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SOMMARIO

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Pratiche e Culture dell' Economia e del Territorio Numero Uno / Novembre 2000

Presentazione

Viaggiando tra le costellazioni del sapere


Riflessioni sulla competitivit della citt di Ash Amin e Nigel Thrift Il capitale come paesaggio di Antonio Calafati Societ e territorio, al plurale. Lo spazio pubblico quale bene pubblico come esito eventuale dellinterazione sociale di Pier Luigi Crosta

Il faro
Pag. 54 La villa di Thomas Jefferson a Monticello e il governo scopico della territorialit federale di Anthony Marasco

Passaggio a NordEst
Pag. 73 Domanda di regolazione e lavoro di rete: il caso delle piccole e medie imprese venete in Romania di Patrizia Messina

Il sestante
Pag. 80 Pag. 88 Gli strumenti delle politiche: una rassegna di Davide Barella Citt-Arcipelago di Francesca Gelli

Mayday Mayday
Pag. 98 SILVIO TRENTIN, La Crise du Droit et de lEtat di Giuseppe Gangemi

Asterischi
Pag. 102 DONATELLA DELLA PORTA, La politica locale; GRUPPO DI ANCONA, Trasformazioni delleconomia e della societ italiana. Studi e ricerche in onore di Giorgio Fu; ALESSANDRO ARRIGHETTI, GILBERTO SERRAVALLI, Istituzioni intermedie e sviluppo locale; IDSE-CNR, Trasformazioni strutturali e competitivit dei sistemi locali di produzione. Rapporto sul cambiamento strutturale delleconomia italiana; PAOLO PERULLI, La citt delle reti. Forme di governo nel postfordismo; ALBERTO MAGNAGHI, Il progetto locale; DAVID HARVEY, Lesperienza urbana - metropoli e trasformazioni sociali; PAOLO JEDLOWSKI, Il sapere dellesperienza; AMARTYA SEN, Lo Sviluppo Libert; PIER LUIGI CROSTA, Politiche. Quale conoscenza per lazione territoriale; SASKIA SASSEN, Migranti, coloni, rifugiati. Dallemigrazione di massa alla fortezza Europa;0 STEFAN VOIGT, Explaining Constitutional Change - A Positive Economics Approach; BARLUCCHI M. CHIARA, Il tipo ideale weberiano. Dalla identificazione alla operativizzazione;

PRESENTAZIONE
Foedus nasce come progetto di rivista quadrimestrale, per iniziativa di un gruppo di ricercatori che, provenienti da diversi ambiti disciplinari, hanno deciso di raccogliersi intorno ad un luogo che renda possibile lesperienza del dialogo, costruendo occasioni di incontro e di confronto. Foedus dunque usato nel senso proprio di patto, nellimpegno di favorire la relazione tra le diverse dimensioni analitiche e dindagine, ma anche per identificare il contesto di interazione tra le differenti forme di conoscenza e le societ locali. Foedus intende dare spazio a riflessioni che possano accrescere la comprensione delle pratiche economiche, politiche e culturali che si sviluppano sul territorio, e degli eventi ad esso legati. La rivista raccoglie riflessioni teoriche, ricerche empiriche e studi comparativi centrati sui problemi dellevoluzione economica, sullanalisi dellinterazione tra processi economici, politici e sociali allorigine dello sviluppo, sul ruolo delle istituzioni nella strutturazione dei processi economici e politici, sulla regolazione delle dinamiche di trasformazione del territorio, su ruolo, forma e natura dello Stato, sulle relazioni tra livelli di governo, sui contesti che diventano sempre pi multiculturali, sul rapporto tra locale e globale, sulla storia sociale, economica e politica, sui processi di governance urbana e territoriale e, infine, sui temi della logica, della metodologia e dellepistemologia: e la complessit che Foedus vuole cogliere richiede lo sforzo di pensare senza chiudere i concetti. Una particolare attenzione sar rivolta ai processi di sviluppo locale, in particolare del NordEst, sulla base del presupposto che le politiche di sviluppo locale coinvolgono qui pi che altrove una pluralit di soggetti, che sono istituzioni pubbliche ma anche gruppi organizzati di artigiani, imprenditori, associazioni, reti civiche, i quali partecipano alla produzione dei beni pubblici e, pi in generale, svolgono un ruolo attivo nelle dinamiche di trasformazione del territorio. Siamo convinti che il NordEst stia diventando un luogo in cui la dimensione economica, politica e culturale si fa sempre pi complessa e interessante. Certo, non il solo: il NordEst come altre realt che vivono condizioni di analoga complessit invitato a raccontarsi e a rendersi visibile. Foedus si propone come un osservatorio e come un laboratorio in cui si possono confrontare nuove conoscenze ed esperienze locali, e per questo esprime lintenzione di: - pubblicare contributi di specialisti diversi intorno a uno stesso argomento; - valorizzare ricerche empiriche in grado di misurarsi con la complessit del dato; - ospitare riflessioni teoriche sulla definizione dei concetti e sulle forme argomentative; - promuovere ricerche di giovani studiosi e lavori su saperi non ancora consolidati. La rivista strutturata in sezioni: Viaggiando nelle costellazioni del sapere ospita saggi e contributi teorici; Il faro presenta studi applicativi; Passaggio a NordEst raccoglie interviste, presentazioni di ricerche e materiali vari; Il sestante propone note critiche; Mayday Mayday la presentazione di unopera dimenticata (oppure ancor priva del successo che merita), che quindi proponiamo perch

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venga tradotta o ristampata; infine, Asterischi lo spazio dedicato alle recensioni. Un filo conduttore caratterizza tematicamente ogni numero, e la sezione dei saggi teorici quella in cui questo filo si rivela in modo pi esplicito. Questo primo numero strutturato attorno alle possibili visioni del territorio, e ospita alcuni contributi metodologici utili alla definizione dei concetti rilevanti. Ash Amin e Nigel Thrift presentano una critica allusuale concettualizzazione della citt come cluster di attivit economiche caratterizzato da particolari vantaggi localizzativi, in cui la competitivit dei fattori dellofferta gioca il ruolo principale. Nella loro visione, le citt sono luoghi di concentrazione di diversi ruoli necessari per entrare a far parte di reti (translocali) di sistemi organizzativi e di competenze. Gli autori pongono in rilievo il ruolo del consumo (in questo rifacendosi alla tradizione keynesiana), e in particolare della domanda locale, secondo una prospettiva in cui le interazioni personali, dirette, costituiscono il volano di un processo di sviluppo autocentrato. Il saggio di Antonio Calafati, che nasce dallesperienza di analisi economica dei problemi legati alla conservazione del territorio, si sviluppa dallidea che ogni processo economico vale a dire ogni trasformazione di materia, di energia e di informazione intenzionalmente realizzata dalluomo presuppone lesistenza di una aggregazione di elementi, ovvero di un paesaggio. Capitale e paesaggio costituiscono allora due livelli di descrizione diversi dello stesso oggetto: ma il primo contenuto nel secondo. Le decisioni individuali e collettive che, come linnovazione e la manutenzione, sono alla base delle trasformazioni dei sistemi locali richiedono, per essere spiegate, la ridefinizione del rapporto, pi o meno equilibrato, tra capitale e paesaggio. Il saggio di Pier Luigi Crosta offre una riconcettualizzazione della nozione di pubblico. In particolare problematizza la concezione urbanistica di spazio pubblico come spazio definito in funzione dell'uso collettivo, in opposizione ad un uso privato; in realt, pubblico uno spazio che costruito dall'interazione sociale, anche come sottoprodotto di pratiche sociali finalizzate ad altro. La produzione dei beni pubblici e pi in generale le dinamiche di trasformazione del territorio sono viste come effetto delle azioni della pluralit di soggetti che partecipano alla costruzione delle politiche, dalle istituzioni pubbliche ai gruppi organizzati di artigiani, imprenditori, associazioni, reti civiche. In tal senso questo saggio fa riflettere sulla realt del NordEst. Infine, Anthony Marasco compie un percorso analitico in cui si sottolinea luso cognitivo che nel passato stato fatto delle opere architettoniche per fini di governo, mettendo in relazione il paesaggio cos creato e la percezione collettiva che di esso si ha. Lautore esamina tre esempi salienti (la villa palladiana, Versailles e la villa di Thomas Jefferson in Virginia) che collega ai tre regimi scopici della prospettiva razionale, del barocco, e della descrizione empirica. A partire da questa evidenza, Marasco conclude richiamando lattualit del legame tra la cura paesistica, la stabilizzazione della percezione dei luoghi e le forme che la politica sta seguendo: in particolare, federalismo e globalizzazione.

Ash Amin e Nigel Thrift

Riflessioni sulla competitivit della citt


Viaggiando tra le costellazioni del sapere

Introduzione
In questo articolo, sintende interpretare leconomia urbana partendo da una nuova lettura che interpreta la citt come un nodo, e non come un luogo, nelle reti economiche di natura translocale. In parte questo lavoro il frutto di una crescente frustrazione e di una mancata condivisione con la geografia economica contemporanea che considera le citt, o parti di citt, motori della competitivit economica internazionale prodotta dallo sfruttamento di una pluralit di economie di prossimit. Questa visione enfatizza limportanza della localizzazione della dotazione di esternalit alla quale le imprese possono accedere, associandola alla densit urbana e alla prossimit spaziale rispettivamente economie di agglomerazione e economie locali di rete. Quindi le citt sono concettualizzate come centri o cluster territoriali di attivit economiche ed organizzazioni, caratterizzate da particolari aspetti localizzativi come la vicinanza al mercato, ridotti costi di informazione e transazione, pools di competenze specializzate, tecnologie e know-how, convenzioni legate alla fiducia e cooperazione basata su contatti faccia a faccia, ecc.. Al contrario, nella nostra prospettiva le citt sono luoghi di localizzazione di diversi ruoli necessari per entrare a far parte di uneconomia strutturata attorno alle reti translocali dei sistemi organizzativi e di competenze, che non si esaurisce dentro i confini della citt. Leconomia contemporanea cresciuta molto in termini di organizzazione industriale, e non certo che le citt restino le istituzioni centrali di tale organizzazione. I mercati non sono pi spazialmente contigui o regolati localmente, la produzione alimentata e organizzata globalmente, contatti veloci e ravvicinati sono ora possibili anche in presenza di ampie distanze territoriali grazie a nuove forme di comunicazione, la regolazione economica ha formalizzato regole, standards e leggi che si articolano sempre pi attraverso istituzioni nazionali ed internazionali, e la ricerca per la sicurezza e il controllo accresce la concentrazione dellorganizzazione economica in imprese dominanti, cartelli, consorzi di business ed lites. Quindi, la nostra tesi che in primo luogo la vita economica oggi organizzata attorno ad una molteplicit di geografie entro la quale le citt dovrebbero essere considerate come passaggi obbligati per una variet di ruoli. Ad esempio, le citt potrebbero offrire conoscenza istituzionalizzata di vario genere attraverso le scuole, le universit e i centri di ricerca, cosa che contrasta con quanto viene oggi

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sostenuto riguardo al fatto che esse siano fonti di conoscenza tacita o contestuale. Oppure, in qualit di luoghi dincontro sociale, le citt hanno un ruolo nel facilitare gli incontri, la socialit ed il contatto informale, fatto significativo dal punto di vista economico ma che ha una valenza diversa dal concetto di convenzione e dalla fiducia insita in reti locali dimprese. In secondo luogo, ci sentiamo di sostenere che, data la crescita dellorganizzazione industriale e della sua progressiva concentrazione allinterno della vita economica, fondamentale compiere uno sforzo teorico per definire il ruolo economico delle citt in termini istituzionalisti. In questo lavoro si afferma che sono le pratiche istituzionali specifiche associate alle citt che sostengono lattivit economica (per esempio, la fornitura di servizi collettivi, le istituzioni pubbliche o di welfare, i luoghi dincontro, le norme particolari di consumo) piuttosto che la loro localizzazione spaziale. La nostra idea che una tale prospettiva, a sua volta, potrebbe contribuire a ridurre lenfasi assegnata a priori allimportanza dello spazio urbano per la competitivit economica: lo sforzo quello di identificare le istituzioni urbane delleconomia contemporanea, senza escludere le istituzioni che non presentano particolari caratteristiche territoriali. In terzo luogo, inoltre, vorremmo condurre la discussione sulleconomia delle citt al di l delle considerazioni sostenute dalle teorie dellofferta. Occorre rivalutare il ruolo della domanda e del consumo, oggi scarsamente discusso a causa dellossessione, ormai pervasiva nella letteratura economica, della competitivit quale condizione per la sopravvivenza e crescita delle imprese. La tradizione teorica delleconomia urbana non ha trascurato il ruolo di fattori quali la dimensione del mercato e i modelli locali della domanda, ma attualmente la loro discussione sembra fuori moda. Noi pensiamo, al contrario, che solo una modesta proporzione dellimprenditorialit urbana, anche nelle citt con importanti funzioni economiche, o sar condizionata dalla competitivit internazionale. Perci tale imprenditorialit locale non dovrebbe essere considerata marginale. Leconomia dei servizi alle imprese, personali, del commercio, pubblici e sicurezza sociale, del tempo libero, del turismo, di quelle informali e non-profit tutte basate sulla domanda locale costituiscono una fonte significativa delloccupazione urbana e del reddito e richiedono ancora una sistematizzazione teorica. Queste tre argomentazioni saranno sviluppate qui di seguito attraverso una critica dellattuale concezione del ruolo delle citt intese come fonti territoriali della competitivit economica. In questo saggio proporremo unaltra prospettiva capace di inserire la citt nel contesto economico globale e, al tempo stesso, capace di cogliere limportanza economica delle istituzioni urbane e non urbane. Infine verr proposta uninterpretazione delleconomia urbana legata ai ritmi della vita quotidiana, basata quindi sulla domanda locale nonch su particolari modelli di consumo.

Economie legate alla prossimit spaziale


Negli anni 50 e 60, la forte correlazione tra i fenomeni di industrializzazione e di urbanizzazione aveva incoraggiato i ricercatori a cercare una spiegazione teorica del perch le industrie e le imprese tendono ad agglomerarsi e in che modo il fenomeno di clustering influenzi la performance industriale e di concentrazio-

Ash Amin e Nigel Thrift

Riflessioni sulla competitivit della citt

ne organizzativa. Famosi critici della teoria neoclassica dellequilibrio quali Hirschmann, Kaldor, Perroux e Myrdal spiegano che agglomerandosi nelle citt le imprese godono di rendimenti crescenti di scala legati alla dimensione del mercato nonch nuove opportunit economiche associate alla crescente densit urbana e alla specializzazione. Questi autori sostengono inoltre che le economie esterne di agglomerazione aiutano le imprese ad accrescere il loro rendimento economico in molti modi, a partire dalla riduzione dei costi di trasporto e di transazione e dalla disponibilit di una variet di competenze specializzate, input, servizi e conoscenze applicate. La citt viene vista come luogo di molteplici opportunit di mercato, di vantaggi di prossimit spaziale e di benefici derivanti dalla specializzazione di prodotto. Poich la macchina urbana della crescita ha raggiunto notevoli dimensioni incorporando servizi commerciali, pubblici e privati, lamministrazione pubblica, il trasporto, lambiente edificato, e altri settori delleconomia, la citt si trova ad essere incapsulata in unentit economica auto-riproduttiva (causazione cumulativa) e come centro di governance e di processo decisionale. Werner Hirsch coglie questa interpretazione della citt in molti libri di economia urbana scritti fino alla fine degli anni 70: Per uneconomista, una citt un sistema dinamico di mercati interrelati e interdipendenti caratterizzati da grande densit e specializzazione degli agenti economici, come pure un sistema che offre le condizioni iniziali capaci di influenzare il processo decisionale attraverso una diversit di strutture amministrative, ognuna delle quali ha competenze e autorit limitate. Questi mercati servono e sono serviti da un gran numero di persone ed imprese localizzate in una ristretta prossimit spaziale. Le citt si specializzano in maniera efficiente nel fornire alle famiglie e alle imprese contatti e flussi dinformazione a costi inferiori rispetto ad altre forme di organizzazione spaziale (Hirsch 1973, 2-3). In quegli anni era frequente (usuale) tra gli economisti delle scienze urbane e regionali descrivere lo spazio organizzato delleconomia nazionale ed internazionale come una catena o una gerarchia di sistemi economici urbani limitati, dove le imprese ricavano le loro iniziali opportunit di mercato e le loro fonti esterne di vantaggio competitivo allinterno di ogni sistema. Questa interpretazione delleconomia urbana cominci ad indebolirsi alla fine degli anni 70, con linizio della deindustrializzazione metropolitana, quando alcuni aspetti della densit urbana (per es. la congestione da traffico, la scarsit di alloggi, le alte rendite) e della vicinanza (per es. la militanza della classe lavoratrice) cominciarono ad essere considerati un costo economico, e quando la dispersione delle industrie in regioni lontane e in aree non metropolitane cominci ad essere non solo possibile ma anche economicamente vantaggiosa per le imprese (per es. disponibilit di manodopera a basso costo, forza lavoro remissiva, nuovi mercati). La virtuosit della relazione tra legami locali e opportunit/performance economica fu messa in discussione. Durante gli anni 80, la produzione di testi di economia urbana sub una forte diminuzione o, pi precisamente, i testi che assumevano la citt come sistema economico sostenevano la necessit di spiegare lurbanizzazione e le economie urbane nel contesto di spazi pi ampi dettati dellimperativo economico e dallorganizzazione. In particolare ci fu sostenuto dallacutezza dei marxisti e dei

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weberiani nel sostituire il feticismo spaziale con unanalisi della variet e non omogeneit geografica delleconomia capitalista. Tra i pi famosi Manuel Castells (1977) e David Harvey (1985) illustrarono il ruolo dei processi urbani e delle istituzioni nellaccumulazione del capitale, enfatizzando, per esempio, la diminuzione di capitale nellambiente edificato, mentre Doreen Massey (1984) anticip la decentralizzazzione e linternazionalizzazione della produzione nelle mani di grandi imprese multinazionali e la risultante distribuzione non uniforme del lavoro e del potenziale di sviluppo in differenti localizzazioni. Larena del capitale, piuttosto che leconomia urbana, regionale o nazionale cominci ad essere vista come sistema economico. Se negli anni 90 con questo spostamento teorico era rimasto un qualche interesse nelleconomia urbana, esso non prese in considerazione laspetto dei legami locali e dellintegrit sistemica locale. Al contrario, leconomia urbana cominci ad essere trattata come unentit perforata e disintegrata; una costellazione di luoghi legati altrove ad altri luoghi che rispondono a diversi ruoli in una geografia pi ampia. Il potere economico di alcune citt, per esempio, viene spiegato rispetto al ruolo di centri daffari - quali centri globali di comando e di controllo basati sulla localizzazione dei nuclei dirigenziali delle grandi corporation, delle lite decisionali, dei potentati e dei professionisti, tutti trainanti i servizi globalmente mobili (Friedmann 1986; Sassen 1994; Knox e Taylor 1995). Similmente, Castells (1989; 1996) descrive le citt come centri di produzione di conoscenza oppure come luoghi di conversione e trasmissione di conoscenza nellera emergente dellinformatica; un nuovo spazio capitalista dei flussi basato sullo sviluppo dellinformatica e dellinformatizzazione che sostituisce un vecchio spazio dei luoghi basato sulla tangibilit e fissit del capitale. Anche l dove emergono con evidenza agglomerazioni produttive (per es. servizi finanziari nella City di Londra, agglomerazioni high tech vicino alle universit e centri di ricerca, distretti di ingegneria leggera o tessile nelle aree urbane centrali) non si ritiene che questi luoghi siano integrati in un sistema locale pi ampio, e in alcuni casi, sono stati interpretati come forze motrici delle reti internazionali della produzione locale e dello scambio (Amin e Thrift 1992). Anche i malesseri delleconomia urbana vengono ricondotti al di fuori delle citt; la colpa ricade sulla fuga del capitale, sullo sviluppo dipendente, sullo scambio ineguale, oppure sulle pratiche di sfruttamento degli investitori interni. La parrocchia lascia spazio al vivere cosmopolita, e il locale diventa parte del globale. Uno tra i dibattiti derivanti da questo cambiamento e riguardante la comunit della politica urbana si concentrato sulla questione se lintegrazione globale rappresenta la disintegrazione economica locale. Questo dibattito ha accresciuto il fervore attorno al tema della globalizzazione quale fenomeno rappresentante una pluralit di minacce, inclusa la crescita dei processi di scala globale e delle istituzioni (per es. il consumismo globale, la produzione transnazionale, le reti finanziarie, la governance internazionale attraverso organizzazioni come le multinazionali e le istituzioni finanziarie globali); limpatto locale in tempo reale di eventi che si verificano in luoghi distanti, facilitato dalle comunicazioni dei media digitali; laccessibilit globale dei mercati e lideologia economica neoliberale. Rispetto alla dimensione spaziale di tutto ci, mentre uninterpretazione estrema vede nella globalizzazione la fine della geografia, della variet locale e

Ash Amin e Nigel Thrift

Riflessioni sulla competitivit della citt

dellautonomia locale, e unaltra interpretazione evidenzia la crescente significativit della specificit locale e dellazione locale tesa alla creazione di un vantaggio competitivo in uno spazio economico globale che si omogeneizza, la politica per lo sviluppo economico locale enfatizza la necessit di un coinvolgimento globale attraverso attive politiche locali dinvestimento, sforzi per costruire una base per lofferta, un supporto per creare industrie ed imprese desportazione competitive a livello internazionale, e politiche per incoraggiare limprenditorialit, linnovazione e lapprendimento (vedi Begg 1999 per una descrizione dettagliata). questultimo punto, rassicurato dalla percezione che la globalizzazione pu non necessariamente minacciare il dinamismo economico urbano e regionale, che sembra avere riacceso linteresse concettuale nel potere dei luoghi per la creazione della competitivit economica, pi specificatamente leconomia della prossimit spaziale. In modo progressivo, una nuova governabilit urbana, basata sullidea delleconomia locale o un nuovo localismo economico (Osborne e Rose 1999, 755) ha cominciato a maturare, per legittimare la commercializzazione dei luoghi quale fonte della prosperit economica nazionale.

La competitivit urbana
Nel maggio 1999, per esempio, un intero numero della rivista Urban Studies stato dedicato al tema delle citt competitive, in cui articolo dopo articolo venivano evocati Alfred Marshall, i classici degli anni 50 gi menzionati, Michael Porter e Paul Krugman per identificare le potenziali fonti urbane di competitivit economica. La lista presentata vecchia e familiare: la prossimit contribuisce alla produttivit riducendo i costi di trasporto e di transazione per le merci, gli attori e le idee (Glaeser 1998); lagglomerazione e la densit urbana permettono la concentrazione del fattore lavoro, della specializzazione produttiva, degli spillover tecnologici e della crescita attraverso il processo di causazione cumulativa (Krugman 1991; 1995) oppure attraverso i benefici derivanti dal cluster di industrie interrelate (Porter 1995); lo spillover della conoscenza (Audretsch 1998) viene incoraggiato dallatmosfera industriale locale (Marshall 1890) che deriva dalla specializzazione produttiva e dallassociata divisione del lavoro e cooperazione tra imprese. Riassumendo, la competitivit delle imprese accresciuta da risparmi sui costi, da guadagni nella conoscenza e da complementariet associate allagglomerazione industriale. La localizzazione non solo fonte di vantaggio competitivo in uneconomia globale, ma anche un impulso per unulteriore espansione economica urbana. Ma possiamo far quadrare il cerchio in questo modo? Quali prove possediamo per mostrare che le imprese si localizzano nelle citt per orientarsi allesportazione o per accrescere la loro competitivit? vero che le imprese dipendono innanzitutto dai legami locali per avere un vantaggio competitivo? Che cosa dobbiamo pensare della conclusione tratta sempre pi di frequente per cui sono le citt piuttosto che le imprese a competere? Paul Krugman cauto nellindividuare il limite oltre il quale gli effetti della competitivit possono essere attribuiti allagglomerazione. Egli sottolinea, per esempio, come anche in un centro forte come Los Angeles, loccupazione comunemente concentrata in attivit non di base che consistono di beni e servizi forni-

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ti da imprese locali per il consumo locale, mentre le attivit di base desportazione sono confinate solo a poche industrie (Krugman 1997). Il legame tra agglomerazione e competitivit debole: quando si analizzano le economie delle citt moderne, si osserva un processo di localizzazione: una quota regolarmente crescente della forza lavoro produce servizi che vengono venduti solo allinterno della stessa area metropolitana (Krugman 1997, 211, citato in Boddy 1999, 825). A supporto di ci, uno studio basato su pi di 4000 imprese di diverse dimensioni e settori produttivi a Londra ha rilevato che il 35% delle imprese vede Londra come il loro mercato principale, il 32% considera mercato principale la Gran Bretagna, e solo il 16% dichiara di esportare oltre la Manica (Jones 2000; vedi anche Gordon 1999 per risultati simili sui servizi alle imprese a Londra). Come fa notare Gordon, il successo di un luogo dipende dalla produttivit, innovativit e dallorientamento al mercato di tutti i settori delleconomia locale, e non semplicemente di quelli che sono pi largamente rivolti allexport. La tentazione generale quella di tralasciare questaspetto, caratterizzando i luoghi rispetto alle attivit cosmopolite posizionate ai livelli pi elevati in cui sono impegnati (1999, 1009). Qual il ruolo dei legami di prossimit per la competitivit dellimpresa (per es. benefici derivanti dalla cooperazione tra imprese, contatti faccia-a-faccia, transazioni locali, conoscenze condivise)? Uno studio recente ha cercato di rispondere empiricamente a questinterrogativo misurando limpatto sulla performance esportativa di 10.000 imprese manifatturiere svedesi della prossimit a imprese simili o in relazione tra loro (effetto localizzativo); dellaccessibilit ai beni pubblici offerti dalle citt (effetto di urbanizzazione); della composizione settoriale; delle economie di scala interne (Malmberg, Malmberg e Lundequist 2000). Lo studio rileva che leffetto di localizzazione sulla performance esportativa 40-80 volte pi piccolo delleffetto di urbanizzazione e 50-100 volte pi piccolo delleffetto delle economie di scala. La conclusione dunque che, mentre le imprese riconoscono chiaramente il ruolo dei beni pubblici quali la qualit dei mercati locali del lavoro, delle infrastrutture e dei servizi, sono le caratteristiche tradizionali, oggi quasi estinte, della geografia economica che enfatizzano le economie di scala e la composizione settoriale, e che identificano con pi precisione i fattori importanti per la performance delle imprese (Malmberg, Malmberg e Lundequist 2000, 317). Non c ragione per non credere che tali risultati siano solo caratteristici del sistema economico/urbano svedese. Altri studi hanno messo in discussione gli effetti delle reti locali sullinnovazione e la performance commerciale. Per esempio, il lavoro gi citato su Londra (Jones 2000) rileva una scarsa evidenza empirica di reti commerciali allinterno di Londra o di fenomeni di apprendimento e innovazione basata sulla fiducia e cooperazione con altre imprese locali (per es. fornitori) o, ancora, di legami sociali informali a livello locale (anche se il 40% delle imprese dichiara di essere iscritta ad associazioni o club londinesi). Al contrario, le imprese hanno identificato come prime fonti dinnovazione di prodotto e di processo e stimoli chiave per la performance commerciale, laccesso alla conoscenza codificata esterna allimpresa come la ricerca e sviluppo e i giornali commerciali, limitazione dei competitori e i consigli dei clienti. Riguardo al potere dei luoghi, la vicinanza dei bisogni delle attivit economiche non implica la necessit di un contatto fisico, e

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tutti quei fattori diversi dal bisogno di mantenere tale contatto con i propri simili, i concorrenti, i fornitori oppure i clienti deve essere utilizzato per spiegare il raggruppamento geografico apparente di alcuni tipi di attivit economiche a Londra (Jones 2000, 1). Per un particolare cluster le imprese che offrono servizi professionali e commerciali nel cuore di Londra la localizzazione importante per la migliore accessibilit per i clienti, perch centro dei trasporti, e per il prestigio che offre. Tutti questi fattori hanno poco in comune con le relazioni locali basate sulla fiducia e i contatti faccia a faccia. Ad una conclusione simile giunto anche un altro studio condotto su 1800 imprese in 10 regioni europee, secondo il quale le innovazioni di prodotto sono maggiormente influenzate da variabili intra-impresa piuttosto che da variabili regionali. emerso che anche in una regione high-tech quale quella di Monaco, larea metropolitana rilevante principalmente per la sua offerta di centri di ricerca e sviluppo e per le competenze tecniche altamente qualificate, piuttosto che per fonti informali di apprendimento (Sternberg e Arndt 2000). In anticipo rispetto agli studi empirici, la letteratura teorica sulle virt della prossimit ha rafforzato lidea errata che sono le citt, e non le imprese, che competono (Krugman 1997; Begg 1999). Ci, a sua volta, ha alimentato lidea che leconomia urbana unentit territoriale con un ciclo di vita quasi organico al suo interno (Osborne e Rose 1999, 756). Imperterriti e con una visione eccessivamente entusiastica, i nuovi convertiti alla competitivit urbana raccontano ai policymaker che leconomia locale esiste realmente e che necessita urgentemente della creazione di cluster dimprese in relazione tra loro, per consentire lo scambio e la cooperazione tra imprese locali, per incoraggiare le relazioni basate sulla fiducia tra gli agenti economici, e per promuovere una cultura locale della responsabilit e della cittadinanza. A nostro avviso tale visione riporta allidea delleconomia quale catena di sistemi urbani, ora diventata economie locali marshalliane inserite in una catena globale di connessioni e di flussi!

