda a evidenziare le acquisizioni pi importanti e i settori che pi richiedono approfondimento o verifica, e cerchi di cogliere in una visione d'insieme indicazioni che altrimenti rimarrebbero nelle pieghe dei singoli lavori o del tutto in ombra. Questo anche se i risultati che emergeranno da alcuni confronti andranno completamente rivisti nel volgere di poco tempo, non appena cio i progressi di questi studi daranno luogo a altre possibilit di stima e lettura dei campioni faunistici. L'area geografica attualmente toccata dagli studi di archeozoologia medievale comprende, oltre alla Liguria, alla Lunigiana e alla Maremma toscana e lazialele regioni meglio rappresentare , l'Umbria, la Lombardia e l'Emilia, il Molise e la Sicilia (che tuttavia rester fuori dal nostro discorso). Per il Molise si tratta di un insediamento rurale abbandonato prima del X secolo (un piccolo centro di sommit), poi si dispone di due campioni coevi (XV secolo) per Bologna, di parecchi campioni per la Torre Civica di Pavia dall'XI secolo ai giorni nostri, di dati bassomedievali (XIII-XV) per la Rocca Posteriore di Gubbio (sede di una guarnigione). La Maremma rappresentata dai dati su Scarlino (XI-XII secolo e XV) e sulla fortezza di Grosseto (XI-XIII e XIV) e dai ricchi campioni di Tuscania (seconda met del Duecento, 1350 circa, primo Quattrocento, prima met Quattrocento, tardo Quattrocento). Per l'arco ligure-lunense si dispone di un campione databile all'XI-XII secolo per un'area del complesso di Filattiera (S. Giorgio), degli accurati campioni di Luni (presentati in modo da poter tenere conto dell'incidenza delle varie tecniche di scavo e dei quali i pi significativi si riferiscono al VIIVIII secolo e all'XI), di dati su 4 siti della citt di Genova (piazza Matteotti, dati per il VI-VII secolo; S. Agostino, un grande complesso conventuale, dati per il XIII secolo; via Ginevra, insediamenti della consorteria dei Fieschi, XIII secolo circa; S. Silvestro, sede arcivescovile, dati per il IX-X secolo e per il primo Quattrocento), e infine di dati per altri 4 siti rurali, il Castellaro di Zignago e Castel Delfino (castelli feudali, rispettivamente XI-XII secolo e XIII), Monte Zignago (borgo feudale arroccato, XV secolo) e Molassana (castello, dati per il XV secolo)43.
Sulla dannosit dei maiali cfr. ad esempio B. Slicher Van Bath, Storia agraria dell'Europa occidentale (5001850), Torino 1972, p. 101. In generale, sull'importante assunto metodologico che identici dati (in questo caso le frequenze dei suini nei campioni faunistici o la loro importanza relativa nel sistema alimentare ed ecoculturale) possono avere significato diverso in contesti diversi, Kula, Problemi e metodi, cit., p. 338. 43 Si da qui l'elenco degli studi dai quali sono tratti i dati archeozoologici che verranno analizzati da qui in avanti, per brevit si tralascer di fare altri riferimenti ad essi, salvo che per necessarie precisazioni o nei casi in cui si ricorderanno informazioni contenute in questi studi e non limitate agli stessi dati.
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Gli insediamenti liguri-lunensi, come si vede, sono nettamente i pi numerosi, ma se si eccettua la stessa Luni sono anche quelli in cui i dati si presentano non solo privi di ampiezza cronologica, provenienti da campioni piuttosto ridotti e limitati alle quantificazioni relative al numero dei frammenti, ma anche privi o quasi di informazioni sulla natura del campione e del contesto socioculturale che rappresentano. Lo stesso si pa dire per i dati dei siti genovesi - se non che per S. Silvestro si dispone al momento di due campioni confrontabili nel tempo44 - e in parte anche per quelli bolognesi. Vere e proprie interpretazioni dei dati archeozoologici, nel senso della ricostruzione dell'economia di base di alcune comunit o del significato di alcuni consumi urbani o privilegiati sono state fatte al momento solo per Luni, Tuscania, S. Maria in Civit (Molise), Pavia e in parte Gubbio45. Dopo questa sorta di censimento e nonostante le oggettive difficolt a procedere a comparazioni, proviamo a collocare i dati disponibili entro tre grandi scansioni temporali (ante XI secolo, XI-XIII secolo e XIV-XV) e a comprendere all'interno di questi periodi alcune macroscopiche differenziazioni dei contesti da cui provengono i campioni faunistici. Per il primo periodo disponiamo di alcuni scarni dati su due siti genovesi che indicherebbero per l'insediamento pi antico (piazza Matteotti, VI-VII secolo) un consumo carneo fortemente basato sui caprovini giovani, e per l'altro (S. Silvestro IX-X secolo) un consumo basato all'opposto e quasi per intero sui suini. Nel campione del primo, infatti, sono assenti le ossa bovine, piccolo posto lasciato a quelle suine (23% delle specie principali) o di altre specie e le ossa caprovine appartengono ad animali macellati prevalentemente giovani. Il campione per molto ridotto e soprattutto non ci dato alcun elemento per comprendere a quale gruppo sociale sia da attribuire questo tipo di consumo. Nel campione di S. Silvestro (proveniente dai livelli pi antichi dell'orto del castello vescovile) le ossa bovine sono ugualmente assenti, ma i suini coprono quasi i 4/5 e i resti caprovini mostrano un'et di morte piuttosto alta. Da ci senza ulteriori approfondimenti e contestualizzazioni, naturalmente impossibile dedurre qualcosa, tuttavia ci si pu porre la domanda se la totale assenza dei bovini sia puramente casuale e
Molise: Hoges, Barker, Wade, Excavation at D85, cit.; Bologna: Frescura Nepoti, Macellazione e consumo della carne, cit. Pavia: G. Barker, A. Wheeler, Informazioni sull'economia medievale e postmedievale di Pavia: le ossa dello scavo, "Archeologia Medievale", V (1978), pp. 249-66; Gubbio: G. Barker, Alimentazione della guarnigione di stanza sul Monfe Ingino, Gubbio, "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 267-74, e Id., La Fauna [della Rocca posteriore di Gubbio], "Archeologia Medievale", V (1978), pp. 469-74; Grosseto e Scarlino: G. Tozzi, La fauna della Fortezza Vecchia di Grosseto in Archeologia e storia di un monumento mediceo. Cli scavi nel cassero senese della Fortezza di Grosseto, a cura di R. Francovich e S. Gelichi, Bari 1980, pp. 182-5, Id., L'alimentazione nella Maremma medievale. Due esempi di scavo, "Archeologia Medievale" VIII (1981), pp. 299-305. Tuscania: G. Barker, The economy of medieval Tuscania: the archeological evidence "Papers of the British School at Rome", 31 (1973), pp. 155-77; Filattiera: M. Biasotti, R. Giovinazzo, I reperti faunistici di Filattiera, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 358-62; Luni: Barker, L'economia del bestiame, cit. Siti genovesi e liguri: M. Biasotti, P. Isetti, L'alimentazione dall'osteologia animale in Liguria, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 239-46; Genova, S. Silvestro XV secolo: J. Cartledge, Le ossa animali dell'area sud del Chiostro di S. Silvestro a Genova, "Archeologia Medievale", V (1978), pp. 437-51. Inoltre per la datazione dei reperti di Filattiera: cfr. D. Cabona, T. Mannoni, O. Pizzolo Gli scavi nel complesso medievale di Filattiera, 1: la collina di S. Giorgio, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 331-57. 44 Esistono per degli altri e ben pi ampi dati su questo sito, inediti. Notizia in J. Cartledge, The animal bones from the Cloister of S. Silvestro, Genoa, in Papers in Italian Archeology, 1, cit., part. Il, pp. 358-63 e Id., Faunal Studies, cit. 45 Barker, L'economia del bestiame , cit., Id., The economy of medieval Tuscania cit., Hodges, Barker, Wade, Escavation at D85, cit., pp. 96 ss., Barker, Wheeler Informazioni sull'economia medievale, cit., Barker, Dry bones?, cit., pp. 42-4 (per Gubbio e ancora per Luni, Tuscania e Pavia).

derivata da qualche variabile di disturbo, o se nasconda qualche significato. Cos ci si pu chiedere se la differenza tra i due consumi non possa riflettere alcune trasformazioni avvenute tra i due periodi e che significato abbia la predominanza dei suini su una mensa presumibilmente privilegiata come quella vescovile. In questo stesso periodo si situano i ricchi dati di Luni provenienti dai campioni di controllo del VII-VIII secolo (ossia due di quelli ottenuti tramite setacciamento) e quelli, approssimativamente databili al VII-IX secolo, di S. Maria in Civit, piccolo villaggio molisano (forse composto da una cinquantina di persone) situato in una delle zone ambientalmente meno favorevoli della Valle del Biferno46. In entrambi i campioni sono assenti (o quasi) i resti di animali selvatici, quasi che la caccia fosse scarsamente praticata, e in entrambi, i frammenti di bovini occupano un piccolo posto (tra il 10 e il 15% circa) e indicano un'et di morte piuttosto alta, salvo qualche eccezione per Luni. La funzione produttiva e l'importanza dei bovini nel complessivo sistema di allevamento dei due siti sembra dunque abbastanza chiara, ma per S. Maria in Civit ci si collega a una netta predominanza di ovini (produttivamente polivalenti, di razza piccola e dunque legata ad una piccola transumanza locale), mentre a Luni si riscontra un equilibrio pressoch perfetto tra suini e caprovini. Si delinea cos, per il villaggio molisano, un sistema (agricolo-pastorale) integrato di prevalente autosussistenza47, forse connotato da un favorevole rapporto popolazione/risorse, nonostante i condizionamenti ambientali, e comunque caratterizzato da un rapporto con l'incolto e i boschi senz'altro dissimile da quello dell'Italia padana altomedievale. Per Luni emergere invece la mancata scelta produttiva nei confronti dei caprovini48 (allevati comunque essenzialmente per latte e lana e in regime di piccola transumanza) in un sistema tendente a scaricare gran parte del fabbisogno di prodotti carnei sui suini. In base alla conoscenza complessiva delle trasformazioni del territorio lunense, ossia in base a quanto si sa sulla disgregazione del sistema romano di drenaggo delle acque e sul generale degrado ambientale, e anche alla luce del successivo incremento dei suini (nel campione di controllo dell'XI secolo), sembra inoltre possibile avanzare l'ipotesi che la scelta produttiva a favore dei maiali rappresenti qui un potenziale elemento di contraddizione49 e la spia di un lento processo di marginalizzazione, piuttosto che un elemento di equilibrio in un sistema tipicamente altomedievale. Una particolare soluzione che, in relazione alle deboli e regressive strutture ambientali dell'area lunense e di fronte a eventuali incrementi demografici, potrebbe costituire uno dei motivi del collasso dello stesso sistema microregionale - com' noto, Luni venne abbandonata definitivamente all'inizio del secolo XIII50. Tuttavia, quasi a confermare che ogni struttura alimentare e produttiva suggerita dai campioni faunistici per poter essere compresa appieno deve essere irrinunciabilmente messa in rapporto con il proprio contesto ambientale, nell'insieme dei dati dell'XI-XII secolo relativi agli insediamenti rurali le frequenze dei suini di Luni non risultano affatto anomale anzi si mostrano superiori - se questi confronti sono validi - solo a quelle di Filattiera. Nel campione di C. Zignago, infatti, - contesto montano non lontano da Luni - il numero dei frammenti suini risulta poco meno inferiore al 60% della specie principali (Luni 47,2%, Filattiera 42,5%), mentre nel campione di Scarlino essi arrivano a coprire addirittura i 4/5.

Hodges, Barker, Wade, Escavation at D85 , cit., pp. 103-5 e 109 s. Si veda anche R. Hodges, Ch. Wickham, The evolution of hilltop villages in the Biferno valley, Molise, in Archeology and Italian Society, cit., pp. 305-12, a pp. 307-9. 47 Hodges, Barker, Wade, Escavation at D85, cit., pp. 103-6. 48 Barker, L'economia del bestiame, cit., p. 730. 49 Ivi, p. 729 s. 50 Sulla crisi territoriale economica di Luni, si veda B. Ward-Perkins, Luni: the decline and abandonement of Roman town, in Papers in Italian archeology, 1, cit., part. Il, pp. 313-21 e Id., Luni: the prosperity of the town and its territory, in Archeology and Italian Society, cit., pp. 179-90.

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Diversi si mostrano invece sia i dati duecenteschi di Castel Delfino (Savona) e di Tuscania, sia quelli di Grosseto (XI-XIII secolo), sia quelli urbani di Pavia (XI-XII secolo) e di Genova S. Agostino e via Ginevra (XIII secolo). A Tuscania infatti i caprovini sembrano non lasciare spazio alle altre specie (coprono quasi il 90% del campione duecentesco), mentre per Castel Delfino, per Grosseto, per Pavia e per i due siti genovesi, in particolare per la sede dei Fiaschi, a una leggera predominanza dei caprovini stessi- generalmente macellati giovani, salvo che a Pavia - si unisce una presenza stranamente alta dei bovini, i quali sono invariabilmente macellati adulti in tutti i campioni del periodo. Pu dunque essere relativamente facile pensare che i campioni urbani costituiscano lo specchio di consumi privilegiati, di un drenaggio di risorse carnee, o meglio di una domanda di carne soddisfatta innanzitutto con i caprovini giovani51 e solo secondariamente con i suini e con bovini, attratti comunque dal mercato o dalle macellazioni urbane pur alla fine del loro ciclo lavorativo. Cos pu essere legittimo accostare a ci che anche Castel Delfino - nel quale si riscontra tra l'altro una sorprendente presenza di cervidi - in base alla riflessione che i consumi privilegiati non sono da identificare sempre e automaticamente con l'"urbano". possibile ragionare in modo analogo anche per ci che riguaga Grosseto, non tanto assumendola tout court come un polo urbano, quanto perch probabile che il campione faunistico rifletta il consumo di una guarnigione. Viceversa, per Pavia giusto tenere conto che l'et di morte dei caprovini nei campioni dell'XI-XII secolo sembra indincare, insieme ai dati sulle misure, una prevalente produzione di lana nel territorio52. Ma, ammesso che i campioni disponibili siano significativi a grosso modo comparabili e che quanto detto sia relativamente verosimile, cosa pensare invece della alte quote di ossa suine nei campioni rurali dell'XI-XII secolo e soprattutto della posizione, che appare diametralmente opposta di Tuscania e Scarlino? Certo sarebbe suggestivo pensare che i suini, relativamente trascurati dai consumi urbani a differenza dei caprovini giovani, svolgessero un periodo di verosimile incremento demografico un ruolo compensatore in campagna. Ma, al di l di quanto detto per Luni e il suo specifico contesto ambientale e in generale sul ruolo dei suini nelle economie contadine, come affermare in relazione ai casi concreti degli insediamenti liguri-lunensi e di Scarlino che essi gravitassero nell'orbita di attrazione di un qualunque polo urbano- Genova, Lucca o Pisa o altri che siano senza nulla sapere sui circuiti di scambio dei prodotti agricoli e nemmeno sul tipo di economia che connotava gli insediamenti in questione? A quest'ultimo proposito si pu in questa sede aggiungere soltanto qualche elemento sulla base degli stessi dati archeozoologici. Per gli insediamenti linguri-lunensi, infatti, le et di morte dei caprovini sembrano essere in diretto rapporto con l'importanza della specie nel campione: per Luni gi sappiamo che la produzione carnea risulta circoscritta ai suini sia per la presenza relativamente bassa dei caprovini (30% circa), sia per la finalizzazione al latte e alla lana del loro allevamento; per C. Zignago - ricordiamo che si tratta di una zona montana- accanto a una presenza di suini che sembrerebbe anche pi alta di quella di Luni si situa per una consistente quota di caprovini (40% circa), all'interno della quale ci sono anche resti di agnelli o capretti; a Filattiera, infine, i frammenti di caprovini sono di poco superiori a quelli di suini e le et di morte sembrano indicare animali macellati prevalentemente giovani. Riguardo a Tuscania, invece, c' da dire che, nonostante le oggettive difficolt di trarre indicazioni precise dalle et di morte e nonostante nell'intero stock di reperti i resti provenienti da animali macellati adulti siano senz'altro prevalenti, pure sembra di intravedere nel campione duecentesco una maggiore presenza di caprovini macellati prima del secondo anno di et53 . Ci
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Cfr., anche se per un periodo successivo (fine Trecento), il ruolo dei caprovini giovani e dei castroni nei consumi carnei di Prato, ricostruiti tramite fonti documentarie da Nigro, Gli uomini dell'irco, cit., pp. 27-38. 52 Barker, Wheeler, Informazioni sull'economia medievale, cit., pp. 250 e 252 e Barker, Dry bones?, cit., p. 44. 53 Barker, The economy of medieval Tuscania , cit., tab. 4. Graeme Barker non rileva questa differenza, preferendo considerare i dati sulle et di morte nel loro insieme. In effetti, considerazioni come questa, rispetto alla necessit di

