Riducendo a semplicità l'introduzione di Marcello Gallo, possiamo individuare come inizio del discorso la domanda
dell'Autore: perché si studia la “parte generale” del diritto penale? Lo si fa in quanto “è necessaria una regola generale,
di parte generale appunto, che permetta e imponga la lettura di un sistema unitario e coerente” (pg. XVI). Questo
anche se si corre un pericolo: quello di rischiare, dando molte definizioni (dove per Spinoza Determinatio negatio est),
di ampliare tanto il significato da mettere in crisi la validità della regola (pg. XIV).
Il rapporto tra regola generale e regola speciale è chiarito nello stesso codice penale, in uno dei suoi primi articoli, il 15:
Art. 15 Materia regolata da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale. Quando più
leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la
disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti
stabilito.
Capitolo I – Caratteri della regola giuridica e regola giuridica penale
Diffusa è la definizione secondo la quale il diritto penale sarebbe quel complesso di regole che ricollegano ad un
certo fatto una sanzione cui si riconosca natura penale.
È di per sé una regola non inesatta. Tuttavia, è necessario considerare l'esistenza di:
● Regole penali che non dispongono sanzioni: a.e., le regole che disciplinano la prescrizione o l'amnistia.
● Regole penali che prevedono una modifica di conseguenze sanzionatorie: un loro aumento o una loro
diminuzione (a.e. della pena).
Ancora meglio, dunque, si potrebbe definire il diritto penale come quella parte dell'ordinamento giuridico che
disciplina i fatti costituenti reato.
Prosegue il Gallo, dicendo che la regola penale è quella che funge da cerniera di tutte le altre regole presenti in un
complesso sociale. Essa, infatti, è quella che fra tutte le altre è più dotata di effettività. E l'elemento che caratterizza il
diritto penale è la sanzione.
La sanzione
Possiamo distinguere fra due tipi di sanzioni:
● Sanzioni esecutive: quelle sanzioni che tendono a costituire una situazione di fatto identica o equivalente a
quella realizzata qualora ci si fosse attenuti alla regola. È, in altri termini, la rimmissione delle cose nel
pristino stato.
● Sanzioni punitive: hanno come contenuto una diminuzione dei beni giuridici di cui è titolare l'autore del
fatto condizionante la conseguenza sanzionatoria.
Tanto per vedere come ciò opera in concreto, si prenda il reato di furto (624 c.p.). La sanzione esecutiva è quella della
restituzione della cosa rubata (art. 185 c.p.); quella punitiva è la reclusione e la multa.
Ma, sostengono tanto Gallo che Trapani, è proprio vero che solo il diritto penale conosce le sanzioni? NO. Infatti si
incontrano sanzioni anche in altri rami dell'ordinamento: esistono a.e. sanzioni amministrative punitive (quali la
demolizione), così come esistono sanzioni punitive restrittive della libertà in altri settori dell'ordinamento che non sono
quelli penali (a.e. il diritto militare).
E le sanzioni penali non posseggono nemmeno elementi costitutivo che ci consentano di distinguerle. L'unico modo
per individuare la natura penale di una sanzione è il CRITERIO NOMINALISTICO: è sanzione penale quella che si
individua dai segni semantici. A.e., ogniqualvolta la verificarsi di un certo evento è ricollegabile l'ergastolo, la
reclusione, la multa, l'arresto, l'ammenda (pene principali) insieme alle pene accessorie ed alle misure di sicurezza,
c'è norma penale.
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La struttura della regola penale
La struttura formale delle disposizioni giuridicostatuali è terreno di scontro fra i sostenitori della teoria della norma
come comando, giudizio di valore o giudizio ipotetico.
● Norma come comando, imperativo: la norma, per questa scuola, dovrebbe essere intesa quale comando,
imperativo dello Stato ai cittadini. Comando che può avere contenuto positivo (fai qualcosa) o contenuto
negativo (non fare qualcosa). Tale teoria, tuttavia, può essere respinta pensando alla presenza di regole – e della
possibilità di costruire interi ordinamenti – basati sul criterio della responsabilità oggettiva; come anche di
norme in cui la sanzione scatti solo in presenza della realizzazione oggettiva di un fatto. Ciò – da un punto di
vista di teoria generale del diritto – vale ad escludere che la norma possa essere cosiderata come imperativo.
● Norma come giudizio ipotetico: l'ordinamento – secondo tale teoria – ricollegherebbe un nesso di
conseguenza tra un certo fatto ed una causalità giuridica.
È ora necessario riflettere sulla previsione di ipotesi di responsabilità oggettiva nel nostro ordinamento: cioè della
presenza di fatti di reato che non rientrano compiutamente nella sfera di dominio del soggetto agente. Fatti, insomma,
nei quali non si richiede nessun criterio di imputazione soggettiva: né il dolo, né la colpa.
Basti pensare all'omicidio preterintenzionale, oppure ai reati aggravati dall'evento. Anche per Trapani, in questi due
casi, dal momento che non si richiede né dolo né colpa, saremmo in presenza di ipotesi di responsabilità oggettiva.
Sempre per Trapani, le figure di cui sopra avrebbero una funzione dissuasiva: un c.d. “segnale di pericolo” posto
dall'ordinamento.
Costituzione e personalità della responsabilità penale
Fondamentale è il I comma dell'art. 27 Cost:.
Art. 27: La responsabilità penale è personale [...].
Cosa significa, dunque, il principio della personalità della responsabilità penale? Anzitutto che penalmente
responsabili possono essere soltanto le persone fisiche, non quelle giuridiche. Inoltre, che deve escludersi ogni forma
di responsabilità penale per fatto altrui. Terzo, più importante, è che affinché si possa imputare ad un soggetto la
responsabilità penale di un fatto deve essere possibile ricondurlo nella sfera di dominio della volontà, della signoria
effettiva o potenziale dell'agente. Il fatto deve essere dall'agente almeno controllabile: quindi, la impossibilità di
controllabilità esclude la responsabilità personale per il fatto
Tantopiù che Dottrina e Giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la disposizione costituzionale non sia soltanto
parametro per il giudizio di legittimità costituzionale delle leggi, ma abbiano una vera e propria operatività nel sistema
delle leggi ordinarie.
Ecco, quindi, che nel diritto penale italiano non può esserci responsabilità oggettiva. Imputabile può essere solo ciò
che è commesso dal soggetto agente o è da lui controllabile. E ciò fa sì che, almeno nel nostro ordinamento, la struttura
della norma penale accolta sia quella del comando e dell'imperativo. Che, scrive Gallo grazie all'art. 27 diventa un
criterio legislativamente consacrato.
La norma penale reale – il destinatario delle norme
Chi è il destinatario della norma penale? Alcuni sostengono che sia la generalità dei consociati; altri che siano soltanto i
giudici (Kelsen).
Trapani ha detto a lezione che bisogna distinguere, perché vi sono norme che non si rivolgono alla generalità dei
consociati ma solo a determinate classi di essi (a.e. i pubblici ufficiali); allo stesso modo esistono delle cause di
immunità (parlamentari, papa, ecc.).
Capitolo II – Le fonti
Con la locuzione di fonti del diritto si intendono:
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● Fonti di produzione: quelle cioè che producono diritto;
● Fonti di cognizione: quelle mediante le quali il diritto può essere portato a conoscenza dei destinatari.
Ci occuperemo, naturalmente, della prima categoria di fonti: quelle di produzione. Ma, a sua volta, la locuzione “fonti di
produzione” si può intendere con due diversi significati:
● FdP come procedimento di produzione di una regola: cioè il rispetto dei requisiti formali secondo i quali
l'ordinamento prevede che la regola vanga prodotta. È questa una materia che attiene al diritto costituzionale, e
che dunque non interessa la nostra indagine in questo momento.
● FdP come regole prodotte: sono quelle che ci interessa studiare in questo momento: qual'è, cioè, il diritto
prodotto dalle regole validamente emanate secondo il procedimento.
Sempre riguardo alle regole prodotte, possiamo subito notare come queste si distinguono per gradi: esistono, infatti,
regole primarie e regole secondarie:
● Regole primarie: le leggi ordinarie promananti dal potere legislativo.
● Regole secondarie: i regolamenti e tutte le altre fonti che emanano da poteri diversi rispetto a quello
legislativo.
Le regole secondarie sono subordinate a quelle primarie: una fonte secondaria non può modificare una legge, né
disciplinare materie espressamente riservate (anche dalla stessa legge, se non dalla norma costituzionale di rango
superiore) alla legge, fonte primaria. È questa la disciplina della c.d. riserva di legge.
La riserva di legge in materia penale
Leggiamo gli artt. 25 della Costituzione e 1 del c.p.:
Art. 25: [...] Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso [...].
Art 1. Reati e pene: disposizione espressa di legge. — Nessuno può essere punito per un fatto che non sia
espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.
Dalla prima lettura sembrerebbe desumersi che le regole penali, quelle che cioè ricollegano ad un certo comportamento
una conseguenza sanzionatoria, devono necessariamente possedere il rango di legge, cioè di fonte primaria. Nessun
regolamento potrà stabilire delle regole penali valide: infatti nessuno può essere punito [...] se non in forza di UNA
LEGGE. Esisterebbe, vale a dire, una riserva di legge assoluta per la produzione di regole penali; in altri termini,
nessun regolamento può produrre regole penali, cioè regole che ricollegano ad un certo comportamento una
conseguenza sanzionatoria. Nelle regole penali, inoltre, la stessa norma dispone la irretroattività, che ha quindi rango
costituzionale. E, seppure indirettamente, sempre dall'art. 25 si ricava che può essere punito in forza di legge penale solo
un essere umano in quanto individuo. La norma penale, insomma, si rivolge alle persone fisiche; non alle persone
giuridiche.
Altra regola costituzionale che incide sulla materia penale è l'art. 13:
Art. 13: La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o
perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato
dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente della legge, l'autorità di pubblica sicurezza
può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità
giudiziaria, e se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi
di ogni effetto.
È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Dal momento che l'art. 13 dispone che la libertà personale può essere limitata “nei soli casi e modi previsti dalla
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legge”, alcuni vi hanno trovato il fondamento del divieto di analogia nella legge penale.
Finora abbiamo parlato del termine “legge”. Ma cosa deve intendersi per legge, dal momento che nel nostro
ordinamento esistono una pluralità di fonti definite con questo termine? Precisamente sono questi:
● Legge formale dello Stato;
● Legge formale delle Regioni;
● Legge delle provincie autonome di Trento e di Bolzano.
Sia la Dottrina che la giurisprudenza sono orientate verso l'esclusione della competenza delle regioni in materia
penale. Trapani sostiene l'opposto, ritenendo che l'esclusione della competenza penale delle regioni ha soltanto motivi
politici. Per Gallo, invece, esistono degli argomenti più probanti che risiedono nel seguente articolo della Carta
Costituzionale:
Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso,
di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di icondizioni personali e sociali [...].
Per Trapani, tuttavia, trovare qui il fondamento di questa esclusione di competenza è contraddittorio: se le Regioni non
garantissero eguaglianza dei cittadini nei confronti della legge, etc., allora sarebbe meglio sciogliere l'ordinamento
regionale.
Oggi, l'unico vero fondamento cui riferirsi è l'art. 117, lettera L della Costituzione, recentemente introdotto con la
riforma del titolo V del 2001:
Art. 117: [...] Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
L) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa.
LI)
Inoltre, il vecchio testo dell'art. 120 stabiliva il divieto, posto alle regioni, di adottare provvedimenti che ostacolino o
limitino l'esercizio da parte dei cittadini dei diritti fondamentali.
Supponendo, invece, che esistesse un regime di riserva relativa, il regolamento potrebbe operare in tre direzioni:
1. La legge potrebbe affidare al regolamento la concreta determinazione di alcune note costitutive dell'illecito
stesso: cioè il regolamento individua uno o più elementi della fattispecie;
2. La legge si limita a definire reato la trasgressione di un qualunque disposto di un regolamento emanato ed
emanando. È questa la tecnica delle c.d. norme penali in bianco;
3. La legge rimette al regolamento la facoltà di stabilire quali fra i comportamenti che esso disciplina siano
penalmente sanzionati.
Tuttavia, il Gallo sottolinea come alcune posizioni dottrinarie che sostengono il carattere assoluto della riserva
arrivano ad autonegarsi. Perché?
Alcuni asseriscono che la ratio della riserva di cui all'art. 25 sia la certezza del diritto. Ma tale argomentazione è
facilmente smentibile. Sempre che non venga violata l'irretroattività, la condizione è soddisfatta anche se i disposti
sono tutti regolamentati; vale a dire, anche se la legge penale fosse totalmente rimessa a fonte regolamentare.
L'esigenza di certezza del diritto non ha, insomma, nessuna attinenza con la tipologia della regola.
Secondo Gallo, è per un'altra ratio che il legislatore ha stabilito tale riserva di legge di carattere assoluto: perché ha
ritenuto la forza di legge e la supremazia del potere legislativo su quello esecutivo (che può emanare i regolamenti) il
mezzo più idoneo a garantire libertà e beni dei singoli. Il cittadino è infatti maggiormente garantito se le leggi penali
provenissero dall'organo rappresentativo del popolo sovrano, approvate con la particolare procedura della legge. Solo
il Parlamento potrebbe, così, introdurre misure restrittive della libertà.