La citt come base per la conoscenza


Esiste un secondo filone interpretativo sulle citt che le colloca al centro delleconomia basata sulla conoscenza post-industriale (Amin 2000). meno focalizzato sulleconomia delle reti locali di produzione e considera le citt fonti di conoscenza formale ed informale o risorse culturali sulle quali operano i lavoratori della conoscenza. Tale approccio concepisce la citt come dinamo di una nuova forma di capitalismo, raccolta in forma sempre pi crescente dai policymaker urbani negli USA, in Europa e in Australia ed Asia. Il mantra sulla crescita del capitalismo della conoscenza oramai familiare, e si riversa nei libri che trattano leconomia del futuro. Si promette uneconomia senza peso basata su beni intangibili, sul terziario e linformatica (Coyle 1997; Quah 1997); lintegrazione delleducazione, dellapprendimento e dellabilit della conoscenza nei processi decisionali quotidiani nelle societ riflessive moderne (Giddens 1994); conoscenza e apprendimento in un capitalismo basato su unintensa competizione globale, su mercati propensi al rischio, su standard variabili (Burton-Jones 1999), guidati da nuovi fattori di produzione e fonti di vantaggio competitivo innovazione, design, branding, know-how

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(Leadbeater 1999, 10); limprenditore della conoscenza che vende know-how specializzato su diversi media (per es. abilit culinarie attraverso libri, show e media) e il lavoratore della conoscenza con passo veloce senza un lavoro fisso o un luogo di lavoro e senza impegno occupazionale di lunga durata (Leadbeater 1999; Sennett 1999); ed infine, la necessit di coesione sociale, collaborazione basata sulla fiducia e sulla condivisione dei rischi nelleconomia basata sullinnovazione, dove idee per nuovi prodotti emergono normalmente da team di persone che insieme configurano una diversa competenza (Leadbeater 1999, 13). Dato che la nostra attenzione rivolta alleconomia urbana, non si tratta di mettere in discussione liperbole sulleconomia della conoscenza evidenziando limportanza della persistenza della domanda e della competizione tra beni tangibili e standardizzati; lerrore nel considerare la digitalizzazione delle transazioni economiche; il perdurare di unoccupazione stabile di lungo periodo e la relativa ideologia del lavoro e dellidentificazione basata sul lavoro; la qualit di occupazioni, skill, competenze e esperienze che non possono essere ridotte allimprenditore della conoscenza o al lavoratore della conoscenza (per es. nel commercio al dettaglio e nella grande distribuzione, nei settori dellassistenza, nella produzione e nei servizi alla persona, e nei servizi della stessa economia della conoscenza); e la pratica istituzionalizzata delle transazioni collusive, impersonali (a distanza) o basate su contratto (vedi Amin, Massey e Thrift 2000, per unampia critica). Si suppone che le citt giochino un ruolo vitale nella nuova economia prima di tutto come fonte di sicurezza, informazione e vitalit per limprenditore/lavoratore dracin della conoscenza. Leadbeater, tipico esempio di giornalista-intelletuale-consulente-freelance, si dichiara fortunato di vivere a Londra nel nuovo mondo della limitata sicurezza istituzionale perch, come per altre maggiori citt, essa il luogo dove le idee e le persone circolano a grande velocit (Leadbeater 1999, 13). La citt, o pi precisamente alcune citt, sono luoghi per acquisire conoscenze, grazie alla densit esistente di persone creative e ben informate e al fatto che le citt sono luoghi dincontro. In un momento di sfogo, uno studioso dichiara che la tirannia della prossimit (Duranton, 1999, 2185) la sfida chiave che si affaccia alla citt post-industriale, in cui le reti personali diventano listituzione principale a causa dellimportanza crescente delle connessioni tra individui dovuta al fatto che il commercio diviene sempre pi basato su fenomeni di reputazione e sullinterazione ripetuta. Duranton commenta: Il concetto di reti di relazioni personali ci permette di comprendere che il termine prossimit indicatore del fatto che A desidera essere vicino a B il quale, a sua volta, desidera essere vicino a C e D. Ad esempio, A un collega vicino a B. B e C giocano insieme a tennis, mentre C e D sono sposati tra loro e cos via. Questa serie dinterazioni personali, tutte richiedenti una prossimit fisica, ci che li tiene tutti insieme nella citt post-industriale (1999, 2185). La citt quindi fornisce agli attori principali delleconomia della conoscenza i contatti personali e gli spazi di socializzazione quali bar, ristoranti, tennis club, teatri, associazioni, ecc.. Questa sembra tuttavia una caricatura delle reti relazionali di questi attori in quanto non chiaro il significato del concetto di connessioni locali. Poich tra i soggetti in stretta connessione e con grande mobilit, queste relazioni durevoli si spostano con i lavori e tra i lavori e fanno affidamento sulle connessioni personali a distanza sostenute a casa per le localizzazioni

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rurali o mentre si viaggia dal telefono, dal fax, dallemail, da internet, dalle teleconferenze, ecc.. Le loro relazioni sono una serie di connessioni personali mobili e disperse nello spazio, che comunque richiedono interazioni frequenti e ripetute, ma che non sono dipendenti dallinterazione locale faccia a faccia. Ed precisamente questa dilatazione e delocalizzazione delle relazioni personali (e la disponibilit allaccesso globale dei media) che ha liberato limprenditore/lavoratore della conoscenza dalla singola localizzazione quale fonte di sicurezza ed ispirazione. In un tale contesto ci si pu chiedere quanto siano significativi i contatti locali e le reti damicizia per la creativit economica. Piuttosto, come in un precedente dibattito sul ruolo dei fattori che definiscono lo stile di vita, quali la qualit delle scuole e dei divertimenti, come incentivi di localizzazione per gli investitori delle multinazionali, si trova che le reti locali hanno unimportanza secondaria per la perfomance economica. Guardando ad altre fonti riconosciute delleconomia della conoscenza, la discussione che si delineata attorno al ruolo dei diversi tipi di conoscenza necessari alla competitivit economica ha posto grande attenzione alla conoscenza locale, specifica e tacita. Lidea prevalente tra i teorici dellinnovazione, sensibili alla dimensione spaziale, che lubiquit della conoscenza codificata, dovuta al suo linguaggio formale, e la sua rapida diffusione, legata al fenomeno della globalizzazione, premia principalmente linnovazione sviluppata in ambienti in cui circola conoscenza tacita (Maskell e al. 1998; Nooteboom 1999) la quale facilita, inter alia, la traduzione e linterpretazione delle idee, il learning by doing, la condivisione di informazioni, la capitalizzazione delle esperienze e rafforza lagilit organizzativa e lapertura al cambiamento. Se si condivide questidea, ispirata dalla pratica corporativa giapponese, dai distretti industriali marshalliani, e dalle regioni high tech come la Silicon Valley, si nota che gran parte di questa conoscenza tacita il prodotto di legami di reciprocit e di scambio appartenenti a reti produttive localizzate. I luoghi in cui tali legami offrono importanti interdipendenze non legate agli scambi (Storper 1997) producono spillover al di fuori delle reti dimpresa ed investono lintera fabbrica sociale di questi luoghi che vengono interpretati come convenzioni collettive e pratiche sociali. Ci potenzialmente vero l dove la localit riveste realmente una certa importanza. Perch, come sottolinea Nancy Ettlinger, mentre le reti tacite possono anche funzionare a distanza: lintensit dellinstabilit associata alla ipercompetizione induce a sostenere che lancoramento ai luoghi delle reti aperte pu facilitare la produzione di capitale sociale grazie alle relazioni sociali locali preesistenti. I cluster dimprese hanno il vantaggio potenziale di creare frequenti interazioni faccia a faccia e coesione sociale fornendo in tal modo lopportunit di trasferire conoscenza tacita. () la combinazione della coesione sociale e dellapertura a nuove conoscenze seguita dallabilit ad integrare tali conoscenze e dallabilit nel riconfigurare la conoscenza esistente che definisce la competitivit in presenza di ipercompetizione (2000, 27). lo spillover della conoscenza tacita dalle reti produttive locali verso la societ e la cultura che rende la dimensione locale una vitale fonte di competitivit. Questaffermazione, tuttavia, debole. In primo luogo perch la conoscenza tacita non isolata dalla conoscenza codificata e il vantaggio competitivo normalmente il prodotto della combinazione delle due fonti di conoscenza (Amin e

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Cohendet 1999). In secondo luogo, le reti locali non sono le uniche fonti di conoscenza tacita. Come potrebbero esserlo nellattuale era dominata dalle grandi organizzazioni e dalla creazione di conoscenza specifica aziendale? Per esempio, le multinazionali, le banche internazionali, le agenzie di consulenza commerciale globali, i distributori nazionali e i servizi pubblici non sono spazi di conoscenza diffusa derivante dai centri di ricerca e sviluppo e dai centri dirigenziali, ma sono costellazioni di know-how distribuito e di riflessivit allinterno di comunit che adottano specifiche pratiche e che operano a diverse scale (dai manager, scienziati e acquirenti legati alle loro controparti mondiali, ai lavoratori, professionisti e tecnici che lavorano in gruppi locali e nazionali). Queste organizzazioni, sia come un tutto sia come insieme di luoghi, combinano la conoscenza tacita e formale per ottenere il loro vantaggio competitivo. In terzo luogo, nella nuova era del capitalismo soft (Thrift 2000) qualunque cosa conti come conoscenza tacita, viene incorporata dalle imprese come asset organizzativo per produrre un vantaggio competitivo, a partire dal sostegno dato dai legami familiari e dalle tradizioni nelle reti commerciali internazionali cinesi (Yeung 2000a), fino alla mobilizzazione degli asset intangibili come le competenze, la propriet intellettuale e la reputazione per il consenso del mercato, lo sfruttamento della cultura della competizione e della prestazione da parte delle imprese veloci (Thrift 2000). Infine, le circostanze sopra descritte dalla Ettlinger, sono da considerarsi solo eccezionali, applicabili ad economie locali autocontenute in cui industria e societ coincidono, come avviene in quei luoghi specializzati legati ad un singolo settore produttivo. La maggior parte delle citt non hanno questa forma. Infatti, ci si potrebbe chiedere, come Jane Jacobs (1969) fece trentanni fa, se la specializzazione produttiva sia un fine desiderabile, se al contrario la variet che stimola linnovazione e la creativit. Tuttavia, altri teorici delleconomia della conoscenza, sostengono che la citt una fonte ricca di conoscenza codificata scienza, tecnologia e apprendimento legato alle funzioni dirigenziali e agli istituti di ricerca, alleducazione di livello superiore, alle organizzazioni culturali ed artistiche, alle industrie editoriali e di comunicazione mediale, ecc.. Le citt traggono cos un beneficio dal costruire cluster territoriali di attivit interrelate basate sulla conoscenza come sostiene Richard Knight (1996, 9), lutopista che ha realizzato per la Commissione Europea il maggior studio orientato alle politiche per il futuro delle citt Europee, nel quale viene esplorato lo sviluppo basato sulla conoscenza in Barcellona, Genova, Lille, Lione, Milano, Delft e Amsterdam. Knight cita, dagli studi sul caso olandese, esempi di cluster che legano la ricerca medica e biomedica con leducazione e lassistenza sanitaria, lofferta e i servizi medici; i centri finanziari internazionali e i servizi dinvestimento con i connessi servizi di produzione quali public relation, contabilit, management, consulenza; arti creative ed espressive nonch culturali quali le arti visive, i teatri, il design, la grafica, i media audiovisivi, la moda, i film; e i centri scientifici, di ricerca e sviluppo con lengineering ed i servizi di produzione connessi. Tali cluster territoriali richiedono investimenti nella conoscenza formale e nelle infrastrutture culturali di supporto: Le citt possono giocare un ruolo significativo sia direttamente che indirettamente nel conservare le risorse che costituiscono la conoscenza. Direttamente, attraverso linvestimento in conoscenza grazie al quale

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ottenere un miglioramento dellinfrastruttura intellettuale e costruire cos uninfrastruttura per la conoscenza. Indirettamente, creando le condizioni e un milieu stimolante e favorevole per i cittadini che vivono in una societ basata sullapprendimento, sullinnovazione e sullo sviluppo fondato sulla conoscenza. Conservare la base della conoscenza, migliorare il milieu e lattrattivit della citt, sono obiettivi che diventano sempre pi critici; le citt non consapevoli del potenziale di sviluppo di conoscenza delle loro risorse e, al tempo stesso, non impegnate a sviluppare politiche per rafforzare lo stock delle risorse stesse, corrono il rischio di una fuga di cervelli oppure diventano incapaci di attrarre e di trattenere i talenti, producendo in tal modo lerosione delle loro risorse legate alla conoscenza (Knight 1996, 10). Nelle citt fondate sulla conoscenza, i brutti sfregi delle citt industriali devono essere sostituiti con il fascino intellettuale ed estetico delle citt Europee preindustriali, attraverso una combinazione di politiche rivolte alla scienza per stimolare linnovazione e lapprendimento, di politiche rivolte alla cultura per migliorare lambiente urbano, e di politiche sociali per incoraggiare i legami locali e la trasformazione delle culture dallorientamento alla produzione alle culture della conoscenza (Knight 1996, 11). La citt pu essere riprogettata come brain trust finalizzato alla creazione del vantaggio localizzativo dei cluster locali. Le citt che falliscono nel rispettare questimperativo sono destinate a morire. Anche qui, come nella letteratura sulla conoscenza tacita locale, le pi ampie geografie della conoscenza codificata vengono limitate alle reti organizzate in forma specifica, alle traiettorie istituzionali e quindi non sono adeguatamente riconosciute. I luoghi urbani della conoscenza codificata (per es. laboratori di R&S, centri di formazione, centri per i test di mercato) allinterno di organizzazioni del settore privato sono normalmente connessi a luoghi simili in altre parti del mondo ed integrati in un progetto che non trova un ragionevole motivo per generare ricadute esterne positive sul locale. Anche le attivit deccellenza del settore pubblico (per es. la ricerca universitaria) hanno pari riconoscimento e impatto internazionale e non risulta facile individuare la relazione tra tale eccellenza ed i legami locali. Dunque, la conoscenza formale, una volta decontestualizzata e diventata di pubblico dominio, richiede una valutazione e un apprezzamento per diffondersi e vincolare le risorse della conoscenza delle citt. Come sostiene Leadbeater (1999), nella nuova economia si osserva una grande disponibilit di conoscenza codificata in artefatti quali ricette, giornali scientifici e software, che ha permesso la rapida diffusione globale e la loro manipolazione/replicazione anche in luoghi lontani, rimpiazzando una vecchia e inefficiente divisione del lavoro che custodisce un modo tradizionale e tacito di apprendimento (Leadbeater 1999, 33). Sebbene non condividiamo questa destituzione del learning by doing, Leadbeater ha sicuramente ragione nel mettere in luce la rottura del legame tra il luogo in cui la conoscenza viene prodotta e il luogo dove viene applicata e successivamente sviluppata.

Economie legate alla distanza


Se le citt non sono sistemi economici locali, soggetti della competitivit globale, o depositari delle forze del capitalismo legato alla conoscenza, qual il loro

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status economico? Quale ruolo giocano nelleconomia delle relazioni economiche organizzate in nuove concentrazioni organizzative e, al tempo stesso, distribuite in uno spazio molto pi esteso? Esse agiscono fondamentalmente come luoghi o tappe di queste reti allargate; luoghi che raramente si agglomerano in sistemi urbani oppure in insiemi di legami locali.

Le citt come luoghi di reti


Per illustrare i diversi ruoli che i luoghi urbani possono assumere, consideriamo tre spazi organizzativi: le reti delle imprese transnazionali; la geografia delle industrie creative; e lo spazio dellelettronica. Riguardo al primo esempio, esiste unampia letteratura che si occupa delle geografie organizzative delle odierne imprese transnazionali. A fianco delle gerarchie tradizionali che vedono il coordinamento centralizzato e le attivit specializzate distribuite nello spazio globale, sono emerse una variet di gerarchie eterogenee che coinvolgono la decentralizzazione del management e della produzione. In particolare, la struttura organizzativa di queste gerarchie eterogenee diventata estremamente complessa; le imprese sono impegnate in alleanze strategiche, accordi commerciali di distribuzione e accordi di coproduzione con numerose altre imprese, governano lunghe catene distributive organizzate a livello mondiale, e utilizzano singole unit in grado di autogovernarsi virtualmente lungo una serie di competenze distribuite, e infine sono in grado di negoziare con i governi e altri decision-maker a diversi livelli della governance al fine dinfluenzare le loro decisioni. Limpresa diventata una costellazione di relazioni reticolari (Yeung 2000b) che incorporano, e al tempo stesso condividono, i mondi sociali della produzione, commercializzazione, organizzazione, negoziazione e del gioco di potere. Come evidenziato da Yeung, gli spazi di queste relazioni sono molteplici e non dimostrano una facile connessione con luoghi dati: Gli spazi possono includere spazi localizzati (per es. i distretti finanziari nelle citt globali) e spazi interurbani (per es. le reti delle istituzioni finanziarie e i media commerciali che legano insieme le citt globali). Limpresa costituita da attori sociali impegnati in reti relazionali che appartengono ad una variet di spazi. Le lenti analitiche che noi adottiamo possono cos variare moltissimo. Possono essere di tipo geografico, settoriale e organizzativo. Possono anche essere una combinazione di tutte queste (2000b, 26). Si pu considerare che in tale contesto le citt si caratterizzino per qualche elemento di autonomia o di particolarit? difficile dare una risposta positiva. In una citt un aeroporto o un ristorante potrebbero essere il centro di incontri internazionali, in unaltra citt potrebbe essere il distretto finanziario ad avere tale ruolo. Altrove i servizi alla produzione potrebbero essere collegati al pendolarismo dei lavoratori residenti nella periferia urbana, mentre il collegamento con una citt lontana migliaia di chilometri potrebbe avvenire con un negozio isolato, un tabellone pubblicitario o uno schermo cinematografico che ne pubblicizza il prodotto. Lo spazio della rete non mostra un modello particolare di connessioni spaziali e non possiede nemmeno un ruolo generalizzabile, come avveniva per le vecchie gerarchie urbane (per es. citt capitali come centri ammi-

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nistrativi e di ricerca, citt intermedie come luoghi di produzione specializzata, e citt periferiche come luoghi di lavoro a basso costo per lavori non qualificati). La citt dunque un nesso di nodi, luoghi e buchi nelle reti delle relazioni sociali che si estendono al di l della citt (Allen, Massey e Pile 1999). Riguardo al secondo esempio, anche le citt capaci di attrarre il potenziale creativo delle industrie della conoscenza e della comunicazione trovano le loro connessioni pi significative in una rete pi allargata. Circola un mito sulle industrie creative come le agenzie di pubblicit, leditoria, i media, la moda e le arti visive ed applicate per il quale queste citt sono distretti marshalliani delleconomia della conoscenza, che trovano le loro risorse, lispirazione, e i contatti nelle zone urbane centrali pi eleganti. Il caso dei media e dei pubblicitari nella zona centrale di Londra attorno a Soho un esempio tipico. Questo nodo marshalliano (Nachum e Keeble 1999) raccoglie gruppi di giovani di talento strutturandoli attorno a progetti specifici mediante unorganizzazione lavorativa non ortodossa. Questi poi si riversano fino a tarda notte nei bar e nei ristoranti ad alimentare la loro creativit, scambiare idee, e cercare di fare il punto sullo stato dellarte. A sua volta, a Soho, la miscela dei particolari prodotti mediali, la rapida creativit, e lipersociabilit attrae clienti, persone con talento e consumatori dello stile di vita di Soho. Il forte senso della localit proprio di Soho e le reti di creativi si rafforzano a vicenda per rendere il distretto uno spazio organizzativo locale con significativi risultati economici. Queste osservazioni sono solo parziali in quanto escludono un altro spazio organizzativo irriducibile al localismo. Gernot Grabher (2000) mostra in modo convincente che le maggiori imprese che si trovano a Soho sono organizzazioni internazionali costituite in gerarchie eterogenee, e composte da project team appartenenti ad imprese consociate nonch individuali localizzate in vari centri del mondo e legate tra loro virtualmente. Queste gerarchie eterogenee sono anche spazi di intensa rivalit, di cambiamenti di propriet, di mobilit finanziaria, nonch spazi di creativit per realizzare prodotti, profitti e reputazione per il proprio marchio. Soho senza tutto ci non avrebbe senso dal punto di vista economico. Grabher si chiede anche se sia corretto interpretare luoghi come Soho in termini di distretto industriale che come sappiamo si costituisce grazie ad economie di prossimit ed alla coerenza sistemica. Egli al contrario fa notare leterogeneit delle produzioni di Soho e la mancanza di qualsiasi legame sistemico tra le imprese. In questi luoghi ci che conta lintersezione dei raggi dazione delle organizzazioni globali ed il vantaggio in termini di tempo che la prossimit fisica fornisce ai nuovi project teams. Inoltre, senza la forza delle organizzazioni e la sfera dinfluenza globale, il marketing territoriale ed i legami di prossimit avrebbero un rendimento economico inferiore. Questaspetto costantemente dimenticato dai promotori della competitivit delle citt che basano le loro strategie dinvestimento-promozione sullordinamento di una lista infinita di fattori che influenzano la qualit della vita urbana (Rogerson 1999). In terzo luogo, qual il ruolo dei centri urbani nel contesto dello spazio mediato elettronicamente? I problemi associati alla telematica ossia lerosione della funzione della citt a causa del crescere dei flussi dinformazione sono gi stati esplorati (Castells 1996), cos come i problemi che nascono da omnipolis, la citt virtuale dello spazio-tempo globale dilatato (Virilio 1997). Tuttavia, come fa nota-

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re Crang (2000, 303) gli elementi di novit legati a questa nuova dimensione spazio-temporale non devono essere dimenticati: le interazioni telematiche non hanno luogo negli spazi urbani o tra di essi ma producono nuove forme spaziotemporali. Mentre una volta la citt esprimeva lintensificazione dello spazio per superare il tempo, ora lo spazio urbano non pu pi essere considerato uno spazio-tempo che contiene lazione, bens un paesaggio urbano interattivo in tempo reale. Questo paesaggio urbano dilatato nello spazio (che raggiunge le grandi periferie e si estende anche oltre tali luoghi) reso possibile dalle connessioni telematiche che legano in tempo reale famiglie, uffici e parti delle citt ad altri luoghi del globo (possibilmente intermediati da call-centre situati in altri luoghi ancora e da satelliti nello spazio). Si tratta di connessioni sostanziali, il cui senso e significato non sono meno autentici o strettamente connessi alle relazioni faccia a faccia allinterno della citt (Graham 1997). Questo spazio dilatato ed istantaneo anche uno spazio economico quotidiano, composto da legami tra clienti e fornitori lontani tra loro nato dal flusso e riflusso dei diversi mercati monetari e reali, da decisioni e regole determinate da lite che appartengono ad altri luoghi dalla circolazione globale di routine dellinformazione, dei dati, del know-how e dalle transazioni economiche e finanziarie. Visto dalla prospettiva della citt, tutto ci rappresenta un allentamento delle transazioni economiche e delle routine locali, poich attori economici vicini lun laltro o allinterno della stessa citt non hanno relazioni tra loro. Questo ci riporta alla citt come luogo, ma nella forma di una serie di comportamenti isolati. Queste geografie virtuali rappresentano sempre pi i nuovi circuiti economici nella loro normalit, creati da transazioni di segni, immagini, informazioni e conoscenze autoreferenziali. Come potremo altrimenti interpretare il crescere dei mercati internet per la musica, per la valutazione delle imprese, per i mercati immobiliari, per i prezzi azionari, per le immagini e quantaltro? Che cos la citt in questi mercati, se non il molteplice terminale di connessione di produttori, intermediari e consumatori dei servizi e dei beni digitalizzati? Se la citt appare come un luogo, probabilmente in veste di mappa immaginaria o digitalizzata, concepita per attrarre lattenzione, per creare identit oppure per dare un orientamento; si tratta insomma di un luogo virtuale, non di una composizione geografica reale. Da tutti e tre gli esempi si evince che, se si prende in considerazione la crescita dellorganizzazione economica, sia materiale che virtuale, la citt scompare come luogo di interdipendenze locali forti per rinascere come centro di reti nelle nuove pi ampie geografie economiche.

La densit delle istituzioni agili e leggere


Se le citt, o parti di esse, non sono organismi competitivi che fanno uso di concentrazioni di industrie interrelate, di economie di prossimit, di fiducia radicata nel contatto faccia a faccia, di spillover di conoscenza tacita e dellaccessibilit a persone ingegnose e tecnologie intelligenti, quale ruolo giocano nel sostenere lattivit economica? (Analizzeremo il loro ruolo in termini di mercati locali del lavoro nel prossimo paragrafo). A nostro parere importante affermare il primato delle risorse leggere che si

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trovano nelle pratiche istituzionalizzate specifiche delle citt. Queste comprendono sia le istituzioni forti che offrono beni collettivi attraverso lattivit organizzata (per es. luoghi dincontro, servizi condivisi, gruppi dinteresse e di governo) sia istituzioni di poca importanza senza costituzione formale o senza alcun patrocinio (per es. reti di contatti informali che forniscono opportunit di mercato). Le consideriamo istituzioni leggere nel senso che non rivestono un ruolo centrale per le attivit economiche, ma sono vantaggiose per sostenere tali attivit e per inseguire nuove opportunit. La citt ricca di attivit organizzate di qualsiasi tipo. Infatti, si potrebbe ipotizzare che uno degli aspetti centrali dellurbanizzazione stata listituzionalizzazione della vita sociale ed economica. La ricca e varia ecologia della vita nelle citt che da sempre crescono, si allargano e cambiano, ha richiesto la sua istituzionalizzazione attraverso la necessit di unorganizzazione collettiva adeguata alla dimensione ed alla densit, rapportata anche al bisogno di sicurezza, chiarezza e ordine di un ambiente vario e complesso. Il risultato di questo processo visibile nella concentrazione di istituzioni urbane custodite in regole e istituzioni relative allamministrazione e al governo urbano, ai codici ed alle convenzioni di comportamento pubblico, alle tecnologie di controllo, allordine e allorientamento (segnali stradali, sorveglianza, sicurezza), ai gruppi dinteresse, ai partiti politici, alle campagne elettorali e alle lites, ai servizi, al welfare e alle organizzazioni dassistenza, ai club, ai gruppi di ricreazione e alle associazioni. La citt un mix di istituzioni rivolte alla regolazione, al potere e alla socializzazione che si tengono insieme solo perch appartenenti alla citt; alcune in qualit di istituzioni urbane specifiche (per es. il governo locale, la pianificazione urbana) e altre in qualit di istituzioni generali (per es. scuole, servizi di vigilanza, accordi sulle relazioni industriali). Alcune di queste organizzazioni facilitano o rafforzano lattivit economica. La vicinanza ai servizi istituzionalizzati ne un chiaro esempio. Le imprese possono accedere a una completa e varia disponibilit di servizi commerciali e finanziari, servizi di trasporto e comunicazione, opportunit di formazione, servizi al dettaglio, servizi amministrativi e legali, ecc.. E qui, la familiarit con organizzazioni conosciute o di fiducia del settore pubblico o privato molto importante, ma conta anche la garanzia di trovare agevolmente delle alternative in altre parti della citt attraverso contatti personali, reputazione e disponibilit di elenchi nominativi come ad es. le rubriche telefoniche. Un altro esempio sono i luoghi dincontro offerti dalle citt. Ristoranti, bar, partite di calcio ed eventi musicali sono luoghi in cui si sviluppano le idee e si realizzano affari deliberatamente o attraverso la socializzazione casuale. Cos come le associazioni di imprenditori, le manifestazioni organizzate dalle aziende, le fiere, le organizzazioni professionali e i gruppi dinteresse, esse sono luoghi in cui vengono ricercati degli standards, si scambiano conversazioni amichevoli, vengono riconosciuti i rivali e vengono rese pubbliche le controversie. Questi luoghi dincontro non sono tuttavia spazi marshalliani di interscambio tra membri della stessa comunit dinteresse che si conoscono (per es. i mobilieri nelle piazze italiane). Al contrario, sono centri di socializzazione e/o raccolta di professionalit con una leggera impronta economica, alla quale si mescolano divertimento, discussioni, opportunit di ricerca e daffari in forme emergenti. pro-

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babile che in assenza di tali luoghi il business imprenditoriale non tenderebbe a collassare, ma potrebbe crescere lansiet (...). Un terzo esempio, rilevante per lattuale riflessione sulla citt intesa come motore delleconomia della conoscenza, la sintesi e laggregazione di diversi tipi di conoscenza formale in istituzioni urbane di diversa natura. La citt non una fonte di conoscenza contestuale o tacita radicata in particolari forme di pratiche imprenditoriali (per es. la fiducia nei cluster o nelle imprese familiari). Non neppure un serbatoio dinnovazione creato dai lavoratori della conoscenza e dai centri di ricerca per la scienza e la tecnologia. Al contrario la citt un luogo con una composizione molto varia della conoscenza. Questultima si trova nelle scuole, nelle universit, nellapprendistato, nelle esperienze e abilit lavorative, nelle scuole serali, nelle associazioni di volontariato e nelle organizzazioni comunitarie, nei gruppi artistici, istituti culturali e club comunitari, nelle societ che apprendono, nelle agenzie di certificazione e nelle organizzazioni di accreditamento, ecc.. difficile dire in che modo la conoscenza generata in ogni luogo si traduca in capitale economico per la citt, che una questione mal formulata. Ci che appare rilevante la pura e semplice variet degli ambienti della conoscenza istituzionalizzata cittadina, che costituiscono un pool ricco e nutrito di know-how con effetti strumentali e di sviluppo che variano nel tempo. Anche qui, la conoscenza leggera diventa di cruciale importanza economica qualora si consideri la variet di competenze e know-how come fonte primaria per levoluzione economica. La base istituzionale della citt si estende anche alle attivit non strutturate o di minore importanza che supportano la vita economica. Sar sufficiente un esempio per illustrare questaspetto. Le citt sono piene di piccole imprese che competono lun laltra nei mercati locali, molte delle quali si affidano alle pratiche istituzionali informali per sopravvivere. Questo il caso delle attivit economiche delle minoranze etniche, normalmente localizzate nelle aree in cui risiedono gli immigrati, le quali fanno affidamento a specifiche norme di consumo (per es., la preferenza per particolari cibi) e alle opportunit offerte dalla comunit o dalle connessioni della diaspora cittadina (attraverso le relazioni di parentela, le scuole settarie, le associazioni di comunit, gli ordinamenti religiosi vedi Kesteloot e Meert 1999). Ci risulta vero anche per le numerose attivit informali e semilegali presenti nella citt, a partire dai commerci di vicinato fino alle reti per il credito immediato destinato alle riparazioni domestiche, il giardinaggio, la vendita di auto. Queste attivit dipendono in modo cruciale dalle reti familiari, dai contatti faccia a faccia, dalla reputazione locale, dai territorialismi e dai percorsi familiari, nonch dai legami solidaristici che sinstaurano allinterno della citt (Mingione 1996; Duneier e Molotch 1998; Fleischer 1995). A tale riguardo la citt si riduce a istituzioni di familiarit tipiche dei villaggi. Ma conta anche laffidabilit dellanonimato urbano nel facilitare la fuga, la ricerca di nuove opportunit, di nuove aziende. Infine anche limportante economia delle piccole imprese ricorre ad istituzioni urbane poco appariscenti. Ragionevolmente, il negozio allangolo della strada si basa sulle regolarit temporali istituzionalizzate, sui modelli di acquisto familiare, sulle abitudini dellora di pranzo degli impiegati e sullinvasione quotidiana degli scolari. Pu anche basarsi sul desiderio di una socializzazione superficiale dei residenti, per i quali una breve chiacchierata

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allangolo del negozio fa parte della caratterizzazione del territorio o della vita umana in citt.

Mercati, Consumo, Benessere


Questi ultimi esempi rivelano come la vita economica nelle citt non sia riducibile alle attivit di networking tipiche delle geografie costruite su ampie distanze. Le citt sono agglomerazioni di persone, edifici, tecnologie, reti di comunicazione, servizi, uffici, case, istituzioni, parchi, discariche e molte altre attivit umane e non. Come abbiamo gi detto, questa densa ecologia di presenze non pu essere spiegata in termini di economia (internazionale) della competitivit, n in termini di ambiente offerto, incluse le istituzioni. Al contrario, abbiamo bisogno di considerare leconomia della domanda e dei diversi modelli di consumo e di soddisfazione di bisogni. Krugman (1997) ha ragione quando allude alle citt come luoghi di mercato che sostengono la domanda di beni e forniscono servizi alle imprese locali. Occorre prendere seriamente in considerazione levidenza empirica che mostra come la maggior parte delle imprese di media e piccola dimensione nelle citt soddisfino principalmente i bisogni della domanda locale. Il processo di causazione cumulativa mette in evidenza come parte di questa domanda sia generata dalle opportunit di mercato legate allagglomerazione, alla crescita della domanda, alla crescita della specializzazione e allo spin-off. In tal modo la densit della popolazione garantisce la variet dei mercati per i beni di consumo, le abitazioni, il tempo libero e la ricreazione; la proliferazione delle imprese e delle istituzioni genera una diversificazione dei mercati per i servizi alle imprese, mentre lambiente edificato genera il suo stesso modello di domanda. A sua volta leterogeneit sociale e culturale della citt, assieme alla sua espansione e suddivisione in parti distinte sostiene la straordinaria ampiezza dei mercati dei nuovi prodotti e servizi venduti nelle zone ricche di negozi, dei centri commerciali, dei mercati allaperto, delle bancarelle, nonch dei prodotti di seconda mano e riciclati scambiati attraverso un insieme variegato e simile di mercati. Queste sono le attivit commerciali che riempiono le Pagine Gialle in diverse citt del mondo, e che, incidentalmente, spiegano perch Krugman arriva alla conclusione che le citt sembrano tutte uguali sotto il loro profilo economico. Leconomia della vita quotidiana nella citt anche legata ai mercati relativi ai servizi pubblici e privati. Esiste uneconomia composta da un grande numero di beni pubblici che i cittadini, le imprese e le istituzioni utilizzano e che produce i suoi stessi mercati. Le citt sono luoghi dove esiste una domanda in larga scala per servizi, trasporto, comunicazioni, sistema di fognature, lavori pubblici, biblioteche, spazi verdi, asili nido, scuole, ospedali, cliniche, centri medici. Ogni settore, a sua volta, ricorre alla ricerca e sviluppo, al know-how, agli skill, alla progettazione, ai servizi, alla fornitura (approvvigionamento) e alle risorse di manutenzione, molti dei quali sono generati o commercializzati allinterno della citt. Si ritorna al modello economico della causazione cumulativa basato sul livello della domanda locale e sui comportamenti locali di spesa, dove, come dimostra il precedente esempio, non ha molto senso lapprovvigionamento attraverso altre citt (non ultimo perch una parte significativa controllata dai fondi pub-

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blici erogati localmente e dallo stato locale). Infine, negli interstizi delleconomia del settore privato e del settore pubblico, si trova leconomia sociale o del non-profit, la quale trova la sua razionalit nei bisogni insufficientemente soddisfatti della citt. Le citt abbondano di terzo settore, di volontariato e di organizzazioni comunitarie come pure di reti di microcredito e di schemi locali di commercio progettati per far fronte allesclusione dalleconomia formale e/o supportare stili di vita alternativi. Inoltre, le organizzazioni religiose forniscono cibo o riparo per i poveri, i gruppi di volontariato si prendono cura dei bisogni degli anziani, i centri di beneficenza lavorano per i disoccupati, i tossicodipendenti e i disabili, le comunit si uniscono per pulire il quartiere o fornire servizi per linfanzia, gli scolari formano doposcuola collettivi, gli occupanti abusivi reclamano le case sfitte, i comuni si consorziano per garantirsi un supporto reciproco o per condividere risorse, i gruppi con basso reddito stabiliscono reti di commercio non monetario, e la lista potrebbe continuare. Tutte queste sono attivit economiche, basate sulla produzione e redistribuzione delle risorse, che incontrano i bisogni di consumo e di benessere nonch la costituzione di capacit. Anchesse sono parte delleconomia urbana, e richiedono di essere prese in considerazione nella teorizzazione economica della citt.

Conclusione
Leconomia urbana non pu essere spiegata solo considerando lemergere di una nuova forma di capitalismo o in termini di fonte di competitivit basata sulla vicinanza spaziale. Per fare ci bisognerebbe assumere una nota caratteristica delleconomia urbana, ossia la sua chiusura spaziale. Abbiamo evidenziato invece che la citt deve essere vista come un momento nelleconomia strutturata in relazioni translocali con effetti locali che hanno a che fare pi con la sociologia leggera delle istituzioni urbane piuttosto che con la natura dei legami tra partner commerciali contigui. Si anche discussa la necessit di cercare spiegazioni pi convenzionali dellattivit economica urbana, radicate nel riconoscimento delle opportunit di mercato associate alla densit e diversit spaziale. Queste differenze dalle spiegazioni ortodosse contemporanee hanno profonde implicazioni in termini di politiche pubbliche. Primo, nella nostra prospettiva c poco spazio per le politiche che ricercano una competitivit urbana, poich sono le imprese e non le citt a competere. Quindi limpegno in campagne di marketing territoriale produrrebbe effetti inferiori alle politiche per lo sviluppo di uneconomia auto-sostenuta quando la citt viene intesa come un tutto, mentre le politiche per rafforzare o cambiare la natura dei legami tra imprese potrebbero non essere comprese, e le politiche per migliorare le risorse della conoscenza formale e tacita di una citt potrebbero in realt alimentare le reti di concentrazione organizzativa o le nuove attivit imprenditoriali con conseguenti limitati effetti locali. Secondo, la nostra prospettiva rivolta allazione legata alla distanza, ed focalizzata, per esempio, sulla base istituzionale della citt che agisce sullattivit economica con modalit impreviste, sulle strategie che migliorano le risorse di base delle imprese senza ricorrere unicamente alle azioni a livello urbano (per es. il credito nazionale o le riforme fiscali), e ai programmi di rinnovamento della domanda di base progettati per soddisfare i bisogni e le diverse

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norme degli stili di vita dei cittadini urbani.

Riferimenti bibliografici
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Ash Amin e Nigel Thrift

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La traduzione del testo dallinglese stata realizzata da Francesca Gambarotto. ________________ Il prof. Ash Amin insegna Geografia presso lUniversit di Durham (UK). membro del UK Economic and Social Research Council Research Priorities Board e dal 1999 stato eletto Corresponding Member dellAssociazione Italiana di Geografia. Ha ricevuto lEdward Heath Award dalla Royal Geographical Society/Institute of British Geographers consigliere dellOCSE e dellUE per questioni relative alle politiche regionali ed urbane. Il prof. Nigel Thrift insegna Geografia presso lUniversit di Bristol (UK). coeditore di numerosi libri ed editor di alcune tra le pi importanti riviste internazionali di geografia economica: Environment and Planning A, Society and Space, Third World Planning Review, Review of International Political Economy , European Planning Studies. N.J.Thrift@bristol.ac.uk Ash.Amin@durham.ac.uk

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Antonio Calafati

Il capitale come paesaggio*


Viaggiando tra le costellazioni del sapere

Introduzione
* Ringrazio Francesca Mazzoni per i suoi commenti alle precedenti versioni di questo lavoro.