potrebbe indicare che la struttura produttiva dell'allevamento caprovino nella Tuscania duecentesca non fosse ancora decisamente specializzata nei confronti del latte e della lana, e che il ruolo di produzione carnea non assegnato al maiale potesse essere assunto da questa specie. Torniamo alla domanda se la predominanza del maiale nei campioni liguri-lunensi e di Scarlino costituisca un sintomo di crisi microregionale - remota o recente - o di scarsa umanizzazione del territorio; oppure un elemento di un sistema agrario fortemente indirizzato verso la produzione cerealicola, in cui l'animale stato sconftto in una sorta di concorrenza allo sfruttamento della terra e in cui solo il maiale pu produrre le necessarie proteine nobili trasformando tutto l'economicamente trasformabile; o ancora se possa costituire la spia di alcuni processi di redistribuzione, di una risposta contadina ai drenaggi verso il polo urbano e alla domanda di carne caprovina, piuttosto che suina. Dobbiamo naturalmente concludere che la questione resta integralmente aperta, tuttavia anche il solo fatto di impostarla non pu non spingerci a ripetere con Barker - che le fonti archeozoologiche, se correttamente prodotte e interpretate, possono costituire davvero una chiave per comprendere alcuni dei processi pi importanti della storia del paesaggio e dei rapporti citt/campagna. Passiamo comunque al periodo successivo (XIV-XV secolo). Salvo che per i due siti urbani bolognesi del primo Quattrocento (S. Petronio, area densamente urbanizzata e S. Giorgio, area per cui non si dispone di informazioni contestuali se non che attualmente un'area cimiteriale con poche tracce di frequentazione), per i due siti rurali liguri (Monte Zignago e Molassana, XV secolo), e per Gubbio (XIII-XV secolo, guarnigione di stanza sul Monte Ingino), abbiamo la fortuna di poter leggere gli altri dati di questo periodo in relazione a eventuali trasformazioni avvenute nei confronti dei periodi precedenti. Questi dati si riferiscono a Pavia (XIII-XVI secolo), Tuscania (met Trecento e XV secolo), Scarlino (XV secolo), Grosseto (XIV secolo) e Genova S. Silvestro (primo Quattrocento). Pavia mostra, forse in relazione alla contiguit di datazione e all'ampiezza dell'arco temporale rappresentato che potrebbe eventualmente nascondere variazioni di medio periodo, una coincidenza quasi completa con i dati del periodo precedente (XI-XII secolo), non fosse che per un ulteriore spostamento a favore dei bovini e a danno dei suini. Invariata sembra rimanere anche l'et di macellazione dei caprovini, che unitamente ai dati sulle misure e sulle razze aveva gi indotto a pensare alla scelta produttiva verso la lana (il campione di questo periodo tuttavia piuttosto ridotto). A Pavia pu essere accostato uno dei due siti bolognesi (S. Petronio), il campione del quale l'unico a mostrare una insolita predominanza dei bovini, che rimane tale anche dopo aver sottratto una consistente quota di frammenti esplicitamente connessi a attivit artigianali. Il ruolo dei bovini nei campioni di Pavia e Bologna S. Petronio - si tratta naturalmente di animali macellati adulti -, visto nel suo complesso e anche in rapporto al campione dell'altro sito bolognese dove i bovini sembrano occupare un posto del tutto secondario, induce a pensare non tanto a un consumo specificamente privilegiato, n tantomeno a una produzione destinata a soddisfare la domanda urbana e potenziale fattore di trasformazione per l'agricoltura - non ancora per lo meno54 -, quanto a un eventuale ruolo di attrazione dei macelli urbani nei confronti di bestie utilizzate nel territorio quasi esclusivamente per l'aratura. A ci c' da aggiungere soltanto che, a differenza di Pavia, nei due siti bolognesi i resti caprovini mostrano una buona presenza di animali consumati giovani, o meglio giovanissimi, e che la discordanza rilevata a questo proposito rispetto ai dati delle fonti documentarie - che sembrano indicare una prevalente macellazione di agnelli, capretti e persino vitelli - non sembra poi cos accentuata. Le fonti documentarie - riguardanti le impostazioni fiscali sulle macellazioni - potrebbero infatti riflettere una fascia particolare dei consumi, ossia quella direttamente legata al mercato della carne fresca e
utilizzare queste informazioni solo come ordini di grandezza potrebbero risultare legittime solo fino a un certo punto. 54 Si veda per un'eventuale interpretazione in questo senso di dati post-medievali di Pavia (nei quali si verifica un aumento percentuale di bovini e suini) Barker, Wheeler Informazioni sull'economia medievale, cit., p. 254 s.

delle macellazioni urbane, lasciando fuori altri tipi di consumi, macellazioni non soggette a tasse o tendenti a evadere il fisco ecc. Inoltre, anche soltanto un'analisi sommaria delle variazioni mensili delle macellazioni55 porta a sfumare molto, e in base al carattere quotidiano/festivo del consumo di agnelli e capretti, la discordanza tra i due diversi tipi di fonte. Cos da credere che un'analisi contestualizzante dei dati tratti dalle fonti documentarie bolognesi, una collocazione sociale dei consumi indicati - in base ad esempio ad altre fonti fiscali - e un tentativo di defnizione (anche qualitativa) del ruolo dei caprovini giovani e gersino dei vitelli nel complesso della struttura alimentare e produttiva56 potrebbero delineare un quadro molto diverso da quello immediatamente suggerito dai semplici dati quantitativi sulle macellazioni, e, chiss, forse anche pi vicino a quello adombrato dai campioni faunistici. Dal campione di Gubbio emerge un consumo (relativo alla guarnigione) pervalentemente basato sui caprovini giovani e secondariamente sui suini. Invece, sia per ci che riguarda la mensa arcivescovile genovese, sia per i due siti rurali liguri l'elemento comune e connotatore sembra l'alta o altissima quota di frammenti di suini, unita all'assenza o quasi di frammenti di bovini e a una presenza relativamente bassa (sotto il 40% delle specie principali) di frammenti di caprovini, provenienti da animali adulti per Monte Zignago, sia adulti che giovani per Molassana e S. Silvestro. Ci naturalmente ci ricorda quanto rilevato sia per gli insediamenti liguri-lunensi e per Scarlino nell'XI-XII secolo, che per la stessa sede vescovile nel IX-X secolo. Tuttavia, le considerazioni pi interessanti emergono dalla constatazione di quanto sembra avvenire in Maremma. Se nel campione trecentesco di Grosseto sparisce l'alta presenza di frammenti bovini riscontrata nel periodo precedente (XI-XIII secolo), per lasciare spazio ai caprovini - macellati in larga parte abbastanza giovani, ossia entro il secondo anno di et - i quali giungono a coprire i 2/3 dell'insieme delle specie principali, il campione quattrocentesco di Scarlino sembra conoscere un vero e proprio rovesciamento, dalla prevalenza quasi completa dei suini nell'XI-XII secolo alla netta predominanza dei caprovini - pi del 60% delle specie principali e macellati essenzialmente adulti. Quanto a Tuscania, l'attenuarsi del ruolo dei caprovini - che rimangono per una quota decisiva dei reperti quattrocenteschi, dal 58,9% del campione pi ampio del tardo Quattrocento, al 73,6% e 86% di quelli della prima met del secolo, e che sono in maniera pi chiara e decisa macellati adulti - stato felicemente interpretato da Graeme Barker come segno della crisi del sistema di transumanza locale, o meglio gestito dalla stessa comunit, nell'ambito del generale sviluppo della grande transumanza della Dogana del Patrimonio di S. Pietro57. A ci si pu aggiungere soltanto che, se le differenze che pare di intravedere nelle et di morte caprovina tra il campione duecentesco e quelli quattrocenteschi hanno un valore euristico, ci pu costituire un ulteriore tassello per la comprensione dell'economia di Tuscania e del territorio circostante. Si potrebbe infatti pensare che quella parte dei caprovini che sparita nei campioni quattrocenteschi a favore dei suini e in parte dei bovini adulti, possa appunto essere quella degli animali giovani quasi sottratti alle altre finalit produttive, possa appunto essere la carne migliore. In altre parole, si potrebbe pensare che la
Frescura Nepoti, Macellazione e consumo della carne, cit., pp. 286-8. Cfr. ad esempio quanto stato possibile fare, a partire da fonti analoghe, a Nigro, Gli uomini dell'irco , cit. e Leverotti, Il consumo della carne, cit. In particolare nel lavoro di F. Leverotti emerge come i rapporti percentuali tra le varie specie macellate e tra animali giovani e adulti avrebbero indotto a valutazioni errate circa una prevalenza del consumo di animali giovani o circa un indirizzo verso la produzione carnea. Dall'analisi pi generale si vede invece come questo tipo di consumi svolgesse un ruolo limitato e fosse ridotto a ristrette fasce sociali e a particolari momenti dell'anno, mentre la gran parte della popolazione macellava un solo agnello o capretto l'anno, per giunta comprandolo e non producendolo in proprio. Il quadro efficacemente delineato da F. Leverotti dunque quello di una produttivit animale piuttosto ridotta, soprattutto per ci che riguarda la carne, e conforme al classico modello dell'economia contadina. 57 Barker, The economy of medieval Tuscania , cit., pp. 167-70; J. C. Marie Vigueur, Les pturages de l'glise et la Donne du Btail dans la province du Patrimonio (XlVeXVe sicle), Roma 1981.
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diminuzione dei caprovini stia in qualche rapporto con un processo che rende contemporaneamente la finalizzazione extralimentare (e extraterritoriale) di questa parte dell'allevamento completa e la transumanza locale sempre meno importante di quella a grande raggio. I dati archeozoologici maremmani sembrano dunque riflettere in modo diverso - dal "filtro" dati dai consumi della guarnigione di Grosseto nei quali si conserva il ruolo dei caprovini giovani, agli scarti netti e facilmente leggibili di Scarlino, alle complesse variazioni di Tuscania identici processi di trasformazione dell'ambiente e dei modi di sfruttamento di esso. Il punto di coagulo di questi processi sembra consistere nello sviluppo dell'allevamento transumante in un territorio in via di maggiore o minore desertificazione58, cominci questo sviluppo da zero come sembra avvenire a Scarlino (e nei territori circostanti?), o si innesti su pi antichi sistemi come a Tuscania. Il fatto poi che questi processi sembrino significativamente assenti da quanto possibile leggere nei dati liguri, nei quali il ruolo dei suini sembra rimanere immutato, spinge a un'ulteriore riflessione di carattere generale. Ossia che ogni informazione archeozoologica diventa significativa dei processi di trasformazione degli ecosistemi e dell'economia, non soltanto dopo aver subito innumerevoli trattamenti di depurazione dai fattori di "disturbo", non soltanto dopo aver compreso i principali meccanismi connessi alle differenziazioni dei consumi, alle redistribuzioni dei prodotti, e a un pi generale divergere della produzione dal consumo, non soltanto in rapporto agli specifici contesti ambientali, ma anche e soprattutto in rapporto al contesto storico globale e all'interno di alcune decisive periodizzazioni. Questa riflessione pu apparire banale, ma si pensi ai motivi per cui in alcuni contesti signifcativamente periodizzati la funzione di sintomo di processi degenerativi dell'economia e del sistema ecoculturale pu essere assunta dal crescente ruolo della popolazione suina in essi, mentre in altri momenti storici, a indicare fenomeni simili, o precise risposte regressive e fallimentari - in termini di rapporto uomo/ambiente - al degrado terntoriale e alla crisi demografica, pu essere il dilagare dei caprovini e dell'allevamento transumante59. La "soluzione" transumanza infatti, pu per molti versi essere considerata una vera e propria scelta ecoculturale - se pure quasi banale ribadirlo una svolta che connoter per secoli e in maniera globalizzante la storia di ampi spazi del territorio italiano.

In generale sullo sviluppo della transumanza cfr. Cherubini, Le campagne italiane , cit., pp. 329-35; Jones, La societ agraria, cit., pp 461-5. Su questo fenomeno nella Maremma senese cfr. G. Chernbini, Risorse, paesaggio ed utilizzazione agricola del territorio della Toscana sud-occidentale nei secoli XIV-XV, in Civilt ed economia agricola in Toscana nei secc. XIII-XV: problemi della vita delle campagne nel Tardo Medioevo, Pistoia 1981, pp. 91-115, a pp. 112-5; Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, cit., pp. 421-3. Sulla desertificazione delle aree coinvolte da questo fenomeno cfr. Ch. Klapisch, Villaggi abbandonati e emigrazioni interne, in Storia d'Italia Einaudi, V, Torino 1973, pp. 309-64, a pp. 341-57, Ch. Klapisch, J. Day, Villages dserts en Italie, Esquisse, in Villages dserts et histoire conomique. XIe-XVIIe sicles, Paris 1965, pp. 419-59, a pp. 444-50; per la Maremma toscana cfr. Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, cit., pp. 58-65 e 80-5. Sulla transumanza come fenomeno specificamente mediterraneo Braudel, Civilt e imperi del Mediterraneo cit., pp. 73-90. 59 Sulla fallimentariet - in termini di ristrutturazioni ambientali e socio-economiche - dell'incontrastato sviluppo della transumanza cfr. soprattutto Haussmann, Il suolo nella storia dItalia, cit., pp. 74-7, 83 e 87s e Klapisch, Villaggi abbandonati, cit., pp. 345-50.