Trapani, invece, la pensa diversamente. Per lui questa ratio di “garanzia” non è completamente motivata. Infatti, se la
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maggioranza è tale, con la forza del numero può fare quello che vuole. La garanzia connotata alla fonte legislativa è
invece un'altra: quella della possibilità, per il cittadino, di ricorrere alla Corte Costituzionale per qualsiasi legge
contraria alla Costituzione. Ed anche di poter ricorrere allo strumento del referendum abrogativo. Solo le leggi,
infatti, possono essere sottoposte a sindacato della Corte Costituzionale ed a referendum abrogativo. In ciò, per Trapani,
la vera garanzia del cittadino.
Stando così le cose, la riserva di legge in materia penale è riserva assoluta: per Trapani (e Gallo) non può essere
ammesso nessun rinvio ai regolamenti che non sia rinvio recettizio ad un regolamento già esistente (per questioni di
economia normativa); mai.
Ma cosa permette e cosa esclude la riserva assoluta di legge in materia penale?
Anzitutto, distinguiamo diverse fonti aventi forza di legge:
1. Legge ordinaria dello Stato;
2. Legge regionale;
3. Decreto Legislativo;
4. Decreto Legge.
Nessun dubbio nel caso sub 1; per quello che riguarda la legge regionale, invece, si è già chiarito come dottrina (eccetto
Trapani) e giurisprudenza ritengano che la legge regionale non possa emanare regole penali.
Per quanto concerne, invece, il Decreto Legislativo ed il Decreto Legge, nessun dubbio esiste riguardo al fatto che
anche essi possano essere annoverati tra le fonti costituzionalmente legittime di produzione di regole penali. Il testo
costituzionale si esprime con assoluta chiarezza, parlando di uguale efficacia rispetto alla legge ordinaria. E non
potremmo nemmeno considerare queste fonti come “cambiali in bianco” sottratte alla garanzia di vaglia e disamina da
parte del potere legislativo. Neanche con la ratio della riserva individuata da Trapani, cioè la possibilità di vaglio della
Corte Costituzionale o referendario, si pongono problemi: entrambe le fonti sono equiparate alla legge anche in ciò.
Riguardo al Decreto Legislativo, infatti, l'art. 76 Cost. autorizza infatti la delega al Governo da parte dell'Assemblea per
“principi e criteri direttivi [...] per tempo limitato [...] e per oggetti definiti”. Riguardo il Decreto Legge, l'art. 77
dispone che “i provvedimenti provvisori con forza di legge” adottati dal Governo devono essere presentati il
giorno stesso alle camere per la loro conversione, e che essi “perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono
convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione”.
Le guarentigie, dunque, non sembrano scalfite.
Sotto la riserva di legge rientrano anche le fattispecie circostanziate, cioè le norme diminutive o aumentative del
reato, o che comportano finanche la sua estinzione? Sì. Per Trapani, tuttavia, ciò non discende dal principio della
riserva di legge, ma da quello della gerarchia delle fonti.
È necessario inoltre chiarire che non c'è violazione della riserva di legge quando il legislatore rinvia ad un
regolamento già esistente per la assoggettabilità a sanzione criminale di alcuni comportamenti. In questo caso, infatti,
il potere legislativo conosce le regole alle quali rimanda, e nulla sarebbe cambiato se le avesse ricomprese nella stessa
legge. Perciò, la violazione della riserva di legge c'è solo qualora il rinvio sia ad un regolamento emanando; non
già ad uno emanato.
Proseguendo il discorso della riserva di legge, si deve sottolineare che l'art. 25 Cost. si riferisce alla concretezza della
punizione: nessuno può essere punito... Ciò a dimostrazione che la riserva di legge investe non solo la determinazione
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della fattispecie criminosa, ma anche e soprattutto le pene. Anzi, il dettato dello stesso art. 25 sembra, parlando di
punizione, privilegiare proprio quest'aspetto.
Altro discorso deve essere fatto riguardo l'individuazione della sanzione penale nel caso concreto, cioè la sua
comminazione da parte del giudice. Fino a dove può giungere la dilatazione del potere discrezionale?
La ratio della riserva di cui all'art. 25 non consentiebbe la legittimità costituzionale di una pena indeterminata nel
massimo. La discrezionalità del giudice potrà operare entro i limiti minimo e massimo secondo le quali la legge dispone
l'applicazione delle sanzioni prederetminate.
Oltretutto, bisogna considerare che la riserva di legge di carattere assoluto rileva non soltanto nella comminazione della
sanzione della legge penale in senso stretto. La dovranno rispettare anche le regole – in primo luogo quelle processuali
– alle quali la legge penale offre rinvio.
Scrive infatti Gallo, che “la norma penale risulta formata da segmenti di diritto sostanziale e da segmenti di diritto
cosiddetto processuale” (pg. 56). “Il significato di una proposizione che configura un fatto di reato è pienamente
raggiunto quando la formula linguistica, ad esempio <<Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la
reclusione non inferiore ad anni 21>> è sciolta in quella che suoni così: <<A chiunque si accerta, attraverso
l'impiego di determinate forme previste da determinate regole, che abbia cagionato la morte di un uomo deve
irrogarsi, attraverso determinate regole, la reclusione non inferiore ad anni 21 da eseguirsi attreaverso determinate
forme previste da determinate regole>>.
Alla completa lettura della regola incriminatrice, dunque, si arriva solo tenendo conto anche delle altre regole alle
quali è fatto rinvio. Esiste una vera e propria compenetrazione, infatti, fra regole sostanziali e processuali: le prime
rimandano alle seconde in merito alla descrizine dei modi di accertamento ed a quelli che disciplinano la sanzione.
Le c.d. “norme penali in bianco”.
Sono norme penali in bianco quelle regole che, per ciò che concerne il precetto contenuto nel comando, fanno
riferimento ad una regola diversa a quella enunciata nella sanzione. Uno degli esempi che si può fare, a.e., è la
determinazione tramite Decreto Ministeriale delle sostanze ritenute stupefacenti.
Come si relaziona il principio della riserva di legge con questa tipologia di norme?
● Rinvio ad una regola (anche secondaria) già entrata in vigore: qui il principio della riserva di legge è
rispettato: è un espediente di economia normativa, che consente alla regola primaria di operare un rinvio a
quella secondaria, senza ripetere il contenuto dei precetti o dei divieti secondari.
● Rinvio ad una regola secondaria non ancora entrata in vigore: vi è, in questo caso, un contrasto insanabile
con il principio di riserva assoluta di legge: manca del tutto, infatti, il vaglio del potere legislativo
Con riferimento al primo caso, cioè al rinvio di una regola ad un'altra regola già emanata, possiamo distinguere fra due
tipologie:
1. Rinvio recettizio: quando la regola rinviante prende come riferimento la regola rinviata così come questa è
vigente nel momento in cui l'operazione di rinvio è enunciata. La norma in bianco non segue le eventuali
vicende normative delle regole richiamate.
In questo caso, il principio della riserva di legge non è messo in dubbio: potranno essere richiamate regole
primarie o secondarie, oppure anche regole appartenenti ad un altro ordinamento, straniero od internazionale.
La ratio sottostante all'art. 25 non viene meno: si opera una “fotografia” del contenuto della regola.
2. Rinvio formale: qui vi è invece un adeguamento rispetto alla evoluzione della disciplina. Gli effetti
dell'abrogazione o della modifica delle regole rinviate si riverberano su quelle rinvianti.
Considerando che in campo penale opera la riserva di legge assoluta così come da art. 25 Cost., ne discende che
nell'oggetto della nostra analisi quando la regola rinviata è secondaria (a.e. un regolamento) il rinvio non può che
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essere meramente recettizio. Altrimenti non sarebbe rispettata l'esigenza del potere legislativo di vagliare, controllare,
modificare le regole con riferimento alle quali si compie il rinvio.
Lo stesso vale quando una regola primaria rinvia ad un'altra regola primaria. Con un eccezione, tuttavia: quella dell'art.
2 c.p., che stabilisce la retroattività della legge penale quando essa applica disposizioni più favorevoli al reo, salvo
che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile:
Art 2 Successione di leggi penali: Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in
cui fu commesso, non costituiva reato (25 Cost.).
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata
condanna, ne cessano l`esecuzione e gli effetti penali.
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono
più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.
Dunque, il rinvio formale è ammesso soltanto nel caso di trattamento più favorevole per il reo.
Il rinvio al regolamento futuro non sarà incostituzionale, ma solo limitatamente alla parte che prevede un trattamento
più favorevole per il reo. Il principio della retroattività della legge più favorevole arriva, infatti, fino al punto di limitare
quello della riserva di legge.
A conclusione di queste considerazioni, il Gallo fissa i seguenti risultati della ricerca:
● La riserva di legge assoluta esclude la possibilità di rinvio a regole non conoscibili e valutabili al
momento della creazione della regola penale, con l'eccezione di sopravvenienza di normativa più favorevole
al reo.
● Decreto legislativo e Decreto legge hanno piena equiparazione alla legge: le disposizioni costituzionali
prima richiamate garantiscono, infatti, il vaglio e l'esame del potere legislativo.
Le sentenze della Corte Costituzionale
La funzione della Corte Costituzionale, così come pensata dai costituenti, era quella di annullare le leggi e gli atti
aventi forza di legge, con efficacia ex tunc. In funzione di ciò, due erano i tipi di sentenze in origine pensate come
pronunciabili dalla Corte stessa: quelle di accoglimento e quelle di rigetto. Subito si pose il dubbio se doveva esser
pronunciata l'incostituzionalità della disposizione oppure della norma. La disposizione, lo sappiamo, infatti non
esprime solo una, ma tante norme – e l'interpretazione si può spingere anche fino ad arrivare allo scopo opposto che il
legislatore voleva raggiungere emanando una certa disposizione.
L'interpetazione sulle disposizioni regolanti la Corte e sul ruolo che essa stessa doveva avere, ad opera degli stessi
giudici costituzionali ha, con il tempo, portato alla creazione di altri tipi sentenze oltre le due tipologie originariamente
previste. Elenchiamole tutte quante.
● Sentenze di accoglimento: dichiarano illegittima una certa norma, che viene così espunta dall'ordinamento.
● Sentenze di rigetto: lasciano inalterata la situazione normativa che aveva determinato la rimessione alla corte
della domanda sulla legittimità di una legge.
● Sentenze interpretative di rigetto: la Corte opera un lavoro di interpretazione che isola, tra i significati della
regola, quello che fa salvi i principi costituzionali. La regola sarà legittima solo se interpretata nel modo dettato
dalla Corte.
● Sentenze additive: una norma è dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevede Y o non lo prevede
insieme ad X. Ad esempio, è dichiarata illegittima la norma sull'aspettativa in caso di maternità nella parte in
cui non prevede che anche i padri possano chiederla.
Quale efficacia hanno le seguenti sentenze? Quando è che esse possono ritenersi fonte del diritto? Districhiamo, caso
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per caso, il bandolo della matassa.
Sentenze di rigetto: non danno luogo a dubbi di sorta, dal momento che lasciano inalterato il dato normativo. Ma quali
sono i loro effetti sui procedimenti futuri? Vi sono, in merito a ciò, diverse tesi.
1. Il rigetto avrebbe efficacia erga omnes, come se fossero interpretazioni autentiche convalidate.
2. Il rigetto avrebbe valore di diritto oggettivo: la questione di illeggittimità non potrebbe essere riesaminata
dalla corte sotto lo stesso profilo, neanche fra soggetti diversi.
3. Il rigetto avrebbe efficacia solo fra le parti in causa: la questione potrebbe essere risollevata, anche sotto lo
stesso profilo, in una futura controversia diversa.
Connessa a questa, è la questione della qualificazione del carattere delle pronunce della corte. Sono esse pronunce dal
carattere giurisdizionale ovvero carattere legislativo. Per Gallo è quest'ultima opinione quella da preferire: la
pronuncia della Corte colpisce la legge nel momento normativo, non in quello giurisdizionale.
Tornando sugli effetti riguardo ai procedimenti futuri, il Gallo sottolinea come il dato legislativo (a cominciare dall'art.
30 della l. 11 marzo 1953) ed il resto della disciplina positiva sembrano tutte riconoscere efficacia erga omnes
unicamente alle sentenze di accoglimento. La senteza con la quale la Corte respinge l'istanza varrebbe, insomma,
soltanto per il caso stesso – non per altri.
Sentenze interpretative di rigetto: queste hanno, invece, efficacia erga omnes. Potrebbe apparire una contraddizione
rispetto a quanto sinora sostenuto per le normali sentenze di rigetto, per le quali la stessa istanza potrebbe essere
ripresentata. Ed a trarci in inganno potrebbe essere anche il fatto che siffatte pronuncie si presentano come decisioni di
rigetto. Gallo qui sottolinea, invece, come l'istanza sia respinta solo parzialmente. La decisione è infatti composta da
due proposizioni, due distinti disposti: uno che proclama conforme alla Costituzione la disposizione in esame (come
per la comune sentenza di rigetto); l'altro che dichiara inammissibile ogni interpretazione incompatibile col principio
che ha presieduto alla dichiarazione di illegittimità.