I termini capitale e paesaggio sono descrizioni dello stesso oggetto cos come le espressioni accumulazione di capitale e costruzione del paesaggio si riferiscono allo stesso processo. Naturalmente, vi sono molte ragioni per tenere distinti, come di norma accade, questi due livelli di descrizione. Tuttavia, vi sono decisioni individuali e decisioni collettive che, per essere spiegate, sembrano in tutta evidenza richiedere lutilizzo di un sistema categoriale nel quale il capitale sia interpretato come paesaggio e il paesaggio concettualizzato come capitale. Nellinterpretazione e nella pianificazione urbanistica lintersezione di questi due livelli di descrizione ricercata sia quando si interpreta e progetta il cambiamento di ambienti urbani sia quando oggetto di analisi e di intervento sono i paesaggi rurali. Ma, anche in economia linterpretazione del capitale come paesaggio sembra essere necessaria per spiegare le decisioni private e collettive degli agenti in sfere importanti dellagire economico. Ad esempio, lintersezione tra i concetti di capitale e paesaggio potrebbe contribuire a migliorare la spiegazione sostanziale della destinazione del sovrappi, aprendo la strada ad una pi completa teoria dellaccumulazione di capitale. Purtroppo, in economia, i vantaggi analitici di interpretare il capitale come paesaggio sono stati oscurati dalla singolare definizione del concetto di bene capitale correntemente utilizzato e che, ancora oggi, caratterizza i sistemi di contabilit sociale. In questo saggio viene condotta una preliminare esplorazione, da una prospettiva economica, delle ragioni che giustificano uninterpretazione del capitale come paesaggio e del paesaggio come capitale. Sul piano applicato, lurgenza di porre lattenzione sulla forma del capitale e non soltanto sulla sua funzionalit tecnica un riflesso del rilievo che il tema della conservazione ha assunto nella sfera delle decisioni collettive in Italia e in Europa nellultimo decennio. Pi in generale, tuttavia, non appena con il termine capitale ci si riferisce allinsieme degli elementi fondo utilizzati nel processo economico, la funzionalit formale del capitale diventa un tema che appare decisivo per interpretare importanti caratteri delle economie antiche e moderne.

Flussi e fondi nel processo economico


Le azioni economiche degli individui (e dei sistemi di individui) si svolgono sulla

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Antonio Calafati

Il capitale come paesaggio

base di una rete di transazioni verticali ed orizzontali1. Una transazione pu essere definita in questo contesto come un movimento nello spazio-tempo di materia/energia e informazione tra due livelli di descrizione del sistema. Questi flussi di materia/energia e informazione hanno luogo attraverso una complessa infrastruttura capitale fisico e capitale sociale , la quale muta nel tempo in modo discontinuo2. Le transazioni verticali sono il fondamento delle azioni economiche: esse si riferiscono alla materia/energia e alla informazione estratte dallo spazio geografico (e dal territorio) di riferimento dellagente, manipolate e ri-immesse nello spazio geografico (territorio)3. Ogni azione economica implica un movimento di materia/energia e informazione dallo spazio fisico e sociale al sistema umano pertinente, sia esso di volta in volta un individuo, unorganizzazione o un sistema locale nonch dal sistema umano allo spazio fisico e sociale. Senza questo movimento e senza la degradazione di materia/energia che esso implica il processo economico non sarebbe possibile (Georgescu-Roegen 1971, 1982). Le transazioni orizzontali si riferiscono alle transazioni di materia organizzata tra lunit di riferimento (individuo, organizzazione, sistema locale) e le unit che formano il suo ambiente. Le transazioni orizzontali tra lagente e il suo ambiente sciolgono o allentano il legame tra spazio geografico sul quale lagente ha un diritto di propriet e azioni economiche: la materia utilizzata nel processo economico pu provenire da altri spazi, e i residui del processo economico possono essere ri-immessi in altri spazi. Naturalmente, lenorme aumento delle transazioni orizzontali (scambi) che ha accompagnato il processo di industrializzazione ha permesso una concentrazione in un sottoinsieme di soggetti e spazi della funzione di estrazione e immissione di materia (la concentrazione spaziale riguarda il luogo di produzione o di stoccaggio dei residui ma non lo spazio dove si esercitano gli effetti ecosistemici dei residui prodotti. Da una prospettiva ecologica, risulta evidente come i residui del processo economico si muovano nello spazio e tra gli ecosistemi; cfr. Commoner 1986). Il processo economico, vale a dire la sequenza (circolare) di trasformazione di materia/energia e informazione, si fonda su una fondamentale dicotomia. Da una parte, il processo economico una trasformazione di elementi flusso: materia/energia e informazione. Dallaltra, tale trasformazione avviene utilizzando elementi fondo che, in genere, sono una condizione necessaria per attuare la trasformazione stessa (Georgescu-Roegen 1971, 1982). In ogni caso, gli elementi fondo gli strumenti determinano le condizioni alle quali la trasformazione di materia/energia e informazione ha luogo. In questo saggio, con il termine capitale (fisico) ci si riferisce innanzitutto allinsieme di elementi fondo utilizzati nel processo economico. La relazione tra flussi di materia/energia e spazio geografico di fondamentale importanza: la materia/energia manipolata proviene dallo spazio geografico e ritorna nello spazio geografico, e questo ciclo, indotto dal processo economico, interferisce con il funzionamento degli ecosistemi in esso presenti. Tale relazione dipende sia dalla scala che dalla struttura del processo economico. Certamente, la scala del processo economico cio, la quantit di materia che

Cfr. Dematteis (1989).

Sui concetti di canali e codici come elementi dellinfrastruttura che rende possibili i flussi di informazioni tra gli individui vedi Arrow (1974). Sullinterpretazione dellinformazione come un flusso estratto dallambiente dellunit mente-corpo cfr. Devlin (1991).

Sul concetto di organizzazione e dis-organizzazione della materia vedi Morin (1993).

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viene organizzata (e dis-organizzata)4 nel corso dei processi di produzione e auto-produzione finalizzati al raggiungimento degli stati desiderati degli agenti influenza in misura decisiva lo stato degli ecosistemi. Ma, anche la qualit della materia organizzata (e dis-organizzata) attraverso il processo economico ha rilevanti implicazioni. Da una parte, la qualit della materia organizzata riflette i valori degli individui; dallaltra, la qualit della materia dis-organizzata (tipi di residui) dipende non solo dalle merci prodotte ma anche dalle tecnologie utilizzate. Ad entrambi i livelli si ha uninterferenza con il funzionamento degli ecosistemi (cfr. Calafati 1997). Il processo economico richiede elementi fondo per essere condotto. Essi possono essere visti come strumenti esosomatici (Georgescu-Roegen 1982), ovvero strumenti che amplificano la capacit di trasformazione della materia/energia che lunit mente-corpo pu sviluppare. Queste aggregazioni di materia/energia (e informazione) amplificano la originaria capacit del corpo umano di organizzare materia. Si tratta di strumenti precedentemente progettati e realizzati attraverso atti di investimento per essere pi volte utilizzati nel corso del processo economico, ovvero per essere di ausilio a determinate tipologie di azioni umane che lagente ritiene di ripetere nel tempo. Il processo di accumulazione di strumenti esosomatici costituisce un carattere di fondamentale importanza e distingue, certamente insieme ad altri fattori, la specie umana da tutte le altre specie. Da una parte, esso permette di realizzare azioni economiche altrimenti irrealizzabili, e ci attraverso lutilizzazione di materia ed energia disponibili nello spazio geografico di riferimento. Dallaltra, permette di utilizzare materia ed energia in modo pi efficiente. Vi sono processi di organizzazione della materia che non possono essere n pensati n realizzati senza la disponibilit di determinati strumenti esosomatici. In altri casi, senza la disponibilit dello strumento sarebbero scarsamente efficienti. Da questo punto di vista, il processo di investimento anche lesito di un processo di esplorazione delle possibilit di organizzazione della materia. Ponendo lattenzione sullinfrastruttura sulla base della quale avvengono le transazioni verticali e orizzontali, e la trasformazione di materia/energia e informazione, il capitale (fisico) e lo spazio (geografico) nel quale incastonato appaiono come il punto di partenza di una descrizione dei sistemi sociali e del processo economico. Ma, appena il capitale viene visto non come un aggregato ma come un insieme di strumenti, appare evidente che gli elementi fondo privati e collettivi che gli individui - e le comunit nel loro complesso - utilizzano nei processi di produzione e autoproduzione non hanno soltanto una funzione nellambito del processo produttivo. In economia, gli elementi fondo sono innanzitutto oggetto di analisi poich identificano (insieme alle conoscenze) la tecnologia della societ. Tuttavia, essi hanno anche una evidente funzionalit culturale, nel senso che riflettono dei canoni formali. In effetti, ogni elemento fondo ha una forma (morfologia) e occupa una regione nello spazio. Il fatto che in economia si utilizzi spesso lipotesi (euristica) dellirrilevanza della forma e della collocazione spaziale del bene capitale non significa che il campo dindagine, che in questo modo si elimina, non sia importante per la riflessione economica stessa. La forma e la spazialit dei

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Il capitale come paesaggio

beni capitali non sono caratteri che si sono determinati casualmente, ovvero caratteri che non riflettono unintenzionalit individuale e sociale. Naturalmente, anche gli elementi flusso hanno una forma e occupano una posizione nello spazio. Per definizione, tuttavia, la loro forma e collocazione spaziale sono transitorie - e, per questa ragione, non altrettanto importanti della forma e della collocazione degli elemento fondo. Tuttavia, quando la scala del processo aumenta, anche i flussi assumono un rilievo estetico-formale e territoriale. In effetti, la congestione, per definizione determinata dai flussi di materia nello spazio, contribuisce a determinare il valore soggettivo (e sociale) degli stati del mondo pertinenti (cfr. Hirsch 1981). Per definizione, ogni forma richiama un valore estetico attribuito dagli individui e dalla collettivit alla forma stessa (Bell 1999). Pertanto, ogni elemento fondo, oltre ad avere una funzionalit (valenza) tecnica, per il fatto di avere una forma, ha anche una funzionalit (o valenza) culturale. Esso ha una relazione con i valori estetico-formali (culturali) degli individui e della collettivit. A sua volta, anche la dimensione territoriale degli elementi fondo - vale a dire, la relazione spaziale che si stabilisce tra tali elementi come conseguenza della loro collocazione nello spazio (geografico) -, oltre ad avere una valenza economica, ha una valenza culturale. La valenza economica data dallenergia e dal tempo (costo) necessari per muoversi da un elemento fondo allaltro per coordinare i movimenti del corpo (e degli altri elementi fondo mobili) con gli elementi fondo fissi utilizzati nei singoli processi (nonch per far interagire gli elementi fondo con gli elementi flusso). La valenza culturale sta nel fatto che linsieme degli elementi fondo e non soltanto i singoli elementi ha una forma e, come tale, oggetto di un processo di valutazione estetica. Si pu considerare lurbanistica come la disciplina che si occupa della dimensione territoriale del capitale spesso difficile da scindere dalla considerazione degli aspetti formali del capitale (cfr. Secchi 1989). Funzionalit tecnica e funzionalit formale sono due attributi intrinseci degli strumenti esosomatici utilizzati nel processo economico. La relazione tra queste due dimensioni molto complessa, dato che la ricerca dellautonomia (relativa) della forma dalla funzionalit tecnica un dato comune a tutte le comunit, anche quelle con un processo economico ai limiti della sussistenza. In economia, queste due dimensioni vengono separate. Tuttavia, la scelta della forma ha un significato economico poich ogni forma ha uno specifico costo-opportunit. Per quanto possa essere utile separare la funzionalit tecnica da quella formale, il perseguimento dellobiettivo della conservazione del paesaggio, ad esempio, costringe a considerare congiuntamente le due dimensioni nellambito della progettazione delle politiche di regolazione. In effetti, la pianificazione deve spiegare e, per quanto possibile, regolare la relazione dinamica che si stabilisce tra funzionalit tecnica e funzionalit formale.

I sistemi semi-naturali come capitale


Il concetto di elemento fondo deve essere esteso allo scopo di contenere anche i sistemi semi-naturali. Oltre ad oggetti come un edificio, un tornio, un divano o un coltello e, anche, un robot , il processo economico si basa sul

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Per questa interpretazione del concetto di sistema vedi Miller (1986).

La rilevanza dei cambiamenti dellambiente del sistema per il funzionamento del sistema stesso si pu esprimere attraverso il concetto di auto-ecoorganizzazione (vedi Morin 1993).

In eccesso rispetto allammontare di materia-energia specifica necessario per mantenere lorganizzazione che il sistema deve avere (per essere la base del processo economico di riferimento).

funzionamento di specifici sistemi semi-naturali. Che la produzione si basi su sistemi e non solo su oggetti un fatto evidente. Si deve tuttavia distinguere, almeno a questo livello di descrizione, tra sistemi artificiali come un robot o qualsiasi altro sistema di controllo automatico e sistemi semi-naturali come un campo di grano o un prato-pascolo. Questa distinzione permette di evidenziare come il processo economico debba essere sincronizzato con lattivit di organizzazione della materia dei sistemi semi-naturali precedentemente creati attraverso atti di investimento. Un campo di grano, un albero da frutto o un allevamento zootecnico generano materia organizzata secondo una propria scansione temporale. Sono sistemi semi-naturali creati da processi di investimento e stabilizzati da interventi di manutenzione (vedi Btzing 1987). In quanto sistemi, essi si caratterizzano per la loro capacit di generare processi di trasformazione di materia/energia e informazione5. Sono sistemi artificiali nel senso che la loro organizzazione corrisponde ad un progetto e la loro esistenza ad azioni umane di investimento (e manutenzione). Sono, tuttavia, sistemi seminaturali perch, una volta in essere, sono in grado di generare autonomamente i processi di trasformazione di materia desiderati. Tuttavia, non sono capaci di auto-organizzarsi dal punto di vista delle esigenze umane, vale a dire se valutati in termini della funzionalit rispetto ai processi economici della materia che produrrebbero. Infatti, i processi che essi generano mantengono i caratteri desiderati soltanto attraverso a) una manutenzione dei loro elementi costitutivi e b) una stabilizzazione dellambiente del sistema6. Interventi di manutenzione finalizzati alla stabilizzazione interna ed esterna devono essere effettuati su tali sistemi affinch essi mantengano lorganizzazione desiderata e producano materia/energia nella quantit e qualit desiderata (cfr. Btzing 1987). In assenza di questi interventi essi evolvono, seguendo sentieri propri, verso il loro stato di climax (Odum 1988). Analogamente agli altri elementi fondo, i sistemi semi-naturali contribuiscono al processo di organizzazione della materia finalizzato al soddisfacimento dei desideri degli individui. Da questo punto di vista, sono elementi del capitale: il risultato, cio, di un processo di investimento. In effetti, il processo di accumulazione (e de-accumulazione) non riguarda soltanto il capitale artificiale ma anche il capitale semi-naturale. Per molti secoli, finch lagricoltura stata lattivit economica prevalente, laccumulazione (e manutenzione) di capitale semi-naturale ha costituito la quota maggiore dellinvestimento. Dalla prospettiva analitica del presente saggio, si deve sottolineare come anche i sistemi semi-naturali abbiano una forma e occupino una regione nello spazio. Da questo punto di vista, quindi, non si distinguono da altri elementi fondo come una poltrona, un tornio o un robot: hanno, allo stesso tempo, una funzionalit tecnica - data dalla qualit e quantit della biomassa (o dellinformazione) in eccesso che generano7 - e una funzionalit formale. Essi sono, evidentemente, il riflesso di esigenze tecniche e di esigenze estetico-formali: la forma dei sistemi semi-naturali stata estesamente studiata da questa prospettiva (vedi, tra gli altri, Hoskins 1955; Sereni 1987; Bell 1999). Analogamente a qualsiasi altra categoria di elementi fondo artificiali, la relazione che si stabilisce tra questi due livelli pu avere un fondamento nei valori dellin-

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Il capitale come paesaggio

dividuo oppure un fondamento normativo, vale a dire essere vincolata da norme formali che sono scaturite da una decisione collettiva.

Il capitale come paesaggio


Il nostro sistema cognitivo percepisce oggetti e insiemi di oggetti; percepisce unit e relazioni tra unit (Bell 1999). Ogni insieme di oggetti percepito nella sua unitariet - vale a dire, congiuntamente alle relazioni tra i singoli oggetti - pu essere definito un paesaggio. Il concetto di paesaggio ha una straordinaria estensione di significato perch si pu riferire ad ambiti spaziali che di volta in volta il nostro sistema cognitivo percepisce come una unit o i nostri sistemi categoriali identificano come una unit. Si tratta di una scelta che pu avere un fondamento cognitivo o un fondamento scientifico - e, come tale, essere il prodotto di una valutazione collettiva consapevole rispetto a criteri prescelti (come, ad esempio, nella classificazione dei paesaggi che viene condotta nellambito dei processi di decisione collettiva). Laggregato di elementi fisici che costituisce un laboratorio il tavolo, la libreria, la stampante e cos via un paesaggio. Quando cambio la disposizione di tali elementi o, attraverso linvestimento (e il dis-investimento), la forma e la quantit di tali elementi, cambio un paesaggio. Allo stesso modo, il reticolo dei campi, i manufatti agricoli e gli alberi da frutto che si vedono attraverso la finestra del laboratorio sono un paesaggio. E, quando un frutteto viene impiantato oppure eliminato (o semplicemente abbandonato), il paesaggio cambia. Il paesaggio emerge dalla forma degli oggetti e dalla loro disposizione spaziale, la quale stabilisce una relazione tra forme. Come conseguenza della sua dimensione formale, il paesaggio oggetto di un processo di valutazione e attribuzione di valore che indipendente dalla sua funzionalit tecnica quella dei suoi singoli elementi. Naturalmente, tra funzionalit tecnica e funzionalit formale esiste un trade-off che concorre alla definizione del contesto della scelta. Questa relazione complessa e aperta tra funzionalit tecnica e valore estetico-formale riferita agli elementi fondo e agli aggregati di elementi fondo sembra essere presente in tutte le culture e si manifesta anche nelle societ che hanno un processo economico appena sopra il livello di sussistenza. In molte societ del passato tale relazione stata un elemento costitutivo dei meccanismi di utilizzazione del surplus (cfr. Pearson 1978). Bench in forme diverse, tale relazione fondamentale per spiegare la struttura del processo di accumulazione nelle societ contemporanee. Partendo dal concetto di paesaggio si pu affermare che ogni processo economico vale a dire, ogni trasformazione di materia/energia (e informazione) intenzionalmente realizzata dalluomo presuppone un paesaggio. Ogni azione economica richiede la pre-esistenza di una aggregazione di elementi che, oltre ad avere una funzione con riferimento alla tecnologia esistente, hanno una forma e una disposizione spaziale e, quindi, hanno un valore estetico8. Da questa prospettiva, il paesaggio e il capitale costituiscono due livelli di descrizione diversi dello stesso oggetto ma il paesaggio contiene il concetto di capitale. A costituire la base di partenza del processo economico e lesito delle decisioni di accumulazione un paesaggio e non semplicemente un insieme

La prospettiva funzionalista ha sottolineato limportanza della funzione delloggetto ma, certamente, non ha negato la rilevanza della forma delloggetto stesso. Il movimento Bauhaus, ad esempio, ha costituito uno dei momenti pi alti della riflessione sul rapporto tra funzione e forma delloggetto (cfr. Van de Velde 1966).

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di beni capitali. Relativamente ad un dato insieme di elementi fisici, il concetto di capitale coglie, dunque, come affermato in precedenza, la sua funzionalit tecnica, mentre il concetto di paesaggio incorpora anche la sua funzionalit culturale, cio la sua capacit di soddisfare i bisogni estetici degli individui (cfr. Bell 1999). Di conseguenza, si deve interpretare il processo di investimento, uno dei fenomeni economici fondamentali, non solo come accumulazione di elementi fondo bens anche come costruzione del paesaggio. Ogni atto di investimento, introducendo un nuovo elemento fondo o un nuovo sistema semi-naturale, modifica il paesaggio incrementando lo stock di capitale o sostituendo un elemento del capitale preesistente. Ogni atto di investimento modifica le relazioni spaziali e, molto spesso, anche la variet delle forme degli oggetti presenti in un dato spazio. Pertanto, ogni atto di investimento viene effettuato sullo sfondo di una costellazione di tecnologie, di prezzi relativi e di valori estetico-formali. Analogamente, ogni atto di manutenzione, da una parte, orientato a mantenere la funzionalit tecnica dellelemento fondo e, dallaltra, agisce sulla funzionalit estetico-formale (mantenendola o alterandola). Le economie, ovvero i processi di organizzazione della materia costituiti dalle azioni economiche, presuppongono paesaggi e non solo materia/energia (e informazione). E i paesaggi delleconomia hanno una funzione estetico-formale che non riconducibile alla loro funzione tecnologica. Lefficienza nella trasformazione di materia (sullo sfondo del sistema di equivalenze che vincola le transazioni) non costituisce il criterio generale nella scelta della forma (e della disposizione) degli elementi fondo e, quindi, nella costruzione del paesaggio. I valori estetico-formali degli elementi del paesaggio hanno un grado (variabile ma spesso elevato) di autonomia dalla funzionalit tecnica (espressa in termini di efficacia e, in alcuni casi, di efficienza). In molte societ, la comparsa del surplus la sua stessa definizione una manifestazione individuale e collettiva di tale grado di autonomia. Le grandi cattedrali gotiche e i musei darte moderna sono due esempi eclatanti per quanto lontani nel tempo luno dallaltro dellautonomia della funzionalit culturale dalla funzionalit tecnica. Ma, ogni atto di investimento si caratterizza per un certo grado di autonomia. Linvestimento e la manutenzione sono, in effetti, momenti di transizione culturale e non solo tecnologica. Da questo punto di vista, il concetto di paesaggio dunque pi utile, in molti contesti di progettazione di politiche economiche, di quanto non lo sia il concetto di capitale. Esso permette di contemplare il significato di uno dei fenomeni sociali fondanti di ogni societ: la rilevanza della forma e della disposizione spaziale dei beni capitale utilizzati nei processi di produzione e auto-produzione. Si tratta di una rilevanza che ha un significato economico anche perch le classi di forme e disposizioni spaziali tra cui gli agenti scelgono - pur quando sono opzioni neutrali in termini tecnologici - hanno un costo-opportunit molto diverso.

Capitale, paesaggio, natura


Oltre alla dimensione formale, ogni paesaggio ha una dimensione naturale (o

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Il capitale come paesaggio

ecosistemica). Ogni paesaggio ha, allo stesso tempo, un valore formale e un valore ecosistemico (Naveh e Lieberman 1984; Odum 1988). Uno spazio geografico, comunque delimitato, pu ospitare sistemi umani con il capitale e gli stock di materia necessari per il processo economico. Ma, praticamente sempre ospita sistemi biotici in genere. Ogni spazio geografico quindi descrivibile in termini della sua biocenosi che, a sua volta, pu essere valutata nel suo significato culturale (o simbolico) o nel suo significato ecosistemico (ad esempio, con riferimento al grado di diversit biologica). Lo spazio geografico direttamente antropizzato o non ha comunque una dimensione naturale, poich ospita comunit biotiche che si auto-organizzano e che non sono risorse, vale a dire materia (vivente) utilizzata al momento dellosservazione nei processi economici che avvengono nello spazio geografico di riferimento9. Ogni paesaggio ospita processi biologici (naturalit) che sono disconnessi - a volte solo apparentemente - dal processo economico che in quel paesaggio si svolge10. Queste comunit biotiche possono avere un valore culturale (simbolico) o ecosistemico molto diverso ma sono, comunque, natura. I caratteri formali di un paesaggio costituiscono un rilevante punto di partenza per valutare i caratteri ecosistemici del paesaggio stesso. Una siepe una forma e, allo stesso tempo, un ecosistema. Le informazioni sulla forma sono anche informazioni sullecosistema contenuto nella parte di spazio geografico considerato. Tuttavia, dalla forma non si pu passare alla natura. Vi sono, ad esempio, dei caratteri geo-fisici che non sono forma ma sono fattori causali delle biocenosi. Certamente, i cambiamenti (nella forma) del paesaggio, soprattutto per quanto concerne i sistemi semi-naturali, hanno una connessione con lo stato e levoluzione dei sistemi biotici presenti in quello spazio geografico. Un campo in rotazione grano-erba medica che si rinaturalizza cambia non solo la sua forma e il suo valore estetico - ma anche la sua dimensione ecosistemica: appena inizia la transizione, mutano le specie che in quello spazio si riproducono e si autoorganizzano. In relazione alla dimensione ecosistemica del paesaggio, si deve considerare anche un altro fondamentale aspetto. Data la forma dello spazio geografico e dati i suoi caratteri geo-fisici generali (e la sua storia evolutiva), lo stato e levoluzione dei sistemi biotici in esso presenti sono influenzati anche dal flusso di materia/energia che per unit di tempo circola nello spazio di riferimento come conseguenza delle azioni economiche. La materia/energia estratta e immessa con riferimento alla sua quantit e alla sua qualit interferisce con il funzionamento degli ecosistemi (o dei processi biologici in genere). Tale interferenza pu restare al di sotto della soglia critica per le capacit di resilienza e resistenza degli ecosistemi, oppure determinare alterazioni irreversibili (Odum 1988). Ne consegue, quindi, che non si deve considerare soltanto il modo in cui il processo economico attraverso linvestimento cambia la forma del paesaggio, ma anche come il processo economico attraverso la manipolazione degli elementi flusso che avviene nel corso del processo di produzione trasforma (o pone sotto stress) la natura del paesaggio. Nellultimo decennio vi stato un radicale cambiamento nellinterpretazione del valore naturale (grado di naturalit) dello spazio geografico. Da uniniziale attenzione alla presenza (e stabilit) di determinate specie, conseguente al valo-

Il fatto che tale materia non sia utilizzata al momento dellosservazione non significa che non lo possa essere in futuro, come conseguenza di cambiamenti dei valori e/o della tecnologia prevalenti.

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In effetti, i processi biologici retroagiscono sul processo economico influenzando direttamente il metabolismo degli uomini (cfr. Commoner 1986).

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Spesso e, forse, per definizione le specie simboliche prosperano negli spazi geografici non antropizzati nelle aree di wilderness , e la loro conservazione garantita dal mantenere (relativamente) inaccessibili tali aree.

re simbolico (culturale) ad esse assegnato dalla collettivit, si passati ad attribuire un valore alla diversit biologica in quanto tale e, quindi, allobiettivo che in un dato spazio geografico tale diversit perlomeno si mantenga nel tempo. Ci ha determinato un mutamento nel concetto di conservazione della natura e ha modificato, accrescendola, la rilevanza della relazione tra azioni economiche e paesaggio11. Lo spostamento di attenzione sulla diversit biologica rende un prato-pascolo importante almeno quanto una foresta e la zona di ecotono che li separa pi importante di entrambi ai fini dellobiettivo della conservazione della natura. Linterpretazione dello spazio geografico presenta, dunque, una complessit che data dallintersezione tra dimensione formale e dimensione ecosistemica di tale spazio. Sono proprio le relazioni tra le due dimensioni a suggerire lutilizzazione di categorie interpretative che integrino i due livelli di analisi (e di intervento). Infatti, con riferimento ad un dato spazio geografico, lobiettivo della conservazione si esprime ad entrambi i livelli. Uno sguardo storico allevoluzione del concetto di conservazione evidenzia come le strategie di conservazione abbiano avuto come oggetto sia i caratteri ecosistemici che i caratteri formali del paesaggio. Tuttavia, ponendo laccento sul carattere della biodiversit, i due livelli di analisi possono essere logicamente trattati in modo separato. La biodiversit pu essere infatti mantenuta anche sullo sfondo di un processo di degenerazione delle forme. Viceversa, si pu distruggere una parte rilevante della biocenosi di un certo spazio geografico senza cambiarne la forma. Il grado di intersezione tra questi due livelli deve essere un importante argomento di scelta nellambito delle strategie di conservazione.

Agenti e paesaggio
Linterpretazione del paesaggio un processo complesso che pu essere condotto secondo unampia variet di criteri (vedi, ad esempio, Bell 1999; TricartKilian 1989). Qualsiasi sia la categoria utilizzata per concettualizzare il paesaggio, essa non il punto di partenza di una spiegazione del paesaggio e dei suoi cambiamenti. Infatti, bench il cambiamento si manifesti a livello di paesaggio, esso non ha origine a tale livello. Nel caso di paesaggi umani, i caratteri del paesaggio ad un dato momento nel tempo non costituiscono uninformazione sufficiente per ricostruirne la storia e per identificare le tendenze evolutive del paesaggio stesso - come invece avviene, in genere, per gli spazi geografici naturali (gli spazi geografici naturali possiedono una loro dinamica autonoma - implicita nel concetto di climax). Per gli spazi geografici artificiali e semi-naturali necessario partire dai caratteri del processo economico che in esso si svolge e dai mutamenti che in tale processo si manifestano nel tempo. Ma, i caratteri del processo economico (locale) dipendono dai caratteri del sistema (locale) che lo genera. A sua volta, lanalisi dellevoluzione dei sistemi locali - e degli effetti sul paesaggio di tale evoluzione - deve partire dallo studio del processo economico degli agenti individuali. Con riferimento al tema della conservazione, lunit di analisi fondamentale costituita dalla relazione tra agenti individuali e paesaggio al quale il loro processo economico ancorato attraverso la struttura dei diritti di propriet. Tuttavia, le

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transazioni verticali sono interconnesse tramite la tecnologia, i prezzi, le metapreferenze, la conoscenza e altri fattori ancora, alle transazioni orizzontali. Non si possono quindi analizzare le transazioni verticali le relazioni, cio, che costruiscono il paesaggio senza esaminare unitariamente il comportamento degli agenti. Un agente (o unit antropica minima) pu essere definito come ununit mente-corpo o mente-organizzazione capace di generare processi finalizzati al raggiungimento dei propri obiettivi (cfr. Bateson 1979). Pertanto, si pu descrivere ogni agente sulla base degli stati desiderati che realizza o intende realizzare per unit di tempo e per la tecnologia che utilizza per conseguire tali stati - compresi, quindi, la materia che trasforma nel processo di produzione e gli strumenti che utilizza per effettuare tale trasformazione. Nei sistemi sociali moderni, tale unit opera sulla base di un dato sistema di diritti di propriet individuali (e collettivi), il quale identifica il capitale e i flussi di materia/energia e informazione che essa pu utilizzare nel processo economico. In effetti, quando un agente svolge il processo economico in un contesto di interazione sociale, la scala e la struttura delle trasformazioni di materia/energia e informazione che effettua sono innanzitutto vincolate dal suo sistema di diritti di propriet (e poi, certamente, dalla sua conoscenza). I diritti di propriet pongono lagente in condizione di decidere che tipo di transazioni verticali (e orizzontali) stabilire sullo sfondo del sistema di norme formali pertinenti. I diritti di propriet identificano anche le unit territoriali (minime) alle quali ancorato il processo economico degli agenti - e nellambito delle quali si manifesta, in primo luogo, il cambiamento della scala e della tecnologia. In effetti, i diritti di propriet individuali e collettivi12 articolano lo spazio geografico per parti (unit territoriali minime) che sono lancoraggio delle transazioni verticali del processo economico. Lidentificazione tra diritti di propriet e unit territoriali minime un punto di partenza fondamentale per spiegare i caratteri che il paesaggio presenta in un dato momento. A questo scopo infatti necessario considerare, in termini di unit territoriali, il processo economico degli agenti che su quel territorio hanno esercitato un diritto di propriet nel periodo t-k. Per interpretare (e spiegare causalmente) i caratteri del paesaggio si deve quindi micro-fondare il paesaggio stesso, ovvero esprimerlo in termini del processo economico associato a quello spazio. Ma, poich lo spazio geografico viene articolato attraverso le categorie utilizzate per interpretarlo, da una prospettiva analitica (e operativa) ci che si deve micro-fondare sono le partizioni dello spazio (ad esempio, le unit di paesaggio o le unit ambientali) di volta in volta utilizzate per descriverlo. Si devono, cio, connettere le unit territoriali minime alle unit di paesaggio. Nel modificare attraverso il processo economico o attraverso cambiamenti del processo economico lunit spaziale che costituisce la base del processo economico stesso, lagente modifica, per definizione, il paesaggio. In primo luogo, modifica il suo paesaggio privato, quello sul quale si estendono i suoi diritti di propriet. Ma, di fatto, modifica anche il paesaggio sociale - cos come emerge dallinterpretazione individuale e collettiva. A livello di funzionalit formale del paesaggio vi sono soltanto beni sociali. Anche i paesaggi che sembrano avere un carattere eminentemente privato come linterno di unabitazione hanno

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I diritti di propriet collettivi possono appartenere allintera collettivit di riferimento (lo Stato, il comune, ecc.) oppure ad un sottoinsieme di essa (le comunanze). Questa seconda categoria di diritti di propriet collettivi stata per secoli molto rilevante sul piano pratico e costituisce una interessante via di uscita ai problemi posti dai beni comuni (Ostrom 1990). Nelle aree montane italiane, le comunanze hanno avuto in passato una grande rilevanza - e potrebbero tornare ad averla.

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comunque un carattere sociale. I diritti di propriet su una data unit spaziale implicano anche la possibilit dellinnovazione. Il sistema dei diritti di propriet garantisce allindividuo (e ad ogni altra organizzazione intermedia) la possibilit di introdurre delle innovazioni nelle transazioni verticali. In effetti, il sistema delle norme formali che in ogni societ orienta lazione degli individui lascia ampi margini allinnovazione individuale (cfr. Witt 1996). Innanzitutto, le norme formali nelle quali lazione incastonata sono spesso soltanto un contesto per la progettazione: allinterno di tale contesto linnovazione tecnologica e linnovazione nelle forme si possono esprimere liberamente (cfr. Gambino 1997). In secondo luogo, il sistema normativo non copre tutti gli ambiti dellazione umana: esistono, quindi, azioni potenziali per le quali non vi un contesto normativo di riferimento. Linnovazione nei processi economici degli agenti si manifesta in cambiamenti nelle unit territoriali minime. Ma, la relazione tra innovazione individuale e paesaggio (sociale) ha un carattere emergente e non riducibile alla somma delle relazioni tra innovazioni individuali e paesaggi minimi. Le innovazioni individuali, infatti, oltre ad avere effetti diretti generano effetti indiretti - e ritardati - sul paesaggio. Gli effetti indiretti sono dovuti alla propagazione e diffusione dellinnovazione iniziale. Propagandosi e diffondendosi, le innovazioni individuali modificano il processo economico di altri agenti e, a loro volta, modificano le corrispondenti unit di paesaggio. Per determinare le modificazioni del paesaggio da una prospettiva dinamica, lanalisi deve spostarsi dal singolo agente al sistema locale di cui lagente fa parte. Infatti, soltanto a livello di sistema locale emergono gli effetti globali dei cambiamenti individuali, i quali si manifestano come conseguenza di processi di propagazione e diffusione delle innovazioni individuali e collettive.