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La pratica archeologica

Lo scavo il momento qualificante la ricerca archeologica: i problemi delle strategie adottate, del metodo di ricerca, le domande che stanno alla base di un intervento che presenta costi elevati in termini di investimenti finanziari, fisici ed intellettuali sono elementi essenziali per raggiungere gli obiettivi di passare da un'indagine "al microscopio" alla costruzione del documento archeologico e quindi alla elaborazione di un modello, ad una riflessione sul valore del campione archeologico, anche in presenza di evidenze negative. I casi di scavo che abbiamo selezionato come esemplificazioni dei problemi di cantieri in ambito postclassico, lontani da essere esaustivi della pluralit delle situazioni analizzate negli ultimi dieci intensi anni di attivit, rappresentano comunque un largo spazio delle problematiche presenti agli archeologi che operano sul campo. Il caso della Cripta di Balbo a Roma il primo scavo urbano di grande respiro nel quale si pone come problema centrale in modo esplicito il tema del rapporto fra archeologia e restauro architettonico. Un tema vitale perch la ricomposizione di una lettura fra parti in elevato e deposito archeologico attraverso gli strumenti di una "archeologia globale", elaborati in particolare dal gruppo genovese dell'ISCUM1 rappresenta l'unica chiave per superare i limiti di parcellizzazioni disciplinari, che costituiscono barriere insormontabili alla compernsione di fenomeni insediativi e costruttivi. I problemi di una "continuit" insediativa e del rapporto fra archeologia dell'insediamento e archeologia monumentale sono i temi viceversa dello scavo di San Vincenzo al Volturno, che con la vastit dell'evidenza materiale prodotta in oltre cinque anni di scavi, affiancata da sistematiche compagne topografiche, permette di "riscrivere la storia" di una realt molisana in un quadro di riferimento europeo. Lo scavo di San Silvestro di Campiglia marittima riconduce l'interesse al tema classico dei villaggi abbandonati nel XIV secolo, in una situazione caratterizzata da un'economia estrattiva e di trasformazione metallurgica dove lo stato di conservazione dell'insediamento e la "fossilizzazione" del territorio circostante, comprese le miniere contemporanee alla vita del castello, permettono di leggere contesti sociali, attivit produttive e mutamenti tecnologici in situazione ottimale. I tre scavi, a diverso grado di avanzamento e quindi di approfondimento esplicitano chiaramente strategie di intervento, obiettivi posti e problematiche storiografiche2.
Si confrontino in proposito le ultime cinque annate di "Archeologia Medievale". Il saggio di D. Manacorda, Crypta Balbi, che qui si presenta stato pubblicato in " Restauro e Citt ", 2 (1985), pp. 2132; quello di R. Hodges sugli scavi a San Vincenzo al Volturno , invece, nella veste che qui si pubblica inedito, mentre l'ultimo rappresenta il Rapporto preliminare di R. Francovich al saggio Un villaggio di minatori e fonditori di metallo nella Toscana del Medioevo: San Silvestro (Campiglia Marittima), apparso in "Archeologia Medievale", XII (1985), pp. 313-22.
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Daniele Manacorda Appunti su archeologia e architettura nel cantiere della Crypta Balbi

Una storia dei rapporti sul campo tra archeologia e architettura nell'esperienza italiana di questo ultimo secolo ancora da scrivere. Un primo bilancio sommario dovrebbe tuttavia rilevare una persistente condizione di incomunicabilit, quando non di conflittualit, tra le due discipline, e non solo sul piano accademico, quanto soprattutto nella formulazione teorica degli interventi sul campo e nella loro attuazione pratica. Eppure, sul piano della professionalit- che oggi pi di altri ci fa discutere - l'interdipendenza delle due discipline sempre pi stretta1. Episodi significativi di intercambiabilit professionali sono oggi pi frequenti sui nostri cantieri di scavo e di restauro: la problematica scientifica modifica l'angolazione settoriale dell'intervento e pretende la formulazione di ottiche nuove. Il fenomeno, pur nuovo, ha radici profonde. Prima che il divario tra le due discipline continuasse ad approfondirsi (ma esso gi consolidato con la cultura antiquaria) il caso di Giacomo Boni segn un momento nel quale il rapporto tra due competenze, quella architettonica, appunto, e quella archeologica, sembr trovare aspetti di sintesi. Giacomo Boni fu sostanzialmente un archeologo: tanto pi lo possiamo affermare oggi, quanto pi i suoi colleghi si studiarono di sfocarne la definizione2. I motivi di questa difficolt di rapporto da parte di componenti diverse della cultura archeologica italiana verso la fgura e l'opera di Boni vanno ricercati nella incapacit da parte del classicismo di tradizione filologica o di tendenza estetizzante, cos come dello storicismo di tradizione idealistica o materialistica3, di riconoscere la grande lezione di metodo che la formazione positivistica di Boni aveva introdotto nella archeologia italiana, facendolo penetrare per una finestra extraaccademica addirittura nel santuario della cultura classica romana, nel Foro romano4. Eppure la formazione dell'archeologo Boni, che si sarebbe trovato ad assolvere il ruolo di padre senza figli dell'archeologia stratigrafica italiana, era stata piuttosto quella di un architetto. Le sue prime esperienze veneziane saranno sulle impalcature del Palazzo Ducale o a contatto delle fondazioni del campanile di S. Marco, di cui studier insieme gli aspetti strutturali e qualitativi5. La sua esperienza di funzionario della Amministrazione delle Belle Arti sar concentrata per lungo tempo sul problema delle architetture religiose del Medioevo pugliese; il suo maestro e padre spirituale sar per molti versi John Ruskin6.
Si veda ad es. F. Gurrieri, Architetto, archeologo, centro storico. Una collaborazione opportuna per un intervento difficile, "Archeologia Medievale", VI (1979), pp. 23-31, il cui titolo costituisce anche un programma di lavoro. 2 Architetto preferivano chiamarlo Gherardo Ghirardini ( L'archeologia nel primo cinquantennio della nuova Italia , Roma 1912, p. 30), che ne dava comunque un giudizio positivo, o, pi recentemente, Nevio Degrassi (Nuovi metodi di scavo e restauro archeologico e necessit di un loro coordinamento, in Il monumento per l'uomo, Atti del II Congresso internazionale del Restauro, Padova 1972, 171s.), che ne azzarda un giudizio liquidatorio del tutto ingiustificato. 3 Lo stesso R. Bianchi Bandinelli dimostr di non aver sufficientemente compreso l'opera di Boni, un rtore, la cui opera scientifica si ridotta a nulla in pochi anni (Introduzione all'archeologia classica, Bari 1976, a p. 78 s.; cfr. anche Prefazione a C. W. Ceram, Civilt sepolte, Torino 1955, p. 14). 4 Vi entrer infatti in qualit di architetto della Direzione di Belle Arti. Boni, nonostante la sua notoriet in campo internazionale, non fu mai ammesso alla Accademia dei Lincei (cfr. L. Beltrami, Giacomo Boni, Milano 1926, p. 69s.). 5 G. Boni, Il muro di fondazione del campanile di S. Marco a Venezia , "Archivio Veneto", XXIX, 2 (1885); cfr. anche E. Tea, Giacomo Boni nella vita del suo tempo, I Milano 1932, pp. 19 ss. e 154 ss. 6 Beltrami, Giacomo Boni, cit., pp. 17 ss. e 46 ss.
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L'archeologia di tradizione antiquaria ha assimilato asetticamente l'immagine di Boni, disconoscendone la teoria metodologica e respingendone la prassi7. Se oggi i limiti pi evidenti della sua opera appaiono, ai nostri occhi di archeologi di formazione prevalentemente storica, nello scarso spessore della sua formazione storico-erudita8 (e lasciamo da parte gli effetti della sua pi tarda involuzione irrazionalistica), al tempo stesso nella storia della sua formazione culturale e nella sua pratica di ricerca troviamo presenti quelle tematiche che sono oggi al centro anche del dibattito sull'archeologia urbana: la stratigrafia, innanzitutto, quale strumento portante dell'intervento archeologico; l'attenzione rivolta alle tecniche edilizie nei loro aspetti qualitativi (materiali, malte ecc.) come in quelli esecutivi, in un'ottica che oggi riassumiamo con il termine di cultura materiale; la centralit dell'intervento di restauro nel rapporto tra uomo e monumento antico9. Sul piano delle istituzioni la lezione del Boni non ha lasciato tracce. La tradizione degli interventi di restauro sui monumenti, e in particolar modo su quelli di epoca post-classica, da parte delle competenti Soprintendenze ha testimoniato nel suo complesso una volont pervicace di ignorare il dato e il contesto archeologico, negando l'intervento archeologico, quasi che quella archeologia monumentale - pur cos disarmata in campo classico di fronte alle necessit di una lettura stratigrafica del manufatto antico - fosse non di meno di impaccio all'intervento di restauro, angustamente sentito come opera di natura strettamente architettonica. N da parte dell'archeologia, per evidenti motivi portata a vedere pi da vicino i nessi tra archeologia e architettura, si spesso assistito, specie a livello istituzionale, ad un richiamo alle necessit dell'intervento scientifico. La distruzione sistematica di una quantit incalcolabile di contesti archeologici post-classici la diretta conseguenza di questa prassi, che solo in questi ultimi anni sta conoscendo una inversione di rotta. Molto dobbiamo per questo all'opera svolta dalla nascente scuola di archeologia medioevale in Italia, ed in particolare alla rivista "Archeologia Medievale"10. Le stesse prime comparse di ispettori archeologi medievisti sono segnale di una coscienza nuova delle competenze professionali richieste dall'intervento di restauro11. Il processo in atto non lineare e fa giustamente discutere. Se dunque ancora necessario vigilare affinch non si torni a sottrarre alla specificit della competenza archeologica l'intervento conoscitivo nei siti pluristratificati anche di et post-classica, pur vero che la tutela del patrimonio archeologico, e in particolare di quello post-classico, pu realizzarsi soltanto nel quadro di una ricomposizione complessiva delle competenze, perch se indubbio che esistano specificit disciplinari anche certo che esistono

D. Manacorda, Cento anni di ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul metodo , "Quaderni di storia",16 (1982), pp. 85-91. 8 Richiamata da F. Coarelli, Topographie antique et idologie moderne: le Forum romain revisit , "Annales E.S.C.", 37,1982,p.724 ss. e Il ForoRomano. Periodo arcaico, Roma 1983 p. 3 ss. con una sintetica esposizione del dibattito interno all'archeologia classica italiana negli anni a cavallo tra i due secoli, cfr. inoltre le osservazioni esposte in D. Manacorda, Introduzione a E. C. Harris, Principi di stratigrafia archeologica, Roma 1983, p. 27 ss 9 Molto interessante a questo proposito una lettera del Boni del 1893 - precedente di vari anni il suo impegno nel Foro - riprodotta in Tea, Giacomo Boni, cit., p. 433. 10 Mi riferisco agli editoriali della rivista ma anche a singoli contributi - ad es. R. Francovich, Archeologia medievale e istituzioni, "Archeologia Medievale", II (1975), pp. 399-408 - o a numeri monografici, quale quello dedicato alla "Archeologia e pianificazione dei centri abitati", "Archeologia Medievale, VI (1979), nel quale si segnalano per il nostro discorso in particolare gli interventi di F. Gurrieri, R. Francovich, E. Guadagni, A. Gardini, M. Milanese, F. Bonora. 11 Si veda in proposito il documento a cura degli ispettori medievisti delle Soprintendenze italiane pubblicato in "Archeologia Medievale", IX(1982), pp. 439-41: un testo da sottoscrivere, che lascia tuttavia qualche perplessit laddove sembra privilegiare una pur necessaria attivit di tutela per fasce cronologiche di competenza a scapito di un'altrettanto fondamentale concezione dell'intervento a scala territoriale.