Qui l'efficacia è, come detto, erga omnes: si dichiara l'illegittimità di certe norme (cioè interpretazione) che possono
essere ricavate da un disposto, proclamando invece la costituzionalità di altre.
Il giudice ordinario potrà entro certi limiti disattendere l'interpretazione della Corte, ma non adottare una sua
interpretazione che urti contro il principio costituzionale alla stregua del quale si è operata quella interpretazione.
Le sentenze additive: sono lecite ed efficaci? Per essere lecite sono lecite. Ma gli effetti si limitano soltanto allo
stimolo per il legislatore ad adeguare la norma, nella direzione segnalata e tracciata dalla Corte. La sentenza additiva ha
come effetto solo la estinzione della norma dichiarata illegittima. Il resto è rimesso all'operato del legislatore. La
Corte non può infatti sostituirsi a quest'ultimo, anche per via del principio di legalità e di separazione dei poteri,
secondo il quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
In conclusione: le sentenze della Corte costituiscono fonte di diritto positivo solo quando, affermandone
l'illegittimità, cancellano dal sistema una legge ordinaria od un atto a questa equiparato.
Nessun altro effetto si produce quando si sostanzino nella costruzione di una nuova fattispecie: la Corte non può infatti
porre nuove norme. Anche Trapani condivide questa opinione di Gallo: le sentenze additive per lui sono assolutamente
incostituzionali (nonostante a pronunciarle sia una corte che si definisce “costituzionale”).
Regole penali ed internazionali: regole comunitarie
Qual'è il rapporto tra regole di diritto interno e regole di diritto internazionale? In particolare sarà necessario
soffermarci su quelle europee, che hanno fonte pattizia.
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Più in dettaglio, le regole europee sono introdotte nel nostro ordinamento da disposizioni costituzionali: quelle agli artt.
10 ed 11 della Carta:
Art. 10: L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
[...]
Art. 11: L'Italia [..] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie
ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo.
Possiamo individuare, in generale, diverse tipologie di fonti comunitarie che vanno ad incidere sull'ordinamento
nazionale:
● Regolamento: la fonte più potente. Ha portata generale, è obbligatorio e direttamente applicabile in ciascuno
degli stati.
● Direttiva: vincola lo Stato membro al raggiungimento di un certo risultato riguardo la normazione; questi lo
raggiungerà con i mezzi più idonei, anche in rapporto alle specificità dell'ordinamento nazionale.
● Decisione: è direttamente obbligatoria per i soggetti verso i quali è diretta.
● Raccomandazioni, pareri: non sono né obbligatorie, né vincolanti per lo Stato membro.
Bisogna tuttavia distinguere fra norme penali incriminatrici e tutte le altre norme. Per queste ultime, vale il discorso
fatto appena sopra: le fonti qui indicate hanno valore paracostituzionale, sono superiori alla legge ordinaria (in
particolare il regolamento).
Per le norme penali incriminatrici vale, invece, la riserva assoluta di cui all'art. 25 Cost.: e non è vinta dagli art. 10 ed
11 della Costituzione, né dai trattati che per mezzo di questa norma introducono fonti vincolanti nel nostro ordinamento.
Non ci sono solo ragioni (pure rilevantissime) di ordine costituzionale, ma anche di tradizione storica e di perentorietà
della formulazione normativa. Ragioni che portano a ritenere che la regola dell'art. 25 non è intaccata in favore di
fonti sovranazionali.
Dice Trapani che l'ordinamento comunitario può restringere la sfera dei comportamenti sanzionati; mai ampliarla,
individuando nuove fattispecie di reati e di sanzioni. Le uniche nuove sanzioni individuabili dall'ordinamento
comunitario sono quelle amministrative. Semmai, è lo Stato ad essere vincolato al raggiungimento di certi risultati
dettati nelle direttive.
Ciò anche in virtù del deficit normativo di cui è affetto l'intero sistema delle Comunità Europee: il Parlamento è, infatti,
l'unico organo elettivo, ma ha soltanto funzioni consultive. La ratio dell'art. 25 non è soddisfatta, quindi, dalle fonti
sovranazionali, essendo emanate dal Consiglio d'Europa che è organo non elettivo. Stante la ratio dell'art. 25, le norme
comunitarie possono trovare applicazione solo nel caso dispongano un trattamento più favorevole per il reo.
Consuetudine nel diritto penale
Due sono le nozioni della parola consuetudine nell'ambito giuridico:
1. Consuetudine come modo di produzione della regola: il processo di formulazione che porta un
comportamento tenuto con la convinzione di adempiere ad un precetto giuridico a diventare regola giuridica.
2. Consuetudine come regola così prodotta.
La consuetudine può essere fonte di regole penali? NO! Il principio della riserva di legge è, in questo caso,
inequivocabile. Ammissibile sarebbe solo un rinvio esplicito della legge ad una regola giuridica vigente, ma già
formatasi per consuetudine. Altrimenti, sarebbe incostituzionale qualsiasi legge penale incriminatrice che non rimandi
a regole giuridiche che non siano leggi o altri atti aventi forza di legge.
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Allo stesso modo, la consuetudine non può né abrogare, né modificare, né estinguere una fattispecie criminosa. La ratio
di questo divieto non è tanto nell'esigenza di certezza del diritto, quanto nell'assoluta incompatibilità che la rilevanza
di una consuetudine abrogativa verrebbe a creare rispetto al monopolio legale che sancisce la riserva assoluta.
Alcuni parlano che l'abrogazione per desuetudine sia invece non solo possibile, ma anche storicamente verificatasi. E
per motivare la loro tesi, ricorrono ad un esempio: quello degli scioperi non perseguiti durante il 1948, nonostante le
disposizioni del Codice Rocco considerassero tale fattispecie come comportamento penalmente perseguibile. Gallo,
tuttavia, ritiene che questo fenomeno sia, piuttosto, spiegabile in considerazione del momento di evoluzione accelerata
dell'ordinamento, che ha portato ad una diversa considerazione del principio di offensività, cioè di considerare punibili
solo quei fatti che ledono beni od interessi considerati come degni di protezione dall'ordinamento stesso. Il principio di
offensività è per Gallo un principio basato su regole ordinarie preesistenti alla Costituzione.
Anche in questo caso, dunque, può concludersi per l'impossibilità di abrogazione di una norma penale per desuetudine.
Procedimento analogico in campo penale; artt. 13 e 25 Cost.
Nel nostro ordinamento è ammesso il procedimento di estensione per analogia? In altri termini, può essere prodotta
una regola giuridica mediante il procedimento di estensione analogica?
La presenza di una regola che obbligasse o facoltizzasse il ricorso all'analogia prevede una attività di invenzione e
creazione da parte dell'interprete chiamato ad applicarla. Il Gallo fa anche notare come un ordinamento giuridico
composto anche da una sola norma che richiami all'utilizzazione del criterio analogico sarebbe un ordinamento
compiuto.
Comunque, come si rapporta il nostro ordinamento con l'estensione per analogia? Decisivo è l'art. 12 delle preleggi:
Art. 12 – Interpretazione della legge: [...] se una controversia non può essere decisa con una precisa
disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane
ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
Già da questa lettura si desume che nel nostro ordinamento l'estensione per analogia è ammessa se una controversia non
può essere decisa con una precisa disposizione. Allora si avrà riguardo delle disposizioni che regolano casi simili o
materie analoghe.
Cosa significa casi simili? Che nel nostro ordinamento l'estensione per analogia implica un giudizio di somiglianza, al
quale si perviene allorché l'interprete ravvisi una identità di ratio fra ciò che è oggetto di disciplina e ciò che non lo è.
Più nello specifico, questo procedimento prende il nome di analogia legis allorché per indagare sull'identità di ratio si
prendono in esame “disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”; analogia iuris quando “si decide
secondo i principi generali” dell'intero ordinamento giuridico. È questa, scrive Gallo, “una tecnica assai ingegnosa per
colmare le cosiddette lacune sostanziali dell'ordinamento”, cioè quelle “ipotesi per le quali, in difetto di una
regolamentazione espressa, si avverte la necessità di dare una disciplina imputabile al sistema”.
Questo vale per l'ordinamento con riguardo a tutti i suoi rami, eccezion fatta per quello penale. Nel nostro campo di
indagine, infatti, sia lo stesso codice penale che le disposizioni sulla legge in generale prevedono altre regole. Leggiamo
l'art. 1 c.p. e l'art. 14 delle preleggi:
Art. 1 Reati e pene: disposizione espressa di legge. — Nessuno può essere punito per un fatto che non sia
espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.
Art. 14 Applicazione delle leggi penali ed eccezionali. — Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole
generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.
L'art. 1 sembra vietare l'estensione per analogia alle sole regole incrminatrici: si dice, infatti, che “nessuno può essere
punito”. L'art. 14 ha invece una formulazione più perentoria, riferendosi in modo globale alle leggi penali.
Rispetto a queste due alternative, non può essere presa posizione se non verificando quale portata dà l'art. 25 della
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Costituizione all'estensione per analogia. È una questione rilevantissima: se, infatti, il divieto fosse posto solo da leggi
ordinarie, questo non sarebbe altro che una regola ermeneutica derogabile in qualsiasi momento (nulla vieterebbe al
legislatore, dice Trapani, di cambiare idea anche domani); se fosse posto da una regola di rango costituzionale, esso
costituirebbe un onere per il legislatore: onere che, se non rispettato, comporterebbe la illegittimità costituzionale
della legge. Rilevante è, in materia, anche l'art. 13:
Art. 25 — Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
Art. 13 — La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della
libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge [...].
Anche in questo caso, sembrerebbe che il divieto di estensione per analogia valga solo per le regole penali
incriminatrici, o meglio per quelle che impongano una “qualsiasi restrizione alla libertà personale”. Questa è infatti
ammessa “nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Ne sarebbe esclusa, per questi motivi, la pena pecuniaria,
riferendosi la regola costituzionale unicamente alla detenzione o a qualsiasi altra restrizione della libertà personale.
Ma questo lo si desume solo da una primissima lettura. Gli artt. 106 ss. della l. 24 novembre 1981 n° 689 dispongono,
infatti, in caso di mancata esecuzione della pena pecuniaria, la conversione della pena stessa in una misura restrittiva
della libertà personale del soggetto cui sono riferite.
Si desume da ciò che anche dove la regola penale commina una pena pecuniaria, le forme di limitazione della libertà
devono ritenersi implicite: infatti anche la pena pecuniaria è da ricomprendersi nelle misure restrittive della
libertà.
Detto questo, cosa succederebbe se il legislatore decidesse di emanare una regola illuminatrice che prevedesse
un'estensione di una sanzione a chi ponga in essere un comportamento analogo o simile? Dal momento che vi sono
divieti di rango costituzionale, si deve concludere per l'illegittimità di tale regola.
E per le regole penali non incriminatrici? Ancora non abbiamo sciolto questo nodo. La nostra indagine deve proseguire.
Sempre sull'analogia: in particolare l'art. 25, II comma Cost.
L'art. 25, II comma Cost., non comprende soltanto le norme penali incriminatrici, ma anche quelle che contribuiscono
alla disciplina penale di un determinato comportamento. Sono quindi da ricomprendersi nella riserva di legge anche le
norme penali non incriminatrici: anche esse è necessario, in virtù della riserva, che siano atti aventi forza o efficacia
di legge.
Ma, dice Trapani, esistono comunque dei circuiti attraverso i quali l'analogia può rifluire nella materia penale. Ad
esempio? Quando le leggi penali utilizzano formulazioni del tipo “sono puniti i comportamenti A, B, C e
comportamenti analoghi ...”. Alla stregua dell'art. 13, queste formulazioni sarebbero incostituzionali; tuttavia ciò si
verifica comunque nella costruzione di determinate fattispecie penali.
In altri casi, accade invece che il legislatore utilizzi formule talmente ampie da lasciare al giudice eccessiva libertà.
Anche qui siamo in presenza di una norma incostituzionale: tuttavia non perché rinvii all'analogia, ma perché
contravviene al principio di TASSATIVITÀ: principio che istituisce l'onere per il legislatore di individuare reati e
sanzioni nel modo più chiaro possibile. Principio che si può sempre desumere dall'art. 13. Se quest'ultimo articolo
dispone che la libertà personale è inviolabile, tutte le restrizioni ad essa vanno considerate come eccezioni all'art. 13; la
legge penale, infatti, si configura sempre come legge eccezionale. Ed è per questo motivo che nell'art. 14 le leggi penali
sono accostate a quelle eccezionali. È bene notare come principio di tassatività ed il divieto di analogia non coincidono:
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il primo, infatti, è un autolimite imposto dal legislatore a sé stesso; il secondo è rivolto al giudice.