I sistemi locali come sistemi progressivi


Levoluzione del sistema locale ha origine dallinterazione tra gli effetti delle innovazioni dei singoli agenti. Una parte di queste innovazioni sono indotte dai cambiamenti dellambiente del sistema locale, costituito dai sistemi locali con i quali il sistema locale di riferimento mantiene relazioni orizzontali. Le interazioni tra gli agenti qualunque sia la loro natura: transazioni di materia/energia, scambio di informazione, interferenze hanno una dimensione locale. In effetti, linterazione sociale tende ad organizzarsi per sistemi locali, vale a dire per sistemi umani ancorati ad uno specifico e delimitato territorio. La citt la manifestazione pi evidente di questa tendenza. Ad una scala diversa lo anche un nucleo montano. Un sistema locale costituito da un insieme di agenti fra cui si stabilisce una corrispondenza tra contiguit spaziale dei loro processi economici e frequenza delle interazioni sociali. In esso, una parte significativa delle interdipendenze inscindibile dalla contiguit spaziale dei processi economici (e sociali in genere) dei singoli agenti13. Un sistema locale contiene, dunque, una rete di interdipendenze economiche (oltre che sociali). Tale rete struttura la diffusione e la propagazione in definitiva, gli effetti globali (emergenti) delle innovazioni individuali e collettive.

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Sul concetto di sistema locale cfr. Dematteis (1994, 1989).

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Sulla base di questa rete si diffondono e si propagano le innovazioni individuali nei processi economici, e linnovazione si trasforma in evoluzione del sistema locale. Linnovazione individuale e collettiva rende un sistema locale un sistema progressivo (vedi Waddington 1977): il sentiero evolutivo del sistema dipende dalle modalit di diffusione e propagazione dellinnovazione che, a loro volta, dipendono dalla rete di interdipendenze che caratterizza il sistema locale e delle sue relazioni con lambiente. In economia esistono due fondamentali coppie di categorie rispetto allanalisi del cambiamento (e, quindi, al significato del tempo) nei modelli interpretativi. La prima opposizione tra sistemi stazionari e sistemi dinamici; la seconda utilizzata in questo saggio - tra sistemi stazionari e sistemi progressivi. La prima dicotomia alla base della teoria della crescita economica standard; la seconda alla base della teoria dello sviluppo economico (o teoria dellevoluzione economica se si preferisce). Mentre i modelli dinamici in economia pongono lattenzione quasi esclusivamente sul cambiamento della scala del processo economico (e sullefficienza del capitale), i modelli di sistemi progressivi pongono lattenzione sui mutamenti della organizzazione dei sistemi che generano il processo economico (cfr. Boulding 1968; Dopfer 1991; Hirschman 1958). Un sistema progressivo pu mutare come conseguenza di cambiamenti che si manifestano in uno qualsiasi degli elementi che lo compongono e per effetto di sequenze causali orientate diversamente caso per caso (cfr. Boudon 1985; Dopfer 1991; Hirschman 1958; Morin 1993). Non solo la scala e la tecnologia del processo economico possono cambiare; cambiano anche i valori sui quali gli agenti individuali e collettivi basano la loro valutazione dei caratteri formali del paesaggio. Linnovazione individuale - che necessariamente si esprime anche in termini di cambiamento di paesaggio - dunque rilevante in s e per gli effetti emergenti che essa genera propagandosi o diffondendosi nel sistema. Dati la rete delle interdipendenze e il tempo necessario alla propagazione di ciascuna innovazione - e il fatto che ciascun agente potenzialmente un innovatore -, in ogni momento il sistema si muove sotto la spinta di sequenze causali diverse alcune delle quali dominanti che tengono il sistema costantemente lontano dalla stazionariet (Lindblom e Hirschman 1962). Lanalisi delle sequenze circolari di effetti causali (causalit circolare cumulativa) e delle sequenze lineari di effetti causali prodotti dagli interventi di regolazione sono fondamentali per interpretare levoluzione del comportamento degli agenti e del sistema locale nel suo complesso. Ma, tale analisi pu essere condotta soltanto assumendo un contesto relazionale spazialmente delimitato entro il quale ricostruire le reti di sequenze di effetti causali -, costituito, appunto, dal sistema locale di riferimento.

Conclusioni
Le nostre economie sono economie di paesaggi: processi economici che si alimentano e si basano sulla materia che viene organizzata dallazione umana sia in senso tecnologico che culturale e che si cristallizzano in elementi fondo.

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Lazione umana non pensabile senza un paesaggio precedentemente costruito dallazione umana stessa. La territorializzazione ovvero, la collocazione nello spazio (geografico) degli elementi fondo un atto fondante, per ogni Robinson Crusoe e per ogni comunit. Lenfasi sulla sola funzionalit tecnica degli strumenti che utilizziamo per produrre e autoprodurre un ostacolo alla comprensione dei processi di accumulazione del capitale e dei processi di costruzione del paesaggio. La tesi secondo cui la territorializzazione si produca e si riproduca sulla base di un calcolo economico ristretto il residuo di una concezione meccanicistica della vita sociale, priva di ogni fondamento. Si tratta di una tesi che di ostacolo alla comprensione dei meccanismi di funzionamento delle societ e delle loro economie e che, per questo, deve essere abbandonata. Lequilibrio tra scelte private e scelte collettive nella sfera della funzionalit formale del capitale e, quindi, i vincoli e le possibilit da assegnare alle decisioni di accumulazione del capitale un tema centrale in tutte le societ antiche e moderne. La centralit del tema, naturalmente, un riflesso dellequilibrio che gli individui ricercano tra funzionalit formale e funzionalit tecnica del capitale (paesaggio) che pongono alla base dei loro processi economici. Che in molte economie moderne questo equilibrio si sia infranto un dato evidente alle stesse societ prima che allanalista (in Italia lequilibrio ha iniziato ad infrangersi a partire dagli anni Cinquanta con una rapidit stupefacente). Ora che il tema assume un rilievo nei processi di decisione collettiva, leconomia e le altre discipline sociali dovrebbero dedicare lattenzione dovuta alla relazione tra capitale e paesaggio. Lattenzione oggi posta sul tema dello sviluppo locale costringe ad ancorare ad uno specifico territorio ad uneconomia e ad una cultura la relazione tra funzionalit tecnologica e funzionalit culturale del capitale-paesaggio. Ma i sistemi locali sono diversi anche in questo, ovvero nel grado di consapevolezza che essi hanno della relazione tra dimensione tecnologica e dimensione culturale del loro paesaggio e dellimportanza che ad essa attribuiscono.

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_________________ Antonio Calafati dell Universit degli Studi di Ancona - Dipartimento di Economia - http://calafati.econ.unian.it attualmente presso: Max Planck Institute for Research Into Economic Systems, Jena (Germany) http://www.mpiew-jena-mpg.de) Calafati@deanovell.unian.it

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Societ e territorio, al plurale. Lo spazio pubblico quale bene pubblico - come esito eventuale dellinterazione sociale
Viaggiando tra le costellazioni del sapere

I. INTRODUZIONE: COSA C NEL TITOLO (E NELLE NOTE CHE SEGUONO).


Il tema che mi propongo di trattare, lo spazio pubblico. Il punto di partenza una critica della nozione urbanistica di spazio pubblico, che diffusa tra tecnici, politici e amministratori locali (e che per questa via diventata di senso comune). Per essa, pubblico - sostanzialmente uno spazio per luso collettivo (in opposizione a privato) che - proprio perch luso non ne presuppone lappropriazione individualistica da parte di chi lo usa (com per lo spazio privato) - si considera destinato (e predisposto) alluso collettivo da una qualche autorit pubblica. questa duplice connotazione pubblica, che rende attaccabile la nozione urbanistica di spazio pubblico. Su un doppio versante: da un lato, quello del rapporto tra territorio e societ; dallaltro, quello del rapporto tra societ e Stato. La connessione territorio/societ/Stato stata esplorata - spesso per parti, a volte con qualche significativa convergenza - da studiosi con tradizioni disciplinari differenti. Due paradigmi - luno relativo alla forma del rapporto tra territorio e societ, laltro, alla forma del rapporto tra societ e Stato - possono essere considerati indicativi della convergenza di approcci disciplinari diversi, in unottica di politiche pubbliche del territorio. Il primo paradigma - che qui chiamo della domanda politica - riguarda il rapporto tra societ e Stato, assumendo (con riferimento pi generale alle politiche di welfare) che la societ deve attendersi dallintervento dello Stato la definizione, il trattamento e la soddisfazione di quelle tra le sue esigenze (rappresentate allo Stato, appunto, nella forma di domande) che il sistema politico (che organizza e media queste rappresentazioni) riconosce, in un qualche modo, di pubblico interesse. Questo paradigma afferma dunque la dipendenza della societ dallo Stato (che riduce la societ, a domanda sociale) (Crosta 1984), escludendo che la societ possa attivarsi, in un qualche modo, per trattare da s, i propri

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Societ e territorio, al plurale.

problemi. Pi precisamente, il paradigma caratterizzato dalla convinzione che sia scorretto attribuire la soluzione di problemi collettivamente percepiti alla diretta interazione fra individui (Dunn 1981 citato da Giuliani 1996, 321). La posizione espressa da questo paradigma stata messa in crisi, inizialmente, argomentando la crisi di legittimazione (Habermas 1979) dello Stato (e del sistema politico) ad agire in nome e per conto dellintera societ. In discussione, quindi, il ruolo dello Stato nella definizione e nella gestione dellinteresse generale (pubblico) e non la problematicit della pretesa (comunque avanzata) di definire in termini unitari o unificabili, linteresse generale dellintera societ (di qui, la proposta e la sperimentazione di forme pi partecipate - meno autoritarie - di costruzione dellinteresse generale, con lobbiettivo di restituire efficienza allintervento dello Stato che - comunque - vede e provvede in relazione ai bisogni dellintera societ). Non riducibile ad una crisi - in definitiva - di efficienza, quella che investe il rapporto tra Stato e societ delle differenze: che se si vuole caratterizzata dalla pluralizzazione dei mondi vitali (e dal) pluralismo di tutte le forme organizzative e istituzionali entro cui gli individui vivono (Donolo 1992, 121). E nella quale, di conseguenza, centrale il problema della pluralizzazione della nozione di pubblico, che mi sembra opportuno affrontare (cos sostengo pi avanti in queste note) nella prospettiva della Selfguiding society (Lindblom l990). Centrale in questa prospettiva, lipotesi che la societ provveda da s per s al trattamento dei propri problemi, nella misura in cui essa stessa li percepisca come pubblici. Il secondo paradigma che mi propongo di discutere, quello delluso del territorio, che in sostanza sostiene che il territorio, luso che se ne fa. Questo paradigma (nelle sue diverse varianti: fondamentale quella delluso capitalistico del territorio) (Preteceille 1974; Calabi e Indovina 1973) si propone autorevolmente come base dellorientamento pratico che considera il territorio in funzione dellintervento di trasformazione del territorio. Si tratta di un approccio non-naturalistico: il territorio non considerato un dato (fisico-geografico) che possa essere descritto indipendentemente dalluso che se ne fa (e che se ne vuol fare); bens viene considerato un costrutto - un prodotto sociale (Lefebvre 1974) -. linsieme delle relazioni duso, e delle regole (che sono sociali, economiche socialmente definite) che orientano, finalizzano, danno senso e governano tali relazioni, e che sono incorporate nel territorio quale si presenta allosservazione empirica - il territorio un dispositivo, ricorrendo ad un termine introdotto da Foucault (1994) -. Ci che mi sembra da ritenere - riconsiderando questo paradigma (Soja 1985) lassunto, in definitiva funzionalista, della produzione sociale dello spazio, se per considerato nella sua dimensione strategica. Detto altrimenti, se le relazioni e le regole duso vengono riguardate come prodotto di pratiche sociali storiche: cio, prodotte, riprodotte, cambiate e continuamente risignificate nel corso del tempo, nei processi dinterazione sociale. E non sono viste come espressione di logiche e principi astratti, rispondenti a logiche la cui determinazione tipicamente posta fuori dalla portata dei soggetti delle pratiche sociali, ridotti al ruolo di agenti supporto di relazioni che li trascendono ( questa la logica - nel paradigma delluso capitalistico del territorio - dei rapporti di produzio-

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ne). Una tale connotazione astratta del paradigma, trova riscontro in una concezione inevitabilmente unitarista - al singolare - del territorio come prodotto sociale: mentre in una societ delle differenze (sostengo ulteriormente in queste note) non solo sono differenti gli usi, ma sono anche diverse e molteplici le logiche duso, che non sono unificabili (in alcun modo, e da parte di alcuno) ma solo parzialmente e temporaneamente - ed eventualmente - ricomponibili attraverso processi dinterazione sociale che costruiscono e trattano una pluralit di territori. In una societ al plurale, in cui la diversit viene a rappresentare il momento centrale per la definizione di ci che pubblico (e si hanno, di conseguenza, pi definizioni di pubblico) anche la nozione di territorio va pluralizzata: considerando i molteplici territori costruiti dalle diverse pratiche duso. A questo fine, mi sembra, per cominciare, opportuno abbandonare lidea che sia la stanzialit la condizione fondamentale perch si possa parlare di uso del territorio. E considerare - invece - il ruolo delle diverse pratiche di mobilit nella costruzione di territori di circolazione (Tarrius 1993) intesi come insiemi (costellazioni) di spazi i cui tempi duso - di varia durata, misurata nellarco della giornata, della settimana, del mese, dellanno, dellesistenza - sono differenti per i diversi soggetti sociali che vi transitano, con cadenze diverse. E sono fattori quali la frequenza, la durata, il tipo di occasione dei passaggi - insieme con le modalit degli spostamenti, e pi che le caratteristiche delle attrezzature e infrastrutture di cui sono dotati i luoghi che costituiscono le tappe degli spostamenti - a conferire senso alluso del territorio, in modo diverso per le diverse popolazioni mobili. Sono, in definitiva, il tempo e le condizioni di compresenza in uno stesso luogo, assai pi che i caratteri intrinseci del luogo, i fattori rilevanti nel determinare la qualit dellinterazione duso. E sono questi i fattori che sono maggiormente influenzabili dal comportamento delle popolazioni utenti, e comunque sono quelli che rinviano pi direttamente alla loro eventuale diversit. evidente che questa descrizione si adatta particolarmente bene agli spazi pubblici: che perci vengono proposti come caso di studio del ragionamento sviluppato in queste note. Cosa fa di un luogo - ricapitolando - uno spazio pubblico? E in che senso un costrutto dellinterazione sociale? E perch il processo dinterazione sociale che lo costruisce, pu essere riguardato come processo di politiche? Pubblico non lo spazio stabilmente destinato alluso collettivo. riduttivo considerare pubblico uno spazio utilizzato in-comune. Luso in-comune (anche quando si tratti di pi usi diversi) non fa lo spazio pubblico. Il carattere pubblico non inerisce ad un luogo - detto altrimenti - solo che vi si svolgano (o venga destinato) ad attivit collettive. Bens, risulta pubblico uno spazio in quanto costruito dallinterazione sociale, a certe condizioni: un costrutto sociale non necessario, eventuale. Quali sono le condizioni? Essenzialmente, uno spazio non diventa pubblico solo per effetto di unazione intenzionale (non diventa, cio, pubblico per progetto o per decreto). Anzi, pi spesso costituisce il sottoprodotto di pratiche sociali finalizzate ad altro - e qualche volta rappresenta lesito di comportamenti autointeressati -. Il carattere pubblico viene conferito ad un luogo se e quando tutti coloro che vi si trovano ad interagire in una situazione di compresenza, utilizzandolo in

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modi diversi e con motivazioni differenti (e non condivise: la compresenza pu essere - e in genere lo - caratterizzata da tensioni e da conflitti), apprendono, attraverso lesperienza concreta della diversit (di cui provano i problemi), la compresenza in termini di convivenza. E attraverso questo processo di apprendimento, si fanno pubblico. Il processo dinterazione sociale in una situazione di compresenza, allora un processo nel quale (e attraverso il quale) popolazioni diverse costruiscono uno spazio pubblico e si costituiscono in Pubblico (Dewey 1927, 1954). In questo senso, un processo politico, ma anche di politiche - in ci che produce beni pubblici -. Lo spazio pubblico - a questo punto - diventa una metafora della citt: della citt come bene pubblico (Ferraro 1990). E la costruzione dello spazio pubblico, proprio perch di esito eventuale (e perci politica), pu in conclusione essere riguardata come caso (studio) di produzione di effetti di governo per via dinterazione sociale - come caso, quindi, di governance -. Attribuendo a questo termine il significato (che quello pi interessante per orientare la ricerca sui processi della societ delle differenze) che rinvia contemporaneamente alle condizioni e allesito di molteplici interazioni tra differenti pratiche (e i loro effetti) di regolazione sociale (attivit istituzionali e non, intenzionali e non) e gli effetti di regolazione prodotti da pratiche che non si propongono obiettivi di regolazione, ma che per il fatto stesso di interagire tra loro in ambiti spazio-temporali determinati, si scambiano mutuamente limitazioni, vincoli e opportunit.

II. ANNOTAZIONI
Le note che seguono, hanno essenzialmente il carattere di annotazioni ad alcuni dei punti trattati nellintroduzione, con le quali intendo rendere conto, precisare e qualche volta approfondire quei contributi (in parte gi riferiti nei rinvii bibliografici) che mi sono stati di stimolo e di aiuto nellelaborazione della linea di ragionamento presentata nellintroduzione.

Oltre la domanda politica. Qual linterrogativo: chi vs cos pubblico?


Lo schema o modello della domanda politica, tende a trattare il rapporto tra Stato e societ, dalla parte dello Stato. Innanzitutto, viene definita domanda politica qualsiasi richiesta di provvedimenti pubblici, cio vincolanti per lintera collettivit; da chiunque e in qualsiasi modo essa venga formulata. (Pizzorno 1980, 15). Con laggiunta che la domanda politica non funzione dei bisogni in genere di una data societ, bens soltanto di quei bisogni che possono venire soddisfatti da provvedimenti pubblici (Pizzorno 1980, 20). Coerentemente, lattenzione viene quindi concentrata sulla trasmissione della domanda politica: Le strutture (le organizzazioni, le associazioni, i gruppi vari, ecc.) che trasmettono la domanda politica possono essere diverse; i partiti non sono i soli. E diverse possono essere le loro relazioni reciproche. Oltre ai partiti, altre strutture per mezzo delle quali le forze sociali fanno conoscere i loro bisogni e premono affinch vengano soddisfatti, sono i gruppi dinteresse o di pres-

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sione. Ma anche la stampa; gli organismi tecnici e di studio e ricerca, indipendenti o variamente collegati con la pubblica amministrazione; la pubblica amministrazione, nella misura in cui opera come canale di trasmissione di domande che vengono presentate in questo o quellufficio; o i vari settori della pubblica amministrazione come presentatori delle proprie domande corporative; e cos via (Pizzorno 1980, 23). Blumer (1971) presenta uno schema per analizzare i processi di definizione collettiva dei problemi, come processi dinterazione tra queste strutture. Gli interrogativi sollevati riguardano, di conseguenza, la rappresentativit degli attori - cos definiti - del sistema politico, e il carattere selettivo e mediatorio (e la funzione canalizzatrice) dei canali di trasmissione della domanda politica, allo Stato. Forse perch il riferimento per queste attivit di costruzione della domanda politica, linteresse generale - il bene pubblico - (anche quando, realisticamente, si dichiara che esso indefinibile ovvero impraticabile) definito al singolare, non viene considerato il caso che dallinterno della societ sia possibile attivarsi e produrre beni pubblici (al plurale), direttamente o non, senza farne domanda allo Stato, passando attraverso il sistema politico. in questo quadro che si spiega la persistenza dellidea che il carattere pubblico derivi alle politiche (per fare un esempio che non un esempio qualsiasi) essenzialmente dal fatto che sono inevitabilmente pubblici i soggetti che ne sono gli autori: per cui per politiche non si pu che intendere lazione dello Stato (lattributo pubblico pleonastico). Questidea da qualche tempo fatta oggetto di (caute) contestazioni. Dunn (1981) offre la seguente definizione: Una politica pubblica perch essa rivolta a dirimere problemi collettivamente percepiti, e per i quali, in un dato contesto spazio-temporale, si ritiene corretto attribuirne la soluzione alla mano visibile piuttosto che alla diretta interazione fra individui (cit. - con approvazione - da M. Giuliani 1996, 321). Ma lo stesso autore scrive anche che (U)na politica pubblica linsieme delle azioni compiute da un insieme di soggetti (gli attori), che siano in un qualche modo correlate alla soluzione di un problema collettivo, e cio un bisogno, unopportunit o una domanda insoddisfatta, che sia generalmente considerato di interesse pubblico (Dunn 1981). Dente (1990) - che riporta questa seconda citazione - commenta: importante sottolineare come questa definizione non dica alcune cose: non dice, ad esempio, che i soggetti che agiscono devono essere tutti pubblici, anche se un po improbabile che tra coloro che agiscono in relazione a problemi percepiti come collettivi non vi siano anche attori dotati di legittimazione di tipo politico-amministrativo (Dente 1990, 15) anche il caso di sottolineare come il commento di Dente problematizzi il carattere pubblico/privato degli attori, e non il carattere di pubblico interesse del problema definito come collettivo (dove ha origine questo carattere pubblico?). Per la naturale inclinazione a problematizzare il modello della domanda politica, dalla parte dellattore, le critiche a questo modello tendono per lo pi ad argomentare la necessit/opportunit di realizzare forme di partecipazione allargata ai processi decisionali e attuativi delle politiche, quali la partnership pubblico/privato (Bagnasco e Le Gals 1997) ovvero riconoscendo il fatto che sog-

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getti privati si dimostrano capaci di farsi promotori dellinteresse pubblico (Schmitter e Streeck 1985). Giustamente Rusconi (1991) mette in evidenza il rischio che linteresse generale venga definito nei termini riduttivi dellinteresse congiunto degli attori che riescono a partecipare (o vengono fatti partecipare). E il tema del consenso - coniugato con quello della partecipazione - viene posto al centro dellattenzione (e delle preoccupazioni sollevate dal dibattito tra esperti e addetti ai lavori). Il caso del terzo settore come terzo attore, un caso a parte. Ota de Leonardis (1998) ne offre una discussione che con grande chiarezza sinterroga sulle potenzialit e i limiti del fai-da-te sociale, sollevando - finalmente - la questione dello statuto pubblico dei beni trattati dal mercato sociale. Il mercato sociale un fenomeno emergente, per nulla univoco, attivato da intenzioni e interessi eterogenei, attraversato da incoerenze e contraddizioni e aperto a sviluppi molto diversi. Laccento posto sulla tendenziale sostituzione del welfare state, che presuppone mediazione amministrativa e responsabilit pubblica nella riproduzione sociale, con relazioni di scambio tra domanda e offerta di beni sociali, che presuppongono invece capacit di autoregolazione della societ (de Leonardis 1998, 8). Qual il significato da dare allaggettivo sociale? Anzitutto, laggettivo pu significare una sottolineatura del carattere sociale del mercato come tale: si tratta comunque di relazioni sociali, di una forma di organizzazione sociale In secondo luogo il mercato sociale in quanto campo di azione e di organizzazione autonoma della societ stessa, nella sua dignit di societ civile: dove gli attori sono sociali (non riduttivamente economici) e la materia che vi si tratta, che viene manipolata, trasformata, plasmata e in definitiva costruita, la societ stessa. O - si potrebbe dire - in questa accezione il mercato sociale quando la societ civile quanto basta da impegnarsi nella sua propria riproduzione e costruzione, con le libert e le responsabilit che questo comporta (de Leonardis 1998, 11). Ai due significati, corrispondono due prospettive radicalmente diverse (il sociale come mezzo vs il sociale come fine). Di qui la questione fondamentale: La crescita di un mercato sociale nel campo dei servizi e delle politiche sociali solleva una questione pubblica: a quali condizioni i beni che vi si trattano mantengono lo statuto di beni comuni? (de Leonardis 1998, 17). A partire dalla constatazione che (La) dimensione pubblica delle questioni in gioco tende ad essere ridotta alla presenza di dispositivi pubblico-statuali di regolazione necessari al funzionamento del mercato sociale, come del resto di ogni mercato (de Leonardis 1998, 18). Ota de Leonardis sottolinea con forza la preoccupazione che nel mercato sociale si alimentino e si legittimino culture del privatismo, cio (q)uando il fai-da-te del volontariato tende a trattare ogni mediazione istituzionale come un fastidio oppure opportunisticamente come uno strumento per i fini della propria organizzazione, quando le relazioni sociali su beni e problemi collettivi vengono ridotte a transazioni su beni e preferenze private. Anche la solidariet pu diventare il sostituto privatistico della corresponsabilit verso la cosa pubblica e il moltiplicatore dellenfasi sulla dimensione solo personale dei temi, dei soggetti e delle relazioni (de Leonardis 1998, 19).

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La costruzione del pubblico e la costituzione del Pubblico


La famiglia di approcci che riguarda i processi duso del territorio, anche come - al tempo stesso - processi di costruzione sociale dello spazio, ripropone linterrogativo se i processi in questione ammettono un soggetto, e, nel caso affermativo, come si forma un attore collettivo (ci che stato considerato un dato, precisamente quanto si tratta di spiegare). Nella tradizione, ci si trova davanti a una duplice linea di spiegazione (Melucci l990). Da una parte si ragiona in termini di unazione senza attore, cio di comportamenti il cui carattere collettivo dipende dalla coincidenza di circostanze spazio-temporali. Dallaltra parte, la tradizione del marxismo ragiona in termini di un attore senza azione, considera i comportamenti derivati da una condizione strutturale. La tradizione del dualismo strutture/intenzioni, pu essere superata pensando lazione sociale come un costrutto interattivo, attraverso la quale lattore stesso si costruisce. In questottica, linterrogativo cos pubblico, e come si produce, diventa tuttuno con linterrogativo chi pubblico, e come si forma. E la risposta che il pubblico - come soggetto - si costituisce nel processo stesso - interattivo - che produce il bene pubblico. Affronta il problema della formazione del pubblico Dewey quando discute del pubblico e i suoi problemi (Dewey 1971). La prospettiva di Dewey quella comunitaria. Qui, per, interessa solo riprendere lipotesi che Dewey avanza per rispondere alla domanda come si forma il Pubblico. Con le sue parole: Lazione congiunta, combinata, associata ... produce dei risultati. Alcuni risultati, sono oggetto di percezione, ossia si possono osservare in maniera tale che possibile poi tenerne conto. Sorgono quindi propositi, piani, provvedimenti e mezzi, per ottenere conseguenze gradite ed eliminare quelle che si ritengono nocive. La percezione genera quindi un comune interesse; ossia chi subisce linfluenza delle conseguenze sinteressa necessariamente al modo di comportarsi di tutti coloro i quali, unendo la loro opera alla sua, contribuiscono anchessi a determinare i risultati. A volte le conseguenze sono limitate a chi partecipa direttamente alla transazione che le produce, mentre, in altri casi, esse si estendono ben oltre chi ha direttamente contribuito a determinarle. Vengono cos ad esistere due specie dinteressi e di misure per regolare gli atti in previsione delle loro conseguenze: nella prima specie, linteresse e il controllo non vanno oltre chi direttamente impegnato; nella seconda, invece, essi si estendono anche a chi non partecipa direttamente allesecuzione degli atti. In questultimo caso, se si vuole che linteresse determinato dallinfluenza di questi atti abbia un peso pratico, deve necessariamente verificarsi un controllo, anche indiretto, sulle azioni che li determinano Chi subisce in misura apprezzabile lindiretta influenza, benefica o nociva, di un atto, forma un gruppo sufficientemente specifico del quale occorre riconoscere lesistenza e al quale conviene dare un nome. Il nome che abbiamo scelto : il Pubblico (Dewey 1971, 25-6). Con riferimento al testo citato, mi sembra possibile mettere in evidenza alcuni elementi del processo di formazione del Pubblico. Innanzitutto, abbiamo a che

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fare con una serie di processi che danno luogo alla formazione di molteplici Pubblici. Ciascuno di questi si costituisce sulla base della percezione che qualcosa fa problema, e, insieme, sulla base del proposito di fare qualcosa, in ordine a quel problema. Ci che risulta condiviso, la situazione avvertita come problematica dagli attori, ciascuno dal proprio punto di vista, che diverso da quello degli altri - non richiedendo i diversi punti di vista di essere unificati affinch si determini la volont di mobilitarsi per far fronte alla situazione problematica . Rispetto alla connessione conoscenza/decisione, che caratterizza lapproccio alle politiche incentrato sulla formazione del consenso come prerequisito per lazione congiunta degli attori, qui la connessione decisiva piuttosto quella tra percezione e volizione (riferita ad ogni singolo attore e comune ma non incomune a tutti gli attori) (Lindblom 1990). Se ne potrebbe concludere che se c intesa tra gli attori, questa non si basa sulla condivisione di intenzioni, bens sulla previa o contestuale esperienza che gli attori hanno, di una cooperazione, che Pellizzoni (1998) chiama extrapolitica (non deliberata ma neppure negoziata), alla gestione concreta dei problemi. Cosa intende Pellizzoni per cooperazione extrapolitica? Pellizzoni fa riferimento al gi citato testo di Dewey (1927) del quale riprende laffermazione che con lattivit politica la societ tenta sperimentalmente di elaborare e risolvere i problemi sociali, nel momento in cui la loro portata supera lambito dei diretti partecipanti allinterazione (La considerazione di base che) la probabilit di risolvere efficacemente un problema aumenta con lincremento della cooperazione tra i partecipanti. Ma per Dewey il fondamento della cooperazione non sta nella dimensione politica, nella prassi di una sfera pubblica in cui i cittadini si confrontano liberamente e autonomamente, bens nellazione congiunta di risorse individuali in risposta ad un problema. Lesperienza dellintersoggettivit, della cooperazione, deve cio realizzarsi prima e al di fuori della politica: la motivazione individuale verso il bene collettivo si determina nei limiti in cui ciascuno vede la propria attivit come un contributo ad un processo cooperativo. Lorientamento allintesa politica si basa sullesperienza condivisa di una partecipazione alla soluzione dei problemi. Per aver interesse ad impegnarsi attivamente nella sfera pubblica, il cittadino deve gi avere qualcosa in comune con gli altri: deve aver sperimentato che il contributo che egli pu dare alla cooperazione sociale socialmente riconosciuto. La cooperazione prepolitica, si fonda sulla condivisione di valori: il valore della cooperazione e del contributo individuale ad essa, e quindi il valore dellindividuo e della sua realizzazione personale nello scambio intersoggettivo (n)on vanno visti, per, come valori originariamente politici, bens come valori sociali. La virt civica, la cooperazione politica, si sviluppa dunque non tanto per spinta interna, ma attraverso iniziative volte a favorire e incentivare la cooperazione nella divisione del lavoro (Pellizzoni 1998, 609-610). A questo punto Pellizzoni si ripropone linterrogativo: Ma se la ragione plurale, possibile la cooperazione tra soggetti che hanno punti di vista completamente diversi sul mondo? In altre parole: quandanche il contesto sociale sia favorevole, com possibile lintesa tra soggetti i cui valori e descrizioni dei fatti sono totalmente incommensurabili? Se ragione plurale significa totale relativismo, completa incomunicabilit delle culture, tra le parti in conflitto evidente-

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mente possibile solo un accordo strategico. Lintesa si basa sulla possibilit di stabilire un terreno comune tra ragioni che rimangono distinte. possibile questo? (Pellizzoni 1998, 610-611). La risposta di Pellizzoni che questo possibile, solo se viene adottato un nuovo approccio alla democrazia deliberativa, che non va vista come un processo esclusivamente politico, in quanto si basa su una cooperazione prepolitica alla soluzione dei problemi. La deliberazione, poi, non si prefigge necessariamente lintesa sulle ragioni che portano a preferire una data soluzione, ma su una soluzione accettabile per ragioni che possono restare differenti (Pellizzoni 1998, 612). E ribadisce: Lintesa pu basarsi solo sulla previa o contestuale esperienza di una cooperazione (extrapolitica) alla gestione concreta dei problemi (Pellizzoni 1998, 613). In conclusione, fondamenti prepolitici della virt civica, da un lato, dallaltro pluralit e commensurabilit empirica e contestuale della ragione, rappresentano le basi sociali e cognitive dellinterazione non strategica (non basata, cio, sullaggregazione di preferenze e la negoziazione tra interessi in conflitto). Dei fondamenti prepolitici della virt civica, s gi riferito sopra. Resta da chiarire cosa Pellizzoni intende per commensurabilit empirica e contestuale. Con le sue parole: Si tratta di una commensurabilit basata sulla constatata analogia di porzioni di esperienza, a sua volta riconducibile al fatto che la realt non manipolabile a piacere, anche se pu essere conosciuta solo attraverso gli schemi che utilizziamo. Essa deriva, per esempio, dalla constatazione empirica della condivisione interculturale di assunzioni sulla relazione tra congruenza e successo nel risolvere un problema. Ci permette sia lavvio di uninterazione non strategica (che parte appunto dalla descrizione approssimata di qualcosa come problema comune), sia lintesa successiva su una qualche soluzione pratica. La differenza che passa tra commensurabilit assoluta e commensurabilit empirica richiama quella, suggerita da Walzer (1991), tra covering-law universalism e reiterative universalism Nel primo caso i principi e le conoscenze valide sono unici e uguali per tutti: si tratta di precisarli e farli trionfare sulle assunzioni false e ingannevoli. Nel secondo caso ci sono principi e conoscenze distinte, ciascuna delle quali ha una sua validit. I tratti comuni che se ne possono ricavare configurano una generalit di tipo diverso rispetto allaltro caso: essi sono appresi con lesperienza e si qualificano per le loro differenze, per la variet dei modi in cui sono in grado di aderire alla situazione. C quindi un livello empirico, contestuale, dove lincommensurabilit fra quadri cognitivi e di valore non totale (Pellizzoni 1998, 612).

