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IL CENOBITISMO INFERMIERISTICO

Questa non è una nuova teoria infermieristica di cui oramai si sono


scandagliati tutti gli aspetti, dal tecnicismo esasperato alla figura del
paziente analizzata prospetticamente in tutti i suoi aspetti, sociologico,
psicologico e antropologico.
Questo lavoro rappresenta un modo nuovo di vivere il lavoro
quotidiano.
Creando la giusta cultura di squadra, cioè, le norme e i valori del
gruppo, si possono valorizzare al meglio le competenze e le abilità del
problem-solving degli individui di talento che compongono il team. E’
necessario che una qualsiasi opera professionale sia ben fatta, ma
l’opera infermieristica visto che l’obiettivo ultimo è la salute del
Paziente deve mirare all’eccellenza professionale e al lavoro con
amore e spirito di servizio agli altri.
Il nostro agire non deve essere rivolto a “fare immagine” ma entrare
nel concreto nella “carne”,quello che conta non è fare molte cose; ma
farle bene e compierle con generosità.
L’ideale a cui tendere è l’armonia tra l’ammalato che chiede e un
operatore che dovrà rispondere in modo efficace, efficiente ed
appropriato. Questo modello si accentra sulla figura del professionista,
un operatore sereno e ben integrato con l’organizzazione.
Il raggiungimento di questo è sicuramente la massima delle risposte
che ci si può attendere dal professionista. Ma l’obiettivo non è solo la
collaborazione ma una vera comunione tra tutti i componenti
dell’equipe.
Anzi si potrebbe considerare proprio questo il cuore del cenobitismo.
Questo si può ottenere dotandosi di un carisma e di nuova spiritualità,
valorizzandone il contenuto. Qui sarebbe bene ricordare le parole di un
membro dell’ordine dei camilliani: “I religiosi e laici condividono la
stessa responsabilità nello sforzo di promuovere il regno di Dio nel
mondo della salute. Questo non significa che i loro ruoli siano
intercambiabili” (Y. Lynam).
Credo che sottolineare questo punto sia importante perché tante volte
esiste una certa diffidenza verso la religione di cui il cenobitismo trae
la sua forza, la chiarezza sulla propria identità quindi è essenziale.
A chi sorride di fronte a un riferimento così esplicito a un modello di
lavoro
simil-religioso e quindi un ritornare alle fonti, alle origini; io rispondo
che: la storia ci insegna che i modelli “del fare” più incisi sono stati le
organizzazioni Militari e Religiose che hanno come fulcro, come una
santabarbara ben custodita da riti e cerimonie la qualità
dell’OBBEDIENZA.
Io non parlo di un’obbedienza cieca e nefasta, ma di un’obbedienza
intelligente e responsabile che sappia aiutare gli altri con il pensiero
del nostro intelletto.
Riscoprire, quindi e dare forza al SERVIRE e dare un significato a
questo SERVIRE.
Questo concetto deve essere scevro da ogni strumentalizzazione sia
sindacale che aziendale. Obbedire in un modello cenobita vuol dire
impregnarsi tutti i giorni da comportamenti all’insegna del civismo,
dell’onore della gratuità e del dovere. Obbedire vuol dire rispetto e non

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tolleranza verso comportamenti scorretti e lesivi. Obbedire vuol dire
capacità di dialogare, di ascoltare e di comprendersi. L’Obbedienza
(non scritta) di cui parlo io è quella che nasce e vive dentro di noi di
cui ci fa sentire no schiavi acritici ma servitori fecondi di pensiero e
di azione.
Questo modello di vita lavorativa serve a valorizzare in modo speciale
le persone che vi lavorano. Trasformare le U.O. (che già nello schema
Aziendale sono centri di costo, quindi piccole aziende nell’Azienda
Ospedaliera stessa), in piccole comunità di professionisti laboriosi che
cercano di raggiungere gli obiettivi per cui esse sono nate.
L’istituzione dovrebbe considerare i suoi collaboratori parte integrante
della “comunità aziendale”. L’istituzione che presiede a questo
modello di lavoro s’impegna nel promuovere un clima imbevuto
d’umanità e di dialogo; e realizza una politica delle risorse umane tale
da favorire la motivazione personale e l’aggiornamento della
formazione di tutti i collaboratori.
La professionalità, la competenza, il lavoro in équipe, la ricerca,
l’insegnamento e la formazione continua sono valori essenziali nella
comunità.
Una comunità che si inspira alla cultura del buon Samaritano, della
compassione cioè a “patire” con l’altro e che invita a partecipare alle
sorti degli altri con sviluppo della capacità di empatia (di porsi al posto
dell’altro e di diminuire la forza del proprio Ego) è una comunità più
stabile felice e coesa.
Bisogna riuscire a capire la nostra identità di professionisti,
riconoscere e accettare il nostro ruolo nella comunità anche se non
abbiamo un carattere da leader, anche se agiamo nel retropalco,
dobbiamo sempre cercare di rispettare l’identità degli altri anche se fra
di esse non c’è reciprocità.
Nello sviluppo del nostro ruolo e della nostra identità particolare
rilievo acquista il coltivare il nostro carisma. Questo è un prestigio, è
la forza di persuasione che si fonda su straordinarie ed esemplari
qualità personali. Ogni professionista deve imparare a coltivare il
proprio carisma. Questo viene dato per il bene comune e
sarà sempre giudicato per l’utilità della comunità.
Grande precursore è stato: San Camillo De Lellis.
La Chiesa ha riconosciuto in San Camillo e nel suo
Ordine il Carisma della misericordia verso gli infermi .
Ai membri della nuova comunità è richiesto lo studio della vita
dell’opera di San camillo, organizzando anche se necessario corsi di
formazione.
Il ritorno alle origini può essere salutare.
Ma come si può vivere il proprio carisma in una mentalità di
collaborazione? come abbandonare atteggiamenti di autosufficienza?
come adottare un vero atteggiamento di ascolto? Come possiamo
accettare tutto questo?
Le risposte convergono in una sola parola: L’UMILTA’.
Ogni operatore deve essere aiutato nell’esperienza di fallimenti e di
debolezze,
di limitazioni umane, di sofferenza che tocca la propria vita.