settori di "confine", e in questo settore si collocano evidentemente gli interventi di scavorestauro12. Tra le nuove esperienze in atto crediamo che quella in corso a Roma nel cantiere della Crypta Balbi offra un'occasione importante di sperimentazione dei rapporti possibili tra le diverse discipline. Ne premessa lo stesso. contesto da cui l'iniziativa trae origine. Come si gi altre volte avuto occasione di rilevare13, infatti, 1'indagine alla Crypta Balbi pur nella centralit degli aspetti archeologici (conoscenza della stratificazione urbana di un settore-chiave del centro storico; rilevanza monumentale degli insediamenti a scala topografica) - si sviluppa intorno ad un grande tema di natura urbanistica: il reinserimento di un isolato urbano abbandonato e sconvolto (che racchiude insieme con le preesistenze classiche elementi della topografia cittadina del Bassomedioevo, del tardo Rinascimento e dell'et barocca e che ha trovato la sua definitiva fisionomia nel corso del XVIII secolo) nell'ambito di un quartiere che ha visto in epoca recente uno sventramento urbanistico condotto in un punto delicato della pi antica viabilit storica di Roma. Cultura architettonica e urbanistica e cultura archeologica sono chiamate a trovare insieme le risposte adeguate. La scala urbana pretende che il discorso sul riuso e lo sviluppo del tessuto urbano non vada disgiunto dalla tutela del dato archeologico, cio dalla sua comprensione e quindi dal suo studio. La consapevolezza che la valorizzazione del patrimonio archeologico costituisca comunque un presupposto fondamentale per la riqualificazione del tessuto urbano una delle ipotesi di partenza del progetto Crypta Balbi. Nella prospettiva urbana, in altri termini, le stesse opere di restauro e recupero vengono cos a definirsi in termini complessi ed ormai totalmente estranei al tradizionale concetto di monumento. Ad esso si sostituisce l'interesse di una testimonianza diacronica costituita dall'insieme dei dati scientifici propri di uno scavo stratigrafco in area urbana14. Credo si debba rilevare l'importanza del fatto che queste formulazioni giungano dal versante della cultura architettonica, che si trova oggi di fronte al profondo rinnovamento in atto nella cultura archeologica italiana - a misurarsi con strumenti teorici e pratici - la stratigrafia innanzituttorimasti sinora periferici al suo bagaglio concettuale. Queste condizioni, che fanno di alcuni cantieri di intervento archeologico-architettonico in Roma, in atto o in programmazione, occasione di costruzione di nuovi laboratori, si collocano nel quadro dell'applicazione della legge speciale per la tutela e la valorizzazione dei monumenti antichi di Roma: una legge che ha fatto molto discutere, destinata a segnare la storia urbanistica di Roma. Rivolta al passato, essa si riallaccia alle faticose iniziative che attraverso tortuosi cammini condussero alla creazione, sia pur mutilata, della Zona archeologica di Roma15; rivolta al presente e al prossimo futuro della citt, essa offre alcuni strumenti che hanno cambiato qualcuna delle carte in tavola nel gioco delle responsabilit urbanistiche. Se tutelare significa innanzitutto comprendere, quindi dotarsi di strumenti di conoscenza, intervento di restauro e intervento
Si veda il documento Archeologia postclassica. Competenze di intervento e necessit di tutela con le relative osservazioni di R. Francovich, "Notiziario di archeologia medievale", 37, gennaio 1984, pp. 3-5. 13 Sull'indagine in corso alla Crypta Balbi si vedano: D. Manacorda, Archeologia urbana a Roma: il progetto della Crypta Balbi, Firenze, 1982,Un "mondezzaro" del XVIII secolo, a cura di D. Manacorda, Firenze 1984 e Id. (a cura di), Il giardino del Conservatorio di Santa Caterina della Rosa a Firenze, 1985, relazioni preliminari e notizie si troveranno in D. Manacorda, L'enquete archologique dans la zone de la Crypta Balbi, "Nouvelles de l'archologie", 13 (1983), pp. 11-6, A. Gabucci, L. Sagul, L'enquete archologique de la Crypta de Balbus, in Archologie et projet urbain, Paris 1985, pp. 177-81; AA.VV., Crypta Balbi, 1981-1983, in Roma Archeologia nel centro, vol. II, pp. 54664, De Luca, Roma 1985; L. Sagu, in "Archeologia Medievale", XII (1985), pp. 471-84 e XIII (1986) pp. 345-55. 14 M. L. Conforto, Problemi del recupero urbano, in Manacorda, Archeologia urbana, cit., p. 75. 15 Sulla legge n 92/1981 e i problemi della sua applicazione cfr. Roma. Archeologia e progetto cit., nonch A. La Regina, Programmi della Soprintendenza archeologica di Roma, in Archeologia laziale, IV, Roma 1981, pp. 13-22. Per le vicende della Zona archeologica si veda da ultima P. Ciancio Rossetto, La passeggiata archeologica, in L'archeologia in Roma capitale tra sterro e scavo, Venezia 1983, pp. 75-88.
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stratigrafico vanno di pari passo e insieme indicano che l'archeologia, cio la somma delle tante archeologie in cui ancora ci dibattiamo, depurata del classicismo e del monumentalismo, si candida a buon diritto tra le discipline in grado di contribuire alla programmazione ed alla esecuzione dell'intervento urbanistico: l'archeologia muove la citt, e aiuta a sollevare il velo dai suoi "buchi neri", introducendovi ottiche inconsuete. Da questo angolo di visuale riusciamo forse a capire meglio alcuni aspetti della rovente polemica sul progetto di scavo dei Fori imperiali: un dibattito assai complesso, non schematizzabile, ma nel quale la nuova capacit programmatrice assunta dall'archeologia urbana ha dimostrato di toccare corde assai delicate e di rompere steccati consolidati anche nel campo della cultura architettonica ed urbanistica, e specialmente in quello della storia dell'arte, il pi pronto, si direbbe, ad alzare il tono della polemica, il pi restio, in taluni suoi rappresentanti, a rendersi conto che la disciplina archeologica con cui misurarsi parla un linguaggio e agita problematiche assai diverse dalle fastidiose e rassicuranti retoriche di un tempo. La storia dell'insediamento copre due millenni e mezzo di vita urbana. Abbiamo avuto occasione di esporre altrove il succedersi delle fasi urbanistiche e di elencare fonti e problematiche relative. Qui ci limitiamo a richiamare quella che sembra essere una tendenza ricorrente nella tipologia dell'insediamento, costituita da un'alternanza di momenti di accorpamento edilizio e urbanistico a momenti di disgregazione e parcellizzazione nell'uso del suolo16. La storia del sito storia di grandi monumenti, certamente, ma anche storia di grandi spazi, di pieni e di vuoti e di continne tensioni tra questi due elementi sul piano della stratigrafia orizzontale, di continua alternanza di pieni a pieni, di pieni a vuoti e anche di vuoti a vuoti sul piano della stratigrafia verticale. Murature e terre formano un amalgama che solo l'indagine stratigrafica in grado di cogliere. appunto anche questo il grande compito delI'archeologia urbana, che per defnizione rifugge da ottiche gerarchizzanti: isolare un problema con atteggiamento totalizzante significa in queste condizioni condannarsi a non comprenderlo o ad averne quanto meno una immagine assai parziale. Ma il rifiuto dell'ottica selettiva comporta all'archeologo come all'architetto, all'indagine stratigrafica come al progetto di restauro, il problema della scelta tra conservazione e distruzione17. Questo conflitto si colloca su due diversi piani: vi una conflittualit oggettiva sul piano urbanistico e sociale quando l'intervento archeologico (e di restauro) metta in discussione l'effettiva possibilit di sussistenza delle strutture moderne o contemporanee insistenti su preesistenze antiche; vi un'altra sorta di conflittualit, di natura pi culturale e metodologica, che sorge di fronte alla necessit di scegliere nel corso dell'intervento per la conservazione di un contesto a danno di un altro. Nel primo caso ci troviamo di fronte a problematiche che non dovrebbero appartenere alla prassi dell'archeologia urbana che - a differenza dell'archeologia monumentale - non vuole essere il grimaldello per operazioni di sventramenti urbanistici n per allestimenti di "banchetti" archeologici di infausta memoria: deve semmai intervenire per limitare i danni tramutando operazioni distruttive in occasioni di conoscenza. Nel secondo caso il conflitto interno agli stessi strumenti concettuali dell'archeologia urbana: la sua risoluzione credo vada cercata tuttavia al suo esterno, coinvolgendo in essa tutti gli operatori del settore, archeologi e architetti e non soltanto questi. Nel cantiere della Crypta Balbi ci si trova ad operare al di fuori delle ipotesi gi sperimentate come valide, e secondo parametri metodologici ancora da definire e di difficile definizione [. . .]. Si tratta prima di tutto di acquisire allo spazio urbano la lettura scientifica delle trasformazioni avvenute [. . .], dei cambiamenti subiti dalle unit abitative e dagli edifici che definiscono il perimetro, distinguendo strutture originarie e superfetazioni, adattamenti e trasformazioni in un insieme reso oggi incomprensibile [...] ritrovando una forma che questo insieme riscatti dal
Cfr. nota 13, in particolare Manacorda, Archeologia urbana, cit., p.l4 s. Un problema che, per quanto riguarda lo "scarto" dei reperti mobili comincia ad essere affrontato in termini pi approfonditi da parte degli stessi archeologi: cfr. A. Ricci, Carta da macero e "cocciopesto": appunti sullo scarto di reperti archeologici, "Quaderni storici", 56(1984), pp. 655-68.
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risultato casuale di oltre quaranta anni di abbandono18. I due piani nel nostro caso, dunque, si intersecano. Mentre nel primo piano non in discussione la salvaguardia dei volumi e delle linee essenziali della stessa tipologia dell'insediamento (altra cosa la discussione sulla destinazione d'uso), nel secondo piano non possiamo che rifarci a quanto gi osservato all'atto della presentazione del progetto: L'ipotesi archeologica su cui lavorare quella della definizione di contesti insediativi omogenei da scavare o da conservare integralmente, una volta che siano stati inseriti nella sequenza stratigrafica. Sul piano urbanistico potremmo pensare - parallelamente ad una scelta che privilegi il mantenimento delle forme compiute, comprensibili e reinseribili nel contesto urbano19. Queste formulazioni astratte, e che altro non vogliono essere che una riflessione a voce alta su di una tema che non conosce ancora proposizioni definitive, hanno sinora avuto riscontro nelle scelte effettuate sul cantiere della Crypta Balbi, dove la prospettiva perseguita quella di creare le premesse per una sorta di antologia degli insediamenti urbani riconoscibile e percorribile una volta che- terminata l'operazione di scavo e restauro - l'area potesse essere restituita al godimento pubblico. Questa antologizzazione dovrebbe condurre alla definizione di spazi aperti e di spazi fabbricati che consentano di leggere - sia pure a livello di campionature - la successione stratigrafica e quindi la storia urbanistica. L'obiettivo certamente anche quello di recuperare l'uso di parte almeno degli antichi criptoportici (la cui natura ancora ci sfugge) e di riacquistare la praticabilit di un settore della piazza augustea, individuando un'area dove sia possibile esporre un quadrante delle sue preesistenze, ma anche di definire un settore dove sia possibile rendere testimonianza della qualit e dell'estensione dell'accumulo altomedievale (la "distruzione" di Roma antica) e del sorgere dei nuovi insediamenti. Se l'area un tempo occupata dalla chiesa di S. Maria (nota dal X secolo) dovesse ancora conservarne le vestigia in termini comprensibili (lo scavo non ha ancora affrontato quell'area) la sua conservazione, in un settore perimetrale dell'isolato, si imporrebbe rispetto a pur pressanti necessit di conoscenza della natura del monumento sulle cui rovine la chiesa dovette erigere le proprie fondamenta. Una quinta monumentale chiude a sud-ovest il complesso rinascimentale con la chiesa di S. Caterina e le arcate superstiti del convento cinquecentesco, la cui persistenza consente in questa ottica di approfondire l'indagine al di sotto dei piani d'uso superstiti in altre zone del fabbricato, di cui vengono scavati integralmente ambienti e fondazioni, privilegiando in questo caso l'indagine dei livelli bassomedievali dell'area, a tutt'oggi tra i pi complessi e sconosciuti. Questo orientamento sin qui seguito si riflette pertanto in una programmazione che abbia come costante riferimento il riconoscimento dei rapporti esistenti (o un tempo esistiti) tra le aree aperte e le strutture in elevato (o quanto di queste ancora resta), trasformando s il momento della "distruzione" archeologica in occasione di arricchimento di conoscenze storiche, ma anche in opportunit di ricomposizione (effimera se destinata allo scavo, duratura se alla conservazione) di unit topografiche delle quali il tempo aveva lasciato che si perdesse la percezione. Se questo problema il pane quotidiano dell'archeologia stratigrafica e dell'applicazione della strategia per grandi aree20, a scala pi grande il problema coinvolge necessariamente un arco pi ampio di competenze e si riflette drammaticamente sulla programmazione delle attivit di ricerca e di restauro. Se distruggere significa conoscere, alla scala ridotta dell'intervento stratigrafico l'intreccio di competenze tra archeologo e architetto torna a porsi attraverso lo studio delle tecniche costruttive. Questo aspetto della ricerca ha una lunga tradizione in campo classico, con ombre e luci. In questa sede varr solo la pena di ricollegarsi brevemente ad una nota polemica degli anni Cinquanta che
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Conforto, Problemi del recupero, cit., p. 75. Manacorda, Archeologia urbana, cit. p. 13. 20 Su cui cfr. Ph. Barker, Tecniche delio scavo archeologico, Milano 1981 p. 59 ss.

riflette quanto il problema dell'approccio al monumento, il cui studio tecnico apre orizzonti nuovi alla comprensione della cultura che lo produsse oltre che alla determinazione della cronologia, sia stato uno dei temi pi delicati del rapporto tra topografia classica e archeologia stratigrafica. Mi riferisco alla recensione che Nino Lamboglia dedic alla ormai classica monografica di Giuseppe Lugli sulla Tecnica edilizia romana ed alla risposta, molto illuminante, dell'autore21, Al di l delle forzature e dei limiti delle due posizioni22, quella polemica nasceva da una sostanziale contrapposizione metodologica che mentre faceva asserire a Lamboglia che il rapporto costante fra il monumento e lo strato coi suoi materiali [. . .] il punto cruciale del metodo stratigrafico applicato all'archeologia classica23 consentiva invece al Lugli di teorizzare non solo la legittimit dell'esistenza ma la necessit di distinzione di due metodi formatisi nella nostra scienza archeologica in relazione col "piano di campagna": il metodo strutturale-architettonico, per tutto ci che sopra terra, e il metodo preistorico-stratigrafico per tutto ci che sotto terra24: una formulazione, come ben si vede, che vanifica ab imis ogni ulteriore discorso sul rapporto necessario tra archeologo e architetto. certamente una posizione anacronistica che pi non ci riguarda, ma che va richiamata per aiutarci a comprendere alcune delle radici culturali delle nostre problematiche25. Lo studio delle tecniche edilizie rappresenta - si diceva - uno degli elementi di novit che caratterizzano l'attuale stagione della archeologia post-classica. Sentiamo assai pi di ieri il bisogno di costruire un linguaggio comune tra archeologi e storici dell'architettura, i quali a loro volta cominciano a porsi nuovi interrogativi ed a fare alcuni conti con il passato.. La direzione quella della definizione disciplinare di una archeologia dell'architettura moderna26, che - anche attraverso la riflessione sull'opera di personalit contraddittorie del recente passato, di formazione positivistica27 _ rivendichino alla storia dell'architettura un approccio conoscitivo ispirato ai metodi dell'archeologia, o meglio alla stessa ottica della ricerca archeologica28. I concetti intorno ai quali si definisce la storia della cultura materiale credo possano rappresentare il sottofondo comune a questa ricerca, della quale gli aspetti archeologici e storico-architettonici non sono che due punti di vista ora paralleli ora sovrapponibili. Da un incontro con le problematiche storico-architettoniche l'archeologo ha molto da guadagnare: l'architettura nella prospettiva archeologica ha spesso sofferto per una irrisolta mescolanza di aspetti tecnici, stilistici o tipologici, non sempre sostenuti da una sufficiente capacit di analisi

Cfr. N. Lamboglia, Opus certum , "Rivista di studi liguri", XXIV (1958), pp. 158-70 e G. Lugli, Opus incertum , "Rendiconti dell'Accademia dei Lincei", XIV (1959), pp. 321 -30. 22 Cfr. Manacorda, Cento anni, cit., pp. 106-8. 23 N. Lamboglia, La datazione stratigrafica dei monumenti di et classica , in Cronica del IV Congreso internacional de Ciencias prehistricas y prothistricas - Madrid 1954, Zaragoza 1956, p. 904. 24 Lugli, Opus incertum, cit., p. 329. 25 Pur riconoscendone la funzione per l'analisi dei monumenti la stratigrafia viene confinata all'indagine nel sottosuolo finalizzata allo studio dei reperti ceramici da G. Caputo, Metodo di scavo e sistemi di restauro, in Il monumento per l'uomo, cit., p. 190: ma si veda nel suo stesso contributo la riproduzione della stratigrafia del crollo della basilica severiana di Leptis Magna, esempio mirabile per l'epoca (1937) dell'applicazione dell'osservazione stratigrafica al progetto di restauro monumentale (ivi, p. 184, fig. 7). Nello stesso volume il testo dovuto a G. Ioppolo, Contributo per una metodologia nella ricerca archeologica e nel restauro dei monumenti antichi (pp. 231-4) testimonia di una ben pi matura sensibilit verso i problemi della lettura stratigrafica dei monumenti, isolati d'altronde nel panorama del tempo. 26 Cfr. nota 2. 27 La figura di Gustavo Giovannoni meriterebbe in questo contesto di essere analizzata in relazione - sul piano culturale come su quello politico-ideologico - con i due grandi personaggi dell'archeologia italiana di formazione positivistica, Giacomo Boni e Nino Lamboglia. 28 P. Marconi, Il conoscitore di architettura "moderna": quale storia per il restauro , "Ricerche di storia dell'arte", 20 (1983), p. 7.