La mobilit e la pluralizzazione del concetto di mobilit


La mobilit viene concettualizzata e studiata in diversi modi, in relazione al tipo di disponibilit dei dati, e al tipo di utilizzazione che si prevede di fare delle elaborazioni che se ne fanno, per specifiche politiche dintervento. Esiste una relazione dinterdipendenza a circolo vizioso tra questi tre elementi: formato delle analisi sulla mobilit, disponibilit dei dati, obiettivi delle politiche.

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Martinotti (1973) ha costruito una tipologia dei movimenti di popolazione, distinguendo: i tipi di confine attraversato (nessuno/interno/di Stato); la periodicit dei movimenti (ricorrenti/non ricorrenti: occasionali e permanenti); e tipo di fonte dei dati (ricerche specifiche, fonti amministrative, indagini statistiche, repertori). Marc Wiel (1999) mette in evidenza le implicazioni della pluralizzazione del concetto di mobilit. Il passaggio dal trattamento di singoli eventi di mobilit, al trattamento di mobilit multiobiettivo. I primi sono quelli classificati in base alle caratteristiche degli individui che si spostano (et, reddito, attivit/inattivit, luogo di residenza, mezzo di trasporto) messe in relazione con i motivi dello spostamento, le caratteristiche dellambiente urbano in cui si muovono, la frequenza e la durata degli spostamenti. Le mobilit multiobiettivo - o peregrinazioni - sono quelle che prevedono lungo un tragitto (es.: casa/lavoro), delle tappe diverse (scuola o asilo, acquisti ). Eva Lelivre (1999) discute le ragioni di un passaggio ulteriore, consistente nella considerazione di concatenazioni non pi delle diverse mobilit di uno stesso individuo (che se viene fatta lanalisi dei diversi luoghi con i quali un individuo entra in rapporto, consente di arrivare a ricostruirne lo spazio di vita), bens delle concatenazioni tra traiettorie interdipendenti di pi individui. Questo legame viene definito come entourage (tra menage e famiglia). Il concetto di spazio di vita segna labbandono della nozione di spazio come serie di luoghi corrispondenti a funzioni piuttosto che a persone, e ladozione del concetto di spazio strutturato da una serie di relazioni. La Lelivre sottolinea come lulteriore considerazione delle interazioni che si sviluppano, nellarco dellintera esistenza, tra i membri dellentourage, tenendo conto di tutto ci che viene messo in gioco dalle scelte individuali di ciascuno di essi, rappresenta, concettualmente, unestensione della nozione di spazio di vita. Il problema analitico rimane lo stesso: tuttavia, lanalisi delle interazioni non solo allinterno di ogni traiettoria, ma tra traiettorie interdipendenti, pone problemi di formalizzazione alquanto complessi (implicati dal passaggio dallo studio di biografie individuali, allo studio di biografie di un gruppo di individui). Il passaggio dallindividuo allentourage comporta non gi di considerare, allinterno di uno stesso modello, le caratteristiche dellunit cui vengono fatti appartenere gli individui (quartiere, impresa, citt); bens di seguire nella sua dinamica longitudinale un gruppo la cui traiettoria strutturata dai percorsi interattivi di ciascuno dei membri del gruppo. appena il caso di accennare qui al contributo che, allavanzamento teorico metodologico di questo ragionamento, possono portare le elaborazioni dei timegeographers (Pred 1986; Thrift 1996) a partire dal concetto di regionalizzazione proposto da Giddens (l990), riguardante lorganizzazione nello spazio di pratiche sociali routinizzate.

La pluralizzazione del concetto di territorio. I territori di circolazione


Territori di circolazione (territoires circulatoires) una locuzione introdotta da

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Alain Tarrius (1993) nel dibattito sui limiti della cultura del territorio e delle logiche del luogo, con particolare riguardo alla critica dellorientamento che tende ad identificare il sociale a partire dalle sue sole localizzazioni territoriali. Tarrius sinterroga innanzitutto sulle implicazioni della scelta di utilizzare il termine immigrato invece del termine migrante. in quanto immigrato (cio, in quanto prende posto in qualche luogo, vi si localizza, sedentarizzandosi) che il migrante pone, a s e agli altri, problemi di inserimento e/o di integrazione. Vi dunque un nesso tra le due coppie di attributi: mobilit/sedentariet, e identit/alterit. Il presupposto che lidentit viene considerata lespressione di numerose modalit di appropriazione del territorio, dai confini del vicinato a quelli dello Stato-nazione. Tarrius si propone di ripensare il rapporto migrazione/territorio, riguardando alla citt non come luogo della sedentariet, ma come incrocio delle mobilit. Le mobilit non sono solo quelle spaziali: per Tarrius vi sono livelli di mobilit riferibili allo spazio (larea del vicinato, quella urbana e peri-urbana, quella internazionale) e livelli di mobilit riferibili al tempo (i ritmi della quotidianit, del corso della vita individuale, della successione di generazioni) e tutte queste dimensioni della mobilit vanno coniugate tra loro. Ci facendo, mette in evidenza due diverse modalit della costruzione sociale della citt: la modalit della giustapposizione spaziale, per cui le posizioni e gli spostamenti vengono considerati come misura dei rapporti sociali; e la modalit della sovrapposizione, per cui i luoghi frequentati, abitati, attraversati sono considerati come elementi di vasti insiemi territoriali che sono il supporto delle reti di relazioni sociali, e il riferimento delle diaspore. Sono questi i territori di circolazione: prodotto della memoria collettiva e di pratiche sociali di scambio sempre pi estese, dove valori etici, ed economici specifici creano una cultura e fanno la differenza rispetto alle popolazioni sedentarie. Questi territori sono trasversali - dice Tarrius - rispetto ai confini concentrici imposti dalla visione modernista della pianificazione urbanistica (fatta di centralit, cinture urbane, circonvallazioni, radiali, barriere residenziali ). Questi territori individuano la metropoli invisibile. Di diverso tipo, ma convergenti sono le considerazioni che Guido Martinotti (1993) propone per contribuire a spiegare perch mentre le grandi citt appaiono in declino - se viste con locchio della statistica tradizionale - i loro abitanti giorno dopo giorno vedono le citt riempirsi e congestionarsi anzich svuotarsi (Martinotti 1993, 15). Martinotti suggerisce di abbandonare le categorie tradizionali dellanalisi urbana che, come i dati statistici che a esse si riferiscono, sono basate sui canoni dellecologia sociale e insistono sulla identificazione degli abitanti con la totalit della popolazione urbana (Martinotti 1993, 15) A questo fine, Martinotti introduce una nuova classificazione delle varie popolazioni urbane facendo notare che se perdono abitanti, i centri metropolitani e le citt in generale si riempiono per di nuove popolazioni di consumatori metropolitani. Composte, cio, di persone che non risiedono nei centri urbani e che, a differenza dei pendolari, non vi lavorano in modo stabile, ma vi si recano esclusivamente per consumare, come i city users oppure (come i businessmen) per brevi permanenze di affari che forniscono per loccasione per consumi non di rado quantitativamente e qualitativamente consistenti. Queste popolazioni sono al tempo stesso il prodotto e una delle componenti principali della trasformazione

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metropolitana, ma sfuggono allosservazione sistematica con gli strumenti dellanalisi urbana, tuttora puntati in larga misura sugli abitanti e in piccola parte sui lavoratori e pendolari, cio sulle popolazioni che caratterizzano la citt tradizionale e la metropoli di prima generazione. Tuttavia la presenza di queste nuove popolazioni percepibile sul piano fisico, economico e politico, e introduce una variabile che non abbiamo ancora imparato a valutare nella giusta misura, ma che sta cambiando profondamente la morfologia sociale di quelle che suggerisco di chiamare metropoli di seconda generazione (Martinotti 1993, 16).

III. PICCOLO GLOSSARIO DELLO SPAZIO SPAZIO/QUALE DI PUBBLICO ? Quale nozione di spazio?

PUBBLICO.

QUALE

NOZIONE DI

Lo spazio un luogo in uso - un costrutto delluso - . Oggetto di osservazione , quindi, luso che viene fatto del luogo (e non il luogo). luso che delimita lo spazio: i confini dello spazio non coincidono con quelli (fisici) del luogo. I confini dello spazio sono quindi variabili nel tempo, e in corrispondenza di usi diversi. Si possono dare usi diversi di uno stesso luogo - in tempi diversi, ma anche simultaneamente -. Gli spazi corrispondenti ad usi diversi - ma anche a tempi diversi - non sono (necessariamente) coestensivi, oltre che non coincidenti con i confini del luogo cui sono riferiti. Lo spazio viene definito dalluso e dalle regole duso, in modo spesso discordante (lo spazio di parcheggio, dove il parcheggio delle auto consentito: ma possono esserci auto anche al di fuori dei limiti dellarea di parcheggio). In un dato luogo, possono essere previsti - e di solito lo sono - spazi per usi specifici. In corrispondenza di tali destinazioni duso, possono essere realizzate delle attrezzature particolari. Luso effettivo (ma anche quello previsto, a volte) pu risultare sia facilitato, ma anche ostacolato, dalla presenza di tali attrezzature.

Quale nozione di pubblico?


Il carattere pubblico lesito di interazioni duso: rinvia, dunque, alle relazioni sociali che si instaurano tra gli utilizzatori (detto altrimenti: quella pubblica, non una destinazione duso). Uno spazio pubblico, pu per essere istituito (es.: i Giardini Pubblici). In questo caso, il carattere pubblico rappresenta un obiettivo duso, definito per decreto, mediante lindicazione di quali condizioni duso (pi spesso indicate nella forma di divieti di altri usi) devono essere osservate dagli utenti, affinch luso sia pubblico. Luso effettivo dello spazio pubblico per decreto pu, o non, essere conforme allintenzione espressa dal decreto che lo istituisce come pubblico. Non necessariamente il carattere pubblico che risulta dalluso, dipende dalla conformit delluso effettivo, con quello previsto dal decreto. La nozione di spazio pubblico, non coincide con quella di spazio comune - o spa-

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zio in-comune -. Con riferimento alluso che ne viene fatto, uno spazio pu venire definito pubblico perch aperto (disponibile) per usi diversi da parte di utenti diversi. Se utilizzato da pi utenti, ma per uno stesso scopo, preferibile chiamarlo spazio-in-comune. Se luso per molteplici usi da parte di pi utenti non fa problema (non pone limitazioni, non provoca tensioni o conflitti), lo spazio non risulta pubblico. In definitiva, uno spazio pubblico non perch istituito come pubblico, n perch viene stabilmente utilizzato in comune. Quello pubblico, cio, non un carattere inerente allo spazio, ma un carattere che pu essere conferito allo spazio dallinterazione sociale. Si danno due casi di spazio che risulta pubblico per via dinterazione sociale. In un primo caso, ci pu avvenire per effetto di comportamenti intenzionali dei soggetti sociali interagenti nella situazione di compresenza. In un secondo caso, come sottoprodotto dellinterazione sociale tra soggetti autointeressati, quando questi apprendono lesperienza della compresenza, in termini di convivenza. Riferimenti bibliografici
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_______________ Pier Luigi Crosta professore ordinario di Tecnica e Pianificazione territoriale presso lIstituto Universitario di Architettura di Venezia, dove insegna Politiche urbane e territoriali al Corso di Laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale. coordinatore del dottorato di ricerca in Pianificazione territoriale e Politiche pubbliche del territorio, attivato dal DAEST/IUAV. Coordina un programma di studio alla Venice International University (Local Studies and Governance Fall 2000). Ha curato per il Consorzio Nettuno di Roma, un corso del DU/SIT (Urbanistica a.a. 98/99), teletrasmesso. coordinatore nazionale di un progetto di ricerca cofinanziato dal MURST (99/2000), dal titolo Le politiche urbane e territoriali tra government e governance. Tra le sue pubblicazioni pi recenti, sono: Politiche. Quale conoscenza per lazione territoriale, F. Angeli, Milano, 1998 e La politica del piano, F. Angeli, Milano, 1995. pierluig@iuav.unive.it

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Anthony Marasco*

La villa di Thomas Jefferson a Monticello e il governo scopico della territorialit federale**


Il faro

Loggetto di queste pagine


*Nel ricordo di Paolo Costantini ** Desidero ringraziare di cuore Shaul Bassi, Alberto Musy, Elisabetta Pastorella, Emma Sdegno e Federico Schneider, oltre che gli anonimi referee, che hanno letto il testo in prima stesura. Ad essi debbo molte buone idee e molte correzioni. La responsabilit degli errori rimane comunque esclusivamente mia.

Qual il legame che unisce il federalismo ai luoghi? Sar questo legame un nodo puramente formale, o esiste forse una qualche relazione anche cognitiva che colleghi il governo dei luoghi alla loro percezione? In quanto segue, una teoria sui regimi scopici della modernit verr usata per riportare alla luce una tradizione storica per cui alla sovranit dei luoghi veniva attribuita anche una dimensione cognitiva. Riesaminare oggi questa tradizione potrebbe rivelarsi un qualcosa di pi di un semplice spoglio antiquario, e questo a mio parere soprattutto per coloro che intendessero ripensare in chiave federalista le dimensioni politiche della cura paesistica.

I regimi scopici della modernit e il problema di come posizionare un osservatore allinterno di un regime scopico
Secondo lo storico Martin Jay, almeno tre regimi scopici, potrebbero essere rintracciati nel susseguirsi delle teorie sulle pratiche visive della modernit: il razionalismo prospettico, il descrittivismo empirico e la vertigine barocca (Martin 1988, 3-23). Con la prospettiva si inaugur in Europa quel processo di razionalizzazione scientifica della visione che culminer negli studi cartesiani sullottica e la percezione visiva. Seguendo il modello di Jay, tra le caratteristiche principali di questo primo regime scopico si potrebbero contare: la naturalezza, loggettivit e la regolarit normativa della rappresentazione. La resa prospettica del campo visivo sarebbe quindi una riproduzione fedele del modo naturale di vedere, una rappresentazione oggettiva ottenuta attraverso lapplicazione esatta di norme razionalmente desumibili. Il secondo regime scopico, quello empirico-descrittivo, andrebbe invece ricostruito a partire da quelle teorie scientifiche e da quelle pratiche visive che si opposero allegemonia discorsiva del regime razional-prospettico. Pi pragmati-

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co, il modello empirico costitu un campo visivo razionale partendo non dagli strumenti del calcolo matematico ma dalla dislocazione spaziale di una fisiologia osservante. Se la costruzione razionale della prospettiva imponeva alla mente un osservatore privo di corpo posto al vertice di una piramide di segni reali ma intangibili, lenfasi posta sullosservazione empirica restituiva allosservatore i limiti situazionali imposti dalla dislocazione corporea. Per rendere questo tipo di visione normativamente razionale fu promossa lanalogia tra il vedere corporeo e limmagine restituita da apparati ottici quali la camera oscura. Se lo strumento cardine del vedere prospettico fu dunque lo strumento matematico, lanalogia tra il vedere corporeo e losservazione strumentale rappresent lalternativa empirica allegemonia del modello prospettico sul discorso della visione razionale. Va notato che tale analogia ritorner pi oltre con lo sviluppo delle tecniche fotografiche, tecniche che altro non sono che modi di fissare limmagine della camera oscura. Entrambi i modelli ideal-tipici sin qui esposti presentano zone dombra e punti ciechi. Come si detto, il modello prospettico impose alla mente un osservatore la cui posizione ideale rimase inaccessibile ad un corpo fisicamente localizzato. Allo stesso tempo, per, la risposta empirica al modello prospettico mise un corpo in una posizione sostanzialmente innaturale al fine di garantire la naturalezza della rappresentazione. Se luso della camera oscura risolse infatti il problema della dislocazione spaziale dellosservatore, la riproduzione pittorica di quel vedere rimase comunque legata ad una resa statica e bidimensionale di una esperienza corporea irriducibilmente fluida e tridimensionale. In definitiva, linserimento di un corpo allinterno del modello prospettico razionale non risolse, ma piuttosto acu la consapevolezza del carattere convenzionale della rappresentazione visiva. su tale convenzionalit di resa che si inser listanza del vedere barocco. In quanto regime scopico, il barocco rappresent lemergere di forti tensioni allinterno della convenzionalit normativa del vedere prospettico. Nel frequente ricorso alla figura della vertigine, la restituzione del campo visivo spinta fino ai limiti estremi della rappresentabilit pittorica cos da mostrarne il margine estremo. Paradossalmente, per, anche lanti-modello barocco, come il contromodello empirico, accett come dato di partenza le premesse del paradigma prospettico. Se il contro-modello empirico ne tent una ricostruzione cognitiva, il modello barocco procedette inesorabilmente verso una sua decostruzione. Seguendo il modello ideal-tipico offerto da Jay, si potrebbe concludere che uno dei problemi fondamentali affrontati dallemergere della visione moderna in Europa sia stato come dislocare il corpo fisiologico di un osservatore allinterno di teorie e pratiche fondate sullintangibile dellintellezione scientifica. In altri termini, il problema sarebbe stato quello di posizionare lapparato sensorio di un soggetto osservante allinterno di griglie teoretiche volte alla rappresentazione oggettiva della visione razionale. In questo senso, gli accecamenti del vedere barocco sarebbero da leggersi come un avvertimento cautelativo affinch lo sguardo umano non venga troppo facilmente ricondotto a modelli intellettivi che non tengano conto dellirriducibile fisicit dellatto del vedere.

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La residenza di villa in quanto diagramma della relazione tra il regime scopico ed il posizionamento di un soggetto osservante
Quanto verr ora esposto parte dallipotesi che il sito della residenza di villa sia stato uno dei luoghi fondamentali dove si tent di risolvere il problema di come posizionare una fisiologia osservante allinterno dei diagrammi scopici aperti dalla prospettiva razionale1. Nel predisporre una precisa relazione scopica tra ledificio e il circondario, la tradizione rinascimentale dellabitazione di villa spesso fece uso di strumenti prospettici che inevitabilmente presentarono il problema di dove posizionare losservatore. Nel seguire le soluzioni via via date a tale problema possibile disegnare una traiettoria che attraversa tutti e tre i regimi scopici descritti da Jay. Questa traiettoria collega le ville italiane del Rinascimento alle ville britanniche del Settecento illuminista passando per i fasti della reggia di Versailles. Nel ricostruire lo sviluppo di questa tradizione sar allora possibile rintracciare anche i nessi non ovvi tra lo sviluppo dei regimi scopici e larticolarsi della sovranit territoriale europea. qui che infine emerger un possibile collegamento tra un certo tipo di regime scopico e il governo della territorialit federale.

Questa ipotesi si avvale del lavoro di studio storico dei siti cos come condotto in: Randoph Starn (1989)

La villa palladiana e il regime scopico della prospettiva razionale


Il diagramma. Tra le varie tipologie rinascimentali della residenza di villa, quella palladiana fu senzaltro la pi influente. Essa rese leggibili alcuni dei temi fondamentali dellarchitettura classica promuovendone la loro rinascita e ridisseminazione2. Per quel che ci riguarda, tralasceremo qui di esaminare in profondit le caratteristiche pi propriamente architettoniche di questa tipologia, concentrandoci invece sul diagramma scopico che ne caratterizz il modello di spazializzazione. Tale diagramma definito principalmente dalla relazione di tre elementi nodali: lortogonalit della pianta, lelevazione del piano nobile e la scenografia dellantistante. Villa Emo a Fanzolo di Treviso realizza in modo mirabile tutte e tre le principali caratteristiche scopiche della villa palladiana. Villa Barbaro a Maser di Treviso, infine, ne mostrer il punto di fuga. Dal piano nobile di Villa Emo, chi guardi lantistante scorger una fuga prospettica di linee ortogonali che gradatamente condurranno lo sguardo verso le aperte lontananze. Il lento digradare dello sguardo dal vicino al lontano e la regolarit delle campiture prospettiche daranno allosservatore limpressione di ergersi su di uno spazio saldamente definito e omogeneo. Questa impressione, che il prodotto del regime scopico che ora andremo ad analizzare, non una impressione che si lasci facilmente scomporre. Infatti, la sua caratteristica chiave nascondere il suo carattere dartificio scenico. Per iniziare a descrivere le origini macchiniche di tale artificio occorrer porsi lungo lasse cerimoniale con le spalle alledificio ed osservare la fuga prospettica offerta dagli alberi piantati ai margini del viale daccesso. Con le spalle alla facciata, dovremo prima capire come la villa palladiana

Sul Palladio si veda linsuperato: Puppi (1973). Il testo pi esaustivo su Villa Barbaro : Azzi Vicentini (1996)

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FIG. 1. Veduta dello spazio antistante Villa Emo fotografata dallinterno della villa. Fototeca della Fondazione Cini, Venezia.

sia strutturata seguendo i principi di simmetria del corpo umano. Compreso questo, dovremo di nuovo osservare il circondario. Come il corpo umano, la villa palladiana rigorosamente simmetrica sulla facciata, ma asimmetrica sui lati. Come il corpo umano, lungo i lati, il corpo della villa dispone di braccia laterali, braccia che adempiono quasi sempre funzioni di lavoro, essendo granai, depositi, cucine, ecc.. A coronamento del corpo della villa vi poi il piano nobile, un punto di osservazione privilegiato che si apre sullantistante come la coscienza pare perspicere dallinterno della scatola cranica. da questa posizione privilegiata che il giardino pu essere propriamente letto come una scenografia intesa a rappresentare i contorni razionali del campo visivo. Questo accadr perch ledificio stesso assoggetta il circondario estendendo gli assi della pianta ortogonale attraverso la disposizione formale dei giardini e delle vie di accesso. Tutto saldamente orientato dalledificio affinch chi osservi goda di un saldo possesso scopico del circondario. Lo stesso effetto di prospezione scopica pu essere osservato da chi si affacci dal piano nobile di villa Barbaro per osservare il panorama.

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FIG. 2. Veduta dal piano nobile di Villa Barbaro a Maser, Treviso. Si noti come lallineamento delle statue fa s che le linee aeree da esse tracciate convergano tutte verso un punto di fuga posto in cima alla fontana sullo sfondo. Tale allineamento sovrappone alla visione fisiologica dellantistante una campitura prospettica razionalizzante. Fototeca della Fondazione Cini, Venezia.

Ma al contrario di ci che accade a Villa Emo, a Villa Barbaro lartificio risulta pi evidente perch pi ribadito. Dal rialzo del piano nobile di Villa Barbaro, residenza di Daniele Barbaro, autore tra laltro di La pratica della prospettiva (1568), losservatore pu ammirare lordine scenografico dellantistante lasciando che traiettorie e punti di demarcazione conducano il suo sguardo verso un punto di fuga prospettico localizzato sulla cima di una fontana. Qui lintero apparato scopico palladiano messo in atto nella sua forma pi compiuta. In quel punto, lo sguardo macchinico del soggetto epistemico e lo sguardo di potenza del soggetto sovrano si assommano e si equivalgono programmaticamente. Luno pone in atto laltro. Rilievo politico del diagramma. A partire dal congiungersi dei due sguardi nel punto di fuga del gioco prospettico si pu iniziare a discutere il carattere anche politico di questo vedere. Assommandosi nella scenografia dellantistante, lo sguardo prospettico ordina al contempo lo spazio del possesso e quello della giurisdizione. A chi possiede ed amministra un dominio, la prospettiva fa dono di una immagine dello spazio che normativamente regolare, salda e asportabile in quanto rappresentazione che si appone alla mente. Dal piano nobile, quindi, lo sguardo del potente spazia lungo direttive lineari che suggeriscono al contempo la razionalit del vedere e lappropriazione del veduto. Tutto messo in ordine dalla presenza silenziosa del regime prospettico - tutto appropriato e messo in mora dallo sguardo onnicomprensivo del possesso. importante notare a questo punto come la villa palladiana occupi quel sito strategico in una

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mappa che si trova nel punto di intersezione tra un meridiano e un parallelo, i predecessori delle coordinate cartesiane. Allo stesso tempo, lelevazione del piano nobile faceva s che il corpo del potente fosse anche visto nellatto di osservare il circondario, attribuendo a tale vedere un surplus di potenza in ragione della sobria monumentalit dellinsieme3. qui che bisogna notare che gli stessi strumenti matematici che avevano permesso ai veneziani di far da conto e di navigare, di rappresentare e bombardare, potevano ora esser visti in atto nel consolidamento anche economico dellentroterra veneziano. Per meglio comprendere a quali necessit rispondesse il prototipo palladiano fin qui descritto occorre ricordare brevemente il carattere che andava assumendo lespansione territoriale della Repubblica di Venezia nel Cinquecento. Ragioni storiche del rilievo politico del diagramma. La trasformazione della Repubblica di Venezia da citt-Stato a Stato territoriale pu dirsi compiuta nel 1405 con la caduta dei Carrara e lorganizzazione dello Stato da terra. Il consolidamento territoriale della Repubblica, per, pu dirsi sufficientemente concluso solo dopo il tracollo nel 1515 dellequilibrio di alleanze generato dalla Lega di Cambrai. In questo lungo periodo, la caduta di Costantinopoli e la scoperta delle nuove rotte oceaniche prostrarono leconomia veneziana imponendo una ricapitalizzazione agraria delle fortune mercantili. Linstabilit politica generata dalla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492, lanno della scoperta dellAmerica, rese per tale scelta problematica in ragione delle ripetute guerre territoriali che tale morte fin per causare. Se a tutta prima lingerenza straniera in Italia parve fare il gioco della citt lagunare, nel 1508 Papa Giulio II indisse la Lega di Cambrai in funzione esplicitamente anti-veneziana. Dalle numerose sconfitte e dalla perdita quasi totale dello Stato da terra, Venezia impar lamara lezione della logica territoriale dei grandi Stati-nazione europei. Dalla firma del trattato di Bruxelles nel 1515, trattato che ridiede a Venezia quasi tutti i suoi domini, il governo della cosa pubblica pose particolare attenzione alla fortificazione dellentroterra e allo sviluppo di uneconomia agraria capace di controbilanciare gli arretramenti nel campo dei commerci marittimi. Tale riorientamento sociale ebbe delle forti ripercussioni sullassetto politico della Repubblica. Come not Machiavelli nei Discorsi (I, 55), prima delle annessioni territoriali i nobili veneziani erano nobili pi di nome che di fatto - nel senso che al loro nome non corrispondeva nessuna giurisdizione e nessuna terra. La loro ricchezza era spesso enorme, ma mobile, frutto dei commerci e del rischio calcolato. Dopo lannessione dellentroterra veneto tutto questo cambi. Nella seconda met del Cinquecento le famiglie che avevano investito fortemente nello sviluppo agricolo delle zone di bonifica diedero luogo a una vera e propria aristocrazia terriera. La situazione in cui Venezia si trov dopo il 1515 impose cambiamenti profondi. Innanzitutto lorigine legittimativa della sovranit veneziana pass dalla manipolazione semantica di Bolle e Editti alla tenuta delle linee di fortificazione. Sovranit territoriale e nuovi orizzonti epistemici si unirono quindi nella realizzazione di cinte murarie e bastioni capaci di resistere allentrata in scena delle nuove artiglierie pesanti. Nellassedio della citt di Novara del 1513, per esempio, 700 uomini morirono in soli tre minuti di fuoco, una lezione che non and perduta in laguna. Fu nellerigere nuove difese statuali che la matematizzazione dello spazio condotto dalla balistica e la spazializzazione della sovranit repub-

Per una interpretazione marxiana di tale relazione si veda: Cosgrove (1984)

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blicana si unirono formando un nuovo aggregato. Nel commissionare a Palladio le illustrazioni dei suoi commentari su Vitruvio, Daniele Barbaro spesso fece s che la rappresentazione dello spazio civile della citt fosse posto allinterno dello spazio militare della fortificazione. I commentari stessi annunciavano limminente pubblicazione del Libro delle fortificazioni di Giovan Jacopo Leonardi. Come concluse Manfredo Tafuri, gli scritti di Barbaro, Leonardi e Palladio appaiono reciprocamente connessi fra loro, integrati nellambito di un unico programma culturale, quello che Ennio Concina chiam lassemblaggio della macchina territoriale (Tafuri 1985, 192; Concina 1983). Vista linclusione programmatica tra lo spazio delledilizia civile e la macchina da guerra, si potr concludere per estensione che nel portare a compimento il regime scopico palladiano a Maser Daniele Barbaro diede forma simbolica al legame tra la manipolazione strumentale dei saperi matematici e la crescita in potenza del soggetto sovrano.

FIG. 3. Nel predisporre un corredo di illustrazioni ai Commentari di Giulio Cesare, Palladio rese chiaramente leggibili le implicazioni strategiche dello spazio ordinato razionalmente. Si noti come gli alloggiamenti di Cesare siano posti su di un rialzo - un monticello, come specifica la didascalia - e come questi alloggiamenti ricordino limpianto biassiale tipico delle ville palladiane. In questi disegni, lo spazio strategico della guerra pare alludere chiaramente allo spazio economico della tenuta agraria. I commentari di C. Giulio Cesare (Venezia: Appresso P. de Franceschi, 1575), tavola 148. Department of Printing and Graphic Arts, Houghton Library, Harvard College Library, Typ 525.75.255.

Tale lezione verr messa a pieno frutto nella Francia del secolo successivo.

Versailles: locclusione barocca del modello prospettico


Nel suo monumentale libro su Versailles, Chandra Mukerji ha minuziosamente ricostruito il legame di simbiosi cognitiva tra lespansione dei giardini di

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Versailles e le crescenti ambizioni territoriali dello Stato francese sotto lo scettro di Luigi XIV (Mucherji 1997). Volendo leggere tale legame alla luce della teoria dei regimi scopici della modernit, potremmo dire che Versailles realizza al contempo lapoteosi del modello prospettico e la sua dbcle spettacolare. Come la villa palladiana, la reggia di Versailles impone il suo dominio scopico su di un territorio prospetticamente ordinato. Ma al contrario del modello agrario veneto, la reggia del Re Sole non assoggett nessuna funzione pratica al dominio visuale: a Versailles lo spettacolo del potere divenne fine a se stesso. Ci non equivale a dire che tale dominio fu senza scopo, tuttaltro. Il suo obbiettivo primario era di predisporre trappole cognitive atte ad intrattenere una nobilt terriera il cui sequestro fisico e cognitivo erano fondamentali allespansione del dominio territoriale del sovrano. Come ben rivela la guida ai giardini di Versailles redatta per mano dello stesso Luigi XIV, lindirizzo strategico del parco disegnato da Andr Le Ntre (16131700) quello di svelarsi a poco a poco intrappolando chi vi entri in progressive volute di meraviglia (de Gain Montagnac 1908). Seguendo il modello di Martin Jay, potremmo dire che a Versailles il regime scopico della prospettiva, invece di giungere al suo naturale compimento nella filosofia delle coordinate spaziali di Descartes (filosofia perentoriamente interdetta in Francia a partire da un editto del 1671), si lascia colonizzare dal sensazionalismo proprio del regime scopico barocco. A completamento dunque del vuoto (anche se intricatissimo) cerimoniale messo in atto allinterno della reggia, un altrettanto vuoto (ma meraviglioso) dispositivo scenico mostrava la territorialit del parco attraverso progressive strategie di svelamento, strategie che erano anche e soprattutto strategie di scardinamento cognitivo. Il fine di entrambi era di catturare lattenzione di tout le monde, ossia di tutti i nobili di Francia, e di trattenerli allinterno della nascente griglia statuale. Tutto intorno, intanto, il parco metteva in atto sul piano simbolico lespandersi sella sovranit territoriale francese dovuta al sequestro fisico e cognitivo del potere giurisdizionale della nobilt terriera. A Versailles, dunque, il barocco porta a compimento i tratti spettacolari del suo programma anti-prospettico. Se da un lato lo scoccare della vertigine barocca ebbe un aspetto senzaltro cautelativo nei confronti delle ambizioni epistemiche dellosservazione razionale, dallaltro leclatante messa in scena di Versailles rivela uno stretto collegamento tra lo spaesamento barocco ed un tentativo anche politico, prima ancora che cognitivo, di occludere la trasparenza comunicativa dello spazio razionale. Ed infatti - come ben rilev Jrgen Habermas - il lento costituirsi della sfera pubblica in Europa si accompagner ad un preciso programma anti-spettatoriale destinato a sottrarre lo spazio discorsivo del pensiero liberale dallottundimento cognitivo proprio dello spettacolo barocco.