Molta parte della dottrina, pure sostenendo come noi il divieto di analogia in campo penale, è propensa a ritenere che
sia invece ammissibile l'analogia in bonam partem. Il divieto, per essi, si estenderebbe soltanto alle norme
incriminatrici ed a quelle che prevedono un trattamento più sfavorevole per il reo.
Trapani, invece, è di opinione diversa. Perché? Tutte le norme giuridiche fanno riferimento ad un bilanciamento fra
interessi contrapposti; bilanciamento che è politico. Questo vale tantopiù nel campo penale. Un bilanciamento tale è
ravvisabile, tanto per fare un esempio, nella scriminante della legittima difesa; situazione che serve a giustificare il fatto
realizzato. Tale equilibrio realizzato affannosamente dal legislatore, sarebbe spezzato qualora si arrivasse ad ammettere
l'analogia anche per queste situazioni: l'equilibrio non può essere rotto dall'interprete. Ecco quindi che, nel pensiero di
Trapani e di Gallo, l'analogia in campo penale non può trovare nessuna applicazione; anche se si tratta di analogia
in bonam partem.
CAPITOLO III – LA VALIDITÀ DELLA NORMA PENALE NEL TEMPO
Quali sono i principi dettati dalle fonti normative sulla validità della norma penale nel tempo? Vediamo rispettivamente
sanciscono l'art. 25 Cost, l'art. 11 delle Dispopsizioni sulla legge in generale; l'art. 2 del Codice Penale:
Art. 25 — Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
Art. 11 Efficacia della legge nel tempo. — La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo
[...].
Art. 2 Successione di leggi penali. — Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo
in cui fu commesso, non costituiva reato .
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata
condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui
disposizioni sono più favorevoli al reo (5), salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti [...]
L'art. 25 dà rilevanza costituzionale alla irretroattività della legge in materia penale. Rilevanza che negli altri rami del
diritto non esiste. Vi è, infatti, solo quanto stabillito dall'art. 11. Disposizione che non ha rilevanza costituzionale;
essendo dettata dalla legge ordinaria, essa costituisce esclusivamente un criterio ermeneutico. Al di fuori del diritto
penale, quindi, il legislatore potrà sempre intervenire con una disciplina che, chiaramente ed espressamente, abbia
efficacia retroattiva.
L'art. 2 pone, invece, problemi rilevanti. Il comma I si limita a ribadire quanto espresso anche nell'art. 25 II comma. Nel
II comma, invece, si sancisce la retroattività della legge favorevole al reo: nessuno può essere punito se vi è stata
abolitio criminis, e se vi è stata condanna, cessano l'esecuzione ed i suoi effetti penali.
Tali disposizioni devono essere integrate con quelle dell'art. 25. Non sono con esse in contrasto: la norma costituzionale
– da una parte – sancisce l'irretroattività della legge incriminatrice “nessuno può essere punito”; la norma codicistica
afferma che se una legge posteriore è favorevole al reo, sarà applicata questa.
Soffermiamoci ora sul III comma dell'art. 2. E poniamolo accanto al II comma dell'art. 25 della Costituzione, per
rilevare un apparente insanabile contrasto – almeno prendendo in considerazione il tenore letterale dei due articoli.
Art. 25 comma II — Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima
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del fatto commesso.
Art. 2 comma III. — Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica
quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.
Le due disposizioni sembrano contraddirsi. Da un lato l'art. 25 stabilisce che nessuno può essere punito se non in
forza di una legge entrata in vigore PRIMA del fatto commesso; l'art. 2, invece, dispone che il reo potrà essere
condannato anche in forza di una legge SUCCESSIVA alla commissione del fatto, se questa prevede disposizioni a
lui più favorevoli rispetto a quella del tempo in cui fu commesso il fatto.
È, scrive Gallo, un contrasto insanabile sul piano letterale. Ma, ad un'analisi della ratio, si può giungere a conclusioni
diverse. La ratio che sottintende all'art. 25 è infatti una ratio di certezza: il costituente si sarebbe limitato a garantire
l'impossibilità di creare, mediante un disposto di legge ordinaria o successiva, una situazione penale più sfavorevole. In
altri termini, le due discipline dettate dagli artt. 2 e 25 sarebbero, comunque, compatibili.
Le motivazioni sono molteplici. Anzitutto, perché sottesa all'esigenza di certezza del diritto ve n'è una di moralità. Ed è
moralmente inaccettabile punire qualcuno per un fatto che non costituisce più un illecito penale. E, seppure il tenore
letterale dei due articoli sembra contrastare, bisogna anche tenere presente l'intenzione del legislatore. Quanto emerge
dai lavori preparatori corrisponde, infatti, a quanto appena scritto.
C'è anche un altro argomento che avvalora la tesi della compatibilità: l'argomento storico. Nel momento in cui la carta
fu redatta, i costituenti erano consapevoli dell'esistenza dell'art. 2. Questo era parte del corpus delle regole della
costituzione sostanziale vigente prima del 1948: una costituzione flessibile (lo Statuto Albertino), compenetrata da
disposizioni ulteriori quali questa.
Trapani, in materia di ratio di certezza ha idee simili a quelle di Gallo; ma le motiva diversamente. Tale ratio sarebbe
infatti a suo parere rinvenibile non solo nell'art. 25 della Costituzione, ma anche nell'art. 13 e nel Patto internazionale
sui diritti civili o politici, sottoscritto dall'Italia e che, in quanto patto internazionale, ha rango sovraordinato alla legge.
Dispone, in particolare, il suo art. 15:
Articolo 15 1. Nessuno può essere condannato per azioni od omissioni che, al momento in cui venivano
commesse, non costituivano reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Così pure, non può
essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. Se,
posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena più lieve, il colpevole
deve beneficiarne.
2. Nulla, nel presente articolo, preclude il deferimento a giudizio e la condanna di qualsiasi individuo per atti
od omissioni che, al momento in cui furono commessi, costituivano reati secondo i principi generali del diritto
riconosciuti dalla comunità delle nazioni.
Posta questa tesi, dobbiamo ora soffermarci sempre sul III comma dell'art. 2. Questo dispone che al reo si applicano le
disposizioni favorevoli, salvo che sia pronunciata sentenza irrevocabile.
Ma cosa si intende per “sentenza irrevocabile”? È, per Gallo, tanto la sentenza di condanna che quella di
proscioglimento. Per quest'ultima, si pensi, ad una data formula di proscioglimento che si sostituisca ad altra di
maggior favore per il soggetto cui va riferita.
Tuttavia, se abbiamo scritto che è moralmente ingiusto continuare a punire un soggetto in forza di un fattispecie che non
costituiscono più reato, perché dovremmo accettare il limite della irrevocabilità della sentenza? È veramente il
giudicato un limite imprescindibile? È opportuno derogarvi?
Gallo arriva alle seguenti conclusioni: l'irretroattività in caso di sentenza irrevocabile non è un principio difendibile,
anche in virtù dei principi costituzionali. Andrebbe, tuttavia, evitato l'appesantimento e l'ingorgo processuale che
potrebbero sopravvenire ove, ad una regola più favorevole, il processo già concluso andasse rifatto.
In particolare sulla nozione di legge più favorevole
Ma cosa significa disposizione più favorevole? Tra due disposizioni diverse, quale si può dire sia la più favorevole per
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il reo? Essa è quella che assicura al soggetto destinatario un trattamento meno severo, tanto sotto il profilo del
diritto sostanziale che di quello processuale. In rapporto a cosa va effettuato il giudizio di favorevolezza? Sicuramente,
dice Trapani, non può consistere in un mero confronto fra i limiti edittali: una disposizione potrebbe vere limiti edittali
più bassi di un'altra, ma prevedere – ad esempio – la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Nei paesi di
Common Law in casi simili è lo stesso imputato a poter scegliere la pena da applicarsi; Trapani auspica che un giorno
accada anche da noi (anche se i magistrati finirebbero con lo strapparsi le vesti. Non significa che tutte le nuove
disposizioni vadano considerate globalmente. Il giudizio dovrà essere fatto in rapporto a ciascuna di esse prese
singolarmente. Ad esempio, in presenza di una nuova legge complessivamente più severa, si continuerà ad applicare
quella vecchia. Ma se questa contiene tra le sue disposizioni una attenuante prima non prevista, l'applicabilità di
quest'ultima circostanza non può essere negata.
Tuttavia, anche se effettuato in concreto, il giudizio pone sempre problemi di arbitrio del giudice, soprattutto quando
si deve scegliere fra pene o misure incommensurabili, quale può essere, ad esempio, l'interdizione dai pubblici uffici.
Determinazione del tempus commissi delicti
Parlando di successione di leggi penali nel tempo, è altrettanto necessario definire un criterio alla stregua del quale
puntualizzare il momento della commissione del reato.
Il problema non è di poco conto. Prendiamo come esempio una fattispecie complessa quale la seguente: Tizio spara a
Caio. Caio muore in seguito al colpo ricevuto, dopo aver agonizzato per sei mesi. Durante il periodo d'agonia, il
legislatore interviene con una disciplina che inasprisce il trattamento per gli omicidi. Qual'è il momento in cui il reato
di omicidio potrà dirsi commesso? Il problema è rilevantissimo. Vediamo come è risolto:
● Teoria dell'evento: il reato può dirsi compiuto nel momento in cui tutti gli elementi della fattispecie si sono
verificati. Ne consegue che, secondo l'art. 25, sarà applicata la legge (più aspra) che, secondo questa teoria, è
entrata in vigore dopo la commissione del fatto (leggi come completamento della fattispecie).
● Criterio della condotta: al contrario, quello in cui il fatto criminoso si è verificato. Tizio non potrà che essere
punito con la legge più lieve: quella entrata in vigore dopo violerebbe, in base a questo criterio, il principio di
irretroattività.
Si può escogitare un criterio univoco? Gallo sostiene di no. Sarà, invece, necessario distinguere tra i vari tipi di reati.
REATI DI AZIONE (ISTANTANEI)
Possiamo distinguerli fra:
● Reati a forma vincolata: sono quei reati la cui fattispecie è delineata con precisione dal legislatore per quello
che riguarda la condotta: quest'ultima si verifica quando corrisponde allo schema legislativo. A.e., un reato di
questo tipo è il furto.
● Reati a forma libera: qui il legislatore si limita a puntualizzare la causazione di un certo risultato, ogni e
qualunque sia l'atto umano collegato o collegabile con l'evento, che deve essere collegato da un nesso causale
con il risultato. È un reato di tale tipo l'omicidio.
Per i reati a forma vincolata non si pongono problemi particolari riguardo la determinazione del tempus commissi
delicti.
Per i secondi, invece, il discorso è più complesso. Alcuni sostengono che l'atto tipico sia costituito dal primo atto della
catena. Ma ciò può esser valido solo nei c.d. “reati d'impeto”. Se il reato è premeditato, l'applicazione del criterio
creerebbe una contraddizione con l'art. 56 c.p., per il quale sono punibili solo gli atti di esecuzione, non quelli di mera
preparazione. Si attribuirebbe, insomma, rilevanza ad un atto di mera preparazione che, sotto il profilo penale, non ne
ha alcuna.
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È necessario partire da una diversa impostazione: l'atto tipico è quello sorretto dalla volontà colpevole che si deve
realizzare per commettere il delitto. In altri termini, quello che deve essere inderogabilmente srretto dal dolo o dalla
colpa per realizzare la fattispecie; quello che fra tutti gli atti esprima di più la signoria dell'agente. Esso è:
● Nel caso di realizzazione dolosa, l'ULTIMO ATTO della fattispecie: nel caso di omicidio, la pressione
volontaria del grilletto. Sotto il profilo temporale, a nulla rileverà il momento nel quale mi sia appostato nelle
vicinanze di Tizio, o se lo abbia fatto per mesi di seguito senza mai riuscire a prendere la mira ed a premere il
grilletto.
● Nel caso di realizzazione colposa, l'azione che PER PRIMA ha dato luogo ad una situazione di
contrarietà: ad esempio, se un automobilista provoca un incidente per aver trascurato di revisionare i freni
della propria vettura, la condotta colposa va ravvisata nell'aver messo in moto la macchina sena essersi prima
assicurato sullo stato dei freni.
REATI PERMANENTI (CONTINUATI)
Sono quelle fattispecie criminose costituite su elementi i quali, verificatisi, non rendono possibile la protrazione del
reato nel tempo. In altri termini, il reato permanente è quello che “dà luogo ad una situazione dannosa o pericolosa,
che si protrae nel tempo a causa del perdurare della condotta del soggetto” (Antolisei). Esempio tipico di reato
permanente è il sequestro di persona, come anche l'usura.
In rapporto a cosa deve valutarsi il tempus commissi delicti? Quello della realizzazione o quello della consumazione
del reato permanente? Ad esempio, Tizio realizza un sequestro di persona mentre vige una determinata norma.
Successivamente, durante la permanenza del reato la disciplina viene inasprita. Quale norma dovrà essere
applicata? Se si accetta il criterio della realizzazione, quella più lieve; se si accetta quello della consumazione, quella
più dura.