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strutturale dei manufatti29. La storia dell'architettura a sua volta non pu non beneficiare dell'inserimento delle ottiche stratigrafiche, ad essa storicamente estranee e che le consentono invece a livello di elaborazione un arricchiamento metodologico evidente, a livello di operativit la possibilit di superare la facciata, l'immagine esterna dell'architettura, per andare a sezionare le componenti pi intime, riflesso diretto del lavoro umano30. Questa complessa problematica si va affrontando alla Crypta Balbi a misura che l'indagine di scavo, con l'allargamento del cantiere ai fabbricati perimetrali, si viene a fondere in forme sempre pi interdipendenti con il cantiere di restauro. I primi passi riguardano l'awio di una definizione delle tipologie delle tecniche edilizie e dei materiali impiegati, la creazione di archivi di malte, di laterizi, di elementi costruttivi, l'avvio dell'analisi epigrafica doliare di et post-classica. Prendendo le mosse da esperienze gi maturate in campo classico e medievale, ci si indirizza alla elaborazione di una nuova scheda dell'unit muraria31 inseribile nel meccanismo della documentazione archeologica, ma in grado di essere utilizzata nella analisi del manufatto architettonico con la stessa rigorosa duttilit con cui essa pu essere utilizzata quale elemento costituente la ricostruzione della sequenza stratigrafica. L'introduzione di strumenti di natura archeologica nello studio delle tecniche edilizie nel cantiere di restauro dovrebbe trovare una corrispondenza nella maggiore acquisizione da parte dell'archeologo della capacit, propria dell'architetto, di ragionare per organizzazione degli spazi, funzioni, percorsi: un'attitudine certamente non ignota all'archeologo ma troppo spesso limitata da una tendenza descrittivistica che non rende ragione alla mole del lavoro analitico, che il presupposto, ma non il fine della indagine stratigrafica. Questa capacit - si potrebbe anche dire questa curiosit - si traduce a livello di rappresentazione grafica nell'attenzione maggiore che l'archeologo dovrebbe rendere alle ricostruzioni topografiche e architettoniche degli insediamenti (un'attitudine assai sviluppata nella cultura ottocentesca e poi via via andata perduta), specie attraverso un uso pi diffuso e consapevole della rappresentazione assonometrica, che restituisce al monumento quella potenzialit di tramissione di informazioni che al rudere non concessa. Ma l'apporto pi significativo dell'ottica stratigrafica all'analisi archeologico-architettonica costituito dall'introduzione del fattore tempo nella documentazione archeologica come nel rilievo dei monumenti32. la quarta dimensione infatti che viene documentata principalmente dalla sezione stratigrafica, dove il contatto materiale dei tratti grafici che si sovrappongono l'un l'altro intende proprio testimoniare la dinamicit della stratificazione, mentre la sua qualit viene affdata alle diverse tecniche di caratterizzazione, secondo una rappresentazione estranea al repertorio grafico delle sezioni architettoniche, ma a questo complementare 33. Ed la quarta dimensione che l'archeologo introduce nella sua documentazione grafica orizzontale al momento della redazione delle piante composite: piante per fase, e come tali sincroniche, ma solo interpretabili in una sequenza stratigrafica che registri le presenze e le assenze, gli apporti come le sottrazioni, anche
Non si pu non concordare con quanto scrive a questo proposito C. F. Giuliani, Introduzione a C. M. Amici, Foro di Traiano: basilica Ulpia e biblioteche, Roma 1982, p. IX s. Ma un problema in questo senso sembra porsi anche nella formazione professionale degli storici dell'architettura (cfr. Marconi, Il conoscitore, cit.). 30 Il problema ben definito da E. Guadagni: L'architetto, il muratore, il tecnico, dovranno farsi archeologi, o meglio l'archeologo dovr entrare col proprio bagaglio metodologico nel gruppo di lavoro che interviene sulla conservazione e da questa indispensabile collaborazione nella fase conoscitiva dovranno prendere l'avvio le proposte per l'intervento di restauro, Il recupero delle tradizioni costruttive locali nel restauro del patrimonio edilizio esistente, "Archeologia Medievale", VI (1979), p.99. 31 Ricordo a tale proposito le importanti esperienze portate avanti da R. Parenti negli scavi condotti dall'lnsegnamento di Archeologia medievale dell'Universit di Siena sotto la direzione di R. Francovich. 32 Particolarmente chiare mi sembrano a tale proposito le osservazioni di F. Bonora, Nota su un'archeologia dell'edilizia, "Archeologia Medievale", VI (1979), in part. pp. 171s. e 176. 33 Su teoria e prassi dell'intervento stratigrafico rinvio a A. Carandini, Storie della terra , Bari 1981 e ad Harris, Principi di stratigrafia, cit., due opere che non dovrebbero mancare nello scaffale dell'architetto impegnato nei cantieri di restauro.
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qui secondo uno schema grafco estraneo al rilievo architettonico ed alla rappresentazione planimetrica di natura topografica. La riproposizione del criterio di lettura stratigrafica delle planimetrie sui prospetti degli elevati rappresenta il momento di incontro pi ravvicinato tra l'ottica archeologica e quella dell'architetto. Oltre a raffigurare sul piano verticale la dinamicit della stratificazione (le leggi che presiedono alla stratigrafia verticale sono le stesse definite per qualunque tipo di stratificazione archeologica) la stratigrafia degli elevati introduce al tema centrale del rapporto tra stratigrafie orizzontali e verticali, sia nella sua forma direttamente verificabile nel procedimento di scavo, sia nella sua forma ricostruibile per associazioni, confronti, periodizzazioni, attraverso la storicizzazione del dato stratigrafico: un aspetto centrale della ricerca dell'archeologo, ma altrettanto fondamentale per qualunque ipotesi di restauro architettonico. Questa capacit di tradurre in un sistema integrato di documentazione grafica e scritta le osservazioni stratigrafiche condotte sull'insieme monumento-ambiente non ancora, almeno quanto dovrebbe esserlo, patrimonio consolidato della professionali dell'archeologo. Altrettanto in formazione mi sembra essere, dal punto di vista dell'archeologo, la figura dell'architetto in grado di utilizzare a pieno la mentalit stratigrafica nel proprio intervento sul cantiere di scavorestauro. I1 tema della formazione professionale mi pare quindi che scaturisca come necessaria conclusione di questa serie di appunti, che non si posta altro obiettivo se non quello di una riflessione su problemi e aspetti del lavoro quotidiano in un cantiere di archeologia urbana. Senza dubbio sar il moltiplicarsi delle occasioni di incontro sui cantieri che indicher le strade pi adatte al conseguimento di questa formazione professionale; ma senza un pronto coinvolgimento delle nostre istituzioni (nella formulazione dei piani di studio universitari, nell'organizzazione delle scuole di perfezionamento, nella elaborazione dei programmi concorsuali per l'accesso all'Amministrazione dei beni culturali) le vie saranno pi tortuose, le soluzioni pi episodiche, il livello di consapevolezza pi incerto. In questa fase, credo, abbiamo bisogno di empiria; ma lo sbocco di un approccio empirico deve essere quello della defnizione di una figura professionale nella quale i contenuti di una formazione storico-filologica e insieme tecnico-operativa trovino una sintesi equilibrata.

Richard Hodges Scavi a San Vincenzo al Volturno: un centroregionale ed internazionale dal 400 al 1100*

San Vincenzo al Volturno fu uno dei maggiori monasteri benedettini dell'Europa altomedievale. Il Chronicon Vulturnense, una storia del monastero compilata nel XII secolo, lo paragona, nel IX secolo, a Farfa e a Montecassino per splendore ed importanza (fg. 1): il cronista descrive una comunit prospera, dell'ordine di grandezza di un piccolo regno, e governata da una serie di abati potenti1. Tuttavia, al contrario di molti altri grandi monasteri suoi contemporanei, San Vincenzo al Volturno oggi dimenticato, e storici e archeologi non ne conoscono l'ubicazione e la fisionomia attuale. Solo la pubblicazione del Chronicon, awenuta negli anni Venti e Trenta ad opera di Vincenzo Federici, ha risvegliato l'interesse degli studiosi per questo importante centro2 . L'abbazia sorge presso le sorgenti del Volturno, nella piana di Rocchetta, ai piedi dei monti dell'Abruzzo, al confine settentrionale dell'odierno Molise. San Vincenzo si trova a soli 30-40 km in linea d'aria da Montecassino, ma il viaggiatore moderno deve attraversare gli Appennini e risalire la tortuosa valle del Volturno, prima di raggiungere l'abbazia fra i monti. Il suo isolamento geografico attuale non era tale nell'antichit: in periodo preromano la zona si trovava sull'itinerario dei pastori transumanti che ogni anno si spostavano dalla Puglia e dalla Basilicata ai pascoli degli Abruzzi, ed era quindi densamente popolata. Anche in epoca classica, i pastori facevano probabilmente tappa nella piana di Rocchetta prima di affrontare l'aspra salita verso le Mainarde a circa 2000 m. di altezza. In epoca post-classica questa stessa catena montuosa segnava il confine fra il Ducato (pi tardi Regno) di Benevento e gli stati della Chiesa a nord; fra VIII e IX secolo infine la regione ebbe per un breve periodo il ruolo di frontiera meridionale dell'Impero carolingio, fino al disfacimento di questa formazione politica. Nei secoli seguenti, l'instabilit politica del centro e del meridione d'Italia fece s che la prosperit dell'abbazia dipendesse principalmente dalla sua prossimit ai ricchi pascoli degli Abruzzi: questi assicurarono la relativa prosperit dei villaggi dell'alta valle del Volturno rispetto ai centri del Mezzogiorno. Come nel Sud, tuttavia, anche qui l'emigrazione, dal XIX secolo, verso le citt dell'Europa settentrionale e dell'America ha dato luogo ad un drammatico spopolamento, e una delle principali risorse della regione rimane oggi l'industria turistica, al cui potenziamento potr contribuire anche lo scavo e l'apertura al pubblico di San Vincenzo al Volturno.

*Desidero ringraziare la soprintendente dottoressa DHenry ed inoltre i responsabili e i volontari che hanno lavorato a S. Vincenzo. 1 Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici [F.S.I. 58-60], Roma 1925-38. 2 Ibid.

FIGURA 1 Carta di localizzazione di San Vincenzo al Volturno L'ubicazione precisa del monastero altomedievale era, fino a pochi anni fa, sconosciuta, e, bench la scoperta di una cripta affrescata del IX secolo avrebbe dovuto richiamare l'attenzione degli studiosi su questo sito, il suo isolamento ha scoraggiato qualsiasi ricerca. I risultati del nostro lavoro, ottenuti in cinque anni di scavi, vanno in primo luogo inseriti nella prospettiva storica dello sviluppo del monastero, come descritto dal Chronicon Vulturnense, la principale fonte per il periodo che va dalla fondazione di San Vincenzo all'inizio del XII secolo. Il cronista, Giovanni, utilizz probabilmente documenti dell'VIII, IX e X secolo: per opportuno leggere il Chronicon con una certa cautela, perch esso venne redatto con lo scopo dichiarato di esaltare l'importanza del monastero in un periodo in cui le sue fortune erano in declino. In breve, la storia riferisce di come tre monaci dell'abbazia di Farfa, Paldo, Taso e Tato, fondarono San Vincenzo all'inizio dell'VIII secolo, in un luogo selvaggio e boscoso. probabile che ai monaci venisse fatto dono dei ruderi di una tenuta, ai confini settentrionali del Ducato di Benevento, appena fondato. Sembra anche che i monaci restaurassero una chiesa preesistente, costruita, secondo la tradizione, in epoca costantiniana. I tre fondatori collaborarono poi alla rifondazione dell'abbazia di Montecassino. Le ragioni della dedica dell'abbazia a San Vincenzo rimangono oscure e anche il Chronicon non ne fa menzionare3; forse le reliquie del martire menzionato in un documento del X secolo appartenevano ad uno sconosciuto di epoca tardoromana, piuttosto che al famoso santo spagnolo4. Il monastero del secolo VIII era probabilmente di piccole dimensioni, anche se nel suo scriptorium venne redatto, al tempo dell'abate Ato, il famoso Codex beneventanus5. Quando l'imperatore Carlo Magno, nel terzo quarto del secolo VIII, conquist il Regno longobardo settentrionale, San Vincenzo, come altri monasteri, si trov a dover decidere fra la fedelt ai
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P. J. Geary, Furta Sacra. Theits of relics in the central Middle Ages, Princeton 1978, p. 166 s. Ibid. 5 D. H. Wright, The canon tables of the Codex Beneventanus and related decoration, "Dumbarton Oaks Papers", 33 (1979), pp. 135-56.

duchi locali e il rispetto verso il potente conquistatore. In quest'epoca secondo Paolo Diacono, che scriveva a Montecassino, San Vincenzo al Volturno era una comunit di una certa entit6. La decisione dell'abate Paolo, intorno al 780, di schierarsi con i Carolingi, pu essere stata la causa di una serie di nuove donazioni all'abbazia, ma solo con il suo successore, Giosu (792-817), che 1'appoggio carolingio assunse una forma tangibile. Il Chronicon descrive la ricostruzione di San Vincenzo che Giosu comp con l'aiuto di suo cognato, Ludovico il Pio; pare addirittura che il re franco organizzasse lo spoglio sistematico di un tempio romano a Capua, per poi farlo trasportare a San Vincenzo pezzo per pezzo. Per quanto si tratti forse solo di una leggenda, questo episodio rivela gli stretti rapporti esistenti fra la corte carolingia e il monastero benedettino, ed il prestigio che a questi attribuiva il cronista nel XII secolo. Dopo Giosu, gli abati Talarico ed Epifanio continuarono ad espandere il monastero, costruendo nuove chiese e ottenendo donazioni dai beneventani. Lo zenith delle fortune del monastero fu raggiunto alla met del IX secolo, e l'awento, nell'860, di una banda di pirati Saraceni, segn l'inizio del declino. In quell'occasione, i pirati nordafricani si accontentarono di un riscatto, ma nell'ottobre dell'881 un'altra banda, guidata dal feroce Saradan, attacc San Vincenzo, e, dopo una drammatica battaglia, saccheggi l'abbazia, spogliandola di tutti i suoi tesori e costringendo i monaci sopravvissuti a fuggire a Capua. Essi ritornarono nel 914-15, e probabilmente utilizzarono San Salvatore, piuttosto che la chiesa madre, ormai in rovina. Nel secolo che segu, l'attivit edilizia nel monastero fu assai ridotta, e vi fu invece un crescente interesse per l'amministrazione delle terre di propriet di San Vincenzo: il Chronicon riporta una serie di carte che documentano la fondazione di villaggi dopo il 940; alle popolazioni degli insediamenti gi esistenti vennero dati in afftto nuovi terreni, con lo scopo evidente di formalizzare il rapporto fra questi e l'abbazia, e nello stesso tempo di aumentare la produzione agricola, mediante la colonizzazione delle aree boschive. probabile che San Vincenzo incoraggiasse l'"incastellamento" della zona, per procurarsi le risorse necessarie a riparare e mantenere il monastero in rovina, seguendo l'esempio di Farfa e Montecassino7. certo che nel periodo che segu la concessione di queste carte di fondazione e affitto nel monastero si ebbe una fase di grande attivit edilizia. Al tempo dell'abate Giovanni IV (998-1007) la chiesa madre, abbandonata nell'881, fu restaurata. In seguito l'abate Ilario (1011-45) fece costruire un nuovo campanile, mentre Giovanni V (1053-76) rinnov il pavimento nella grande chiesa e costru un nuovo chiostro. Con l'abate Gerardo, un ex monaco di Montecassino all'epoca di Desiderio, la chiesa madre fu totalmente ricostruita, ad imitazione della bella basilica di Montecassino voluta da Desiderio, e fu completata solo al tempo di Benedetto (1109-17), quando il monaco conosciuto come Giovanni era gi intento a scrivere la storia di San Vincenzo8. La stesura di quest'opera si colloca all'inizio del defnitivo declino di San Vincenzo. Nel XIV secolo il monastero venne gravemente danneggiato da un terremoto, e da allora esso ebbe solo importanza locale, fno a che, nel 1699, le sue propriet vennero rilevate da Montecassino. La chiesa abbaziale fu fatta restaurare dai cassinesi, che la usarono come luogo di ritiro estivo. Keppel Craven, un viaggiatore inglese che visit San Vincenzo nel 1837, ignor sia l'edificio, di cui sembrava non conoscere la storia, che la cripta affrescata, allora da poco (1832) scoperta da O. Fraja-Frangipane, archivista di Montecassino9. Gli affreschi richiamarono l'attenzione degli storici dell'arte, che nei 150 anni seguenti li studiarono, anche se nessuno tent di inserirli nel pi ampio contesto della storia dell'abbazia. La chiesa abbaziale fu poi danneggiata durante la
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi. C. Wickham, Il problema dell'incastellamento nellItalia centrale: l'esempio di San Vincenzo al Volturno , Firenze 1985. 8 A. Pantoni, Le chiese e gli edifici del monastero di San Vincenzo al Volturno , Montecassino 1980, p. 69 s. Pantoni crede che il sito del monastero sia sempre stato quello odierno, e perci attribuisce i chiostri della "nuova" abbazia (I'attuale) a Giovanni V (pp. 75-7) e suggerisce che la fase finale della chiesa abbaziale sia stata operata da Gerardo. 9 Pantoni, Le chiese e gli edifici, cit., p. 91.
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Seconda guerra mondiale e restaurata nel periodo postbellico sul modello della chiesa dell'XIXII secolo di cui parla l'autore del Chronicon. Nel 1972 infne, poco dopo la pubblicazione del famoso studio che H. Belting dedic agli affreschi della cripta10, la fattoria che la sovrastava fu sostituita da un curioso edificio di copertura che, insieme ai "restauri" eseguiti all'epoca, port al drammatico deteriorarsi delle pitture, che a tutt'oggi rappresenta un problema per la Soprintendenza archeologica del Molise. Il professor D'Agostino, soprintendente nel 1979, ci invit a scavare la zona circostante la cripta, conosciuta con il nome di San Lorenzo, in via preliminare al restauro completo degli affreschi sotto la direzione del professor Basile del Centro di restauro di Roma. Per ragioni che sono state esposte altrove11, noi chiedemmo di studiare non solo la cripta ma anche il monastero nel suo insieme, e, in seguito al lavoro di C. Wickham sullo studio della terra di San Vincenzo compiuto da M. Del Treppo, di condurre una ricognizione di superficie e dei saggi di scavo in alcune localit della regione legate al monastero. Il nostro scopo era quello di condurre un programma di ricerca interdisciplinare che ci permettesse di definire il ruolo del monastero nella regione fra VIII e XI secolo. In particolare, si sperava di ottenere dati sufficienti sulla forma del monastero per stabilirne la funzione come centro regionale nell'Altomedioevo. Va sottolineato che il lavoro stato intrapreso con in mente tre punti principali, che hanno poi guidato la nostra strategia successiva. In primo luogo, la chiesa della cripta veniva considerata come una cappella isolata, a circa 400 m. dall'abbazia attuale. Il nostro scopo era di condurre uno scavo ad "open area" per documentare accuratamente lo sviluppo della chiesa e degli edifici circostanti; questi scavi avrebbero dovuto formare il nucleo principale di un parco archeologico, di cui la cripta avrebbe rappresentato il monumento pi insigne. In secondo luogo, volevamo accertare l'estensione del monastero altomedievale compiendo saggi sia intorno all'abbazia attuale che nella zona fra questa e la cripta. Credevamo che l'insediamento avesse avuto un'estensione di circa un ettaro, come veniva confermato dagli scavi di D. Whitehouse in un altro insediamento di epoca carlolingia, Farfa (Sabina), e dall'ipotesi di W. Horn, che la famosa pianta di San Gallo fosse quella di un monastero dell'819 circa, di un ettaro di estensione12.