Il giardino allinglese e il regime scopico della descrizione empirica


Se ci avviciniamo ora alla villa realizzata da Thomas Jefferson a Monticello, Virginia, noteremo forti echi della tradizione cognitivo-architettonica palladiana e forti echi di una programmatica esclusione di ogni strategia di svelamento sce-

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nografico dello spazio. Seguendo la logica dei regimi scopici proposto da Jay, potremmo dire che a Monticello, Jefferson mise in opera una ribadita affermazione del regime scopico del descrittivismo empirico e a questa affermazione d un carattere marcatamente anti-spettatoriale. Per capire lorigine e le implicazioni politiche del regime visivo realizzato da Jefferson a Monticello dovremo prima descrivere la reazione paesistica inglese agli splendori botanici dellancienne rgime. Il diagramma. Dal piano nobile della villa eretta nel primo Settecento per il duca di Marlborough a Blenheim, nello Oxfordshire, losservatore avr a tutta prima la sensazione di ammirare un paesaggio del tutto naturale. Ad eccezione di un giardino formale posto su di uno dei lati della residenza, lintero orizzonte occupato da vaste pasture e radi boschetti. In realt, invece, ci che locchio ripetutamente percorre un vasto giardino architettato in cui ogni elemento disposto ad arte per provocare impressioni pittoriche. Disegnato da Lancelot Capability Brown (1716-1783), il parco paesaggistico di Blenheim, uno dei parchi inglesi pi influenti ed ammirati, si dispone tutto intorno ad una villa che malgrado la sontuosit rimane di sostanziale impianto palladiano. Dunque, dal piano nobile di un edificio in simmetria antropomorfa biassiale, il corpo di chi guarda usufruir ancora della proiezione spaziale degli assi ortogonali della fabbrica muraria. Questi assi proiettati, per, non saranno pi impressi in modo visibile sul parco botanico del giardino, ma rimarranno impliciti, scolpiti dallatto stesso di vedere dallinterno delledificio scopico. Tale introiezione del diagramma visivo ebbe in Inghilterra un carattere esplicito e programmatico. Rilievo politico del diagramma. Uno dei luoghi comuni della cultura inglese del Settecento fu quello di identificare il carattere illiberale dellancienne rgime con le innaturali simmetrie dei giardini di Versailles. A partire dai lavori realizzati da William Kent (1685-1748), per giungere ai parchi paesaggistici di Capability Brown, la risposta inglese agli sfarzi di Versailles fu di abolire ogni demarcazione visibile sul parco botanico cos da far confondere il giardino con la natura. in questo contesto che va collocata la maggiore innovazione introdotta in Europa dal giardino allinglese, il fossato Ha! ha! Invisibile dal piano nobile, il fossato Ha! ha! permetteva di abolire ogni demarcazione visibile pur mantenendo interdetto al pascolo lo spazio cerimoniale della villa. Tale innovazione consent quindi di identificare la mancanza di barriere visibili con il contrario di ci che Versailles andava rappresentando per gli inglesi. Se i giochi formali di Versailles si identificavano dunque con la tirannide francese, la naturalezza del giardino paesistico inglese rappresentava lamore per la libert tipico della storia nazionale inglese. Non a caso Blenheim fu eretta a spese di Sua Maest per celebrare la vittoria del Duca di Marlborough contro le truppe francesi del 1703, vittoria che pose fine allespansione francese iniziata sotto Luigi XIV e che preannunci lunificazione territoriale britannica del 1707. Per capire lintera valenza del gioco sottilmente politico dellinterramento dei confini paesistici inglesi occorre far riferimento al carattere intrinsecamente territoriale della sovranit britannica e alla teoria della rappresentanza politica che esso sottese. Ragioni storiche del rilievo politico del diagramma. A partire dalla Gloriosa Rivoluzione del 1688, l'Inghilterra conobbe la coesistenza forzata di due distinti principi di sovranit, quello di derivazione medievale, e quello di origine classi-

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co-repubblicana. Il primo voleva il corpo materiale del sovrano impersonare la nazione per grazia di Dio, il secondo vedeva nel popolo la vera sede della sovranit nazionale. Tra i vari meccanismi compensativi designati a stabilizzarne tale coesistenza forzata vi fu il fatto che a rappresentare il popolo erano chiamati, per virt civica, solo i possessori di vasti appezzamenti terrieri. Solo essi potevano accedere, se eletti, alla House of Commons, la camera bassa opposta alla House of Peers di nomina regale ed ereditaria. Dunque il popolo prima inglese e poi britannico trov nel territorio il luogo attraverso cui passava la propria sovranit politica, luogo che le tenute di villa visibilmente rappresentavano in tutto il loro impenetrabile splendore. Al contrario di Versailles, dove il sovrano si mostrava in un modo spregiudicato, ma ancora sostanzialmente medievale, nelle tenute dei notabili inglesi la sovranit popolare imponeva nuove e pi libere rappresentazioni del territorio. In queste tenute, linvenzione dei fossati Ha! ha! permise di nascondere - per il momento - le demarcazioni proprietarie su cui le libert inglesi si fondavano. Sul piano dei regimi scopici, la cancellazione delle linee di simmetria e demarcazione ben si adattavano con lo spirito empirista che si andava diffondendo tra il Seicento e il Settecento. Come si detto, chi osservi lo spazio dal piano nobile dalla villa palladiana di Blenheim avr limpressione di percorrere con locchio un paesaggio del tutto naturale. Ci dovuto allartificio dei fossati Ha! ha! e alluso di categorie estetiche di origine pittorica. Questo diverso modo di condurre locchio causa anche un cambio di regime scopico allinterno della villa. In altre parole, visto che sostanzialmente a comandare limpianto del regime scopico il testo visuale inscritto nellantistante, ad una riscrittura dellesterno parrebbe corrispondere la ristrutturazione dellinterno. Ponendo il modello palladiano allinterno di un giardino allinglese da questo modello verrebbe espiantato il regime scopico della prospettiva lineare e inserito quello del descrittivismo empirico. Ora dal piano nobile il soggetto osservante esperisce lo spazio empiricamente, pur usando le direttive scopiche della villa per orientare il proprio vedere. In altre parole, da impalcatura per il vedere prospettico, la villa diventa una sorta di camera oscura, un apparato per la visione empirica dellantistante. Chi conosca La pratica della prospettiva di Daniele Barbaro potrebbe obiettare a questo punto che Barbaro fu uno dei primi teoreti a consigliare luso pratico della camera oscura. dunque anche Villa Barbaro una sorta di macroscopico strumento ottico e non una impalcatura prospettica come qui sostengo? Nella Pratica Barbaro mantenne una linea mediana tra la trattatistica matematico-scientifica e le applicazioni pratiche della prospettiva. Ci non equivale a dire che Barbaro pensasse che la pratica empirica potesse venire prima dellintellezione matematica. vero anzi il contrario. Nel Proemio, Barbaro attacca quei pittori che ignari dei principi naturali e matematici fanno semplice pratica. I pittori de i nostri tempi altrimenti celebri, & di gran nome, si lasciano condurre da una semplice pratica, & nelle tavole loro non dimostrano sopra questa parte cosa degna di molta commendazione, & nelle carte in iscritto niuno precetto si vede dato da loro (Barbaro 1568, 3). Al contrario, il trattato di Barbaro si fonda su di una pratica guidata dalla conoscenza dei principi, infatti con i decreti della scienza io detti forza agli esperimenti dellarte (Barbaro 1568, 4). La menzione

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della camera oscura viene dunque relegata al fondo del volume come una mera riprova empirica del valore dei principi teoretici della prospettiva razionale. Scrivendo a proposito della concezione stessa dellarchitettura tenuta da Barbaro, Manfredo Tafuri not come per Barbaro larchitettura fosse un aggregato conoscitivo e non una mera pratica utilitaria. In quanto disciplina che invera la Sapienza, essa , contemporaneamente, linguaggio speciale e luogo che tiene insieme saperi e tecniche differenziate. Da un lato, larchitettura chiamata a rivelare le ragioni della creazione divina, e rendere palese, fruibile oltre che leggibile, la razionale armonia impressa nel cosmo. Dallaltro, essa invocata come struttura che assicuri lunit del sapere, che si opponga al frantumarsi delle lingue e delle tecniche. Per questo, lempireia non pu essere posta al fondamento dellarchitettura(Tafuri 1985, 189-90).

La traiettoria epistemica
Il transito della tipologia Palladiana dallo spazio rinascimentale a quello illuminista comport modifiche epistemiche che tenteremo ora di mettere in luce brevemente. Secondo Rudolf Wittkower, larchitettura di Palladio va compresa a partire dal carattere eclettico della filosofia del suo primo mentore, Trissimo, e successivamente del suo quasi coetaneo Daniele Barbaro (Wittkower 1962). Sia Trissimo che Barbaro mischiarono premesse aristoteliche a conclusioni neoplatoniche. Sarebbe questa lorigine dellinespugnabile teoria delle proporzioni del Palladio. Secondo quella teoria, ottenuta sia per rilievo empirico che per ricostruzione teorica, il riflesso gi menzionato tra edifico e corpo umano si incentra su di una serie di rapporti proporzionali che contengono in nuce i rapporti matematici che governano il ruotare delle sfere celesti. Ledifico dunque riveste un ruolo anche cosmografico nel mostrare attraverso il corpo di fabbrica larmonia delluniverso. Nel transitare dalla sua origine rinascimentale alla sua destinazione neoclassica, la tipologia palladiana perse il carattere esplicitamente neoplatonico del rapporto armonico tra fabbrica e cosmo senza per questo perdere interamente il suo carattere cosmografico. Daltro canto, il non-esplicito (ma intuibile) carattere neoplatonico del cosmo newtoniano poteva agilmente essere reinserito nelledificio di fabbrica ben proporzionato. La compatibilit inizi a venire meno quando con il declinare del neoclassicismo il giardino di villa divenne il luogo dellemersione del neo-gotico. Blenheim in questo senso un luogo di incontro tra una tipologia di fabbrica che ancora ricorda larmonia proporzionale del cosmo e uno stile arboreo che preconizza il nuovo carattere soggettivo dato allesperienza estetica. Quando anche la residenza di campagna inglese ritorner alla pianta asimmetrica della sua origine gotica, lultima vestige cosmografica del diagramma palladiano scomparir mostrando la nascita di un nuovo paesaggio percettivo, quello romantico. Nella traiettoria epistemica tra loggettivismo neoclassico e il soggettivismo preromantico, la residenza di villa di Jefferson a Monticello viene a rappresentare un momento di precario equilibrio allo scadere di unepoca. Fu qui che percezione e federalismo si incontrarono in un diagramma ambizioso quanto irripetibile.

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Monticello e il regime scopico della territorialit federale


Il diagramma. Come si accennato, a Monticello Jefferson un la tipologia abitativa della villa palladiana alla contemplazione del giardino paesistico di derivazione inglese. Nel far ci Jefferson adatt il regime scopico della villa palladiana alla condotta dellosservazione empirica. Guardando verso occidente, chi osservi il prato del giardino posteriore di Monticello non vedr nulla che immediatamente faccia pensare alla presenza di un regime scopico. Ad una certa distanza vedr il prato antistante terminare alla base di una radura dalla quale svetteranno poi dei bassi monti in lontananza. Come nel caso del prototipo palladiano, il diagramma scopico delledificio dato principalmente dallintersezione dellortogonalit della pianta, lelevazione del piano nobile, e la scenografia dellantistante. Nel modello neoclassico inglese, alla simmetria delledificio si contrapponeva lasimmetria del parco botanico. Il genio di Monticello fu quello di contrapporre la fabbrica muraria ad un parco botanico non visibilmente demarcato ma comunque simmetrico alledificio. Lasse cerimoniale e lasse della collina sono infatti sovrapposti in modo che lelevazione del sito e quella delledificio si assommano in ununica elevazione che porta il piano nobile ad essere lestrema sommit della collina abitata dalla villa. Va notato che occupando la parte pi elevata di una collina, lasse del sito segue lasse di simmetria della villa orientando losservatore in modo che il suo corpo, ledificio e il sito si identifichino come il punto di vista di ununica soggettivit sovrana, soggettivit colta nella sua relazione di identit con il luogo fisico che occupa nel paesaggio. Da questa sommit, chi si ponga ad osservare verso occi-

FIG. 4. Rilievo della tenuta di Monticello eseguito per mano dello stesso Jefferson. Si noti con quale accuratezza Jefferson pose la sua villa a culmine del sistema di elevazioni che caratterizza il sito. Thomas Jefferson, Monticello: Mountaintop (Plant), 1803. Curtesy of the Massachusetts Historical Society. The Thomas Jefferson Papers, M.H.S., N225/K169.

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When nature assigned us the same habitation, she gave us over it a divided empire. To you she allotted the field of science; to me that of morals. ... I know indeed that you pretend authority to the sovereign control of our conduct in all its parts: & a respect of your grave saws & maxims, a desire to do what was right, has sometimes induced me to conform to your counsels. Sul mutare degli orizzonti disciplinari che hanno caratterizzato lavanzare del discorso psicologico si veda: Robinson (1995).

dente il giardino godr della proiezione della simmetria antropomorfa delledificio sul vuoto del prato posteriore. Collina, fabbrica e coscienza si pongono dunque in una relazione di identit che li porta a contemplare lo spazio antistante come un oggetto apposto alla mente. Una lettera scritta da Jefferson alla pittrice Maria Cosway, nota ai posteri come Il dialogo tra la mia Mente e il mio Cuore, mette in rilievo i contorni cognitivi e sentimentali di questa relazione paesistica (Peterson 1984, 866-877). Dopo la morte della moglie Martha nel 1782, Jefferson accett una missione diplomatica a Parigi che si protrasse dal 1784 al 1789. Durante la sua residenza allestero Jefferson ebbe modo di servire gli interessi del suo paese e di frequentare il bel mondo parigino alla vigilia del crollo dellancienne rgime. Durante la sua permanenza a Parigi, Jefferson pare aver goduto anche di un interludio romantico nella frequentazione (si presume) platonica della moglie di un pittore inglese, Maria Cosway. Il Dialogo fu scritto il 12 Ottobre 1786 immediatamente dopo la partenza dei coniugi Cosway per Londra. Non di rado questa lunga lettera viene letta come un tentativo di razionalizzare la decisione di non intrattenere una relazione adulterina con una donna che comunque amava. La lettera, per, pu essere anche letta come uno dei documenti fondamentali per capire la configurazione mentale che Jefferson diede al suo modo di pensare, sia privato che pubblico. Inscritto in questa configurazione emerger infine il carattere della relazione paesistica inserita da Jefferson alla disposizione spaziale della villa a Monticello. Nel Dialogo il Cuore di Jefferson accusa la Mente di non aver saputo capire il valore dellamicizia provata per i coniugi Cosway. Secondo la Mente, invece, sarebbe il Cuore a non aver ben calcolato il rischio di perdita che ogni attaccamento a persone in transito comporta (qui linfluenza del dolore provato per la morte di Martha implicito, ma ovvio). A ci il Cuore risponde che non attaccarsi a nulla e nessuno per la paura della perdita un computo miserabile e illogico. Da quel punto il Cuore prende il sopravvento e si assume il fardello della ragionevolezza morale. Quando la natura ci ha assegnato la medesima abitazione, pondera il Cuore, ci ha dato dominio su diversi imperi. A te ha dato il campo della scienza; a me quello della morale. Non va perduto il fatto che dopo aver descritto il proprio io come una abitazione, tale abitazione viene sottoposta ad una sovranit gerarchica. Certo so che tu pretendi sovranit sullintera nostra condotta in tutte le sue parti - dice il Cuore alla Mente - e il rispetto per le tue taglienti distinzioni e per le tue massime, un desiderio di far ci ch giusto, mi ha talvolta indotto di sottomettermi al tuo consiglio (Peterson 1984, 874)4. Dopo lincontro con i Cosway (si legga: Maria) il cuore finalmente si rende conto della propria sovranit sulle questioni morali e riduce la Mente al silenzio (salvo poi rinunciare, nei fatti, a Maria e dar ragione, in concreto, alla Mente). Per capire la logica non ovvia di un tale dialogo occorre far riferimento alla psicologia delle facolt, un modello della psiche fondato sulla ripartizione gerarchica delle attitudini mentali5. Secondo tale psicologia, vista la posizione intermedia dellUomo nella catena dellessere che si estende dalla Divinit agli animali, le facolt della mente si dividono in due (con una terza ripartizione data alle facolt passive, ossia i riflessi): la volont (vicina alla Divinit) e le passioni (vicine allaspetto animale della natura umana). La volont si divide a sua volta in due, la

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coscienza e la prudenza. Nel modello pi diffuso, quello reso famoso nellimpero inglese dallo Spectator e dal Essay on Man (1732) di Alexander Pope, le questioni morali vengono soppesate dalla coscienza. Di tale parere erano pure gli empiristi scozzesi e John Locke. Di parere contrario erano invece Francis Hutcheson e David Hume, che ritenevano le questioni morali di competenza delle facolt emotive. Jefferson pare muoversi nella seconda direzione, anche se lassetto del testo non immediatamente teoretico e il resto della sua filosofia politica pare non mostrarne traccia. Ci che vi di interessante per noi nel Dialogo che Jefferson effettivamente pensava al suo s in termini architettonici, e che allinterno del suo edificio psichico poneva con risolutezza la questione gerarchica del governo razionale delle passioni. A tale spazializzazione della psiche corrispondeva come abbiamo visto un regime scopico. Dallinterno delledificio, il soggetto sovrano contempla il mondo. Visto il carattere gerarchico dato alla coscienza, il soggetto che abita ledificio scopico dellio guarda il mondo dallalto verso il basso, come un sovrano. Questo atteggiamento sovrastante perfettamente leggibile nel passo del Dialogo dove il Cuore indica Monticello come uno dei possibili luoghi di incontro tra Jefferson e i coniugi Cosway. Non solo saranno tutte le bellezze naturali del circondario loggetto della matita di Maria, ma Monticello stessa si porr a disposizione come lapice del pittoresco. And our own Monticello, where has nature spread so rich a mantle under the eye? Mountains, forests, rocks, rivers. With what majesty do we there ride above the storms! How sublime to look down into the workhouse of nature, to see her clouds, hail, snow, rain, thunder, all fabricated at our feet! and the glorious sun when rising as if out of a distant water, just gilding the tops of the mountains, & giving life to all nature!(Peterson 1984,874)6 Dallalto del monticello di cui ledificio il culmine, lintero spettacolo della natura posto ai nostri piedi. In questo atteggiamento sovrastante il carattere epistemico e il carattere di potere del soggetto sovrano si confondono lasciando intravedere residui ancora medievali della rituale elevazione del corpo del sovrano. Applicando quanto letto nel Dialogo al diagramma scopico di Monticello, potremmo dire che aprendosi allantistante dal piano nobile, la sensibilit morale che abita larchitettura razionale dellintellezione si apre dallalto sia al paesaggio naturale che alleventuale incontro con lAltro. Il prato vuoto di Monticello sar dunque uno spazio dattesa empirica nel quale osservare lo sviluppo degli eventi naturali e nel quale pensare leventualit di un incontro (normativamente amicale e non-erotico) con lAltro. Il diagramma cognitivo di Monticello, letto attraverso lo sdoppiamento delle sfere di valore (strumentale e morale) che caratterizza il Dialogo, inizia a mostrare i segni di una suddivisione politica oltre che cognitiva dello spazio abitato dallio di Jefferson. Vediamo come. Rilievo politico del diagramma. Nel numero 49 dei Federalist Papers, James Madison fece sua una proposta di Jefferson usando un ragionamento che ci apre uno scorcio sulla inaspettata rilevanza politica della divisione sentimentale tra Mente e Cuore tanto cara al Jefferson epistolografo. Ricordiamo brevemente che i saggi riuniti in volume nel 1788 sotto il titolo di Federalist Papers sono uno dei tre monumenti fondamentali della rivoluzione americana insieme alla

E la nostra Monticello, dove ha steso la natura una cos ricca superficie sotto lo sguardo? Montagne, foreste, rocce, fiumi. Con quale maestosit cavalchiamo di lass le tempeste! Che sensazione sublime guardar gi dentro lofficina della natura, per vedere fabbricate ai nostri piedi le nubi, la grandine, la neve, la pioggia, i tuoni! ed il glorioso sole che sorgendo come da acque distanti, sfiora le cime dei monti e d vita a tutta la natura!.

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Il libro nacque dalle lettere che Jefferson scrisse in risposta alle numerose richieste di chiarimenti inviategli da corrispondenti francesi nel 1781. Le risposte inviate da Jefferson vennero riunite in volume prima in Francia, nel 1782 e 1786, e poi in Gran Bretagna, nel 1787. La prima edizione americana del 1788.

Dichiarazione di Indipendenza redatta da Jefferson nel 1776 e alla Costituzione federale del 1788. Nei Federalist Papers, Alexander Hamilton, James Madison e John Jay, sotto lo pseudonimo di Publius, risposero a coloro che a mezzo stampa si opponevano alla ratificazione della nuova Costituzione federale. Nellinvitare i cittadini dello Stato di New York a ratificare la Costituzione, Hamilton, Madison, e Jay scrissero una delle pi articolate difese dellassetto statuale americano. Nel Federalist numero 49, Madison riprende unidea che Jefferson propose nel volume Notes on the State of Virginia (Londra, 1787)7. Inclusa in quel libro era una proposta di Costituzione per lo Stato della Virginia che Jefferson aveva stilato di suo pugno. Secondo tale proposta, qualora si fosse ritenuto opportuno modificare la carta costituzionale in alcun modo, la strada pi opportuna da seguire sarebbe stata quella di indire unassemblea costituente straordinaria. Visto che la sovranit risiedeva nel popolo, solo unassemblea eletta direttamente dal popolo avrebbe potuto dare rilevanza giuridica ad un qualsiasi atto di modifica costituzionale. Interessante per noi notare il procedimento di giustificazione adottato da Madison per avallare la scelta della strada costituente. Come sempre nei Federalist Papers il ragionamento si svolge rispondendo alle accuse pubblicate della parte avversa, dai cosiddetti anti-Federalisti. Non citer qui tali argomentazioni. Ci che ci interessa il ragionamento di fondo, e cio: visto che una nazione di filosofi improbabile quanto la stirpe di filosofi-re in cui sperava Platone (a nation of philosophers is as little to be expected as the philosophical race of kings wished for by Plato), la proposta di modifiche costituzionali doveva essere contemplata come unoccasione rara e saliente. Quindi il meccanismo della costituente doveva essere dimensionato in modo tale da sfavorirne un suo uso eccessivo. Di particolare gravit sarebbero stati poi quei meccanismi che avessero consentito ad una fazione (cio ad un partito) di avere il potere di reclamare una modifica costituzionale, magari in combutta con un altro ramo del governo. Qualora infatti il misurato giudizio del cittadino cadesse nella trappola del ragionar per fazioni, le passioni, e non le ragioni, del pubblico siederebbero in giudizio (the passions, and not the reasons, of the public would sit in judgement). Ci particolarmente odioso perch il raziocinio del pubblico che solo dovrebbe controllare e regolare il governo. Le passioni dovrebbero essere controllate e regolate dal governo (it is the reason of the public alone that ought to control and regulate the government. The passions ought to be controlled and regulated by the government ) (Cooke 1961, 343). Proviamo ora a sovrapporre il diagramma scopico di Monticello e il programma psichico del Dialogo al discorso politico del Federalist 49. Seguendo larchitettura gerarchica della psicologia delle facolt, la volont deve sempre trovare il modo di porre un freno alle emozioni per impedire che esse si traducano in passioni. Reinserito nel contesto del discorso dei regimi scopici, questo meccanismo di razionalizzazione si trasforma in un meccanismo di stabilizzazione sensoria. Inserendo la propria fisiologia allinterno delledificio scopico, losservatore limita il campo visivo del proprio corpo e lo assomma al regime scopico ritenuto normativo della visione. Ci pu essere chiaramente letto in un passo del Dialogo dove un lungo elenco di luoghi vaghi precede il passo citato dove il Cuore immagina Maria in visita a Monticello. Lelenco percorre litinerario dei

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luoghi dove Maria suscit linteresse (certamente anche erotico) di Jefferson. Heart: Oh! My dear friend, how are you revived me by recalling to my mind [with your minute descriptions] the transactions of the day! How well I remember them all ... Go on then, like a kind of comforter & paint to me the day we went to St. Germains. How beautiful was every object! The Port de Reuilly, the hills along the Seine, the rainbows of the machine of Marly, the terrace of St. Germains, the chateaux, the gardens, the statues of Marly, the pavilion of Lucienne. Recollect too Madrid, Bagatelle, the Kings garden, the Desert. How grand the idea excited by the remains of such a column! The spiral staircase too was beautiful! Retrace all those scenes to me, my good companion, & I will forgive the unkindness with which you were chiding me (Peterson 1984, 869)8. Nei luoghi che portano dallincontro alla passione forte lelemento spettacolare e sensazionalistico. Per ricondurre il rapporto con Maria allalveo amicale, il Cuore introduce Monticello come punto di equilibrio sia scopico che emotivo. Il raggiungimento di un punto mediano sentimentale tra intelletto ed emotivit pure lobiettivo della teoria politica jeffersoniana cos come ci stata mostrata in nuce da Madison. Perch le passioni non cadano in balia di spettacoli orchestrati ad arte per ingenerare passioni prive di sentimento razionale, occorre che esse vengano poste sotto il governo dalla ragione9 ( bene notare al margine che la soluzione data da Jefferson al problema delle passioni intimamente contraddittoria perch cerca nella razionalit soggettiva la soluzione di un dilemma che implicito in questo tipo di razionalit, e cio il suo carattere fondamentalmente spettatoriale. Per arrivare ad una critica di questo tipo di soggettivit politica occorrer aspettare in America lemergere del pensiero di John Dewey). Ragioni storiche del rilievo politico del diagramma. Nella bibliografia contemporanea uno dei punti critici di maggior contesa se il pensiero politico americano del periodo rivoluzionario sia stato essenzialmente repubblicano o fondamentalmente liberale. La distinzione tra origini liberali e retaggi repubblicani della teoria politica dei padri fondatori non leziosa. Chi accetti solo lorigine liberale delle istituzioni democratiche americane non avr nessuna difficolt a leggere in modo positivo la relazione esistente tra democrazia ed economia di mercato. Chi invece legga anche caratteristiche repubblicane nei discorsi che diedero origine alla democrazia americana dovr tener conto della profonda ostilit con la quale uomini come Jefferson trattarono lemergente dominio dei mercati finanziari. A mio parere la ricostruzione del modello scopico di Monticello offre un punto di incontro tra le due tendenze interpretative e quindi complica il modello liberale problematizzando il ruolo necessariamente democratizzatore del libero mercato. Il carattere fortemente cognitivo dato da Jefferson alla sua residenza mette in luce la centralit del problema epistemico nel suo pensiero politico. AllUomo la natura ha dato lintelletto e con luso regolato di esso tutte le superstizioni del sedimento storico possono essere rimosse col tempo. Questa costante ricerca di fondamenta razionali costituisce un aspetto indubbiamente liberale, lockiano del pensiero di Jefferson. Pure liberale il carattere di luogo privato orientato verso il pubblico assegnato da Jefferson alla sua abitazione. In questo senso, il prato vuoto di Monticello il luogo verso cui il sentimento morale si apre alla contemplazione della natura e allattesa dellAltro. La villa di Monticello posta dun-

Cuore: Oh! Mio caro amico quale benefico influsso ha su di me il tuo ricordare i nostri trascorsi giornalieri con i nostri amici! E come me li ricordo bene ... prosegui dunque come chi d conforto e dipingi per me il giorno in cui andammo a St. Germain. Comera bella ogni cosa! Il Porto di Reuilly, le colline lungo la Senna, gli arcobaleni sulle macchine idrauliche di Marly, la terrazza di St. Germains, il castello, i giardini, le statue di Marly, i padiglioni di Lucienne. Ridipingimi nel ricordo anche Madrid, Bagatelle, i giardini del Re, il Deserto. Che idee grandiose provocava la vista di una simile colonna! Pure la scala a chiocciola era bella! Ridisegnami tutte quelle scene, mio caro compagno, e io dimenticher il modo sgarbato in cui mi disapprovavi pocanzi. Sulla centralit della psicologia delle facolt nel mondo politico neoclassico occupato da Jefferson si veda: Howe (1997).

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que in un luogo impervio, ma non aliena allospitalit. Chi convalidi il suo assetto cognitivo pu farvi visita e condividerne le bellezze. qui che secondo me si inserisce lelemento repubblicano del pensiero di Jefferson. Per convalidare lassetto cognitivo di Monticello e condividerne i frutti, lAltro dovr comprenderne prima il carattere locale. Monticello va esperito in quanto luogo fisico localizzato nel paesaggio. E questo paesaggio un paesaggio naturale che contiene al suo interno un motivo di pastorale agraria. Proviamo dunque a ripartire da questultimo dato per ricostruire la valenza da dare alla suddivisione dellio di Jefferson in Mente calcolatrice e Cuore sentimentale. Come si visto, mentre la Mente fonda il proprio sapere sul calcolo, il Cuore si apre alla contemplazione della natura e allattesa dellAltro. La divisione di ruoli localizzata da Jefferson nella divisione della sua abitazione mentale. Come abbiamo visto, questa divisione pu anche essere letta nel diagramma scopico di Monticello. Unaltra lettura per possibile. Jefferson usa per la prima volta il toponimo Monticello nel 1767 nel suo quaderno di giardinaggio (il cosiddetto Garden Book). Se nel Dialogo la contemplazione della natura doveva essere praticata a vantaggio della passione morale, per tutta la vita Jefferson osserv la natura di Monticello con locchio calcolatore della Mente. Nel quaderno di giardinaggio, come negli altri suoi diari, Jefferson divide e suddivide, calcola e computa. Il fine ultimo delle sue osservazioni barometriche, botaniche, agrimensorie e dei suoi esperimenti agrari, ottici ed etnografici era lo sfruttamento rigoroso di tutte le risorse offerte dal sito. A Monticello tutto era calcolato allutile e ogni possibile risorsa dalla mente calcolatrice del suo padrone (che malgrado questo fin per portare limpresa al fallimento, preferendo, ad esempio, la cucina di stile francese a quella locale). Monticello dunque per il suo padrone un luogo di computo e di rendimento, come lo era di lavoro coatto e di sfruttamento per i suoi schiavi. Ci che dava un carattere morale a tale sfruttamento era il discorso repubblicano della virt civile da attribuirsi ai doveri provenienti dalla patria potest, un discorso che nel nord della costa atlantica veniva sempre pi metaforizzato, ma che al sud veniva ancora letto, per interesse, alla lettera. Secondo questo discorso assai ambiguo sulla virt greco-romana, solo colui che ha ben governato la tenuta agraria pu ambire al governo della cosa pubblica - che un dovere da assumersi temporaneamente e con la dovuta gravitas. La configurazione neoclassica che vede il governo del podere come il fondamento dellamministrazione della cosa pubblica impone dunque una topografia virtuosa (nel senso ambiguo sopra indicato) di tante piccole localit come Monticello aperte luna verso laltra. Tale limpianto microscopico di una societ sana, impianto che dovr essere replicato sulla scala macroscopica dellassetto federale. La virt repubblicana si fonda quindi sul buon governo della cosa pubblica come espressione del buon governo della localit di provenienza del governante. Lapertura scopica della villa va inserita in questo contesto: essa dispone la mente del yeoman farmer verso quellassetto cognitivo che meglio gli consente di legarsi alla specificit empirica del territorio. l che ha origine il buon governo. Ed pure l che ha origine la sovranit federale.

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Contraddizioni e colonizzazioni
Il modello cognitivo e politico impiantato da Jefferson a Monticello intimamente contraddittorio e aperto alla possibilit di essere a sua volta colonizzato da altre pratiche discorsive. Dal punto di vista cognitivo, ladattamento del regime scopico della villa palladiana alla descrizione empirica maschera il fatto che ci che viene usato per simbolizzare losservazione empirica sostanzialmente una costruzione prospettica: per quanto non demarcata visivamente, la proiezione degli assi ortogonali sul circondario permette ancora a chi occupi la villa di percepire lo spazio secondo le caratteristiche fondamentali della prospettiva lineare. Questo mascheramento simbolico ci porta dal livello cognitivo a quello pi propriamente politico. Il modello jeffersoniano che lega la virt civile al possesso di terre ben governate ancora fondamentalmente manorile in senso britannico e destinato a fallire in un paese come gli Stati Uniti dove fin dallinizio vasti strati della popolazione possedevano appezzamenti terrieri. Infine, la retorica della patria potest non potr giustificare a lungo in una societ sempre pi democratica limpiego del lavoro coatto degli schiavi di famiglia. A quale virt civile e politica porta il possesso e lo sfruttamento (anche erotico) di vite umane?10 Ogni regime scopico pare essere attraversato per sua natura da contraddizioni ed in larga misura colonizzabile. In un certo senso, anche il regime scopico dellosservazione empirica una colonizzazione e contaminazione del regime scopico del razionalismo prospettico di cui condivide limpianto fortemente scenografico se non proprio teatrale. Allo stesso modo, il regime barocco pare funzionare come una riduzione allassurdo delle contraddizioni presenti in entrambi i precedenti regimi scopici. Ma a sua volta anche la contaminazione barocca aperta ad altre colonizzazioni. Incarnandosi nella visione strumentale degli apparecchi fotografici prima, e in quelli cinematografici poi, il regime scopico della descrizione empirica stato colonizzato dalliperstimolazione sensoria dello spettacolo barocco. A sua volta, il ritorno tecnologico del barocco, pi che essere una riduzione allassurdo della visione strumentale stato ricolonizzato e messo al servizio della fantasmagoria delle merci. Pi che rappresentare un punto di fuga dalla logica capitalista, il neo-barocco dei media immerge sempre pi la mente dello spettatore nel sogno senza uscita di un mondo interamente mercificato.

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Alludo qui alla relazione intrattenuta da Jefferson con la mulatta Sally Hemings. Sullargomento si veda: Jan Lewis and Onuf (1999).

Conclusioni
In quanto precede, si ripercorso un tragitto di idee che assegnava al governo dei luoghi una dimensione anche cognitiva. Lultimo momento edificatorio prima del collasso di tale tradizione legava la territorialit federale ad un modello utopico di percezione mirante a creare una catena di localit razionali aperte allo studio della natura e allincontro con lAltro. Molto poco di quanto Jefferson impiant a Monticello pu essere riusato oggi se non forse il desiderio di ripensare la cosa pubblica a partire da una salda stabilizzazione della percezione dei luoghi. Tale antecedente dovrebbe comunque

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interessare coloro che intendessero rimettere sul tavolo le dimensioni politiche della cura paesistica. Perch ormai pare chiaro: un federalismo che abbia del tutto perso il senso del paesaggio sar del tutto indistinguibile dai processi di parcellizzazione tipici della globalizzazione tardo capitalista.

Riferimenti bibliografici
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__________________ Anthony Marasco si laureato in Lingue e Letterature Straniere presso il Dipartimento di civilt Anglo-Americana dellUniversit degli Studi di Ca Foscari, Venezia. Attualmente in procinto di conseguire un Ph. D. in storia delle idee (intellectual history) presso il Dipartimento di Storia della University of California, Berkeley. Nellanno accademico 1996-97 stato un intern presso la Photograhs Collection del Centre Canadien dArchitecture/Canadian Centre for Architecture, Montral, Quebec. photo@uclinkh.berkeley.ldu

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Domanda di regolazione e lavoro di rete: il caso delle piccole e medie imprese venete in Romania*
Passaggio a NordEst
La Regione Veneto ha orientato, soprattutto negli ultimi dieci anni, la promozione dellapertura internazionale del sistema produttivo regionale verso i mercati dellEuropa dellEst. Come evidenziato da un recente documento della Giunta Regionale: La Regione partecipa a due importanti soggetti pubblici: la Finest S.p.A., finanziaria specializzata nella promozione di joint-ventures e nello sviluppo di iniziative di natura commerciale e industriale e il Centro di Documentazione Internazionale Informest, che fornisce alle imprese servizi di consulenza, formazione e informazione commerciale-normativa (Regione Veneto 2000, 10). Lattenzione prestata allEst europeo non dovuta solo a ragioni di vicinanza geografica e culturale ai paesi della Mitteleuropa, ma soprattutto allattrazione esercitata da questi ultimi sui sistemi produttivi locali che, dopo la caduta del Muro di Berlino, hanno trovato nei paesi come la Polonia, la Repubblica Ceca, lUngheria e, soprattutto, la Romania, nuovi spazi per delocalizzare la produzione aumentando la competitivit delle imprese. Come stato notato a questo proposito (Crestanello 1997, 121), il fenomeno della riallocazione della produzione a imprese subfornitrici di altre aree, comporta una conservazione del controllo delle fasi della produzione effettuate al di fuori del distretto. () Il principale scopo di questa strategia di ridurre i costi di produzione poich i subfornitori sono di paesi con un basso costo del lavoro. Il trasferimento nei paesi dellEst delle Piccole e medie imprese (Pmi) venete, tuttavia, riguarda solo in parte il fenomeno della subfornitura, poich in molti casi si tratta di nuove imprese, non solo manifatturiere ma anche agricole e di servizi, che si costituiscono interamente nel paese ospitante e che tengono con la regione di provenienza relazioni di tipo essenzialmente commerciale, oppure producono solo per il mercato interno, come nel caso delle imprese di costruzioni. Secondo Cor (2000, 213), il fenomeno della delocalizzazione ha raggiunto nel Nord Est dimensioni consistenti, tali da far ritenere che non si tratti affatto di un evento congiunturale quanto piuttosto di un sintomo del cambiamento strutturale delleconomia regionale, da interpretare nel quadro della nuova divisione
* Il presente lavoro fa parte di una ricerca pi ampia di prossima pubblicazione per i tipi dellUTET Libreria. (Messina 2001).