Per Gallo deve essere accolto il criterio della consumazione, purché, sotto la vigenza della legge più severa, siano stati
posti in essere tutti gli elementi del fatto criminoso per un apprezzabile lasso di tempo.
REATI DI COMMISSIONE
Possono essere distinti fra:
● Reati omissivi di mera condotta: quelli che consistono nella mancata realizzazione di una condotta positiva
prescritta dalla stessa norma penale incriminatrice.
● Reati commissivi mediante omissione consistente nel mancato adempimento di un dovere giuridico che
conduce ad un risultato vietato dalla norma penale incriminatrice.
Per questi tipi di reati, l'omissione consiste nella mancata esplicazione di un'azione giuridicamente dovuta, cioè nella
violazione di un obbligo a contenuto positivo.
Da ciò, alcuni osservano che, dal momento che l'obbligo a contenuto positivo contiene – impilcitamente o
esplicitamente – un termine, la condotta tipica (e cioè il tempus commissi delicti) potrà dirsi realizzata alla scadenza di
tale termine.
Gallo osserva come questa sia un'ipotesi sbagliata: ciò è dimostrato apportando il semplice esempio di un Tizio, che ha
l'obbligo di consegnare tutta la valuta straniera in suo possesso entro il 31 dicembre. Il 30 egli fugge in Bolivia; anche
volendolo, egli non potrà più tornare per il 31 ed adempiere l'obbligo. Da ciò appare evidente come tempus commissi
delicti sia il momento in cui il soggetto si è posto nella condizione di non poter più adempiere l'obbligo giuridico.
Altri adottano un criterio misto fra quelli sopra esposti, adattabile a seconda dei casi. Non è un errore, scrive Gallo:
infatti nel nostro ordinamento non esiste un criterio univoco per la determinazione del tempus commissi delicti.
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Il IV comma dell'art. 2 c.p.
Art. 2 Successione di leggi penali. — Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo
in cui fu commesso, non costituiva reato .
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata
condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui
disposizioni sono più favorevoli al reo (5), salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.
Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto
legge e nel caso di un decretolegge convertito in legge con emendamenti.
Le leggi temporanee sono quelle la cui validità è espressamente limitata nel tempo; le leggi speciali sno quelle la cui
validità perdura fintantoche perdura l'evento eccezionale (anche definito particolare) che ne ha portato all'emanazione.
In caso di leggi come queste, l'art. 2 espressamente stabilisce che le disposizioni dei comma precedenti non si
applicano, compresa la retroattività della legge più favorevole al reo. Per quali motivi? La ratio della non retroattività
risiede nel fatto che considerare applicabili retroattivamente le leggi in questione significherebbe estendere un
trattamento particolare a situazioni rispetto le quali non sussistono le ragioni che hanno portato all'emanazione delle
leggi stesse.
Insomma, è la stessa natura di legge temporanea o eccezionale a prescrivere che questa si applichi soltanto a fatti
verificatisi sotto il suo imperio. Ammettere la retroattività su fatti regolati da norme eccezionali o temporanee più
favorevoli significherebbe svuotare la ragion d'essere di questa categoria di norme.
Particolare disciplina delle leggi finanziarie
Prima dell'entrata in vigore del d.l. 16 marzo 1991 n. 83, la dottrina comunemente equiparava la disciplina delle
leggi penali eccezionali e temporanee a quella delle leggi finanziarie.
Ma, con la nuova disciplina, è assicurata la retroattività, ex art. 2, commi II e III, delle disposizioni finanziarie più
favorevoli rispetto alle violazioni commesse antecedentemente all'entrata in vigore del decreto stesso.
La successione nel tempo di leggi omogenee
Come si configura la vicenda normativa quando si abbia successione fra:
● legge temporanea e legge temporanea;
● legge eccezionale e legge eccezionale;
● legge finanziaria e legge finanziaria.
Gallo sostiene che “se la legge eccezionale posteriore è dovuta ad un evento di natura eccezionale diverso da quello da
cui scaturisce la legge precedente” si applica quest'ultima: “urterebbe contro la ratio del sistema applicare
retroattivamente la legge posteriore”.
Invece, se la legge eccezionale posteriore è invece ispirato alla stessa ratio, si potrà invece applicare quella più
favorevole. Stesso disco
Comunque, per quanto riguarda la successione di altre leggi omogenee, Gallo ritiene che la legge successiva più
favorevole in caso di successione di leggi omogenee debba essere applicato.
Conclusioni sulla successione di leggi penali finanziarie nel tempo
L'art. 1 della l. 7 gennaio 1929 fissava il c.d. principio di fissità della legge penale finanziaria:
Art 1: Le disposizioni della presente legge [...] non possono essere abrogate o modificate da leggi posteriori
concernenti i singoli tributi se non per dichiarazione espressa del legislatore [...] con specifico riferimento alle
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singole disposizioni abrogate o modificate.
La ratio era quella di assicurare la certezza del diritto in materia finanziaria tributaria, instabile perché, di per sé,
soggetta a continui interventi del legislatore.
Ma questa norma creava un grave problema di legittimità costituzionale. Essa, infatti, vincolava il legislatore futuro,
escludendo l'abrogazione inespressa. Poteva una siffatta regola vincolare il legislatore futuro? No, probabilmente, in
un regime di costituzione flessibile (Statuto Albertino); neanche in regime di Costituzione repubblicana, a meno che
non si volesse ravvisare un fenomeno di costituzionalizzazione dell'art. 1, ai sensi della XVI disposizione transitoria:
XVT DT: Entro un anno dalla entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione ed al
coordinamento con essa delle precedenti leggi costituzionali che non siano state finora esplicitamente o
implicitamente abrogate.
Il nodo normativo è stato risolto da leggi seguenti, che hanno abrogato nella sua interezza l'art. 1 della legge del '29.
Esame dell'art. 2 ultimo comma anche con riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale
Dispone l'ultimo comma dell'art. 2 c.p.:
[...] Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un
decretolegge e nel caso di un decretolegge convertito in legge con emendamenti.
Questa disposizione era stata emanata con le leggi vigenti nel 1939. Leggi che prevedevano che, in caso di mancata
conversione di un decretolegge, questo venisse a decadere con efficacia exnunc. Vale a dire che esso risultava in
vigore per il periodo intercorrente tra l'emanazione e la mancata conversione. Si ravvisava, così, un vero e proprio
caso di successione di leggi penali nel tempo.
Con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana le cose sono cambiate. L'art. 77 dispone che i decreti non
convertiti perdono efficacia fin dal momento della loro emanazione: cioè ex tunc. Si può ravvisare qui una
successione di leggi penali nel tempo, quale era ravvisabile con le vecchie fonti? Tanto più che un altro problema esiste
oggi: quello dell'invalidazione di disposizioni da parte della Corte Costituzionale. Anche in questo caso, infatti, la
perdita di efficacia si presenta nei medesimi termini: con effetto ex tunc.
Riportiamo ora le disposizioni costituzionali in materia:
Art. 77: Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge
ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti
provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte,
sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.
Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.
Art. 136: Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la
norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo
ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali.
A prima lettura, dal disposto del 136 sembra evincersi che le pronunce della Corte che dichiarano l'illegittimità di una
legge abbiano efficacia ex nunc: “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione”. Persino Calamandrei riteneva così; tuttavia, un argomento decisivo può essere apportato: se l'efficacia non
fosse retroattiva, cioè ex tunc, nessuna delle parti di un procedimento avrebbe interesse a ricorrere alla Corte:
l'eventuale sentenza di accoglimento – se non avesse efficacia retroattiva – non gioverebbe in alcun modo, applicandosi
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comunque in quel procedimento la norma dichiarata illegittima. La l. 11 marzo 1953 n. 87 chiude, comunque, ogni
questione in merito: la validità delle norme dichiarate incostituzionali cessa ex tunc.
È bene precisare che la sentenza di accoglimento non dà luogo né ad una abrogazione (infatti essa ha efficacia
retroattiva) né ad una disapplicazione (avendo la sentenza effetto erga omnes). Si tratta, invece, di un fenomeno di
annullamento che travolge tutti gli effetti della legge illegittima.
Nascono, tuttavia, delle difficoltà. La norma riconosciuta come costituzionalmente illegittima potrebbe avere abrogato
una incriminazione precedente, oppure aver modificato la disciplina in senso più favorevole al reo.
Dobbiamo dunque domandarci quale applicazione abbia, nel campo penale, il regime dell'annullamento. Qui non
c'è alcuna successione di norme penali nel tempo: la norma precedente a quella riconosciuta illegittima riprende
efficacia ex tunc. Per Gallo bisogna tenere presente la ratio dell'art. 25 e quella, lì ricompresa, di certezza del diritto.
Tale sistema, se applicato, porterebbe alle assai gravi conseguenze per i singoli che verrebbero esposti a sanzioni penali
per aver tenuto comportamenti considerati leciti da norme indiscutibilmente efficaci quando tali comportamenti
erano stati posti in essere.
Dunque, in questo caso, si può ritenere che il decreto legge decaduto o la legge invalidata dovranno essere applicati
solo qualora prevedessero un trattamento più favorevole per il reo.
Altro problema da esaminare è quello della sentenza emanata sulla base di un decreto legge decaduto o di una legge
invalidata.
Per Gallo, la cessazione ex tunc degli effetti del decreto legge non dovrebbe avere nessuna ripercussione sul giudicato;
esiste, qui, un principio di intangibilità.
Invece, per quanto riguarda la legge invalidata, l'art. 30 della l. 11 marzo 1953 dispone la cessazione di tutti gli effetti
penali quando, sulla base di una norma invalidata, sia stata pronunciata sentenza di condanna.
L'ultima parola è stata detta dalla Corte Costituzionale, con sentenza 22 febbraio 1985, n. 51. Con essa è stato dichiarato
illegittimo l'ultimo comma dell'art. 2 c.p. con riferimento ai fatti commessi anteriormente alla vigenza del decreto legge
non convertito.
In conclusione, il d.l. non convertito e la legge dichiarata incostituzionale saranno applicabili ai fatti verificatisi sotto
la loro vigenza solo se c'è una disciplina di maggior favore per il reo.
Capitolo IV – Validità della norma penale nello spazio
In astratto, possono essere definiti quattro criteri che concernono l'applicazione della legge penale nello spazio:
1. Criterio della UNIVERSALITÀ: la legge penale dovrebbe, secondo tale principio, applicarsi a qualunque
fatto previsto dalle stesse leggi, di qualunque uomo, in qualunque luogo si trovi.
2. C. dalla PERSONALITÀ ATTIVA: è un criterio di determinate epoche storiche (a.e. alto medioevo). Sarà
applicato una norma diversa a seconda dello status o dell'etnia cui appartiene il reo.
3. C. della DIFESA (o della personalità passiva): è applicata la legge dello Stato cui appartiene il soggetto
passivo del reato.
4. C. della TERRITORIALITÀ: la sfera di efficacia della legge penale sarebbe determinata, secondo questo
criterio, dal territorio dello Stato.
Per accertare quali fra questi criteri sono stati adottati dal nostro legislatore, e quindi dall'ordinamento italiano, deve
essere esaminato l'art. 3 c.p.:
Art. 3 Obbligatorietà della legge penale. — La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o
stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal
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diritto internazionale.
La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri si trovano all’estero, ma
limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale.
La dottrina, in forza di questo articolo, ha concluso che il nostro ordinamento ha adottato il criterio della territorialità.
Ma sono previste alcune eccezioni. Eccezioni che dovranno essere analizzate, per capire se costituiscono semplici
deviazioni della regola generale, o se invece non si possa più parlare soltanto di eccezioni, dovendosi applicare un
diverso criterio.
Delimitazione del territorio dello Stato
Stabilisce l'art. 4 c.p.:
Art. 4: [...] Agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della Repubblica [quello delle
colonie] e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono
considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto
internazionale, a una legge territoriale straniera.
Per quello che riguarda la delimitazione del territorio di terraferma, non ci sono problemi particolari: questo
corrisponde con i confini politici della Repubblica.
Per il limite delle acque territoriali, il codice della navigazione lo fissa entro le dodici miglia dalla costa. Il criterio
può, però, esser fatto valere solo nei confronti di quegli stati che adottano un limite pari o maggiore; la maggior parte,
comunque, accoglie il criterio della massima gittata dei cannoni costieri, cristallizzato nelle tre miglia dal diritto
internazionale.
La sovranità si estende nel sottosuolo fin dove è possibile pervenire; nella colonna d'aria sovrastante il territorio
dello stato fino a tutto lo spazio atmosferico (come ritiene la più recente dottrina).
Fatti avvenuti su navi o aeromobili
Alle navi o aeromobili militari, costituenti il c.d. territorio fittizio dello Stato, si applica sempre la legge dello Stato di
appartenenza, la c.d. legge di bandiera.
Qualora la nave o l'aeromobile non sia militare, secondo l'art. 3 c.p. dovrebbe applicarsi la legge dello Stato italiano.