H. Belting, Studien zu Beneventanischen Malerei, Wiesbaden 1968. R. Hodges, Excavations and survey at San Vincenzo al Volturno , Molise: 1980, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 483-6. 12 W Horn, E. Born, The Plan of St. Gall, Berkeley 1979.
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FIGURA 2 La principale area di scavo di lato al fiume Volturno In terzo luogo, la ricerca archeologica sulla terra mirava ad individuare gli insediamenti esistenti durante il periodo pi antico della vita del monastero: la densit del popolamento ed altri semplici problemi dovevano essere affrontati e risolti prima di raggiungere una valutazione delle diverse ipotesi relative allo sviluppo dell'economia altomedievale. Era quindi necessario rinvenire tipi ceramici diagnostici in contesti stratificati in varie localit della terra, per poi confrontarli con i dati associati alla cripta, l'unico punto fermo nella cronologia. Ricerche precedenti sulla ceramica altomedievale condotte da D. Whitehouse nella Puglia settentrionale e da R. Hodges e G. Barker nella valle del Biferno13, suggerivano che era possibile rinvenire tale ceramica. Un progetto di 5 anni inizi cos nel 1980, con la collaborazione, dal 1981, della dottoressa G. D'Henry, la nuova soprintendente. Nell'agosto del 1981, durante la seconda stagione di scavo, divenne chiaro che il sito del monastero altomedievale si trovava a sud della chiesa della cripta, lungo il Volturno. L'abbazia attuale invece si trova sul luogo di quella dell'XI secolo, probabilmente quello voluto dall'abate Gerardo. Dal 1981 abbiamo portato alla luce presso il Volturno una sequenza edilizia molto complessa, comprendente alcuni resti di et carolingia, in ottimo stato di conservazione, ed
D. B. Whitehouse, Medieval painted pottery in South and Central Italy , "Medieval Archacology", 10 (1978), pp. 30-44; Id., The medieval pottery of Rome. in H. McK. Blake, T. W. Potter, D. B. Whitohouse, Papers in ltalian Archaeology, Oxford l 978, pp. 475-505; R. Hodges, G. Barker, K. Wade, Excavations at D85 (Santa Maria in Civit): an early medieval hillton settlement in Molise, "Pape Pantoni, Le chiese e gli edifici, cit., p. 91.rs of the British School at Rome", 48 (1980), pp. 70-124.
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inoltre resti di periodi anteriori e posteriori. I resti archeologici interessano un'area di circa 5 ettari e indicano che in alcuni periodi il sito raggiungeva le dimensioni di una piccola citt. L'esiguit delle risorse a nostra disposizione ci ha finora solo permesso di verificare la sequenza e l'estensione di una piccola parte del sito; pensiamo tuttavia di aver raggiunto dei risultati soddisfacenti in rapporto ai nostri obiettivi iniziali e ci ora possibile descrivere la sequenza insediativa lungo il Volturno, e quindi offrire una prima valutazione del ruolo di San Vincenzo come centro regionale. Queste in sintesi le fasi costruttive evidenziate dallo scavo del complesso: fase 0a, periodo repubblicano; fase 0b, periodo romano (I-IV secolo d.C.); fase 1, periodo tardoromano (V-inizio VI secolo); fase 2, periodo longobardo (tardo VI-VII secolo) fase 3, il primo monastero (VIII secolo); fasi 3a, b, c, ristrutturazioni del monastero (fino all'inizio del IXsecolo); fase 4, il monastero dell'inizio del IX secolo; fase 4a, ristrutturazioni; fase 5, le opere di Epifanio (824-42 e oltre); fase 5a, b, c, ristrutturazione e tracce dei danni causati dai Saraceni(881); fase 6, il monastero del X secolo fase 6a, b, abbandono; fase 7, il monastero del secolo XI; fase 8, l'abbazia nel tardo XI secolo e quella moderna. La storia raccontata dagli scavi sorprendentemente dettagliata. Il collegamento con i Sanniti, cui accenna il cronista, per esempio con fermato dall'esistenza qui di un vicus repubblicano, da cui gli architetti del IX secolo d.C. prelevarono molto materiale edilizio. L'insediamento di epoca imperiale era molto pi modesto, anche se era un centro importante a livello subregionale, come suggeriscono i suoi resti (compreso il materiale epigrafico). Di dimensioni analoghe fu la villa tardoromana; a differenza dei suoi predecessori, tuttavia, considerazioni di carattere difensivo ne determinarono la natura, ed essa oper anche come centro religioso: l'entit delle chiese potrebbe addirittura far pensare ad un vescovato. Ci forse contraddetto dalla variet dei resti culturali e dalla natura della popolazione sepolta nel cimitero, simile a quelle rinvenute nei cimiteri di altre zone dell'Italia centrale e meridionale. Per il momento, la villa va attribuita ad un proprietario locale che consolid il suo potere con la costruzione di una chiesa e di un cimitero di cui usufruiva la popolazione di questa parte dell'alta valle del Volturno. L'abbandono della villa avvenne in un periodo in cui lo stato non aveva pi potere effettivo nelle aree pi marginali dell'Italia. L'invasione bizantina, le guerre Gotiche e l'improvvisa conquista dell'Italia settentrionale e parte dell'Italia centrale da parte dei Longobardi, riflettono la disintegrazione economica e sociale di questo periodo14. Le singole comunit dovevano reagire in modo individuale alle circostanze e contribuivano al crollo dello stato centralizzato: ci provoc anche la scomparsa dei grandi proprietari terrieri e l'emergere di tenute pi piccole coltivate per supplire ai bisogni locali. La continuit del popolamento testimoniata dai dati provenienti dalla basilica funeraria di San Vincenzo. La pratica funeraria tardoromana persistette senza cambiamenti fino all'awento nella regione di una nuova lite politica, etnicamente distinta,

R. Hodges, D. Whitebouse, Mohammed, Charlemagne and the origins of Europe , London 1983 R. Hodges et abi Excavations at Vacchereccia (Rocchetta al Volturno): a 7th to 12 th century settlement in the upper Volturno valley, "Papers of the British School at Rome", 52 (1984), pp. 148-94.

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i Longobardi, e i membri pi ricchi delle piccole comunit circostanti poterono ancora ottenere per vie commerciali orecchini in argento di tipo tardoantico. Come a Farfa e a Montecassino, anche a San Vincenzo i monaci scelsero un sito di epoca classica per edificarvi il monastero: pare anzi che in ciascun caso i monaci utilizzassero il nucleo di una tenuta tardoantica in abbandono, attirati dalla sua evidente potenzialit economica e dall'ubicazione adatta all'amministrazione di comunit disperse. Nel caso di San Vincenzo, tuttavia, il cimitero era probabilmente ancora in uso, cos che Paldo, Tato e Taso non fecero che occupare un centro ancora operante. Il primo monastero apparentemente molto piccolo e primitivo. Il Codex beneventanus dell'Abate Alto acquista portata ancora maggiore quando si pensi alla minuscola chiesa imbiancata di fase 3 e al suo altare in mattoni. La comunit deve essere stata molto piccola, e formatasi sotto l'influenza locale e isolata dell'abbazia. L'accento posto sulle sepolture nel lato ovest dell'abside e a quelle nei successivi deambulatori suggerisce l'ipotesi che San Vincenzo, a cui l'abbazia fu dedicata, fu un romano di questa regione, e le sue reliquie non avrebbero attirato grande attenzione al di fuori di essa tranne che in circostanze eccezionali: queste si produssero quando Carlo Magno conquist l'Italia settentrionale e si alle con una serie di papi. L'abbazia di San Vincenzo, al confine settentrionale del ducato di Benevento, acquist un rango e una ricchezza prima inimmaginabili: la breve ma efficace diffusione dell'ideologia carolingia, che sosteneva con fermezza l'autorit del Papa come vero e unico agostolo di Dio in terra, fu principalmente diretta al regno di Benevento 15. Il Ducato (pi tardi Regno) di Benevento era una marca politicamente divisa, che si trovava fra l'impero di Bisanzio e quello di Carlo Magno, e fra le loro due chiese. I Carolingi, che facevano capo alla corte longobarda in Italia settentrionale e a quella papale, potenziarono i monasteri di San Vincenzo e Montecassino, come centri di potere ideologico da cui manipolare la politica beneventana. Una serie di donazioni beneventane del IX secolo rivelano la vera entit di questo investimento: esso evidente in modo tangibile nell'impressionante espansione di San Vincenzo, pare effettuata sotto il patrocinio di Ludovico il Pio, su di un modello che riassume le caratteristiche del movimento carolingio. La datazione precisa dell'abbazia di fase 4 non pu essere stabilita con certezza: l'abate Giosu pu esserne stato l'artefice principale, come riporta il cronista, ma la ricostruzione pu anche essere stata effettuata dal suo predecessore, Paolo. Quest'operazione chiaramente ebbe luogo fra la fase 3b e la cripta di Epifanio. La fase 3b degna di nota: alla chiesa sud e alla chiesa della cripta furono aggiunti rispettivamente un protodeambulatorio e un'abside tricora. Entrambe le forme si richiamano a idee architettoniche tardoantiche, recuperate durante il periodo carolingio verso la fine dell'VIII secolo16; cio prima della grande ricostruzione questa piccola comunit gi risentiva di influenze nordiche.

W. Ullmann, The Carolingian Renaissance and the idea of Kingship , London 1969, R. Hodges, J. Moreland, H. Patterson, San Vincenzo al Volturno, the kingdom of Benevento and the Carolingians, in Papers in Italian Archaeology IV, The Cambridge Conference, IV, a cura di C. Malone e S. Stoddard, Oxford 1985, pp. 261-88. 16 Belting, Studien, cit., p. 25 s.; C. Heitz, More Romano. Problmes d'architcture et liturgie carolingiennes , in Roma e l'et carolingia, Roma 1976, pp. 27-37; e 1'importante studio di R. Krautheimer, The Carolindan revival of early Christian architecture, "Art Bulletin", 24 (1942), pp. 1-38.

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FIGURA 3 Labside della Chiesa dellVIII secolo (lato sud). Il primo San Vincenzo Il monastero di fase 4 appare come un complesso edilizio pianificato comprendente zone adibite alle diverse funzioni: questo un punto molto importante in quanto sembra sottintendere l'operare di un'autorit centrale, intenta a realizzare un modello ideale17. La costruzione del nuovo monastero quasi certamente fu completata prima della stesura della famosa pianta di San Gallo: le caratteristiche di quest'ultima indicano la preesistenza, prima che l'abate Haito lo mettesse per scritto, di un concetto preciso di quello che il "monastero modello"18. La costruzione di San Vincenzo al Volturno ne un'interpretazione locale, molto attenta tuttavia ai temi principali della renovatio carolingia. In particolare ricorrono ovunque nel monastero i richiami tardoantichi: gli affreschi, la forma degli edifici, i colonnati e le arcate, la produzione di tegole e vetro si ispiravano tutti a idee e tecniche correnti tre o quattrocento anni prima. San Vincenzo poi fu quasi tutta costruita con materiali di reimpiego, esibiti con l'intento di suggerire con forza ai visitatori l'immagine di un impero rinascente. La quantit di simboli presenti probabilmente comunicava un messaggio confuso al visitatore laico, che ne recepiva solo un'impressione di grandiosit e imponenza: San Vincenzo era, nel IX secolo, una citt agli occhi dei contemporanei. I monaci e lavoranti laici devono essere stati mille o pi: forse nessun altro monastero e quasi nessun altro centro dell'epoca in Europa contava tanti abitanti. La possibilit di espansione edilizia nella piana pu avere contribuito a determinare la grande crescita del monastero; l'attivit costruttiva sembra tuttavia, nelle fasi 4 e 5, essersi concentrata intorno alla collina. Scavi in alcuni villaggi della terra di San Vincenzo mostrano che qui, come in altre parti d'Europa in questo periodo, le comunit consistevano raramente di pi di cinquanta persone19. Un'abbazia che, nel giro di una generazione, divenne venti volte pi grande, deve avere
R. Hodges, The evolution of gatervay communities: their socio-economic implications , in Rankingi Resource and Exchange, a cura di C. Renfrew e S. Shennan, Cambridge 1982, pp. 117-2 18 Horn, Born, The Plan of St. Gall cit., ringrazio A. Zettler, che ha discusso questo problema con me, e mi ha comunicato ci che sapeva sulla storia di Reichenau, Germania Occidentale, dove ha scoperto un monastero con una simile pianta, precedente la pianta di San Gallo. 19 Hodges, Barker, Wade, Excavations at D85 , cit., p. 112; R. Hodges, Dark Age Economics, London 1982, pp. 1325.
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rappresentato un fenomeno eccezionale. Come in una citt in esso vivevano artigiani: i dati parlano di una fabbrica di tegole, di un'officina vetraria, fabbri e, quasi certamente, almeno un vasaio. Artigiani del cuoio, del legno, falegnami, muratori, amannensi e pittori devono avere vissuto a San Vincenzo nel momento del suo massimo splendore. Questo deve essersi verificato al tempo di Epifanio, quando, come abbiamo visto, molti dei monumenti principali vennero ulteriormente abbelliti. Gli anni 820-30 furono un periodo importante per gli uomini di chiesa politicamente attivi, poich essi riuscirono brevemente ad imporre la loro autorit mentre il potere secolare centralizzato cominci a disintegrarsi20. Gli abati e i vescovi carolingi furono al culmine della potenza durante le guerre civili degli anni 830, ma, come tutti gli altri membri dell'lite, soffersero della recessione economica che segu. Dobbiamo immaginare Epifanio, nel reame di frontiera, a operare in queste circostanze. La quarta decade dell'800 vide la caduta del governo centrale nel regno di Benevento e l'avvento di fazioni in lotta. San Vincenzo pot quindi prosperare per un breve periodo sfruttando i suoi legami con autorit lontane, decadendo per, come tutti i grandi monasteri dell'Impero, quando la benevolenza dello Stato cess.