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Le Contee di Arad e Timisoara vengono qui considerate come ununica regione poich, secondo il progetto di riforma istituzionale sul decentramento di prossima attuazione, esse verranno unificate, insieme alla contea di CarasSeverin, nella Regione Cinque Ovest. 2 Uno dei problemi rilevanti quando si vuole censire il numero delle imprese, come nel caso delle imprese italiane in Romania, ma non solo, quello di riuscire a fare emergere quella realt fatta di micro e piccole imprese che sfuggono alla classificazione europea delle Pmi (meno di 50 addetti; fatturato annuo inferiore ai 40 miliardi; non pi del 25% del capitale deve essere posseduto da imprese diverse, ecc.) ma che costituiscono una realt importantissima per le reti di impresa. La rilevanza della definizione di Pmi di fondamentale importanza non solo per problemi di ricerca sul campo ma, soprattutto, per le politiche di incentivi attuate dallUE e dai singoli Stati membri dellUnione. 3 questo lobiettivo del progetto-intervento Reti di impresa, reti di governance: la comunit locale delle piccole imprese del NordEst in Romania nella regione di AradTimisoara che sto avviando grazie ad un accordo istituzionale tra lUniversit di Padova e lUniversit Vasile Goldis di Arad, con il supporto logistico del Centro Servizi

internazionale del lavoro. Tuttavia, continua Cor, bisogna ammettere che a tuttoggi non esistono in letteratura misure univoche sugli effettivi livelli raggiunti dai processi di decentramento allestero della produzione. Le difficolt di misurazione non sono solo di tipo statistico-metodologico ma soprattutto di tipo concettuale, di definizione del fenomeno. Per questa ragione, sebbene al momento risulti molto difficile fornire dei dati quantitativi sulla portata del fenomeno della delocalizzazione delle Pmi venete nei vari paesi esteri, rimane tuttavia inconfutabile che il fenomeno sta assumendo una portata decisamente dirompente per gli equilibri economici dei sistemi locali. Particolarmente interessante , in questo senso, il fenomeno che si sta verificando negli ultimi anni nella regione romena di Arad-Timisoara1 che sta vedendo crescere a ritmi eccezionali la presenza di piccole e medie imprese del Nord-Est, soprattutto del Veneto. Secondo stime approssimative2 si calcola che in tutta la Romania vi siano circa 7.000 imprese italiane, di cui oltre il 60% provenienti dal Veneto, insediate nella sola regione di Arad-Timisoara e aventi con la regione di provenienza relazioni continue. Basti pensare che dagli aeroporti di Treviso e di Verona per Arad e Timisoara c ormai un volo giornaliero che fa la spola tra le due regioni. Il fenomeno di delocalizzazione delle piccole e medie imprese manifatturiere del Veneto nella regione romena ha assunto ormai, infatti, proporzioni rilevanti: lintero distretto della scarpa di Montebelluna, che gi decentrava pi dell80% della produzione di scarpe da tennis nei paesi del Sud-Est asiatico, ora si sta trasferendo a filiera in Romania e lo stesso sta accadendo nei settori del tessile-abbigliamento, del legno e mobile, delle costruzioni per edilizia locale. Le province pi interessate sono, appunto, quelle di Treviso e di Verona. da notare che le imprese si sono mosse da sole, senza usufruire di alcun aiuto finanziario n appoggio politico-istituzionale, spinte dai vantaggi competitivi che la Romania, nonostante una legislazione a volte inadeguata e un contesto socioeconomico in ritardo di sviluppo, offre sia per i bassi costi della manodopera dotata di una buona professionalit (un salario medio intorno alle 250.000 lire mensili) sia per la forte disponibilit a basso costo di materie prime (legno, pellame, materiale tessile, di costruzione, nonch terreni agricoli a costi bassissimi) sia per essere in una fase di crescita economica e, non ultimo, per essere lunico paese di lingua e cultura neolatina, quindi per certi versi pi vicino allItalia, rispetto agli altri paesi dellEst europeo. Ci troviamo, insomma, di fronte ad un caso esemplare in cui possibile osservare la genesi di forme proto-distrettuali che nascono per gemmazione da distretti storici, i quali stanno non solo trasferendo altrove la propria attivit produttiva, ma anche cercando di ricreare la rete di relazioni comunitarie che caratterizzano i distretti del Veneto. Unoccasione storica, forse irripetibile, per analizzare la realt produttiva e le reti di governance non solo della regione romena, ma anche del Veneto, attraverso una comparazione per contesti3. In questo ambito un ruolo di crescente interesse viene svolto dal Centro Servizi Formativi di Arad, attivato grazie ad un progetto di cooperazione internazionale sostenuto dal Ministero degli Affari Esteri Italiano4 (MAE), che sta diventando un punto di riferimento importante per le imprese venete presenti nella regione, le quali si rivolgono preferibilmente al Centro servizi italiano (veneto) piuttosto

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Formativi di Arad. Il progetto stato inserito recentemente nel protocollo intergovernativo italo-romeno ed pertanto sostenuto dal MAE per il triennio 2001-2003. 4 Il progetto, sostenuto dalla legge 212 MAE, coordinato dallAGFOL (Agenzia per la Formazione dei Lavoratori) di Venezia e dalla Fondazione Vasile Goldis di Arad. Ringrazio Tiberio Grunwald, direttore del Centro servizi e Carlo Bolpin, presidente dellAGFOL, per la collaborazione e per avermi dato la possibilit di intervistare alcuni imprenditori veneti che hanno avviato imprese manifatturiere nella regione di Arad-Timisoara. 5 Il passaggio dalla multiculturalit allinterculturalit non , insomma, un fatto automatico e tanto meno naturale, ma dipende dalla volont politica di costruire una societ in cui la diversit un valore e non una minaccia per lidentit sociale. A proposito mi permetto di rimandare a Messina (2000). 6 Sono stati intervistati 12 imprenditori veneti incontrati in Romania in occasione delle Giornate delle imprese italiane, svoltesi a Timisoara nel maggio 2000. 7 Il Centro Servizi Formativi, a conclusione del progetto di cooperazione internazionale sostenuto dal MAE (dicembre 2000), assumer la forma di una Fondazione e funzioner pertanto come ONG internazionale.

che alle istituzioni locali romene, visto che queste ultime non sempre sono in grado di costruire un vero e proprio canale di comunicazione tra la cultura delle imprese italiane e quella del contesto locale romeno: si tratta infatti di unattivit fondamentale, qual quella della mediazione culturale, che non pu essere offerta da istituzioni di rappresentanza, politica o degli interessi, ancora legate ad una logica di azione di tipo tradizionale e monoculturale, ma deve prevedere operatori e organizzazioni forniti di una diversa sensibilit di tipo interculturale5. Lo stesso tipo di difficolt incontrano, daltra parte, le (poche) associazioni di categoria italiane e venete che operano nella regione romena che hanno aperto sedi a Bucarest e una rappresentanza nella regione di Arad-Timisoara. Gli imprenditori intervistati6 ritengono, infatti, che la logica di azione di queste associazioni nel fornire servizi alle imprese sia troppo italiana, orientata cio al medesimo tipo di servizi offerti in Italia (e ai costi italiani), come per esempio la certificazione di qualit, o la consulenza sul piano di investimento, mentre le imprese italiane avrebbero pi bisogno di capire come muoversi nel contesto romeno per entrare in relazione con un territorio e una cultura che non conoscono a fondo e dove non possono dare per scontato che il loro sistema di riferimento e di azione sia ugualmente valido. In altre parole, le imprese venete esprimono, se cos si pu dire, una domanda di formazione interculturale, un aiuto per entrare in relazione con un contesto locale con cui intendono familiarizzare secondo logiche che non sono solo quelle predatorie del mero profitto nel breve periodo, ma sono anche quelle del radicamento nella societ locale. Una prova in pi, se ce ne fosse bisogno, che la regolazione dello sviluppo locale dei sistemi di Pmi del Veneto non quella del puro mercato, bens quella della rete comunitaria, radicata nel territorio in cui la comunit delle Pmi opera. interessante notare, a proposito, che le imprese venete esprimono al Centro servizi una domanda di rappresentanza e coordinamento poich, contrariamente a quanto avviene in Veneto, in Romania non possono contare, di fatto, n su un sostegno delle associazioni di categoria del tipo richiesto, n tanto meno su quello delle istituzioni politiche locali della regione di provenienza: una novit per le Pmi venete tendenzialmente restie a richiedere, in Veneto, il supporto dei Centri servizi e che dovrebbe far riflettere sullopportunit che, in questa fase, si sta aprendo per unarticolazione pi complessa delle politiche di regolazione dello sviluppo locale del Veneto. Questo tipo di Centro servizi7 si trova ad avere perci, grazie alla sua dimensione interculturale, una posizione privilegiata che gli sta permettendo di diventare un nodo significativo della rete che la comunit veneta e del Nord-Est sta cercando di costruire nella regione romena proprio perch si tratta di un soggetto dotato di una specifica abilit nella costruzione di una rete lunga che sia in grado di connettere la comunit veneta in Romania sia con le reti politico-istituzionali del Veneto sia con quelle della Romania. In assenza di unistituzione politica in grado di svolgere funzioni di networking tra i due contesti locali, le imprese venete possono contare, infatti, solo sulle reti informali di imprenditori che, per, tendono a rimanere reti locali piuttosto corte, cio non sufficienti a garantire un collegamento tra contesti geograficamente lontani e, per di pi, caratterizzati da istituzioni politiche e da modi di regolazione differenti. Accade cos che al Centro servizi si rivolgono, generalmente, imprese e istituzio-

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Un progetto presentato tramite una di queste s.p.a. beneficia, infatti, di un punteggio automaticamente pi elevato. Vedi per esempio la circolare Min.Com.Es. del marzo 2000, e la scheda tecnica contenente gli elementi per la valutazione di progetti dinvestimento finanziati ai sensi della legge 212/92 D.M. n.319 del 21.7.99. Un dato che comunque rimane certo che negli anni Novanta la Regione Veneto ha praticamente annullato le attivit di scambi culturali internazionali, finanziati con la Legge reg. 54/1983 e avviati negli anni Ottanta, che sono state ridotte al minimo a partire dalla VI legislatura.

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La Romania, come gli altri paesi dellEst europeo, contrassegnata da una frattura tra centro e periferia che vede, da un lato, la capitale Bucarest tendente ad esercitare un monopolio per il controllo delle risorse (informative e finanziarie) provenienti dai rapporti con lestero e, dallaltro, la periferia, soprattutto quella delle zone pi sviluppate, che tende a costruire direttamente reti di relazioni con lestero bypassando il governo centrale.

ni che vogliono entrare in relazione con la realt produttiva della regione romena (recentemente alcune Case di riposo per anziani stanno analizzando la possibilit di chiamare in Veneto infermieri specializzati romeni), usufruendo dellefficace lavoro di rete che il Centro in grado di svolgere; al contrario le istituzioni politiche locali del Veneto, che pure stanno avviando gemellaggi con le istituzioni locali romene, non scelgono di interagire con il mondo della societ civile locale, n di muoversi con una logica orientata al lavoro di rete ma, piuttosto, sembrano agire in competizione tra loro anzich attraverso un coordinamento regionale. La domanda di regolazione delle imprese venete che operano nel contesto romeno si rivolge, pertanto, pi a un Centro servizi, in grado di mediare tra i due diversi contesti, che a unistituzione politica locale veneta o romena. Altrettanto interessante rilevare che, come emerso dalle interviste effettuate agli imprenditori veneti ad Arad e Timisoara, la quasi totalit delle imprese italiane non a conoscenza e/o non ha potuto usufruire, di fatto, dei finanziamenti offerti dai programmi europei (come gli studi di fattibilit, workshop promozionali per limpresa, fondi per la formazione, attraverso le linee dei programmi Phare Facility, Jop, ecc.) n del governo italiano (legge 212/92 Min. Com. Es. in cui Finest, Simest e Informest godono di un trattamento privilegiato8). Questo perch, in primo luogo, i criteri di ammissibilit e di valutazione dei requisiti europei non erano adeguati alle caratteristiche delle Pmi venete presenti in Romania, in secondo luogo, perch i costi della consulenza e della procedura burocratica rischiavano di superare gli eventuali benefici e, in terzo luogo, perch Finest e Simest hanno privilegiato la promozione di progetti di portata ingente scegliendo come partner interlocutori proposti dal governo romeno che, fermandosi nella capitale o nelle zone da questa proposte, non hanno avuto, in realt, un impatto significativo sul territorio locale in cui erano presenti le Pmi venete. Riguardo la presenza della Regione Veneto e degli enti locali, opinione diffusa dei piccoli imprenditori veneti intervistati che la logica di azione degli interventi di cooperazione attuati dalla Regione Veneto abbia privilegiato i canali politici istituzionali dello Stato centrale romeno e delle societ finanziarie come la Finest e Informest (di cui la Regione Veneto uno dei principali azionisti) piuttosto che interventi in grado di attivare risorse locali di cui possono usufruire le Pmi venete presenti sul territorio romeno, realizzando un effettivo sviluppo locale. Ancora una volta la logica di azione delle Pmi venete viene percepita dagli imprenditori stessi, e mostra di essere visibilmente distante dalla logica di azione politica della Regione Veneto. Retorica di cooperazione e solidariet9 a parte, lazione politica regionale appare, agli occhi degli imprenditori intervistati, poco convincente e tanto pi difficile da comprendere in quanto le forze politiche del governo regionale sono quelle che dicono di battersi per il federalismo e le autonomie locali: la Regione Veneto, infatti, continua a rivolgersi a Bucarest quando le imprese sono insediate prevalentemente nelle Contee occidentali della Romania10, finanziando interventi che hanno, per, solo uno scarso impatto sullo sviluppo locale delle regioni periferiche a cui partecipano le Pmi venete: tutto questo non favorisce certamente un miglioramento del livello di fiducia degli imprenditori veneti verso listituzione regionale che dovrebbe rappresentarli. N gli Enti locali del Veneto si sono mossi, secondo gli intervistati, in modo pi effi-

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cace e tempestivo, anchessi per mancanza di una reale strategia politica in tema di cooperazione. Essi, tuttavia, vengono percepiti pi vicini alle imprese venete quando si rivolgono alle autorit locali delle province interessate di Arad e Timisoara, bypassando in tal modo sia il governo centrale romeno sia lAmbasciata italiana a Bucarest la quale rappresenta, per gli intervistati, il prototipo pi negativo della burocrazia gestita in senso centralistico11. Al di l della fondatezza delle affermazioni formulate dagli imprenditori veneti intervistati, la loro opinione, spesso argomentata con dovizia di particolari, testimonia, comunque, una distanza crescente tra la politica e leconomia nel Veneto anche nellambito della cooperazione internazionale, una distanza che da alcuni intervistati stata espressa in modo esplicito sotto forma di disinteresse per le vicende politiche regionali e di un dichiarato astensionismo alle elezioni regionali del 16 aprile. Va sottolineato, inoltre, che lassenza della Regione Veneto nella costruzione di reti tra comunit locali venete, per altri versi cos intrecciate, viene puntualmente rilevata dagli intervistati con un certo disincanto, come una specie di profezia che si autoavvera, nella convinzione, al tempo stesso, che diventa sempre pi necessario compensare questa carenza creando, ancora una volta, istituzioni intermedie alternative, in grado di governare un sistema che si fatto pi complesso. In questo caso, quindi, la domanda politica di regolazione, non adeguatamente intercettata da parte della Regione, tende ad essere rivolta, significativamente, a nuove associazioni di imprenditori italiani che stanno nascendo in Romania, come il Circolo delle imprese italiane, che tendono a ricostruire le medesime dinamiche di regolazione comunitaria che caratterizza il contesto di provenienza, soprattutto del Nord-Est. Un altro urgente problema correlato alla sfida della globalizzazione economica riguarda la necessit per le imprese del Veneto di reperire manodopera idonea a garantire i ritmi produttivi del Nord-Est. Come ha recentemente dichiarato il presidente degli industriali del Veneto e di Unindustria di Padova, Luigi Rossi Lucani, per avere pi disponibilit di manodopera la nostra associazione sta dispiegando una serie di attivit volte ad attrarre nel nostro territorio giovani del Mezzogiorno e a formare lavoratori provenienti da altri Paesi12. Secondo stime di Unindustria di Padova, se 5 anni fa solo il 20% delle aziende padovane avvertiva la difficolt a trovare personale, oggi la percentuale salita al 70% e si stima che nei prossimi due anni le imprese della sola provincia di Padova avranno un fabbisogno di centinaia di assunzioni di forza lavoro immigrata. Il rapporto annuale della Fondazione Nord Est 2000 parla ancora pi chiaro: valutando landamento demografico del Veneto e il basso tasso di natalit, si pu sostenere che per i prossimi ventanni la tenuta del sistema produttivo dellintero Nord-Est dipender dalla capacit di attrarre forza lavoro immigrata e di integrarla nei sistemi produttivi locali (Diamanti, Marini 2000). Per le stesse ragioni lemergenza infermieri, denunziata da alcune case di riposo per anziani, che potrebbe essere risolta efficacemente attraverso la cooperazione internazionale con la programmazione di un percorso formativo adeguato assumendo forza lavoro immigrata (come gi stato fatto da alcune regioni della Francia, della Spagna e della Germania), sta incontrando innumerevoli ostacoli di ordine politico e burocratico (Dal Mas 2000), resi ancora pi complessi dalla lentezza decisionale con cui la Regione Veneto sta trattando il problema riman-

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La giustificazione addotta dallAmbasciata italiana di essere stata sottoposta, negli ultimi anni, a ritmi di lavoro quasi insostenibili se vero, come risulta dai dati ufficiali, che ogni giorno devono essere evase oltre 500 richieste ordinarie di visto di ingresso in Italia, mentre nella corsia preferenziale le pratiche da evadere non scendono da tempo sotto la soglia dellemergenza di oltre mille casi. A ci gli imprenditori ribattono che, in ogni caso, questo non pu giustificare n il trattamento clientelare n larbitrariet con cui vengono valutate le pratiche di richiesta di visto di ingresso di lavoratori romeni in Italia, questultimo costituisce il vero nodo dolente ed ha persino costituito oggetto di uninterrogazione parlamentare.
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Cfr. lAssemblea annuale di Unindustria di Padova, tenutasi a Padova il 26 giugno 2000; cfr, L. Barsotti (2000,2).

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Mi riferisco, in particolare, al dibattito emerso sulle cronache nel luglio 2000 sulla ridefinizione delle quote dei nuovi ingressi di lavoratori stranieri su richiesta delle Associazioni industriali delle regioni del Nord, a cui il governo Amato ha risposto: "Prima di stabilire nuovi ingressi di stranieri, verifichiamo in modo certo che non vi sia disponibilit di lavoratori da parte delle regioni del Sud" (Casadio 2000, 4).
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Intervista rilasciata a La Repubblica 19 luglio 2000, p.4.


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Com noto dalla cronaca, il Sindaco leghista del Comune di Treviso, Gentilini, si contraddistinto per aver assunto un atteggiamento di chiara discriminazione nei confronti degli immigrati extracomunitari presenti nella citt. Un elemento su cui riflettere che quella di Treviso per anche la zona da cui molte Pmi locali stanno andando via verso i Paesi dellEst. La ricerca suggerisce, infatti, lesistenza di una significativa correlazione tra le zone con una maggiore presenza leghista, con scarse politiche per lintegrazione degli immigrati e, al tempo stesso, le zone da cui provengono il maggior numero di imprese venete dirette in Romania (cio le province di Treviso e di Verona).

dandolo a Roma e dalla sostanziale mancanza di un intervento di regolazione organico e tempestivo da parte del Governo centrale. La questione destinata a diventare, per, motivo di scontro politico non solo tra Stato e Regioni, o meglio, tra governo di centro-sinistra e Regioni del Nord e del Polo, come il dibattito di questi giorni sta mostrando13, ma anche, prevedibilmente, allinterno della stessa regione del Veneto laddove le posizioni delle piccole e delle grandi imprese sembrano essere decisamente divergenti. Se i rappresentanti delle grandi imprese chiedono, infatti, un aumento del numero di lavoratori immigrati, al contrario Fabio Padovan, rappresentante delle Pmi aderenti alla Life antifisco, ha significativamente dichiarato14: Io dico basta a questo sviluppo sfrenato che stravolge la nostra qualit della vita. Basta fabbriche, basta stranieri, basta inquinamento. Abbiamo devastato il nostro territorio che ormai saturo di capannoni, centri commerciali, traffico, elettrodotti, discariche (). Copiamo il modello federalista svizzero. Teniamoci solo le produzioni ad alto valore aggiunto, che soddisfano le esigenze dei nostri bacini naturali, e per il resto delocalizziamo, ma non al Sud dove c il rischio mafia. In questo modo eviteremo larrivo di migliaia di immigrati che alterano il nostro tessuto sociale. Il problema che rimane quindi tragicamente insoluto proprio quello della regolazione politica di queste dinamiche dello sviluppo locale che richiederebbero un coordinamento e una programmazione degli interventi del tutto inedita per la cultura di governo locale e regionale del Veneto. Cos, se da un lato, le politiche di integrazione degli immigrati non trovano spazio in Comuni come Treviso15, amministrati dalla Lega, uno dei Comuni pi ricchi ma anche culturalmente pi lontani dai valori dellinterculturalit, dallaltro le iniziative attuate dalle singole associazioni di categoria, senza alcun coordinamento pubblico, rischiano di rimanere iniziative isolate e poco conosciute, pur avendo prodotto buoni risultati. Un esempio per tutti pu essere quello dellApi (Associazione piccole imprese) di Vicenza che nel 1998 ha attuato un progetto di formazione di operai specializzati saldatori, reperendo la manodopera tra giovani meridionali provenienti da Siracusa con un percorso formativo che prevedeva uno stage presso imprese vicentine. Le imprese venete, tuttavia, secondo quanto dichiarato dai rappresentanti della stessa associazione di categoria vicentina, hanno mostrato di essere riluttanti a trasferire parte della loro attivit nel Sud del Paese poich scoraggiate da un pregiudizio antimeridionalista, portato avanti anche dalla Lega Nord e alimentato dallo stereotipo negativo del Sud = mafia e criminalit organizzata. Pu essere interessante rilevare che, proprio su questo problema, ben diversa stata, invece, lazione svolta dalla Regione Emilia Romagna che, grazie al Progetto Nord-Sud, dal 1996 sta avviando un intenso lavoro di rete con alcune Regioni del Sud Italia per sostenere le imprese emiliano-romagnole che intendono delocalizzare in aree pi favorevoli, oppure trovare manodopera qualificata da formare per le esigenze delle Pmi locali (Degli Esposti 1999). Rimane il fatto che quella dei lavoratori stranieri in Italia, e in Veneto, costituisce un vero problema reso ancora pi marcato dalla contingentazione di lavoratori stranieri ammessi regolarmente per ogni Regione, sulla base di una quota concordata tra Regioni e Governo centrale e gestita in loco dalla Regione. Gli elementi raccolti mettono in luce come questo punto, in particolare, destinato a

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diventare uno dei nodi fondamentali della contrattazione tra Regione Veneto e Stato centrale nel prossimo futuro.

Riferimenti bibliografici
BARSOTTI, L. (2000), Unindustria: non c manodopera, in Il Mattino di Padova, 27 giugno, p. 2. CASADIO, G. (2000), Il governo frena sugli immigrati. Prima i giovani meridionali, in La Repubblica, 19 luglio, p. 4. COR, G. (2000), Delocalizzazione: minaccia, necessit o opportunit, pp. 213-220 in I. Diamanti e D. Marini (2000). CRESTANELLO, P. (1997), I distretti industriali in Veneto: Cambiamenti e tendenze, in COSSENTINO F., PYKE F., SENGENBERGER W. (a cura di), Le risposte locali e regionali alla pressione globale: il caso dellItalia e dei suoi distretti industriali, Bologna, il Mulino, pp. 101-40. DAL MAS , S. (2000), Negato il visto alle infermiere rumene, in La Tribuna di Treviso, 14 luglio. DEGLI ESPOSTI, C. (1999d), Le azioni negoziate intraprese dalla Regione EmiliaRomagna, Le Istituzioni del federalismo, 2, pp. 351-75. DIAMANTI I., MARINI D. (a cura di) (2000), Nord Est 2000. Rapporto sulla societ e leconomia, Venezia, Fondazione Nord Est. MESSINA, P. (2000), Diritti umani e societ interculturale: per la costruzione sociale di un progetto di sviluppo politico, paper presentato alle Giornate accademiche di Arad, Universit Vasile Goldis, Arad, 18-20 maggio 2000. MESSINA, P. (2001), Regolazione politica dello sviluppo locale. Veneto ed EmiliaRomagna a confronto, Torino, UTET Libreria, in corso di pubblicazione.

_________________________ Patrizia Messina ricercatrice di Scienza politica presso il Dipartimento di Studi storici e politici dellUniversit di Padova e insegna Governo locale presso il Corso di Diploma per operatori della Pubblica Amministrazione. La sua area di ricerca focalizzata sui temi delle culture politiche locali e dei processi di governance orientati alla regolazione politica dello sviluppo locale. pmessina@ux1.unipd.it

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Gli strumenti delle politiche: una rassegna


Il sestante
Nel campo dellanalisi delle politiche pubbliche ci sono numerosi studi che, a vario titolo, pongono al centro della propria indagine gli strumenti delle politiche intesi come quellinsieme di tecniche attraverso le quali i governi esercitano il proprio potere nel tentativo di assicurarsi sostegno e promuovere cambiamenti sociali (Bemelmans-Videc et al. 1998). Tali lavori presentano caratteristiche assai diverse: alcuni autori, infatti, prendono come campo dindagine una specifica area di intervento (la politica economica, industriale, ambientale, ecc.) e cercano di individuare tutti i possibili modi attraverso i quali i governi cercano di raggiungere gli obiettivi posti a fondamento della loro azione. Altri scelgono invece di concentrare lattenzione sugli strumenti a disposizione dei diversi livelli di governo in uno specifico contesto storico e nazionale. In altri, infine, la riflessione assume un orizzonte pi ampio prendendo come riferimento lintero spettro di azione degli apparati politicoamministrativi, nellintento di far emergere una famiglia di strumenti, non troppo composita, a cui ricondurre lintero complesso delle attivit poste in essere dai diversi livelli di governo. In queste pagine mi ripropongo di fornire una prima rassegna degli strumenti di policy prendendo come riferimento tre lavori assai diversi tra loro. Lobiettivo non quello di procedere ad una rigorosa comparazione dei diversi approcci utilizzati dagli autori (n di formulare unulteriore proposta di classificazione degli strumenti di policy) bens di mettere a disposizione del lettore una serie di intuizioni e suggerimenti al fine di valutare quale contributo tale approccio di studio pu fornire in chiave descrittiva, teorica e prescrittiva.

La cassetta degli attrezzi a disposizione dei governi.


Christopher Hood stato uno dei primi autori che ha cercato di indagare lattivit politico-amministrativa proponendo come chiave di lettura gli strumenti a disposizione dei governi. Il suo lavoro ha unimpostazione di carattere sistemico e mira ad individuare e distinguere sia gli strumenti che i governi utilizzano per promuovere e modificare i comportamenti dei destinatari delle politiche (effector) sia gli strumenti attraverso i quali gli apparati politico-amministrativi acquisiscono le risorse necessarie alla loro attivit (detector). Secondo Hood, i governi dispongono, per definizione, di quattro risorse fondamentali: autorit, finanze, organizzazione e posizione.

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Le risorse di autorit consistono nella facolt che i governi hanno di emanare norme giuridiche, le finanze concernono luso delle risorse finanziarie di cui dispone ogni livello di governo e lorganizzazione ha invece a che fare con la capacit di istituire organi, enti, istituti per lo svolgimento di funzioni e attivit ritenute, a vario titolo, di interesse pubblico. La quarta risorsa base (nodality nel testo originale, che ho qui tradotto con posizione) richiede qualche parola in pi. Ogni governo, per definizione, si trova ad essere parte di un sistema di relazioni con attori di diverso tipo (cittadini, associazioni, imprese, altri livelli di governo, ecc.). Le relazioni possono ovviamente assumere caratteristiche e natura molto diverse; qui importa solo richiamare lattenzione sul fatto che la posizione ricoperta dalle autorit pubbliche pu essere una risorsa per alcuni strumenti. Ognuna di queste risorse attribuisce ai governi la capacit/potenzialit di costruire specifici strumenti di politica pubblica. In particolare, lautorit attribuisce ai governi la capacit di certificare, abilitare, ordinare, proibire, concedere, autorizzare comportamenti e attivit messi in atto dai soggetti che ricadono in specifiche giurisdizioni. Le risorse finanziarie possono invece essere impiegate per erogare sussidi, contributi, incentivi finalizzati alla promozione e/o al riconoscimento positivo di comportamenti che vanno nella direzione desiderata dai governi. Per alcuni compiti o obiettivi, i governi possono invece optare per lutilizzo della risorsa organizzazione creando organismi ad hoc (dai vigili del fuoco ai servizi sanitari). Per quanto riguarda lultima risorsa, nodality, Hood osserva che la peculiare posizione e caratteristica dei governi nei processi di policy pu essere utilizzata per acquisire e diffondere informazioni e conoscenze in grado di modificare il comportamento di individui ed organizzazioni (come nel caso delle campagne di informazioni che mirano a promuovere luso del casco, la sicurezza nei luoghi di lavoro, ecc.). Nella sua indagine, inoltre, Hood dispone questi strumenti lungo un continuum, dagli strumenti di natura meno coercitiva (quelli che fanno affidamento sulla nodality e sulle finanze) a quelli di natura pi coercitiva (che impiegano lautorit e lorganizzazione).

Carrots, Sticks & Sermon


Carrots, Sticks & Sermon (che possiamo tradurre con carote, bastoni e sermoni) il significativo titolo di un recente lavoro realizzato a cura di Marie Louise Bemelmans-Videc, Ray C. Ryst ed Evert Vedung. In questo studio gli autori circoscrivono lindagine agli strumenti di policy che mirano a promuovere modificazioni nel comportamento di cittadini e organizzazioni lasciando in disparte quegli interventi che operano trasformazioni sulla struttura dellamministrazione pubblica. In altre parole, seguendo la proposta classificatoria di Hood, il lavoro di Bemelmans-Videc e colleghi non prende in esame gli strumenti che si fondano sullutilizzo della risorsa organizzazione. In questo modo gli strumenti delle politiche si riducono a tre grandi categorie in ragione del tipo di risorsa che essi utilizzano: le regole, i mezzi economici, linformazione. Gli strumenti regolativi (sticks) sono impiegati sia per definire le azioni consentite, sia per limitare quelle attivit ritenute dannose per una determinata societ. Tali strumenti solitamente trovano specifica e puntuale definizione in provvedi-

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menti normativi che stabiliscono le sanzioni da comminare qualora un soggetto compia azioni proibite, non consentite. Lutilizzo delle regole implica sempre un qualche grado di coercizione poich il destinatario obbligato a fare (o a non fare) ci che lautorit prescrive. La relazione che si instaura tra apparati politicoamministrativi e destinatari pertanto di natura autoritativa. Le ragioni che sembrano promuovere (almeno implicitamente) il ricorso agli strumenti regolativi sono sostanzialmente due: innanzitutto si ritiene che le regole presentino un notevole grado di certezza ed efficacia; inoltre, si d per scontato che la loro attuazione non incida significativamente sul bilancio pubblico. La ricerca empirica ha tuttavia messo in discussione tali assunti. Il grado di certezza delle regole assai variabile in ragione dei diversi contesti di policy ed inoltre la necessit di dover disporre di apparati amministrativi finalizzati a far rispettare le norme presenta costi che non sono necessariamente ridotti (senza tener conto dei costi della regolazione che ricadono sui destinatari). Attraverso gli strumenti che si affidano alle risorse economiche (carrots) lautorit mira ad indurre il comportamento desiderato ricorrendo alla distribuzione (o alla deprivazione) di risorse materiali. In questo caso, i destinatari non sono obbligati a conformarsi alla norma ma detengono un legittimo ambito di autonomia. In altre parole, i destinatari degli interventi sono posti di fronte ad una scelta che consente loro anche di non mettere in atto il comportamento promosso dalla norma senza che ci comporti necessariamente alcuna sanzione diretta. Gli strumenti di policy che rientrano in questa categoria possono essere ulteriormente distinti tra strumenti che mirano a promuovere il comportamento desiderato (ad esempio gli incentivi e i contributi erogati alle imprese per la promozione dello sviluppo tecnologico) e strumenti che invece sono orientati a disincentivare azioni e comportamenti ritenuti dannosi (ad esempio le imposte sul consumo del tabacco). Le indagini condotte su questo tipo di strumento di policy hanno messo in luce alcuni aspetti negativi legati al loro utilizzo. In particolare, per quanto riguarda i contributi e gli incentivi sono stati rilevati nodi problematici sia sul versante attuativo (in relazione ai criteri impiegati per individuare/selezionare i soggetti beneficiari) sia su quello valutativo (se non si predispongo opportuni strumenti di valutazione dei risultati assai difficile riuscire a distinguere tra i soggetti che hanno modificato il loro comportamento grazie ai benefici previsti dalla norma e i soggetti che avrebbero comunque modificato il loro comportamento anche in assenza dellintervento pubblico). Nel caso degli strumenti che ricorrono allinformazione (sermon) la relazione che si instaura tra autorit pubblica e destinatario di natura persuasiva ovvero si presume di riuscire ad ottenere il comportamento desiderato attraverso la diffusione della conoscenza, la comunicazione di argomenti ragionati e la persuasione morale. Linformazione diffusa pu riguardare la natura del problema, le modalit attraverso cui le persone attualmente affrontano quel problema, le misure che possono essere prese per modificare lattuale situazione e le ragioni per cui tali misure potrebbero o dovrebbero essere adottate dai destinatari. Nellambito degli strumenti di informazione rientrano le campagne di comunicazione pubblica, la diffusione di materiale stampato (brochure, libri, periodici, bollettini, ecc.). Attraverso questo strumento sono offerte informazioni, dati, fatti, conoscenze, argomenti, appelli al senso civico; in questo caso pertanto la

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scelta di adottare determinati comportamenti/azioni lasciata completamente alla discrezionalit/autonomia dei destinatari. La tripartizione proposta nel lavoro di Bemelmans-Videc e colleghi si fonda, in ultima istanza, sulla natura del rapporto che si instaura tra lautorit pubblica (gli organi politico-amministrativi) ed i destinatari delle politiche. Le tre categorie di strumenti, infatti, possono essere disposte lungo un continuum in relazione al loro grado di coercizione (come gi nel lavoro di Hood). Le regole sono lo strumento che prevede il massimo grado di coercizione riducendo al minimo lambito di autonomia del destinatario (le norme del codice penale sono lesempio pi incisivo); al polo opposto, gli strumenti che ricorrono allinformazione lasciano la massima libert dazione ai destinatari e dispongono di un basso grado di capacit coercitiva (si pensi alle campagne dinformazione per la lotta contro il fumo); gli strumenti di natura economica si situano invece a met strada con un grado di coercizione intermedia poich tentano di modificare il comportamento dei destinatari attraverso luso di incentivi e/o disincentivi materiali.