Tuttavia la situazione è diversa. L'art. 10 della Costituzione dispone che “l'ordinamento giuridico italiano si conforma
alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
Quali sono queste norme? Ha scritto la Cort. Cass. SS.UU:
[... ] prevale la giurisdizione dello Stato di bandiera allorché l'illecito concerna esclusivamente le attività e gli
interessi della comunità nazionale cui appartiene il natante; prevale quella dello Stato costiero ove le
conseguenze del fatto compiuto si ripercuotano o siano idonee a ripercuotersi all'esterno [...].
È questo un princpio affermatosi in origine per ragioni di cortesia internazionale, ma che poi è stato riconosciuto anche
dalla giurisprudenza, come abbiamo appena visto.
Eccezioni dell'art. 3, II comma
Dicevamo prima che la Dottrina ritiene che l'ordinamento penale italiano sia ispirato al principio della territorialità. È
proprio vero?
L'art. 3, II comma, prevede delle eccezioni alla disposizione conenuta nel primo comma “la legge penale italiana
obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato”. Dispone, infatti, il comma successivo
che:
Art. 3, II comma: La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano
all'estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge (art 7 e seguenti) e dal diritto internazionale.
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Quali sono questi casi? Quelli degli artt. 7, 8, 9, 10 c.p:
Art. 7 Reati commessi all’estero. — È punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette
in territorio estero taluno dei seguenti reati:
1) delitti contro la personalità dello Stato italiano;
2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto;
3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di
pubblico credito italiano;
4) delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti
alle loro funzioni;
5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono
l’applicabilità della legge penale italiana.
Art. 8: Delitto politico commesso all’estero. — Il cittadino o lo straniero, che commette in territorio estero un
delitto politico non compreso tra quelli indicati nel numero 1 dell’articolo precedente, è punito secondo la
legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia.
Se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa, occorre, oltre tale richiesta, anche la querela.
Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato,
ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in
tutto o in parte, da motivi politici.
Art. 9 Delitto comune del cittadino all’estero. — Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti,
commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l’ergastolo, o la reclusione non inferiore
nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato.
Se si tratta di delitto per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è
punito a richiesta del Ministro della giustizia ovvero a istanza o a querela della persona offesa.
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, qualora si tratti di delitto commesso a danno delle Comunità europee,
di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia, sempre che
l’estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha
commesso il delitto.
Art. 10 Delitto comune dello straniero all’estero. — Lo straniero, che fuori dei casi indicati negli articoli 7 e
8, commette in territorio estero, a danno dello Stato o di un cittadino, un delitto per il quale la legge italiana
stabilisce l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, è punito secondo la legge medesima,
sempre che si trovi nel territorio dello Stato, e vi sia richiesta del Ministro della giustizia, ovvero istanza o
querela della persona offesa.
Se il delitto è commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è
punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, sempre che:
1) si trovi nel territorio dello Stato;
2) si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena dell’ergastolo ovvero della reclusione non inferiore nel
minimo a tre anni;
3) l’estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui
egli ha commesso il delitto, o da quello dello Stato a cui egli appartiene.
In tutte queste ipotesi, viene in luce una tendenziale universalità della legge penale italiana. Quelle degli artt. 7, 8, 9,
10, non si possono infatti ritenere mere eccezioni ad una regola generale: ne risulta, infatti, che è reato sanzionabile
secondo la legge italiana ogni delitto punito con la pena detentiva anche al di fuori del territorio dello Stato:
Tantopiù che il codice penale si occupa anche del delitto comune commesso dallo straniero all'estero: così dalla
legge italiana è punita anche la rapina commessa dall'uruguagio negli Stati Uniti. Ergo, sono reati per la nostra legge la
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stragrande maggioranza dei fatti da chiunque e dovunque commessi.
Tuttavia, Gallo fa notare come, sul piano effettuale, il legislatore ne restringe le conseguenze in modo tale da avere
risultati coincidenti a quelli che si avrebbero con l'applicazione del principio di territorialità. Infatti, per i reati
meno gravi, dagli artt. 7, 8, 9, sono previste numerose condizioni di procedibilità, come la richiesta del ministro
competente o la querela di parte. Tanto più il reato è invece grave, tanto minori sono le condizioni di procedibilità.
Determinazione del locus commissi delicti
Molto importante, per la definizione di rapporti tra ordinamento penale italiano ed ordinamenti stranieri è l'art 6 c.p., in
particolare nel suo II comma:
Art. 6 c.p.: Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana.
Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l'azione o la omissione che lo costituisce è ivi
avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l'evento che è la conseguenza dell'azione o dell'omissione.
In questo articolo è considerato come commesso nel territorio dello Stato il delitto nel quale anche un solo frammento
passi per questo territorio.
Si profila, così, il problema del locus commissi delicti. È un problema rilevante: fino a poco tempo fa, locus si
considerava il luogo in cui cessava la permanenza del reato. Con le conseguenze, inaccettabili, che il reo avesse la
possibilità di “scegliersi” il giudice, magari quello calabrese più “connivente”. Come avviene per il tempus commissi
delicti, il sistema non si affida ad un criterio unitario. Sarà, invece, necessario indagare quale risponda meglio alle
esigenze dei vari casi.
● Reati istantanei e reati di durata: per questi reati ciò che conta è il luogo della prima realizzazione di un
fatto conforme ad una figura criminosa.
Per quanto riguarda i reati istantanei, non c'è protrazione del fatto stesso nel tempo, ed il luogo della
realizzazione è lo stesso del luogo della consumazione.
Per quello che riguarda i reati di durata, luogo della prima realizzazione deve, meglio, intendersi come luogo
dove per la prima volta si ha completezza della fattispecie criminosa.
● Più reati commessi in esecuzione di un medesimo progetto criminoso: dal momento che si tratta di più
reati, viene adottato un criterio unitario , che è raggiunto con la statuizione secondo cui prevale il luogo ove è
stato posto in essere il reato più grave.
● Delitto tentato: in questo caso è adottato il criterio della consumazione, individuato alla stregua del luogo in
cui l'ultimo atto diretto a commettere il delitto è stato compiuto.
● Reati per cui la legge richiede il verificarsi di una condizione (condicio iuris): ad esempio, nel caso della
bancarotta fraudolenta la punibilità dell'imprenditore è subordinata all'esistenza di una sentenza dichiarativa di
fallimento. Per Gallo qui può essere adottato un criterio che si basi sulla ratio di rendere più snello ed efficiente
il funzionamento degli organi di giustizia. E qui il locus commissi delicti può essere identificato nel luogo nel
quale si è verificata la condizione di punibilità.
Reati commessi all'estero: problemi interpretativi
Perché si possa procedere contro l'autore di un reato commesso all'estero, è necessario che il fatto sia previsto come
reato, oltre che dal nostro ordinamento, anche da quello dello Stato in cui è avvenuto il fatto?
Il problema si pone per i casi di reati comuni (artt. 9 e 10) e non per quelli degli artt. 7 ed 8 nei quai è applicato il
criterio della difesa. Notiamo subito come il legislatore è silente; tuttavia, la dottrina penalistica è portata a ritenere che
quella della doppia incriminazione sia una clausola implicita. Si fa riferimento, per motivare questa tesi, all'art. 13, che
dispone che “l'estradizione non è ammessa se il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione non è preveduto
come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera”.
Per Gallo deve distinguersi fra art. 9 (delitto comune di cittadino all'estero) e 10 (delitto comune di straniero all'estero
contro cittadino o Stato): nel caso del primo, il principio di stretta legalità è rispettato se il fatto è preveduto come reato
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anche solo dalla legge italiana; nel secondo, invece, dovrà essere preveduto come tale anche dalla legge straniera.
Ulteriore problema da affrontare è quello delle condizioni di procedibilità per i reati commessi all'estero. I dubbi
maggiori sorgono con riguardo all'art. 9, dove si dispone: “[...] il colpevole è punito a richiesta del Ministro (di grazia e
giustizia) ovvero a istanza o a querela della persona offesa”. La Dottrina discute se siano necessarie tutte e tre (richiesta
del Ministro, istanza, querela), ovvero soltanto una di esse. Gallo conclude che il legislatore presenta le condizioni di
procedibilità come operanti ciascuna nel proprio ambito. Così, se il reato offende un interesse dello Stato o della
collettività, sarà necessaria la richiesta del ministro; se offende un iteresse del singolo, necessaria sarà (a seconda dei
casi) la querela o l'istanza.
Ulteriore problema è quello che nasce dal confronto fra comma I e II dell'art. 9 c.p. Nel I comma ulteriore
condizione di procedibilità è stabilta nella presenza del cittadino nel territorio dello Stato. Nel comma II, invece,
questa non è prevista. Dottrina e Giurisprudenza estendono questa condizione anche al II comma; Gallo ha in merito
qualche dubbio – ma vista la concordanza, la presenza della condizione anche per il II comma non è da mettere in
dubbio.
L'estradizione: punti fermi e problemi
L'estradizione consiste nella consegna che uno Stato fa ad un altro Stato di persona che debba essere assoggettata
– nello Stato al quale è consegnata – a procedimento o a sanzione penale.
L'estradizione può essere distinta, a seconda che il fenomeno venga considerato dal punto di vista dello Stato
consegnante ovvero di quello che chiede la consegna, fra estradizione passiva ed estradizione attiva. La disposizione
del nostro c.p. da considerare è l'art. 13, imperniato sulla estradizione passiva.
Art. 13 Estradizione. — L’estradizione è regolata dalla legge penale italiana, dalle convenzioni e dagli usi
internazionali.
L’estradizione non è ammessa, se il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione, non è preveduto
come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera.
L’estradizione può essere conceduta od offerta, anche per reati non preveduti nelle convenzioni internazionali,
purché queste non ne facciano espresso divieto.
Non è ammessa l’estradizione del cittadino, salvo che sia espressamente consentita nelle convenzioni
internazionali.
Ciò considerato, non resta che appurare quali siano le regole che valgono, invece, per l'estradizione attiva. In altri
termini, quand'è che lo Stato italiano può pretendere che un altro Stato estradi un cittadino o uno straniero per un fatto
che dalla legge italiana è previsto come reato?
Pare – in base al principio di reciprocità ed all'esperesso richiamo agli usi internazionali presente nell'art. 13 – che
anche l'estradizione attiva sia retta dalle medesime regole che disciplinano quella passiva, di cui proprio all'art. 13.
L'estradbilità è, tuttavia, per Gallo subordinata all'esistenza di una convenzione internazionale, garanzia che l'altro
ordinamento presuppone una civiltà giuridica almeno paragonabile alla nostra. Tuttavia, sempre in basa al principio di
reciprocità, l'Italia potrà richiedere l'estradizione anche in assenza di una specifica clausola pattizia.
Punto importante da chiarire è quello di cui all'ultimo comma dell'art. 10 Cost: “non è ammessa l'estradizione dello
straniero per reati politici” e ribadito nell'art. 26 Cost: “l'estradizione [...] non può in alcun caso essere ammessa per
reati politici”.
Ciò chiarito, rimane da definire la nozione stessa di reato politico. Nel nostro codice, una nozione è contenuta nell'art.
8:
Art. 8 Delitto politico commesso all’estero. — [...] Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni
delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì
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considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici.
Tuttavia, Gallo fa notare come – riguardo al “delitto politico determinato in tutto o in parte da motivi politici” la
causale politica possa presentare motivazioni anche assai lievi. Basti fare l'esempio di una rapina posta in essere allo
scopo di finanziamento di un movimento clandestino.
Dovrà dunque fissarsi una nozione contigua ma non coincidente con quella dell'art. 8. Come ha avuto a sostenere la
Cassazione “ai fini dell'estradizione il concetto di delitto politico non coincide con quello dell'art. 8 c.p.” [...] “il piano
di operatività di questa norma è diverso rispetto a quelle cosituzionali, in quanto nella norma del codice penale il reato
politico è definito in funzione repressiva, mentre le norme costituzionali lo assumono in una funzione di garanzia”.
Detto ciò, bisogna ricordare l'esistenza di due limiti generali all'estradizione fissati dall'art. 698 cpp:
1. Non può essere concessa l’estradizione per un reato politico né quando vi è ragione di ritenere che
l’imputato o il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione,
di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o
trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti
fondamentali della persona.
2. Se per il fatto per il quale è domandata l’estradizione è prevista la pena di morte dalla legge dello stato
estero.
A nulla conta che lo Stato estero dia garanzia di non applicare la pena di morte: vale il principio che alla pena di morte
non si può in nessun modo pervenire attraverso atti e procedure imputabili allo Stato italiano.
Per l'estradizione passiva, non è ncessaria soltanto una pronuncia degli organi giurisdizionali competenti; serve infatti
un atto ulteriore, costituito dal provvedimento del Ministro. Si discute sulla natura di questo provvedimento: è un atto
politico o un atto amministrativo? Per Gallo questo non presenta tutte le caratteristiche dell'atto politico. Tuttavia,
qualora si ammettesse la natura di atto amministrativo, tale provvedimento risulterebbe impugnabile Ed una tale
impugnabilità sarebbe inconcepibile per il nostro ordinamento. Ergo, appare preferibile optare per la natura politica del
provvedimento.