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Non c’è dubbio che la più grande povertà sia il non essere coscienti dei
propri limiti e vulnerabilità, di non essere capaci di accettare le proprie
mancanze e di non avere tutte le risposte, per tutto.
Solo chi ha faticato nello sforzo di mantenere le proprie promesse
(d’impegno e di collaborazione) saranno i più aperti ad imparare dagli
altri. Avendo lottato con i propri demoni e incubi essendo giunto a
maggior comprensione della propria vulnerabilità, si è più aperti e
tolleranti sulle idee altrui e sui modi alternativi di guardare e far fronte
alle situazioni.
Tutti noi abbiamo bisogno della formazione permanente questo è un
impegno di vita professionalità, che richiede continuità sempre e per
tutti!
Tutta la comunità sanitaria deve sempre progredire nella professione,
la regressione non è ammessa in nessun modo e per nessun motivo.
A volte giungono operatori con problemi personali irrisolti che
causano problemi agli altri, la soluzione deve essere ancora quella di
inculcare in loro, l’idea: che la loro vita lavorativa, merita lo stesso
spazio e la stessa attenzione della loro vita personale, in quanto è
questa, “struttura” che ha permesso la “sovrastruttura” famiglia.
Se la nostra identità di comunità sanitaria è sana e forte, sarà refrattaria
a stimoli di regressione che possono essere portati da nuovi operatori o
da condizioni esterne.
Il culmine della sfida non consiste nel fare di più, quanto piuttosto nel
fare meglio.
Come pure nel migliorare i rapporti tra gli individui, nel condividere le
motivazioni che ci spingono a lavorare assieme per la stessa causa e
nel fortificare lo spirito che ci accomuna.
La parabola del buon pastore ci insegna che dare la vita per le pecore è
un programma per tutti i giorni senza azioni eroiche.
Nel nostro modo di vivere il lavoro oggi, in tutti i posti, in tutte le
aziende, ci sono delle vere e proprie diseconomie, incomprensioni,
frustrazioni di ogni genere e sorta che il più delle volte non nascono
nei luoghi di lavoro, ma si importano nel posto dove si lavora dalla
vita di tutti i giorni. Il traffico per chi vive lontano, del caro vita che lo
stipendio non riesce a far fronte (fare per esempio troppi debiti per il
lavoratore può essere controproducente per la qualità del lavoro stesso,
il dipendente infatti in questa situazione vedrà molto poco dello
stipendio e per un riflesso psicologico affronterà il mese lavorativo con
pochi stimoli). Il lavoro quindi può diventare spesso un disagio sempre
più crescente.

Nella filosofia del cenobitismo c'è almeno una tripletta di assets


positivi. 1-qualità dell'ambiente lavorativo e quindi qualità del lavoro
stesso (2), 3-senso di appartenenza alla comunità.
Questi tre concetti sono tre modi per dire la stessa cosa: SPIRITO DI
COMUNITA’ sempre e per sempre.