FIGURA 4 Forno da ceramica dellXI secolo (fase 7) Nell'881, data dell'attacco saraceno, San Vincenzo era ancora un'espressione classica del movimento carolingio. Era un monumento molto diverso da quelli di Benevento (per esempio Santa Sofia)21, o dei villaggi collinari quali Santa Maria in Civit 22. Ma nell'881 il momento di massimo splendore del monastero era certamente concluso: le riparazioni eseguite in seguito ad
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Ullmann, The Carolingian Renaissance, cit. Belting, Studien, cit., pp. 42-53. 22 Hodges, Barker, Wade, Excavations at D85, cit., pp. 83-6; fig. 9.

un terremoto nella fase 5 rivelano il ritorno a tecniche pi antiche e pi primitive. Forse per questo il cronista, 250 anni pi tardi, fu felice di attribuire la responsabilit del declino agli odiati pagani. I Saraceni, pirati nordafricani del Maghreb, secondo la leggenda saccheggiarono e devastarono San Vincenzo. I nostri scavi suggeriscono un'immagine meno pittoresca di quel mattino di ottobre: gli attacchi furono forse localizzati alla due estremit dell'insediamento e l'equivalente altomedievale di artiglieria leggera, l'arco composito, fu utilizzato per appiccare piccoli fuochi a scopo intimidatorio. Anche se l'impatto psicologico dell'attacco non pu essere minimizzato, improbabile che molti edifici venissero devastati. Va poi notato che le porte delle officine erano sbarrate: questa da sola un'indicazione del nuovo contesto economico-sociale in cui venne a trovarsi il monastero: i Saraceni non arrivarono inaspettati. Il precario insediamento del X secolo, che tentava insistentemente di richiamare l'attenzione del visitatore sui suoi morti, piazzati all'entrata del monastero, una scoperta sconcertante nell'era di Cluny. Sembra che, con il rango, scomparisse anche l'abilit tecnica e San Vincenzo torn ad essere un modesto centro a livello regionale. Naturalmente San Vincenzo, come altre abbazie di questo periodo, lamenta la sua triste condizione23 e il quotidiano confronto con i grandiosi edifici ormai in rovina deve avere umiliato pi di un abate. Ci pu avere contribuito a stimolare il crescente interesse nello sviluppo dei terreni di prol?riet dell'abbazia, ed il tentativo di aumentarne la produzione agricola. impossibile ignorare il contrasto fra il monastero in declino la serie di atti che documentano il disboscamento di numerosi terreni e l'inizio dell'incastellamento nell'alta valle del Volturno. I redditi crescenti e una rinascita ecclesiastica, nel secolo XI riportano l'abbazia, per un breve periodo, alla ribalta. Come a Farfa e a Montecassino, anche a San Vincenzo fu realizzato un imponente programma di ricostruzione. Nella prima met del secolo XI l'intera struttura del monastero fu rivoluzionata. L'entit di questo processo sorprendente, come pu notare ancora oggi chi visita gli scavi: l'enormit della distribuzione suggerisce alla fantasia orde di Saraceni, non l'energia spirituale dell'ideologia romanica. La demolizione di monumenti pi antichi un'illustrazione eloquente del modo in cui la tradizione pu essere sfruttata in un'epoca e obliterata e negata in quella successiva. La costruzione di un nuovo chiostro a sud di San Vincenzo segn uno stacco netto dalla storia passata del monastero; la negazione del passato fu attuata anche con la creazione di una nuova abbazia ad opera dell'abate Gerardo, ex monaco di Montecassino al tempo di Desiderio. Lo spostamento sull'altra riva del fiume, da una posizione dominante la piana di Rocchetta ad una di carattere pi difensivo, incombente sulla gola del Vo1turno, illustra con forza il nuovo spirito di un secolo importante. Con l'inizio del XII secolo la comunit di Gerardo entr in competizione con la piccola nobilt normanna locale, e le fortune di San Vincenzo, isolato dalle principali correnti di traffico italiane, cominciarono a declinare. In un momento di crescente competizione con l'autorit secolare, un monaco (o monaci) di San Vincenzo redasse una vivida descrizione della storia passata del monastero. La narrazione dettagliata e le suggestive illustrazioni descrivono un passato che per secoli stato difficile comprendere: San Vincenzo raggiunse veramente tale splendore e fama? Ebbe veramente una storia simile a quella della vicina Montecassino o della grande abbazia umbra di Farfa? I1 suo isolamento fra i monti del Molise rendeva ci poco credibile. Sei stagioni di scavo hanno dato profondit e prospettiva alla storia, portando San Vincenzo al rango di uno dei siti pi importanti del periodo altomedievale in Europa occidentale.

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Chronicon Vulturnense, cit., 1, p. 36 s

Riccardo Francovich Un villaggio di minatori e fonditori di metallo nella Toscana del Medioevo: San Silvestro *

In Italia, nonostante la ripresa di interesse verso i temi della storia della metallurgia preindustriale1, i problemi dell'estrazione e della lavorazione siderurgica hanno trovato in ambito archeologico postclassico uno spazio molto limitato e confinato all'epoca moderna. E questo nonostante la centralit che tale aspetto della produzione ha avuto in epoca medievale ed in particolare per quell'area della costa toscana che fino dall'epoca etrusca stata intensamente sfruttata per le sue risorse minerarie2. I1 progetto di scavo archeologico intorno al villaggio minerario di Rocca San Silvestro (Campiglia Marittima-Livorno), intrapreso nel 1984 dall'Insegnamento di Archeologia medievale dell'universit di Siena, vuole viceversa riproporre la tematica, sostanzialmente abbandonata nella sua dimensione di ricerca sul campo da oltre mezzo secolo, in una prospettiva che tenga conto degli aspetti relativi all'estrazione, alle tecnologie della riduzione e della lavorazione nel pi ampio campo della storia dell'insediamento medievale. L'intervento sul villaggio minerario di San Silvestro si concentrato, nella prima campagna di scavi, sulle strutture urbanistiche del centro, di cui in questa occasione diamo una dettagliata seppure preliminare informazione, mentre nella seconda campagna (1985), oltre che allargare l'indagine all'interno dell'abitato e su parti significative della struttura castrense, sono state affrontate le aree di produzione del ferro e di lavorazione del rame. Il progetto di ricerca che ha al suo centro San Silvestro, comprende inoltre, come di consueto, sistematiche indagini documentarie sia relativamente al sito stesso, sia al territorio circostante, dalla Valle della Cornia alla costa a nord di Castagneto Carducci. Ma la ricognizione sulle fonti non si limita al Medioevoche nel caso della Cornia hanno un carattere di eccezionalit per l'abbondanza degli atti altomedievali conservati, tale da rendere di straordinario interesse il confronto con l'evidenza topograficainfatti le stesse fonti di epoca moderna, e non solo la letteratura e l'erudizione storica ed archeologica moderna, insieme alla cartografia antica, sono oggetto di indagini da parte di un gruppo di studiosi. Le indagini documentarie sono partite in anticipo rispetto alle campagne topografiche, appena iniziate nel 1985, ma gi fino da ora possiamo notare come la fonte archeologica (sia a livello estensivo che intensivo) offra una quantit di informazioni diverse e nuove rispetto alla ricerca documentaria, e non soltanto per quegli aspetti legati alla storia del popolamento e dell'insediamento, sul quale ci siamo gi soffermati in altra sede3, ma anche per quegli aspetti relativi all'attivit estrattiva e per la storia della siderurgia che per quanto riguarda l'epoca postclassica e preindustriale rimangono un capitolo ancora tutto da scrivere. Si deve infatti
*Del tema che trattiamo in questa occasione abbiamo parzialmente gi parlato in R. Francovich, G. Gelichi, R. Parenti, Aspetti e problemi di forme abitative minori attraverso la documentazione materiale nella Toscana medievale, "Archeologia Medievale", VII (1980), pp. 176-205, R. Francovich, Per la storia della metallurgia e dell'insediamento medievale sulla costa toscana: lo scavo del villaggio minerario di San Silvestro, "Rassegna di Archeologia", IV (1985), Id., Rocca San Silvestro: an archaeology project for the study of a mining village in Tuscany, in Medieval iron in society, Stoccolma 1985, pp. 318-40. 1 Per lo stato degli studi si veda il recente volume monografico di "Ricerche Storiche", XIV (1984) dedicato a Miniere e metalli in Italia fra medioevo e prima et moderna e curato da G. Pinto. 2 Cfr. L'Etruria mineraria, Firenze 1981. 3 Si vedano le pagine introduttive a Scarlino I. Storia e territorio, a cura di R. Francovich, Firenze 1985.

notare che per questa specifica area, differentemente da quanto sappiamo per il territorio limitrofo di Massa Marittima, anche le fonti bassomedievali sono, al proposito, di una povert estrema, mentre ben diverso il discorso per l'epoca moderna. Le difficolt della ricerca in questo campo sono aggravate dallo stato della letteratura archeologica classica che pare viziata da un peccato originale: quello di aver ignorato generalmente l'uso e il riuso in epoca preindustriale delle miniere, che sono state considerate generalmente sfruttate fino solo all'et romana. Tale condizione pone difficolt non indifferenti a chi si trova ad operare sul campo: si tratta in sostanza di ridefinire gli strumenti di datazione delle miniere e delle fosse, e cio le diverse tecniche estrattive senza i condizionamenti provenienti da una tradizione, che pur fra molti meriti, ha la responsabilit di non aver guardato con sufficiente attenzione ai problemi di continuit e di rottura sui tempi lunghi4. Oltre alle consuete e non sempre facili operazioni di laboratorio legate all'analisi dei materiali rinvenuti nel corso dello scavo secondo le indicazioni di un'archeometria sempre pi affinata, le problematiche inerenti la ricerca hanno imposto un'allargamento delle cooperazioni, che non si limitano solo al campo della metallurgia e della geologia (per i quali il coinvolgimento, fin dall'inizio della indagine sulle strutture produttive, di Tiziano Mannoni costituisce una importante e imprescindibile garanzia scientifica), ma si allargano anche a quel settore della diagnostica archeologica che in strutture monumentali del tipo di San Silvestro si sarebbero potute considerare marginali. Il preventivo riconoscimento dei punti di lavorazione dei metalli (ad esempio) attraverso l'uso di indagini magnetometriche, si rivelato di grande utilit per poter far marciare in modo omogeneo ed equilibrato l'indagine sull'insediamento e ha posto immediatamente il problema del suo allargamento all'esterno delI'area abitata al fine di avere un quadro complessivo delle relazioni fra il sito e il suo immediato territorio. Un problema, questo, sentito in modo gi marcato per quanto riguarda l'attivit estrattiva; alcune cave, ad esempio, e fosse sono state individuate, all'interno dell'area pertinente al castello, e conosciuta anche attraverso la documentazione scritta, con l'uso della foto aerea5 che ha evidenziato una viabilit minore ancora solo parzialmente percepibile sul terreno. Di non minore importanza sono i problemi legati alla conservazione e alla fruizione del monumento stesso. In questo quadro il ruolo di protagonista che l'amministrazione comunale di Campiglia Marittima ha nella gestione del cantiere di scavo e nella partecipazione alla progettazione dei parchi, coordinata da Italo Insolera, l'unica certezza che il progetto possa avere un buon fine, insieme alla solidariet che Soprintendenza ai beni architettonici e storici artistici di Pisa e Soprintendenza archeologica della Toscana hanno espresso. Nel corso del 1984 stato portato a termine dopo un ampio lavoro di disboscamento, che ha investito l'intera superficie dell'insediamento all'interno delle mura pari a poco meno di un ettaro, il rilievo dello sviluppo planimetrico dell'abitato, che ne ha permesso una prima interpretazione. Nel 1985 stata riportata in pianta anche 1'area di lavorazione del ferro, posta a sud est delle mura e sono state apportate soltanto alcune piccole integrazioni al primo rilievo. L'insediamento circondato da una cinta muraria ben conservata per lunghi tratti, realizzata in muratura a sacco con conci di calcare locale disposti in filari regolari; nel muro, fondato generalmente sulla roccia affiorante, si aprono strette feritoie strombate.

I progetti di A. Minto, Per una carta archeologica sulle antiche coltivazioni minerarie del bacino mediterraneo "Studi Etruschi", XX (1948-49), pp. 303-39, rimasero tali fino ad anni recenti (cfr. nota 2) e comunque 1'aspetto dell'attivit estrattiva rimane un campo ancora ampiamente scoperto e che viceversa sta drammaticamente depauperandosi per il degrado naturale e soprattutto per l'attivit di cava che non di rado ha sostituito l'attivit mineraria (cfr. situazione di Monte Valerio nel Campigliese). 5 Per questo aspetto ci gioviamo della collaborazione preziosa di Marcello Cosci della Regione Toscana.

FIGURA 1 Carta di localizzazione

FIGURA 2 Sezioni NW-SE e SW-NE del castello di San Silvestro La costruzione e l'andamento attuale della cinta muraria comunque il risultato di un processo piuttosto lungo e non si tratterebbe, da una prima analisi, di una costruzione avvenuta in un ristretto lasso di tempo; infatti in alcuni casi, soprattutto nella parte ovest, il muro pare che coincida con alcuni tratti in muratura successivamente utilizzati come terrazzamenti dell'insediamento, in altri casi, ed la situazione a sud-est, il muro pare successivo alla costruzione di almeno due strutture abitative che vengono sormontate dal muro stesso. Sul lato meridionale poi, la cinta venne ampliata in un periodo successivo alla definitiva conclusione

della muratura, come dimostra il diverso tipo di tecnica utilizzata, e la presenza di merli: probabilmente si tratta di una diversa organizzazione dell'accesso alla porta del castello, come apparso dallo scavo. All'interno della cinta, sulle ripide pendici del rilievo, si sviluppano le case e gli edifici di servizio, la parte alta dell'abitato occupata dagli edifici a destinazione militare, religiosa e signorile; l'intero complesso collegato da una fitta e regolare rete di vicoli, che era tagliata direttamente sulla roccia affiorante. Area militare. Nel punto pi alto dell'insediamento sorge, su uno sprone roccioso, la torre di guardia, cinta in basso da un contrafforte probabilmente coevo ad un vano che l'affiancava e quindi nella parte pi bassa troviamo un'altra cinta dove si apriva una porta di fianco a due cisterne poste in parallelo, interne a questo nucleo. Nella parte bassa, la cinta, che presenta almeno due fasi costruttive, delimitava un'altra struttura abitativa di cui alcuni recenti scavi clandestini hanno evidenziato la pavimentazione in pietra. La torre realizzata in muratura a sacco con bozze perfettamente squadrate ed di limitate dimensioni (m 4x5), vi si accedeva attraverso una porta che si trovava a circa 3 metri di altezza. Area signorile (6000). L'area che indichiamo con questo termine occupava una piattaforma immediatamente sottostante il complesso militare e sovrastante la chiesa. Tutta l'area era circondata da strutture murarie, di cui per altro rimangono in vista poche tracce, mentre chiaramente visibili erano i crolli di imponenti strutture abitative. Nel corso della prima campagna di scavi la regolarizzazione di una buca praticata dai clandestini ha evidenziato alcuni strati in relazione a strutture murarie di una fase arcaica (corrispondente probabilmente ad una prima fase insediativa, comunque databile ad epoca postclassica), mentre soltanto nel corso della seconda campagna sono state evidenziate strutture abitative, circondate da una struttura muraria di notevole consistenza, che si aprivano in direzione est con una porta. Il complesso, che non presenta edifici monumentali o comunque molto diversi come superficie rispetto alle unit abitative del borgo, aveva una sua definizione ed un suo rapporto organico con l'area militare, e con questo costituiva il cassero. Un elemento ancora in fase di studio, perch emerso nel corso della seconda campagna, l'apparecchiatura muraria delle strutture emerse che rimanda ad una prima fase costruttiva. Ecclesia de Rocca a Palmenti (1000). La chiesa aveva un suo spazio definito, fra il cassero e il borgo, non solo dalle strutture murarie dell'edificio, ma anche dall'area cimiteriale circondata nella parte antistante il sagrato da un muro di terrazzamento, rialzato in pi tempi e da un muro di andamento nord-sud, fra il terrazzamento e le cisterne del cassero. Il borgo (3000, 4000, 5000, 8000). Le abitazioni del villaggio si trovano, a diversi livelli lungo le strade del borgo, intorno al nucleo fortificato (o cassero) sviluppandosi da nord-est a sud-est. Il rilievo ha mostrato che difficilmente ci troviamo di fronte ad un singolo edificio, ma piuttosto a lotti comprendenti due o tre case sorte quindi secondo un minimo di coordinamento, anche se non mancano eccezioni. Si tratta di edifici generalmente articolati su due piani, pi difficilmente (forse in un caso) su tre, che sembrano seguire un modulo costante, non tanto per quanto concerne lo sviluppo planimetrico quanto piuttosto per la superficie abitativa. L'analisi delle tecniche murarie utilizzate per la costruzione del complesso abitativo ha permesso fino da un primo esame l'individuazione di almeno due fasi edilizie nella vita del sito, di cui la seconda, che si data con buone probabilit a pochi decenni prima dell'abbandono relativa ad ampliamenti e rifacimenti (in alcuni casi si tratta specificamente di rialzamenti). L'impianto della quasi totalit degli edifici, pertinente alla prima fase, ma come vedremo questa prima fase ha una sua articolazione ed una sua dinamica, caratterizzato da muratura a sacco con conci di notevole dimensione disposti in filari piuttosto regolari. Pi approssimativo il tipo di muratura relativo alla seconda fase, dove sono impiegate pietre di medie e piccole dimensioni con una sola faccia spianata, forse di spacco, disposte disorganicamente. Nei frequenti casi dove gli alzati si conservano in buono stato, le finestre superstiti sembrano riconducibili a due tipi principali,