Rilevanza delle sentenze penali straniere
In materia, dispone l'art. 12 c.p.:
Art. 12 Riconoscimento delle sentenze penali straniere. — Alla sentenza penale straniera pronunciata per
un delitto può essere dato riconoscimento:
1) per stabilire la recidiva o un altro effetto penale della condanna, ovvero per dichiarare l’abitualità o la
professionalità nel reato o la tendenza a delinquere;
2) quando la condanna importerebbe, secondo la legge italiana, una pena accessoria;
3) quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre la persona condannata o prosciolta, che si trova
nel territorio dello Stato, a misure di sicurezza personali;
4) quando la sentenza straniera porta condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno, ovvero deve,
comunque, esser fatta valere in giudizio nel territorio dello Stato, agli effetti delle restituzioni o del
risarcimento del danno, o ad altri effetti civili.
Per farsi luogo al riconoscimento, la sentenza deve essere stata pronunciata dall’autorità giudiziaria di uno
Stato estero col quale esiste trattato di estradizione. Se questo non esiste, la sentenza estera può essere
egualmente ammessa a riconoscimento nello Stato, qualora il Ministro della giustizia ne faccia richiesta. Tale
richiesta non occorre se viene fatta istanza per il riconoscimento agli effetti indicati nel numero 4.
Nulla da aggiungere: è da notare soltanto come per la sentenza penale di condanna straniera non si può tenere conto
per l'applicazione di pene principali, ma solo di quelle accessorie. Le altre regole si basano sul fatto che la sentenza
penale rileva soltanto nei casi in cui la condanna denota per il reo una situazione di pericolosità, eccetto che per il punto
4, che si ispira ad una ratio diversa.
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Capitolo V – Validità della norma penale nei confronti delle persone
I destinarari della norma penale
Quali sono? Leggiamo l'art. 3:
Art. 3. Obbligatorietà della legge penale. — La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o
stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal
diritto internazionale.
La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri si trovano all’estero, ma
limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale.
L'articolo apre lo sfondo al problema della c.d. capacità giuridica penale. Alcuni hanno contestato l'utilità e l'esistenza
stessa di questo concetto che non è legislativo – dal momento che non è contenuto in alcuna disposizione del diritto
positivo – ma una elaborazione dottrinale; almeno nel diritto penale. In altri campi del diritto, il problema della
capacità trova espressa soluzione legislativa: pensiamo, ad esempio, all'art. 1 del Codice Civile: “La capacità giuridica
si acquista al momento della nascita”.
Per Gallo sottovalutare il problema della capacità in diritto penale è sbagliato: “ogni ordinamento” – sostiene “dovrà
sempre porsi quale problema la determinazione del soggetto rilevante nel suo ambito”. Anche Trapani ritiene che vada
condotta un'appropriata indagine in materia: esso è infatti un argomento di teoria generale del diritto, e perché
“ogni settore dell'ordinamento necessita di condizioni per le quali un soggetto possa essere
produttore o titolare di situazioni giuridiche soggettive”.
La capacità giuridica penale
In astratto, la capacità giuridica è l'attitudine alla titolarità di rapporti giuridici. Ergo, ne consegue che la capacità
giurdica penale è l'attitudine ad essere titolari di rapporti giuridici penali.
Ciò, tuttavia, non risolve la nostra indagine. Essa dovrà necessariamente incentrarsi rispetto ad un'altra prospettiva.
Vediamo quale.
Se molti autori parlano di “situazioni giuridiche soggettive attive e passive” anche nel capo penale, Gallo ritiene che
queste locuzioni siano alquanto incerte. Meglio è, secondo l'Autore, parlare di situazioni favorevoli e di situazioni
sfavorevoli.
Requisiti della capacità giuridica quale attitudine alla titolarità di situazioni sfavorevoli
Le situazioni sfavorevoli sono quelle nelle quali il soggetto deve adeguarsi ad un certo comportamento, pena il prodursi
della sanzione disposta dalla norma. Hanno quindi un contenuto attivo di dovere; per spiegare il rapporto tra reo e
conseguenze connesse alla commissione del reato, può – nel nostro ordinamento – farsi ricorso alla figura della
soggezione.
Tale stretto collegamento fra sanzione e comportamento, si viene ad affermare che destinatario del dovere può essere
solo chi è assoggettabile alla sanzione. Ecco, quindi, che possiamo concludere che la capacità giuridica a situazioni
sfavorevoli compete soltanto a chi è assoggettabile alla sanzione; anzi, consiste proprio nella SOGGEZIONE ALLA
SANZIONE. Chi non lo è, non è nemmeno destinatario del dovere.
In Italia, la responsabilità giuridica è solo personale. Solo la persona umana è capace penalmente. Ciò è confermato
dall'art. 27 Cost. (che lo sancisce espressamente) e dall'art. 197 c.p., che stabilisce che “Gli enti forniti di personalità
giuridica, eccettuati lo Stato, le Provincie ed i Comuni, qualora sia pronunciata sentenza di condanna contro chi ne
abbia la rappresentanza o l'amministrazione o sia con essi in rapporto di dipendenza [...] sono obbligati al pagamento,
in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all'ammenda inflitta”. Da ciò ne consegue che, se la persona
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giuridica potesse essere penalmente responsabile, non sarebbe sancita a suo carico tale particolare obbligazione.
Le c.d. immunità
Le c.d. immunnità o prerogative implicano un particolare trattamento di determinate persone o classi di persone
rispetto alla legge penale. In ciò consistono le “eccezioni” delle quali si rinviene traccia all'art. 3.
Sono riconosciute, di solito, a persone che ricoprono uffici particolari o sono in determinati rapporti rispetto alla
persona offesa (a.e. gli agenti di intelligence).
Ve ne sono di tre tipi: immunità assolute, che riguardano qualsiasi tipo di reato verso chiunque commesso; immunità
parziali, nelle quali un soggetto non è destinatario solo di alcune norme penali; infine immunità relative, per le quali un
soggetto non è destinatario di alcune norme penali, a condizione che il fatto sia commesso a danno di un determinato
tipo di soggetto e non da qualcun'altro.
Immunità assolute
Si incontrano soltanto nel diritto internazionale. Tentiamo un'elencazione dei soggetti investiti di tale tipo di immunità:
● Sommo pontefice: immunità derivante dai Patti Lateranensi del 1929;
● Ambasciatori che siano legalmente accreditati presso uno Stato; in Italia anche gli ambasciatori presso la
Santa Sede. Spesso l'immunità crea problemi; si sono verificati molti casi di ambasciatori che hanno preso in
locazione delle ville extralusso, senza mai pagare il canone, e che non hanno potuto né subire lo sfratto, né
essere perseguiti in altro modo;
● Consoli, altro personale diplomatico: idem, vedi sipra;
● Militari NATO di stanza nelle basi italiane. Pare comunque che non si tratti di una vera e propria immunità,
quanto di una mancanza di procedibilità;
● Capi di stato esteri in visita in Italia o presso la Santa Sede.
Immunità parziali di diritto pubblico interno:
● Presidente della Repubblica: può essere processato solo per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.
● Deputati e senatori: sono immuni, ma limitatamente ai voti dati ed alle opinioni espresse nell'esercizio delle
loro funzioni.
● Consiglieri regionali: stesso discorso che per deputati e senatori.
Immunità processuali
● Deputati e senatori: era prevista la concessione, prima del 1992, da parte dello stesso Parlamento, della
autorizzazione a procedere alla magistratura contro di essi; è stata successivamente eliminata nel 1992, e
sostituita con l'art. 68. L'autorizzazione oggi è soltanto autorizzazione all'arresto.
È controversa la natura giuridica dell'immunità. Per alcuni essa consisterebbe n una semplice esenzione da una
giurisdizione, avrebbe cioè natura processuale. Per altri, fra i quali Antolisei, le immunità sono da annoverare fra le
cause di esenzione dalla pena.
Per Gallo, invece, non è così. Infatti, se si concepiscono le immunità come cause personali di esenzione dalla pena, i
soggetti che ne godono potrebbero comunque essere sottoposti, a norma dell'art. 203, a misure di sicurezza. Ergo, chi
gode di immunità o prerogative – non essendo assoggettabile a sanzioni – non è un destinatario del dovere di cui si
parlava prima. In altri termini, l'immune è sempre incapace, totalmente o parzialmente (cioè rispetto al tipo di
immunità che gli è riconosciuta e rispetto a quali reati). Anche Trapani condivide l'opinione di Gallo: ragionando in
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termini di capacità è tutto più semplice e chiaro. Gli immuni non sono altro che SOGGETTI PENALMENTE
INCAPACI. Pensare il contrario significa solo fare del moralismo. Ancora più tecnicamente, le immunità possono
essere considerate come elementi negativi della capacità giuridica penale.
Ed ora, domandina: l'ambasciatore del Ruanda – incapace penalmente – è ucciso da Tizio per legittima difesa.
Ragionando erroneamente, potremmo concludere che, essendo l'ambasciatore incapace, egli stia compiendo un atto
lecito, e che quindi in questo caso la scriminante non possa trovare applicazione. Non è così: l'ingiustizia del “pericolo
grave del danno” si riferisce non ad un'ingiustizia che abbia come parametro una norma giuridica penale, ma in quanto
torto oggettivo alla stregua di valutazioni basate sull'ordinamento nel suo complesso.
Si inizia l'analisi del requisito positivo
Abbiamo appena concluso che le ipotesi di immunità si presentano come requisiti negativi – in senso parziale o relativo
– della capacità penale quale attitudine alla titolarità di situazioni giuridiche soggettive sfavorevoli.
Ora, dalla lettura del combinato degli artt. 3 II comma, 7, 8, 9, 10, si evincono delle limitazioni all'obbligatorietà della
legge penale nei casi seguenti:
1. La legge penale italiana non può essere applicata sulle contravvenzioni commesse all'estero;
2. L'art. 9 esclude la rilevanza penale dei delitti commessi all'estero puniti con pene pecuniarie;
3. Esistono alcuni atti – che si desumono dall'art. 10 – che non hanno alcun effetto giuridico per il nostro
ordinamento se sono commessi dallo straniero.
Sono questi casi di incapacità parziali? No, per Gallo. La capacità o l'incapacita infatti attengono ad un modo d'essere
del soggetto quale, ad esempio, la sua nazionalità. Qui non è questo modo d'essere a rilevare, ma il fatto; precisamente
una sua modalità d'esecuzione.
Ergo, Gallo ne deduce che non si può parlare di incacità, quanto della presenza di una clausola negativa che importa la
non applicabilità della regola incriminatrice ogniqualvolta il comportamento tipico è espressamente sottratto alla
punibilità del combinato disposto dagli articoli citati.
Capacità e reato proprio
Si parla di ipotesi di capacità speciale per quelle fattispecie per la realizzazione delle quali sono richieste determinate
qualità o determinate condizioni personali del soggetto agente. Essa si presenta non solo con fattispecie criminose, ma
anche in ordine a circostanze aggravanti.
In particolare, tali fattispecie sono quelle dei reati propri. Essi sono tutti quei reati per i quali il soggetto attivo non è
indicato come “chiunque”, bensì come una persona in possesso di determinati requisiti o qualifiche: a.e., il pubblico
ufficiale.
Vediamo alcune di queste fattispecie: prima un “falso caso” di reato proprio; poi uno vero.
Art. 314: Peculato: Il pubblico ufficiale l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo
ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne
appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso
momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.
Art. 275 Accettazione di onorificenze o utilità da uno Stato nemico: Il cittadino, che, da uno Stato in guerra con lo
Stato italiano, accetta gradi o dignità accademiche, titoli, decorazioni o altre pubbliche insegne onorifiche, pensioni o
altre utilità, inerenti ai predetti gradi, dignità, titoli, decorazioni o onorificenze, è punito con la reclusione fino a un
anno.
Nel primo caso non si può parlare di reato proprio, in quanto la qualifica soggettiva (pubblico ufficiale) nasce da un
elemento oggettivo del fatto: nel c.p., infatti, quando si parla di “uffici o servizi” ci si riferisce sempre ad uffici e servizi
pubblici. Chi è ad essi addetto non potrebbe, quindi, essere altri che un pubblico ufficiale.
Nel caso della fattispecie di cui all'art. 275 siamo, invece, di fronte ad un vero reato proprio: qui è necessaria la qualifica
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della cittadinanza; se quell'evento naturalistico fosse posto in essere da un non cittadino, cioè da un “chiunque”, non
avrebbe infatti alcuna rilevanza penale. La differenza rispetto alla fattispecie dell'art. 314 è che quest'ultima non può
essere posta naturalisticamente in essere se non si è pubblici ufficiali. Ecco perché nel caso del peculato non si può
parlare di reato proprio.
Natura delle misure di sicurezza
Qual'è il requisito positivo della capacità di diritto penale? È o no penalmente capace chi, a norma degli artt. 85 ss., va
ritenuto penalmente imputabile? Dal momento che la capacità consiste nella assoggettabilità ad una sanzione penale, il
problema e la soluzione alle due domande di cui sopra dipendono dalla natura delle misure di sicurezza.