Se io faccio di tutto per mettermi in mostra agli occhi dei superiori


devo capire che questo mio atteggiamento prima o poi sarà pagato da
qualcuno, se mi mostro saccente col paziente in presenza del collega

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(meno preparato sull’argomento) sarà egli a pagare la mia tracotanza
di quel momento.
Ogni nostra azione ha delle conseguenze che noi non potremmo mai
controllare, quindi particolare attenzione va data a queste, quando
coinvolgono gli altri.
In quel posto di lavoro dove si attua lo stile del cenobitismo c'è spirito
di comunità. Non c'è anonimato o solitudine professionale, ma calore,
umanità, rete sociale, promozione dell’eroico sacrificio di vivere
coerentemente e fino in fondo i propri impegni professionali.
Un’altra linea di azione è quella di lavorare per l’umanizzazione nelle
istituzioni, elaborando progetti per la formazione dei lavoratori della
salute nei valori, etica e principi morali.
L’ etica e la bioetica ci si presentano come un campo di azione.
La nostra comunità deve essere punto di riferimento, esempi da
imitare, modelli per altre istituzioni.
Questa è la nostra sfida di ogni modello lavorativo.
Newman sosteneva che “vivere significa cambiare, essere perfetto
significa sapere
cambiare spesso”
Il saper cambiare e l’adattamento sono tra le sfide maggiori che ci
stanno di fronte.
Dobbiamo creare una contro cultura a quella materialistica,
utilitaristica che rischia di dominare il mondo di oggi ed eleva l’utilità
a supremo criterio morale.

L’approfondire le tematiche psicologiche e sociali studiare più


approfonditamente l’antropologia e la filosofia sarà una necessità di
cultura propria oltre che uno strumento di lavoro. Il Paziente deve
capire che oltre al professionista davanti a lui sta una persona con una
ricchezza umana e culturale fuori dal comune.
La psicologia sarà utile per accentuare nell’uomo ciò che è
tipicamente umano: si tratta di quella razionalità per cui l’uomo si
distingue dagli altri animali.
La sociologia ci aiuterà a capire l’uomo come un essere sociale.
L’antropologia fondamentale, in modo da studiare l‘uomo nei suoi
aspetti fisici e organici e le sue caratteristiche culturali dei vari gruppi.
La filosofia, per lasciare la malattia fuori dalla porta e instaurare un
dialogo alla pari con il paziente, per tentare una sublimazione della
vita quotidiana. L’obiettivo della filosofia ha un’utilità pratica.
Socrate rimane il punto di riferimento principale per il dialogo.
La DEDIZIONE al proprio lavoro e lo spirito di abnegazione in esso è
la prima cosa che deve vedere un Paziente all’ingresso nella nostra
struttura.
I laici che non hanno ricevuto una formazione cenobita (un corpo con
una chiara identità) fanno fatica a sentirsi un corpo omogeneo, si
sentono piuttosto individui impegnati e a volte anche in rivalità fra
loro.
La rivalità quando è positiva (mira al bene comune) genera pensiero
di ingegno, creatività;
Quando è eccessiva a vantaggio del singolo genera azioni nefaste che
puzzano di morte comunitaria piuttosto che di vitalità.

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Per tentare di ovviare a questa rivalità nefasta sarebbe opportuno la
suddivisione di responsabilità ben definiti nell’ambito dell’U.O. che
con rotazione annuale o biennale dovranno coinvolgere tutti gli
infermieri.
L’adempimento dei doveri è condizione indispensabile per la tutela dei
diritti.
Bisogna dire no alla cultura dei diritti e delle rivendicazioni che in
pratica non riconoscono i doveri.
Contrastare l’affermarsi di un modello di socialità di tipo radical-
individualistico, genericamente libertario e fautore solo di diritti.
Ricordiamoci che la nostra professione è stata catalogata come
professione intellettuale perchè la nostra singola azione non è un mero
svolgimento di un compito è non dobbiamo interpretarla come tale; la
nostra azione è una azione complessa, che interessa la sfera dei
sentimenti e delle emozioni, del pensare e dell’essere che alla base ha
un pensiero che si tramuti in azioni e in gesta.
Il nostro tempo invoca a gran voce l’urgenza di mettersi insieme, di
costruire per e con gli altri, di agire in funzione del bene altrui,
rispettando se stessi.
Chi è integrato in una comunità infermieristica”cenobita” deve gestire
i vari bisogni del Paziente come se fossero i suoi di bisogni, riflettere
se stessi negli occhi del collega e vivere la struttura come se fosse sua,
in tutti i suoi aspetti.
Queste sono le persone di cui necessita lo spirito infermieristico
cenobita.

Un Consiglio:
se non vuoi avere delusioni, stai bene attento a non considerare
l’Infermiere solo un lavoro.
E se hai talento, cerca il denaro e la gloria in altri campi.

Leibniz riconosceva che non è il male o la sofferenza a mettere in crisi


le persone ma la loro mancanza. Le scelte di valore come la nostra
implica sofferenza per un impegno a vivere un ideale.

Il peccato più grande delle comunità di lavoro dell’oggi è stata la


separazione tra gli individui e quindi la dispersione nelle profondità
dell’egoismo dei singoli.
Incarnare lo spirito cenobita significa incarnare quello spirito che
supera ogni limite e abbraccia ogni incomprensione canalizzando
l’energie necessarie affinché la nostra comunità diventi astro nel
mondo.

Infermiere
M
assi
mo

5
Ran
none

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