anche se non mancano varianti. Il tipo pi antico sembra essere quello della finestra strombata con architrave monolitico e pi recente invece quello della finestra rettangolare. La copertura delle case, con tetti a doppio spiovente con travature in legno, era realizzata mediante l'impiego di sottili lastre di calcare scistoso, che veniva cavato nel poggio di fronte (sud-ovest) e il cui uso locale nel Medioevo ancora oggi testimoniato nella chiesa di San Giusto a Suvereto. Area produttiva interna (2000). All'interno della cinta muraria esiste un'ampia superficie che si trova nell'area nord-ovest, sotto la torre, che non presenta evidenti tracce di edifici, ma soltanto terrazzi e tracce di viabilit e scalette incise nella roccia, mentre affiorano notevoli quantit di scorie di rame. In tale area abbiamo riconosciuto la zona nella quale si dovettero concentrare le attivit produttive ed in particolare quelle appunto legate alla lavorazione del rame. Lo scavo appena iniziato nelle ultime settimane delle campagne del 1985 parrebbe confermare la presenza di forni per la fusione di rame, mentre le preventive indagini magnetometriche avevano dato esito negativo. La contraddizione potrebbe spiegarsi con il fatto che l'anomalia riscontrabile attraverso l'intervento magnetometrico nei punti di fuoco non sarebbe rilevabile in quell'area dove la concentrazione del calore avviene direttamente sul calcare, privo di minerali ferrosi. Area produttiva esterna alle mura (9000). In quest'area, disboscata nel 1984, sono emersi due ampi vani rettangolari, appoggiati al fronte di una pi antica cava di calcare (utilizzata per la costruzione degli edifici dell'insediamento probabilmente della prima fase); con l'analisi magnetometrica si potuto evidenziare un punto di anomalia che si quindi rivelato una fornace alla catalana per la lavorazione del ferro solo nella campagna del 1985. Si cos evidenziato un uso in almeno tre fasi dell'area: I, cava, II, area di lavorazione del ferro, abbandonata gi nel corso del XII secolo, III, ovile o ricovero per animali. Il riconoscimento della viabilit circostante il castello ed il suo limitatissimo interland agricolo con i piccoli terrazzamenti per olivi e i petia de terra a destinazione cerealicola sono problemi, al momento, appena impostati. Per concludere questa prima analisi descrittiva ci pare possibile prospettare alcune ipotesi relative al nucleo di popolamento che questo insediamento poteva accogliere. All'interno dell'area militare riteniamo possibile che potessero alloggiare fra le 10 e le 15 persone, forse solo poco pi nell'area signorile, mentre nel borgo, considerando che dovettero essere in uso contemporaneamente nella fase di massimo sviluppo (XIII secolo) fra le 40 e le 45 case, dovevano vivere approssimativamente dalle 230 alle 260 persone. Questo calcolo si basa su una lettura dell'analitico rilievo condotto nel corso della prima campagna di scavo e non tiene conto delle possibilit prospettate nel corso della seconda campagna, quando analizzando l'area industriale interna si affacciata l'ipotesi che la sua destinazione ad area di lavorazione sia stata successiva ad un primo uso insediativo. In questo caso, che deve essere comunque confermato, si potrebbe ipotizzare un nucleo di popolamento ancora pi consistente in una fase anteriore al XIII secolo. Gli obiettivi che ci siamo posti con le prime campagne di scavo sono puntati ad ottenere risultati relativamente a: 1. La dinamica dell'insediamento stesso dalle sue origini, siano esse preromane o medievali, e in questo secondo caso mettere a confronto evidenza archeologica e documentazione scritta. 2. Le caratteristiche dell'insediamento bassomedievale, in particolare: a) quale era l'articolazione urbanistica (gi in parte letta attraverso il rilievo planimetrico); b) quali trasformazioni ha subito tale assetto per giungere alla sua definizione; c) come era organizzato lo spazio interno alle abitazioni e agli edifici di servizio; d) in quali modi e in quali forme era organizzato il lavoro siderurgico (in particolare, sapendo dalle analisi dei campioni di minerali e di scorie, raccolti superficialmente dal 1979, che San

Silvestro era stata sede di un'industria differenziata per la lavorazione del ferro, del rame e probabilmente anche di zinco e piombo6, nostra intenzione capire se ci sia stata una successione cronologica nella produzione dei singoli metalli, o se c'era viceversa contemporaneit; e, in questo contesto, naturalmente cogliere le peculiari tecnologie produttive).

FIGURA 3 Rilievo planimetrico dellabitato di San Silvestro. Area 6000: area signorile ai piedi dellarea militare (torre). Aree 5000, 8000, 3000: edifici pertinenti al borgo. Area 2000: area di produzione del rame. Area 9000: area di produzione del ferro. Nel corso del primo anno di intervento si tentato di dare risposta a questi quesiti indagando: 1. tre diverse situazioni all'interno dell'area del borgo (aree 3000, 4000, 5000); 2. la chiesa (area 1000); 3. l'area signorile (area 6000), attraverso una prima pulizia di una sezione evidenziata da scavi illegali, dove si poteva immaginare di cogliere la lunga durata dell'insediamento. Dando alle stampe il rapporto preliminare relativo alla prima campagna di scavi, quando si sta concludendo la seconda, che ha ampliato i termini dell'analisi delle strutture murarie presentata da Parenti e gli stessi termini dell'intero progetto, non sar forse inutile accennare in pochissime parole alcuni punti affrontati nel secondo anno di ricerche.

Cfr. Francovich, Gelichi, Parenti, Aspetti e problemi, cit., p. 206.

Non avendo avuto possibilit di intervenire sull'area cimiteriale, per motivi tecnici (problemi di stabilit di un muro a retta), l'intervento nell'area dell'abitato si concentrato su un lotto frazionato in abitazioni, dove la programmazione urbanistica del centro era pi facilmente leggibile e dove stato possibile riconoscere una fase costruttiva precedente a quelle gi evidenti in elevato, caratterizzata da una tecnica muraria molto pi imprecisa e approssimata rispetto all'uso del filaretto di epoca pienamente romanica; che al momento non possiamo escludere possa costituire la prima fase insediativa. Nell'area dell'abitato stato inoltre parzialmente scavato un ampio terrazzo, che costituiva un casalino, un lotto predisposto per la costruzione di una casa, mai avvenuta 7. Nell'area signorile, l'allargamento dello scavo sulla parte sommitale, a differenza di quanto potevamo aspettarci, ha evidenziato un ampio piazzale delimitato da unit abitative di superficie sostanzialmente omogenee a quelle del borgo che presentavano una tecnica costruttiva di prima fase, giunte fino al Bassomedioevo. E questo un elemento di notevole interesse, che se rimane ferma l'interpretazione dell'area come quella occupata dai Della Rocca, signori del castello, apre prospettive di ricerca particolarmente stimolanti per lo studio delle condizioni materiali d'esistenza dei ceti egemoni. L'intervento sulle strutture produttive oltre che offrire dati rilevanti sulle tecnologie, di cui neppure diamo cenno, ha mostrato come la produzione di ferro nell'area 9000 sia cessata alla fine del XII-inizi XIII secolo e viceversa come nell'area 2000 la produzione di rame abbia avuto una maggiore continuit. Le condizioni di conservazione dell'insediamento e la fossilizzazione di una parte del territorio circostante, in particolare la valle del Manienti, a conclusione delle prime indagini e ricognizioni, hanno confermato il potenziale informativo che questo sito pu esplicitare, in considerazione soprattutto della specializzazione delle sue risorse economiche. chiaro che l'attivit agricola degli abitanti del castello costituiva soltanto una piccola ed integrativa parte della vita economica, riducendosi probabilmente alla copertura delle mere necessit di sussistenza, affiancata da un'attivit pastorale che nel corso del XIV e XV secolo diventer sempre pi rilevante fino ad essere l'unica attivit praticata su un territorio abbandonato. La popolazione di San Silvestro aveva nell'attivit mineraria e nella lavorazione siderurgica la base della propria ricchezza, tutta da quantificare ma esemplificata da una presenza di ceramica che trova confronti come qualit soltanto in contesti urbani e non in contesti rurali8. Il dato essenziale che emerge dalla lettura delle permanenze archeologiche, dalle strutture abitative e dai circostanti resti di attivit estrattive che la maggior parte degli abitanti, se non la totalit, era dedita a tale attivit, mentre rimane da capire se il lavoro siderurgico fosse specializzazione nel quadro di una gi consolidata divisione del lavoro oppure se si trattava di un lavoro stagionale o comunque praticato dagli stessi cavatori9. Come da chiarire sono gli aspetti giuridici del rapporto che doveva esistere fra l'universits degli abitanti e i signori del castello, che, come abbiamo notato, non hanno lasciato un signum particolarmente evidente nel tessuto abitativo, pur avendo la certezza della loro presenza nel sito. Alcuni degli interrogativi ancora aperti potranno trovare soluzione con l'avanzamento dello scavo, quando, ad esempio attraverso lo studio dei forni da ferro e da rame, sar possibile avere elementi di quantificazione della produzione in relazione alle risorse di minerale presenti nelle pertinenze del castello; appare infatti difficile immaginare l'importazione di materie prime da
Il rinvenimento di maiolica arcaica negli strati di riempimento fa ritenere probabile che la costruzione del lotto si sia conclusa nel corso dei primi decenni del XIV secolo, quando ormai la "crisi" aveva gi colpito San Silvestro. 8 Per alcune prime osservazioni sui materiali ceramici oltre che le relazioni sulle singole aree di scavo si vedano le mie brevi note Per la storia della metallurgia, cit., p. 28. 9 Stupisce al proposito l'assoluto silenzio delle fonti, che contrasta con quanto viceversa sappiamo per l'Isola d'Elba (cfr. L'estrazione e la lavorazione del ferro elbano sotto il comune di Pisa, in M.W., Miniere e ferro dell'Elba dai tempi etruschi ai nostri giorni, Roma 1938, pp. 35 55.).
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altri territori, anche se per quanto riguarda i minerali di ferro si devono approfondire le analisi che ci permettono di accertarne la provenienza. Ancora sostanzialmente da affrontare rimane il problema dell'origine dell'insediamento. I due frammenti di ceramica a figure rosse non sono una spia sufficiente per farci ipotizzare la preesistenza di un abitato preromano, potendo trattarsi di riusi provenienti da luoghi vicini e ben documentati in epoca etrusca: lo stesso uso della panchina di San Vincenzo, unica pietra proveniente da siti leggermente distanti da San Silvestro, e utilizzata in epoca etrusca, ci pare difficilmente individuabile come un indizio per ipotizzare nella zona del castello un'area di inumazione, essendo stata utilizzata soltanto nella fase pi tarda delle costruzioni medievali e in modo limitato. La stessa prima fase di insediamento medievale non stata individuata con chiarezza anche se appare assai probabile che anteriormente all'impianto degli edifici romanici, coevi alla costruzione della chiesa, nella sua prima redazione, sia esistito soltanto l'impianto, rinvenuto in lacerti nell'area 8000 e nell'area signorile, riferibile ad un'epoca non pi alta del X secolo. In questo contesto appare chiaro comunque come San Silvestro fosse gi ampiamente consolidato, come unit di popolamento, nel XII secolo: infatti riferibile a questo secolo l'ampliamento della chiesa, indice esplicito dell'incremento demografico. Interessante notare la coincidenza di questo fatto con l'incremento della domanda di metalli che proprio in quel secolo si dilat sotto la spinta dei bisogni cittadini. Il problema dell'origine dell'insediamento medievale rimane uno dei temi pi significativi della ricerca anche per tentare di cogliere se esiste un rapporto fra l'iniziativa signorile e lo sfruttamento delle risorse minerarie. Per quanto concerne i motivi dell'abbandono del sito possiamo avere dallo scavo soltanto parziali informazioni, mentre molto possiamo sapere sui modi dell'abbandono. Appare infatti chiaro che dalle tre diverse situazioni analizzate la fine dell'insediamento pare legata ad un processo diluito che inizia gi verso la met del secolo (area 5000), si allarga probabilmente intorno alla seconda met (area 5500 e 4000), per concludersi definitivamente nei primi decenni del XV (area 3000). Verso questa interpretazione di lenta estinzione spingerebbero alcune indicazioni archeologiche, come la presenza di muretti a secco lungo viabilit interne minori che sembrerebbero costituire una chiusura progressiva di aree dell'insediamento, anche se pare contraddittoria la presenza di numerosi manufatti, anche in ferro e quindi di un certo pregio, all'interno di alcune strutture abitative (area 5000). Se infatti non abbiamo informazioni relative ad episodi traumatici (fatti militari o accidenti naturali), che hanno determinato la fine dell'insediamento, pare probabile pensare che il dissanguamento del villaggio sia stato provocato da tutta una serie di fattori, fra i quali ricopr probabilmente un ruolo non marginale il diffondersi delle nuove tecniche di lavorazione dei minerali, che richiedevano una diversa organizzazione degli spazi per la produzione e una non meno vitale vicinanza con corsi di acqua. Inoltre non dovette essere estranea alla fme dell'insediamento l'espansione politica pisana, che tese ad abbattere ogni superstite emergenza signorile, di cui sono espressione da un lato l'abortito tentativo di fondazione della terranuova di San Vincenzo e dall'altro il viceversa riuscito incremento d'importanza affidato al ruolo di Campiglia, che divenne il centro di popolamento pi consistente della zona sotto l'egemonia di Pisa. Oltre che a San Silvestro sono state rinvenute aree di scorie di lavorazione del ferro nel castello pre-trecentesco di Fornoli presso Roccastrada10, scarti di lavorazione di minerali ferrosi provengono anche dai castelli di Cugnano e di Rocchette (a nord-ovest di Massa Marittima) 11, mentre contemporaneamente sappiamo di lavorazioni stagionali per la lavorazione del ferro
Ricognizioni topografiche 1984 a cura dell'Insegnamento di archeologia medievale, universit di Siena (resp. Silvia Guideri). 11 Campioni raccolti nel luglio 1985 da chi scrive su segnalazione di Moreno Bargelli.
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lungo la costa toscana, e in particolare nell'entroterra populoniese ad opera di fabbri pisani12, e nella pianura, presso corsi di acqua, per iniziative di strutture religiose, generalmente cistercensi (a San Galgano, ma soprattutto a Giugnano, vicino a Roccastrada13 dove sono stati rinvenuti resti pertinenti ad un forno). Ci troveremmo in sostanza di fronte a diversi modi di organizzazione della produzione metallurgica, una legata al sistema signorile attraverso l'uso di aree incastellate e le altre legate a iniziative cittadine e/o monastiche, che razionalizzando le tecnologie, in particolare attraverso l'uso dei corsi di acqua per azionare i mantici dei forni, canceller nel corso del XIV secolo un modo di produrre di cui soltanto ora cominciamo ad avere un primo quadro. In questo contesto la ridiscussione di quanto fino ad ora gi dato per scontato relativamente ai grandi accumuli di scorie di rame accanto ai forni di Madonna di Fucinaia, che vengono generalmente attribuiti ad epoca preromana, potrebbe aprire un margine nuovo di discussione. Se infatti non si esclude che le scorie di rame possano essere tardomedievali, cosa da accertare e non affatto scontata, ma non per questo impossibile, potremmo trovarci di fronte ai resti di un'attivit produttiva promossa dal centro di Campiglia, per iniziativa pisana, di una tale rilevanza, che non pu non aver condizionato le sorti della pi modesta attivit siderurgica di San Silvestro.

Cfr. S. Gelichi, Impianti per la lavorazione del ferro sul promontorio di Piombino (1984), pp. 35 SS. 13 Vedi nota 10.

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, "Ricerche storiche", XIV

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