Se fossero assoggettate al diritto amministrativo, ritenendo che l'unica conseguenza penalistica sia la pena, la
soggettività di diritto penale dovrà ruotare intorno alla imputabilità. Qualora abbiano il carattere di provvedimenti
penali, nella categoria del soggetto di diritto potranno essere ricompresi sia l'imputabile che il non imputabile.
Gallo è dell'avviso che le misure di sicurezza siano provvedimenti penali. Esse, infatti, vengono applicate con un
procedimento a carattere giurisdizionale, dietro la scelta della autorità giudiziaria penale.
Riconosciuto ciò, dal momento che anche il non imputabile è soggetto alle misure di sicurezza (e quindi è soggetto a
provvedimenti penali), ne deriva che egli è soggetto penalmente capace.
Posizione e funzione dell'imputabilità e della pericolosità
(da rivedere) Qual'è la funzione della pericolosità nel nostro ordinamento penale? Una definizione della persona
socialmente pericolosa è contenuta nell'art. 203:
Art. 203. Pericolosità sociale: — Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se
non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando
è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati.
La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133.
Sintomo imprescindibile della pericolosità criminale è la commissione di un reato; in altri termini, nel nostro
ordinamento socialmente pericoloso è solo chi commette un reato.
L'imputabilità, invece, è un'altra cosa: una condizione soggettiva che preesiste al reato. Infatti, il socialmente
pericoloso può anche non essere un imputabile.
Da qui, Gallo ne deduce che l'imputabilità non può essere uno dei requisiti della capacità giuridica penale. È,
invece, soltanto una qualifica necessaria per l'applicazione della pena.
Dunque, non è chi non è imputabile a non avere capacità penale: è solo chi non ha capacità d'agire penalmente a non
avere la capacità penale. E la capacità d'agire, nel nostro campo, consiste nel poter porre in essere – anche
fisicamente – un fatto previsto come illecito. Un esempio di incapace d'agire è il neonato.
Forme specifiche di capacità ed incapacità giuridica
(da rroivedere) Riprendiamo le specificazioni dell'incapacità giuridica, o del suo rovescio, cioè della capacità. Vediamo,
anche dalle precedenti indagini, a quali punti siamo arrivati:
● Situazioni di incapacità parziali: una di esse è l'immunità. Qui l'attitudine alla titolarità di una situazione
sfavorevole è condizionata da un particolare modo d'essere soggettivo, quale potrebbe essere l'investitura di un
soggetto a determinate cariche o qualifiche.
● Situazioni di incapacità relative: consistono nell'impossibilità di commettere reati a danno di una o più
determinate persone.
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La capacità di agire correlativa alla capacità giuridica come potenziale titolarità di situazioni
sfavorevoli
(da rivedere) Mentre la capacità giuridica postula la correlativa nozione di capacità di agire – che concerne l'attitudine
del soggetto a porre in essere atti giuridicamente rilevanti – lo stesso non accade per la capacità intesa come
assoggettabilità alla sanzione; cioè all'imputabilità.
C'è da notare come il legislatore non offra nessun indizio normativo per distinguere fra soggetto imputabile e
soggetto non imputabile. Tuttavia, se si ammette che anche il minore e l'infermo sono assoggettabili a misure di
sicurezza, si deve anche concludere che l'ordinamento esige, per riferire un fatto ad un soggetto incapace, la presenza di
determinati presupposti di imputazione. Questi, nel silenzio del legislatore, non possono essere altro che il dolo e la
colpa. Quindi, l'imputabilità non si riflette sul fatto: essa significa solo capacità alla pena.
Dunque, a cosa corrisponde la capacità di diritto penale? Alla capacità di agire, cioè all'attitudine di porre in essere fatti
penalmente rileventi.
La capacità giuridica penale quale attitudine alla titolarità di situazioni favorevoli
Abbiamo sinora parlato della capacità per quanto concerne le situazioni sfavorevoli. Cominciamo ora con disquisire
sull'attitudine alla titolarità di situazioni favorevoli. Come per le situazioni sfavorevoli il rinvio è operato ad un dovere
(a.e. non dover compiere un atto di una determinata fattispecie, pena la sanzione penale), qui il rinvio è ad una
situazione contrapposta: ad un diritto soggettivo inteso in senso lato. Nel nostro campo – quello penale – tale diritto
consiste nell'ottenere una esecuzione di una sanzione.
Tuttavia in molti casi – a.e. quelli in cui certi reati vengono perseguiti d'uffico – il meccanismo sanzionatorio non si
mette in moto su richiesta della parte interessata, ma automaticamente. È questa, anzi, la tecnica normalmente adottata
in diritto penale: quella che conduce alla creazione di interessi obbiettivamente protetti.
Quali sono i requisiti necessari per essere i titolari di un interesse protetto? Si sostiene che questa attitudine possa
appartenere solo allo Stato; tuttavia per Gallo ciò è errato. La titolarità dell'interesse si attribuisce a chi spetta potere di
istanza. Quindi, anche un ente potrà entrare in una situazione giuridica favorevole.
Ad ultimo, aggiungiamo che nel diritto penale la soddisfazione di un interesse non può mai derivare da un
comportamento del titolare della SGS favorevole. Dunque, non esiste una correlativa capacità di agire (come per le
situazioni sfavorevoli). Il potere di agire si estrinsecherà qui solo sul piano processuale – senza rientrare per nulla nel
concetto di capacità penale sinora esaminato, visto che nel processo è sempre ammessa la rappresentanza.
CAPITOLO VI – Validità delle regole penali nei loro rapporti con altre regole penali e non penalistica
Art. 15 c.p. e princpio di specialità
Quali limiti incontra una regola penale nei confronti di un'altra regola? In altri termini, quali sono i confini di una
fattispecie rispetto ad altre che con essa paiono convergere su situazioni di fatto astrattamente ipotizzate?
Punto di partenza normativo rispetto questa indagine deve essere l'art. 15 c.p. Essa regola i casi in cui più disposizioni di
legge concernono la stessa materia:
Art. 15: Materia regolata da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale. — Quando
più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la
disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti
stabilito.
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Molti sostengono che la funzione di questa norma sia quella di enunciare il principio di specialità in astratto. È
questo il principio per il quale se una regola enuncia tutti gli elementi di un'altra regola più uno, quest'ultima sarà la
regola speciale, in rapporto alla prima – definita generale. Se non ci fosse la regola speciale, la materia ricadrebbe sotto
la regola speciale. Un'altra evidenza è che l'inciso “salvo che sia altrimenti stabilito” non può riguardare la specialità in
astratto.
Ma per Gallo quello dell'art. 15 non è un semplice enunciato del principio di specialità in astratto. Questo, infatti, è un
principio proprio di tutti gli ordinamenti, anche laddove non è espressamente sancito. Quanto espresso dall'art. 15,
affinché non consista in inutile ripetizione, deve necessariamente riferirsi a qualcos'altro.
Per Trapani si tratta infatti di una enunciazione del principio di specialità IN CONCRETO: non è un rapporto
bilaterale fra due norme ma trilaterale, fra due norme ed una materia. Una specialità, quindi, che si intende come
riconduzione dello stesso fatto concreto sotto due norme diverse. Se non ci fosse questo articolo, due norme
applicabili alla stessa materia avrebbero l'effetto di condurre ad un concorso di reati; in questo modo, invece, il risultato
sarà quello di applicare soltanto una norma.
Come si può, però, capire se due norme confluiscono su una stessa materia? Bisognerà guardare all'INTERESSE
TUTELATO: se gli interessi tutelati sono diversi, andranno applicate due diverse norme, ed i due reati
concorreranno; ad esempio, se il reato di incesto è stato commesso con violenza, dal momento che le due norme
tutelano interessi diversi, si applicheranno tanto quella sull'incesto che quella sulla violenza carnale. Se invece
l'interesse tutelato è lo stesso, andrà applicata una sola norma: a.e. il furto commesso con violenza andrà punito solo
con la disposizione sulla rapina; il sorpasso in curva cieca che porta alla morte di un'altra persona andrà sanzionato
soltanto con le norme sull'omicidio colposo aggravato.
Invece, per la truffa realizzata attraverso un falso in scrittura privata, si applicherà solo la norma sulla truffa, oppure ci
sarà un concorso con le norme sul falso in scrittura privata? Dottrina e giurisprudenza, qui, sono divise, e si sono poste
in maniera contraddittoria. Una certa ambiguità c'è: essendo la falsità in scrittura privata posta a tutela di un interesse
diverso dalla truffa, la Cassazione ha giustamente detto che potranno essere applicate entrambe queste norme, in
concorso
Sempre, però bisognerà tenere conto del principio del ne bis in idem: nessuno può essere chiamato due volte a giudizio
per lo stesso fatto, in quanto questo non può essere imputato più di una volta.
(fine spiegazioni Trapani)
Quale sarà il criterio per distinguere due norme che confluiscono nella medesima fattispecie? Alcuni accolgono il
principio della sussidiarietà (la norma a contenuto più ampio prevale sulla norma a contenuto più ristretto) o quello
della consumazione (la norma consumante prevale sulla norma consumata). Gallo fa tuttavia notare come non esistano
criteri normativi sulla base dei quali adottare l'uno o l'altro criterio.
Sempre per l'Autore, l'unico criterio sostanziale in base al quale si possa dire che una norma è speciale rispetto ad
un'altra è quello della MAGGIORE GRAVITÀ DELLA PENA.
Esso è l'unico criterio decisivo: infatti se in una delle due norme la reazione sanzionatoria alla realizzazione del fatto è
più grave, significa che la norma con la sanzione più severa esaurisce meglio la tutela degli interessi presi in
considerazione dal legislatore.
Progressione criminosa: antefatto e postfatto non punibili
In rapporto a più fatti storici, qual'è la norma che prevale sull'altra? Analizziamo il caso della c.d. progressione
criminosa: essa si verifica quando taluno intraprende la realizzazione di un reato con un certo intento, ma,
durante l'esecuzione, cambia intenzione e realizza un altro fatto di reato.
Il primo reato viene assorbito dal secondo o no?
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L'unica soluzione sarebbe quella di ritenere posti in essere due distinti reati; tuttavia – dal momento che sarà difficile
per il giudice riconoscere due distinti reati – si applicherà il principio della specialità in concreto. Si verificherà,
dunque, l'assorbimento della fattispecie più grave in quella meno grave.
Ancora, un problema di prevalenza di una norma sull'altra potrebbe essere dato dalla presenza di un antefatto e
postfatto non punibili. Ad esempio, chi compie un furto con gli strumenti indicati nell'art. 707 c.p. (chiavi alterate o
grimaldelli), risponderà soltanto per il furto, o subirà la contravvenzione di cui all'art. 707? Gallo scrive che la
contravvenzione è assorbita nel delitto di furto. Ma per quale motivo? Perché si tratta di un furto aggravato, di cui
all'art. 625 c.p.
Diversamente, se il furto fosse semplice ed il ladro venisse trovato in possesso di chiavi e grimaldelli, si ravviserebbero
due distinti reati.
Dunque, Gallo perviene che non sussiste la regola di non punibilità del postfatto. Ogniqualvolta sia possibile
ravvisare due reati e la fattispecie lo permetta, questi dovranno essere perseguiti ciascuno con la propria sanzione.
Il reato complesso
Vi è reato complesso quando due o più fatti costituenti di per sé stessi reato sono elementi essenziali di un'unica
fattispecie, oppure quando due o più fatti costituenti di per sé stessi reato sono elemento essenziale e circostanza di un
unico reato.
In materia dispone l'art. 84 c.p.: quando vi è unificazione legislativa tra distinte figure di reato, tutte le conseguenze
di disciplina discendono dal nuovo titolo di reato e non dai titoli distinti.
L'art. 131 stabilisce poi che “per il reato complesso di procede sempre d'ufficio, se per taluno dei reati che ne sono
elementi costitutivi o circostanze aggravanti si procede d'ufficio”.
Perché, si chiede Gallo, è stato positivamente necessario prevedere la figura del reato complesso? Perché si sarebbero
potuti creare dubbi particolari su alcuni aspetti della disciplina. Basti fare l'esempio della sopravvenienza di una causa
estintiva di uno dei reati che lo costituiscono.
Le condotte tipiche equivalenti
Prendiamo la Legge Fallimentare. Essa, all'art. 216, delinea il reato di bancarotta fraudolenta, per il quale è punito con la
reclusione da tre a dieci anni “l'imprenditore che ha distatto, occultato, distrutto i suoi beni o ha esposto o riconosciuto
passività inesistenti allo scopo di recare pregiudizio ai creditori”. L'imprenditore che commette questo reato con
diverse condotte, commette tanti reati quanti sono i comportamenti tipici, oppure il reato commesso è uno solo?
È uno solo! Nelle ipotesi di figure tipiche equivalenti (come questa) la prima condotta storicamente realizzata
assorbe le successive!
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