Gli strumenti del governo federale americano


The tools of government action il sottotitolo di unopera collettanea edita nel 1989 a cura di Lester Salamon. A differenza dei lavori precedentemente descritti, Salamon e colleghi restringono ancor di pi il loro universo di riferimento e focalizzano lattenzione sul caso nordamericano (per di pi concentrando lattenzione soprattutto sul livello federale). Dopo aver indicato le principali difficolt che si incontrano nellelaborare unesaustiva classificazione degli strumenti impiegati nei programmi federali, gli autori propongono una tipologia che si fonda su alcune dimensioni degli strumenti: il tipo di attivit pubblica prevista (erogazione di risorse finanziarie, fornitura di beni e servizi, norme regolative), il grado di automatismo (alto o basso) e le modalit di attuazione e gestione (elaborato lungo un continuum che ha come poli estremi da un lato gli strumenti che richiedono un intervento diretto e centralizzato da parte dei governi e dallaltro quelli che prevedono un intervento indiretto e decentralizzato). Sulla base di questa classificazione vengono individuati i sei principali strumenti di cui il governo federale si avvale per conseguire gli obiettivi di policy: gli apparati e le agenzie di governo (direct government), i trasferimenti finanziari erogati a favore dei governi statali e locali (grants-in-aid), le garanzie sui prestiti (loan guarantees), le agevolazioni finanziarie e tributarie (tax expenditures), le norme che regolano la condotta di individui e organizzazioni (regulation), le agenzie e le imprese istituite dal governo federale ma che godono di unampia autonomia (government corporation). Lanalisi di Salamon e colleghi mira in modo esplicito ad individuare i limiti e i punti di forza di ogni singolo strumento rinviando a numerosi studi ed esempi tratti dalla realt americana. Le politiche che si affidano pressoch esclusivamente allazione diretta di agenzie e apparati di governo (direct government) consentono di internalizzare i costi di transazione e di promuovere la formazione di una burocrazia pubblica dotata di notevole capacit ed expertise ma, per converso, rischiano di fallire (o di dimostrarsi meno efficaci e/o efficienti) quando lorganizzazione antepone lobiettivo della propria sopravvivenza a quello di policy.

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I grants-in-aid ovvero i trasferimenti finanziari a favore dei livelli di governo inferiore (rispetto a quello centrale) rappresentano uno dei principali strumenti di politica pubblica di cui si avvalso il governo federale. I punti di forza di questo strumento risiedono nel suo notevole grado di flessibilit e nel ruolo assai limitato che esso affida agli apparati burocratici centrali. Al tempo stesso tuttavia i grants-in-aid appaiono assai difficili da gestire in fase di attuazione in ragione del loro elevato grado di complessit (che va di pari passo con la flessibilit) e possono dar luogo a conflitti tra i diversi organi di governo in ragione della maggiore o minore autonomia che essi attribuiscono ai livelli inferiori di governo. interessante rilevare che nella realt nordamericana tale strumento ha manifestato risultati migliori nel campo delle politiche di natura infrastrutturale mentre si dimostrato assai meno efficace nei programmi di lotta alla povert. Inoltre i grants-in-aid hanno contribuito a promuovere e sviluppare le capacit progettuali delle amministrazioni dei livelli di governo statale e locale (soprattutto quando queste hanno dovuto competere per ottenere le risorse stanziate dal governo federale). Le garanzie sui prestiti (loan guarantees) sono strumenti attraverso i quali il governo federale simpegna a sostenere finanziariamente specifiche categorie di debitori qualora queste non siano in grado di far fronte autonomamente agli obblighi contratti con le istituzioni finanziarie e creditizie. Tale strumento, in altre parole, opera nella direzione di rendere pi appetibile e/o meno onerose quelle attivit che il mercato, lasciato ai suoi tradizionali meccanismi, non in grado di sostenere. La principale caratteristica positiva di questo strumento risiede nel fatto che esso non prevede (almeno sul breve periodo) alcun esborso da parte del governo federale. Peraltro anche questo strumento, come i grants-in-aid, presenta un elevato grado di complessit in fase di attuazione. Le agevolazioni tributarie e fiscali (tax expenditures) consistono in provvedimenti che permettono di dedurre (in tutto o in parte) dal reddito imponibile le risorse finanziarie destinate alla promozione e realizzazione di specifiche attivit. Questo strumento ha il notevole vantaggio di non prevedere alcuna voce di spesa sul bilancio pubblico ma, se usato con eccessiva generosit, rischia di ridurre notevolmente le entrate fiscali, di rendere assai pi laboriosa lattivit di accertamento e, in definitiva, rischia di accrescere il grado di complessit del sistema tributario. Inoltre, le agevolazioni tributarie, per essere efficaci, richiedono una costante attivit di microregolazione sulle specifiche agevolazioni e un apparato amministrativo decisamente abile ad individuare e sanzionare luso scorretto ed opportunistico delle misure introdotte. Lo strumento regolativo (regulation) opera attraverso limposizione di regole e standard che restringono lo spazio dazione di individui e organizzazioni al fine di impedire comportamenti e attivit ritenute dannose o comunque negativamente sanzionate. Le caratteristiche dello strumento hanno condotto a ritenere che la sua gestione si riduca alla mera specificazione delle regole integrata da unattivit di controllo volta ad imporre ai destinatari ladeguamento alle norme. Gli aspetti positivi dello strumento risiedono nella constatazione che spesso essi non richiedono (se non in rari casi) listituzione di nuovi apparati amministrativi e non presentano voci di spesa sul bilancio federale. Negli ultimi anni tuttavia sono stati realizzati numerosi studi che evidenziano i costi nascosti connessi

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alla gestione di questo strumento sia sul versante pubblico (lattivit di enforcement pu comunque richiedere ingenti risorse amministrative), sia sul versante privato (in cui si tentato di rilevare il costo che ricade sui destinatari finali attraverso lanalisi di impatto della regolazione). Le government corporation, lultimo degli strumenti presi in esame, consistono in organizzazioni istituite ad hoc che godono di un maggior grado di autonomia rispetto ai tradizionali apparati di governo. Inizialmente introdotte per la fornitura di particolari beni commerciali, le government corporation sono diventate molto popolari perch consentono di sfuggire ai tradizionali vincoli e controlli a cui devono sottostare gli apparati pubblici (soprattutto in materia di gestione del bilancio, reclutamento del personale e formalizzazione delle procedure). I limiti di questo strumento sono speculari ai suoi vantaggi poich il maggior grado di autonomia di cui usufruiscono le government corporation rende pi difficile lattivit di controllo sul loro operato I diversi strumenti oggetto di studio sono inoltre presi in esame con riferimento ad una serie di dimensioni: la fattibilit amministrativa, il sostegno politico, lefficacia, lefficienza e lequit. Per quanto riguarda la fattibilit amministrativa i dati della ricerca sottolineano che gli strumenti solitamente ritenuti pi semplici ed immediati (i grants-in-aid, le garanzie sui prestiti e le agevolazioni tributarie) presentano invece un notevole grado di complessit operativa. In relazione al sostegno politico si registra che i policy-makers (nella ristretta accezione del personale di governo) tendono a privilegiare gli strumenti che non prevedono esborsi da parte del governo (quali le garanzie sui prestiti e le agevolazioni tributarie); in tal modo essi riescono a raggiungere il duplice obiettivo di dimostrarsi interessati alla soluzione di uno specifico problema (o sensibili agli interessi di una o pi categorie di cittadini) e di ridurre al minimo limpatto del programma sulle finanze pubbliche. Assai meno significativi sono i dati di ricerca relativi allefficacia, allefficienza e allequit promossa dai diversi strumenti. Tali variabili non si prestano ad essere facilmente riconducibili alle sole caratteristiche dello strumento. Per quanto circoscritto allanalisi della realt nordamericana (anzi, proprio per questo) lindagine di Salamon e colleghi uno dei pi interessanti tentativi di mettere al lavoro il concetto di strumento delle politiche cercando di individuare, su base empirica, le conseguenze (limiti e vantaggi) che si manifestano nellutilizzo dei diversi strumenti. Al tempo stesso lindagine rende conto degli ostacoli che gli autori hanno incontrato nellindividuare categorie omogenee di strumenti. Le differenze che si registrano tra tipi (esperienze) di strumenti che ricadono nella medesima categoria sono rilevanti quanto quelle esistenti tra strumenti che fanno parte di categorie diverse. A questo proposito, il caso dei grants-in-aid abbastanza significativo. Nel corso dei decenni tale strumento si trasformato notevolmente, al punto che difficile ricondurre linsieme dei diversi grants-in-aid utilizzati dal governo federale ad ununica categoria omogenea. In alcuni casi lammontare dei finanziamenti agli altri livelli di governo (stati e autorit locali) viene determinato sulla scorta di parametri economicosociali (numero abitanti, tassi di disoccupazione, ecc.) mentre in altri casi lesito di una competizione tra i potenziali beneficiari. E osservazioni analoghe valgono per ognuno dei singoli strumenti presi in esame.

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Conclusioni
Il compito di tirare le fila del discorso pi arduo di quello solitamente richiesto al paragrafo delle conclusioni. Infatti, pur prendendo come riferimento lo stesso fenomeno (gli strumenti delle politiche) le indagini di Hood e quelle curate da Salomon e Bemelmans-Videc lo affrontano da prospettive e con finalit assai diverse. Per gli obiettivi di questo lavoro tuttavia tale caratteristica anzich essere un limite si rivela un vantaggio poich consente di rilevare le diverse potenzialit degli studi che indagano gli strumenti delle politiche pubbliche. Sotto il profilo descrittivo prendere come punto di aggressione gli strumenti delle politiche pubbliche permette di cogliere da una nuova prospettiva lattivit della pubblica amministrazione. Le principali difficolt che si incontrano riguardano il grado di definizione delle diverse categorie degli strumenti. Se gli obiettivi dellindagine sono di carattere teorico, i modi di agire della pubblica amministrazione, si tende ad individuare un numero ristretto di categorie a cui ricondurre i numerosi e concreti strumenti di policy. Qualora invece si desideri approfondire lanalisi sulle conseguenze connesse allutilizzo dei singoli strumenti necessario mettere a fuoco variabili legate al contesto di policy (e relative sfumature); in tal modo tuttavia si rischia di rendere ogni singola esperienza concreta un caso unico da cui difficile inferire generalizzazioni. Porre attenzione ai diversi strumenti impiegati dagli apparati pubblici lungo la dimensione temporale tuttavia potrebbe far emergere fasi storiche in cui si registra una maggior presenza di alcuni strumenti a scapito di altri. Il lavoro di Salamon ed altri offre a questo proposito interessanti osservazioni. La ricostruzione (spesso solo abbozzata) del percorso storico dei principali strumenti adottati dal governo federale permette di rilevare come ognuno dei diversi strumenti indagati, pur affondando le radici in tempi assai lontani, abbia conosciuto periodi di successo (i grants-in-aid, ad esempio, sono stati molto popolari soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta mentre le garanzie sui prestiti e le agevolazioni tributarie hanno riscosso maggior successo negli anni Settanta). Queste ultime considerazione spostano laccento su un piano pi teorico non appena ci si interroghi sulle origini e le trasformazioni degli strumenti di policy. A questo proposito occorre ricordare che la puntuale definizione di uno strumento in fondo lesito di un processo decisionale pubblico in cui la scelta dello strumento si intreccia con altri elementi (quali ad es. la definizione del problema, il tipo e le risorse a disposizione dei diversi attori coinvolti). Sia il lavoro di Bemelmans-Videc che quello di Salamon rilevano alcune delle possibili variabili che possono incidere sulla scelta degli strumenti (lambiente politico, le condizioni economiche, le preferenze degli attori di governo, la caratteristiche delle agenzie pubbliche). In definitiva, la scelta dello strumento di policy non quasi mai una questione esclusivamente tecnica (e praticamente mai quando si tratta di introdurre un nuovo strumento). Ci non toglie che molti dei risultati emersi dalle diverse indagini offrano spunti utili in chiave prescrittiva. La ricostruzione della potenziale cassetta degli attrezzi a disposizione delloperatore pubblico consente innanzitutto di individuare i diversi strumenti di cui possono avvalersi le amministrazioni pubbliche

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per affrontare i problemi di policy. Le caratteristiche dello strumento e (ancor di pi) i risultati emersi dalle indagini che hanno ricostruito i processi attuativi connessi ai singoli strumenti pu inoltre far emergere i rispettivi punti di forza e di debolezza. A puro titolo esemplificativo pu essere interessante rilevare che le amministrazioni pubbliche tendono ad avvalersi sempre pi di tecniche di aiuto alla decisione (quali lanalisi multicriterio e lanalisi di impatto della regolazione) che mirano a ridurre i limiti specifici di alcuni strumenti di policy (lerogazione di incentivi e le norme regolative). In sintesi, unattenta e preventiva disamina delle diverse alternative con cui possibile affrontare uno specifico problema di policy pu permettere di porre rimedi ai tradizionali ostacoli che si incontrano in fase attuativa (e ad individuare ulteriori sfumature dei problemi). Non sar molto ma comunque meglio di nulla.

Riferimenti bibliografici
Bemelmans-Videc Marie-Louise, Rist Ray, Vedung Evert, a cura did, (1998), Carrots, Sticks & Sermons. Policy Instruments and Their Evaluation, New Jersey, Transaction, Publishers. Hood Cristopher C. (1986), The Tools of Governments, New Jersey, Chatham House, 1a ed. 1983. Salamon, Lester M., a cura di, (1989), Beyond Privatization. The Tools of Government Action, Washington D.C., The Urban Institute Press.

Davide Barella professore a contratto di Analisi delle politiche pubbliche presso lIstituto Universitario di Architetture di Venezia. Negli ultimi anni ha svolto indagini e consulenze nel campo delle politiche territoriali e delle politiche sociali. barella@box4.tin.it

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Il sestante

Premessa
Occorre da subito precisare che la questione di Arcipelago stata posta filosoficamente: nel restituire il percorso che si compie attraverso i testi presi in considerazione, si scelto pertanto di restare prossimi, per quanto possibile, al carattere proprio del discorso filosofico, che intrinsecamente di interrogazione, pi che di costruzione di un sapere certo. Nel suo etimo infatti Filosofia non sapere, ma tensione verso la conoscenza, e continuamente relazione con quanto si ignora. Per questo linterrogazione diretta delle fonti originali importante, accompagnata da una consapevolezza delle varie interpretazioni prodotte e dalluso che se ne fatto nel tempo. Le premesse del ragionamento sono poste alla luce di due testi di Massimo Cacciari: Geo-filosofia dellEuropa (1994, Ed. Adelphi, Milano) e Arcipelago (1997, Ed. Adelphi, Milano); vi sono tuttavia dei richiami anche ad un testo precedente, dello stesso autore, dal titolo: Icone della legge (1985, Ed. Adelphi, Milano). Proprio in questultimo Cacciari mette a confronto due opere epocali, in contrapposizione radicale, che si spiegano a vicenda per antitesi: sono, in relazione al principio delleterogenesi dei fini, e nellinterpretazione del concetto di Nmos, La stella della redenzione, di F. Rosenzweig (scritta nel 1930) e di Il Nmos della Terra, di C. Schmitt (scritta nel 1950). Nella prima, si tratta della legge ebraica che, de-cisa da ogni dimora, errante radice, si contrappone a ogni forma di Nmos nella misura in cui questo per essenza terraneo, radicato a dei luoghi, ad un solido stare: anche il Nmos pu uscire dal suo confine, ma sempre deve farvi ritorno, deve ristabilire il patto originario che lo collega alla terra. Limmagine quella delle citt che sono porti. Secondo linterpretazione di Schmitt, dice Cacciari che: il Nmos fissa con la terra un patto indecidibile ... solca la terra, assegna confini e vi si colloca. Il Progetto di Arcipelago allora di un Nmos che picchetta il mare di porti sicuri, bonifica il deserto .... Cacciari racconta un tempo storico ove vi una peculiarit della regolazione politica, economica e sociale della citt e delle citt tra di loro, che metaforicamente la dimensione di Arcipelago, quando la plis non ancora citt-Stato. Allora lo spazio di Arcipelago dei molti, non pu darsi mai unitario, dunque in bilico significativo tra espressione di ricchezza, variet, e rischio di estrema frammentazione. Ma proprio questo darsi distinti, differire, porta a riflettere, a interrogarsi sullidentit, ad intraprendere processi di identificazione e di rappresen-

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tazione dellinsieme delle parti, cercando un discorso che unisca, connetta. La questione dunque potrebbe essere quella della difficile composizione di questi diversi (interessi, visioni, forme di razionalit, ecc.), nel senso di come metterli insieme, farne sistema, in uno spazio che piuttosto di contatto, di costruzione di alleanze. Ad un livello metaforico, si sta dicendo di una condizione attuale delle societ e delle comunit contemporanee, che chiama in causa, pi in generale, la necessit di una dimensione politica e pubblica di trattamento del problema.

Dalla Geo-filosofia dellEuropa a LArcipelago


Il pi bellordine assomiglia a un mucchio di rifiuti gettati a caso
Eraclito, frammento 124

Non che, poich fatto tutto di isole, Arcipelago sia una Grande Isola. Le molteplici isole sono tutte dal Mare distinte e tutte dal mare intrecciate; tutte dal Mare nutrite e tutte nel Mare arrischiate: tale larchi-plagos (Cacciari 1997, 16). Nelle rappresentazioni risalenti al VIII-VII secolo, gli Arcipelaghi del canuto Egeo omerico formano corone di ponti. Le citt sono porti, passaggi (Cacciari 1994, 14) . I confini non sono netti, non tracciano divisioni, le frontiere sono ibride, in continuo spostamento. Le parti dunque non si sono ancora compiutamente determinate, ma nessuna parte in Arcipelago assolutamente separata. Sono ciascuna autonoma, ma sono molte, diverse, e sono insieme. C da interrogarsi sulla natura della loro connessione, come riescano ad armonizzarsi. Su che cosa sia questo connettivo, che cosa accomuni. Originariamente il radicamento pensabile solo nello spazio del Nmos che uno e divino, ed i molti nmoi pleos se sradicati da questo contesto mitico-religioso, non potrebbero pi garantire ordine alcuno, apparirebbero contraddittori perch artifici degli uomini: solo la convinzione che gli di sono, pu farci convinti che le leggi abbiano radice inalterabile (Cacciari 1994, 110). Se questo nomzein viene meno, nessuna superiore unit, nessuna duratura dimora1 concepibile, e Arcipelago sarebbe lo spazio di irriducibili differenze . Ma fin dalle origini il rapporto tra il radicamento del Nmos e lo spazio della plis contraddittorio: i greci vivono tragicamente questo conflitto che, afferma Cacciari, si rivela fin dalle origini pi problematico e complesso di quanto Schmitt non affermi. infatti la tensione tragica tra legge divina e legge umana, tra legge non scritta e legge scritta, che costituisce il cuore dellidea greca del Nmos (Cacciari 1994, 110)2. Gi lesperienza del molteplice getta luce su una costitutiva contraddizione: il molteplice infatti principio del Due3, cio lAltro. Nella lotta i distinti, confliggendo, si mostrano con maggiore nettezza: nel conflitto emerge la realt dellAltro, che diverso, che non si comprende. Ma questo incontro costringe anche a riflettere su se stessi, conoscersi nei propri limiti per poter meglio rappresentarsi nel confronto: cercando la propria identit che ci si scopre costitutivamente molteplici (Cacciari 1997). Per questo il conflitto risorsa: pone la questione del Cum, della relazione. Se

Abitare , etimologicamente, uno dei significati che si comprendono nella radice del verbo nomzein .

Cacciari, M. (1994). Il riferimento sempre allopera citata di Carl Schmitt.

(...) La radice di d`o la stessa di y dedo, che timore, e del termine che indica il tremendo, lo spaesante, deins (...) (Cacciari 1994) . Ma nel familiare la radice, possibilit stessa dello infamiliare (vedi Il Perturbante, di Freud).

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Cacciari, M. (1994). Tenendo questo come quadro di riferimento, forse, si troveranno evidenti assonanze con il discorso federalista.

In questa dimensione polis tuttaltro che forma della cittStato, che sarebbe un difetto di citt, nel senso della relazione plis-poltes, che sar rovesciata con lo ius romano, che si estender valevole ed uguale ovunque, per cui la citt non avr modo di determinare una sua forma autonoma di governo, e la regolazione sar quella dello Stato: cos, la politica non si pone pi il problema dei molti diversi, subentra una dimensione di gestione, trattamento delle differenze (che sono da superare).
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Heidegger sarebbe partito da unannotazione di Hegel, per invertendola; Hegel in realt dice: Una calza rattoppata preferibile di una calza lacerata .... Proprio in questo fraintendimento, tuttavia, sta linteresse della riflessione di Heidegger.

7 Lacerare (zerreissen), significa rompere-indue, dividere. 8

Delle versioni esistenti, mi richiamo allEdizione Adelphi, del 1992, dei Seminari, di Martin Heidegger(1992,41-44).

Arcipelago questo molteplice, coesistenza dei diversi (nmoi, lgoi, ecc.), anche gi spazio del simbolico (da : mettere insieme, mettere con), perch ha in s il principio stesso della connessione. Dunque, in questaltra prospettiva, occorre interrogarsi sulla possibilit che non pi ci che uno solo, originariamente, metta insieme, e cio, che non ci sia propriamente un principio unificatore: il differire stesso ha in s il germe della tensione alla relazione, rappresenta la base da cui muoversi verso un lgos comune: Arcipelago per sua intrinseca natura fatto di parti che distinguendosi si ricollegano. Secondo Cacciari, infatti: (...) La polis ha limpulso a crescere, sallarga, inventa bisogni e consumi. Questa la dimensione della sua politia. Conquista altri territori (...) Polemica sar la sua natura (Cacciari 1994, 53). La citt, plis, per sua natura e costitutivamente molti, stare insieme di diversi, non eguali, per cui Arcipelago anche una molteplicit di forme di costituzione, non c possibilit alcuna di normare allo stesso modo le diverse citt, ma ognuna si d una costituzione, in base alle sue parti4, in base a chi partecipa, e cos, con singoli e differenti processi, determina le leggi che devono ordinare il suo territorio, ma sempre mantenendo la propria autonomia di governo in tensione verso il Lgos comune dellArcipelago, in una dimensione fortemente politica, in quanto il fine non la negazione della contraddizione, ma la relazione dei distinti5. Arcipelago questa intelligenza che divide e separa (Cacciari 1994, 19). Il tutto non coincide con la somma delle parti. E la tensione a essere soltanto, totalmente Uno, indistinto, indifferenziato, sarebbe il rifiuto di ogni connessione. Il problema, filosofico e politico, della relazione delluno e dei molti, si costruisce a partire proprio da questa tensione a comprendere il molteplice, le differenze. Ma, appunto, questinterrogazione su ci che si trova differente - da s -, fa nascere la nostalgia dellUno, sentire la mancanza dellunit perduta e porta a riconoscere la propria singolarit, a riflettere del proprio s, a farne discorso: pone il grande problema della definizione e rappresentazione dellidentit, che fatta di questa relazione tra distinti, dentro una dimensione che accomuna. Su questo punto mi sembra faccia chiarezza in particolare Martin Heidegger, nei Seminari (Le Thor), 1968, quando capovolgendo unannotazione di Hegel, dice che: Una calza lacerata preferibile ad una calza rattoppata (...)6 Ci che manca alla calza lacerata7 lUNIT della calza. Ma, paradossalmente, questo difetto in sommo grado positivo perch (...) questa unit presente in quanto unit perduta (...) Tutti i tentativi di sopprimere la lacerazione devono essere abbandonati, - in quanto la lacerazione ci che sta e deve rimanere al fondo (...) perch solo nella lacerazione pu apparire in quanto assente lunit. Nella riunificazione - e non unification, unificazione, diventare-uno - gli opposti non scompaiono, c lunit degli opposti che continuano a sussistere come opposti8. Dunque, il differire allorigine stessa della ricerca del Cum, del bisogno di unit, ed via che conduce al suo raggiungimento: infatti propriamente dalla relazione con lAltro, dal farne esperienza, che apprendo dellesistenza dei diversi, della mia stessa identit, e della necessit di costruire un lgos che sia comune. Lgos comune o in-comune? Ovvero, il comune propriamente il differire, e quindi un processo, continua-

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mente da farsi, da condividere partecipandovi, che accomuna le parti, e che resterebbe inconcepibile senza di esse (Cacciari 1994). Tale processo, che rende le parti comuni, nel loro differire, dunque interattivo; pi che produrre lgos ( o ), produce senso ( o ), o piuttosto sensi, che nel divenire restano molteplici. Qui il passaggio sottile e si aprono pi possibilit. Il pensiero occidentale infatti soprattutto e-duca e oggettivizza: produce la sua elaborazione sul presupposto che il fine sia larmonizzazione dei conflitti entro un lgos unitario, che riconduca i distinti allunit: il raggiungimento di come far stare insieme i diversi passa attraverso unindagine di tipo analitico, che li determina e li definisce con la massima precisione, come pratiche razionali, li fa stare luno contro laltro (come bipolarismo, coppie concettuali di opposti), li scinde e, attraverso questo passaggio di comprensione separata, assoggettamento, costruisce le modalit per farne appunto lgos unitario, per dimostrarne lavvenuta connessione: collegare ci che lopinione giudica inconciliabile (Cacciari 1994). Il pericolo che questo cessi di essere un processo continuo di elaborazione, e si stabilizzi, sottraendo al differire il suo valore essenziale di ricerca e problematizzazione della connessione, cio sottraendo alle parti la possibilit di determinare, nellinterazione, una costruzione dellin-comune come apprendimento. Qui siamo gi al Malinteso di Arcipelago, cio al pericolo in Arcipelago, costitutivo della sua essenza, (...) di volere un asse, un centro verso cui convergere, mentre lo spazio dellArcipelago per sua natura insofferente alla subordinazione e alla successione gerarchica (Cacciari 1997, 20). Cio, alla Forma-Stato, che liquida, di necessit, il radicamento nel Nmos antico. Lo Stato - quindi la gerarchia, la tensione alla centralizzazione, alla totale razionalizzazione del reale, la preoccupazione di conservare, ecc. - il modello secondo cui sostanzialmente abbiamo labitudine a pensare9. LOccidente europeo, soprattutto negli ultimi secoli - dimenticati o malintesi i greci -, ha insistito sulla formalizzazione del pensiero della differenza sviluppandone in particolare a livello analitico, sistematico, le conseguenze, ma patendo sempre il molteplice come mancanza di unit, nostalgia delluno: nellinsieme sembra difficile liberarlo dellimmagine, che ha fortemente interiorizzato, dellapparato di Stato (e del suo sistema di potere, regolazione, conoscenza) come un ordine del mondo, in cui ha costruito un radicamento stratificato. Se fare lgos necessita di passare attraverso il calcolo, la teorizzazione, e non pi fra-intesa tra gli enti, se il fine stabilizzare un sapere che definisca, che radichi, e non interrogarsi continuamente sulla natura delle cose (che mutano, si trasformano), non essere luogo dei dssoi lgoi, se fare le leggi diviene fondare un ordine, una costituzione inamovibile, allora la citt diventa sempre pi uno, ed gi Stato (Cacciari 1997, 20). La differenza-come-valore neutralizzata, i diversi sono un problema da risolvere, e si tentano modalit di educarli, di incorporarli, temendone la contaminazione. piuttosto la riduzione del carattere pubblico dellagire, e della necessit di una regolazione degli effetti che la pluralit delle azioni (e interazioni) produce,10 alla sola Forma-Stato. Quando si produce questa svolta? Ma pi radicalmente mai esistito

Cos si legge in G. Deleuze-F. Guattari (1989), Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. Secondo questi autori, differentemente da quanto avviene nellOccidente europeo gli americani hanno saputo fare una pragmatica tra i diversi.
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... per il principio delleterogenesi dei fini, cui condannata ogni azione politica fondata sul presupposto della naturalitnecessit del perseguimento dellutile (Cacciari 1997).

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Psephs il lancio nellurna del sassolino. Dunque, secondo Cacciari, lo sradicamento del Nmos la perdita della sua radice divina; questo si manifesta gi nella sofistica del V secolo, e appare chiaro nellellenismo, quando al nmos pleos si oppone il nmos ph`seos: y stoicismo, epicureismo e scetticismo appaiono perfetti alleati in questopera di sradicamento.
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Il liberalismo (il linguaggio della libert del commercio, delleconomia e della tecnica universali), un operatore di equivalenze: tutto deve risultare contrattabile, scambiabile.
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la scoperta delleterogenesi dei fini.

Arcipelago (Cacciari 1997, 34)? Storicamente, si riconduce questo cambiamento al rovesciamento della formamentis greco-classica, avvenuta con lEuropa cristiana, che afferma la superiorit di civis su civitas, inversione del rapporto plis-poltes. Ma, gi quando Platone scrive Le Leggi, il processo di disgregazione di Arcipelago in atto, ormai prevalendo lartificio del tutto logos del voto. Allora i nmoi della citt appaiono irrimediabilmente contraddittori: nessuna superiore unit vi traluce (...) Non con il termine nmos andrebbero chiamati, ma con quello di psephsmata: decisioni, decreti ottenuti attraverso votazioni11 (...) Non lthos della citt, ma soltanto quello del saggio riconosce ancora la radice celeste della legge. Ma questi sempre pi costretto a sfuggire la plis: un mondo ormai preda di Tche, dellazzardo, del caso; ormai questo il mondo dellagne politico (Cacciari 1994). quando Atene diviene, da plis, citt-Stato violenta e tracotante, che vuole comandare (...) e affermare il suo dominio, imporre il suo principio12. Ma proprio la citt, pi complessivamente come spazio dei molti diversi, che si danno un governo, ad avere in s questa doppia natura, unintrinseca contraddizione: di agire lo sradicamento, di operare la delocalizzazione, - essendole essenziale, per la sua stessa sopravvivenza, cercare il cambiamento, innovare, non stabilizzarsi, ritrovare sempre il differire, ridefinire i valori -, e al tempo stesso produrre un radicamento (in un corpo di leggi, di tradizioni), tenere la distanza necessaria da questeccesso, essere capace di osservarlo prospetticamente, misurarlo, per consentire il buon governo. Deve essere democratica, ma la democrazia presuppone gli eguali. Non il molteplice da governare, della plis, non questa dimensione politica. Uno ius che sia universale, e razionale, al di l di ogni caratteristica locale. Quando le citt crescono, sviluppandosi la loro economia, soprattutto per lincrementarsi dei traffici, dei commerci, dei bisogni degli individui e degli interessi privati, e le relazioni sono ricondotte fortemente a questa dimensione del puro scambio13, aprendosi al rischio, allincertezza14, si fa strada anche lesigenza di costituire una forma di potere, di regolazione che eserciti un controllo, super partes, che garantisca il pi possibile gli esiti, mediando i conflitti, e offra protezione, sicurezza. Il processo di democratizzazione, affermazione della libert dellindividuo, che ha sradicato i costumi tradizionali, messo in discussione i confini tra i luoghi, introduce la necessit di un governo che si costituisca come principio di ordine da tutti riconosciuto, come capace di stabilizzare i conflitti che inevitabilmente insorgono, utile a istituire uno spazio pubblico dellagire. Ma non pi appunto lo spazio del pubblico come politico, e il problema dellin-comune non si pone nemmeno. La plis appare ridotta a prodotto dei propri interessi e garanzia della loro tutela: (...) con la stessa prepotenza con cui rivendica la propria autonomia e indipendenza chiede protezione (Cacciari 1997). difficile trovare un equilibrio tra le forti tendenze allinnovazione, alla sperimentazione, le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche, le spinte al cambiamento, che sono mosse da una dimensione di interessi privati, volte al raggiungimento del maggiore benessere delluomo, e una forma di governo dellinsieme che sia lo Stato, che si d, sempre, come essere-Stato che, in tutte le

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lingue (...) esiste attualmente come un qualcosa di gi passato. Questo un conflitto che minaccia costantemente lo Stato in quanto Stato, armonia duratura: la societ civile di per s opera una de-costruzione di ogni Forma-Stato. Ma qual , allora, il luogo di questa conciliazione? Ou-topia, la negazione pi drastica di ogni rapporto con lidea stessa di luogo15. Comprendere la Forma-Stato come ou-topia pu porre qualche problema: seguiamo passo per passo il ragionamento che propone Cacciari, a questo punto, in LArcipelago, ricordando anche laffermazione di Savinio che LUtopia non affatto creazione di utopisti. Anche perch, tutto questo discorso, vuole arrivare ad esprimere alcune osservazioni sulla condizione contemporanea delle citt. Se la Forma dello Stato perfetto, la Forma-Stato ideal-tipica il Panpticon tutto-vedere, tutto-osservare e controllare senza essere visti -, qual il fondamento su cui pu poggiarsi, dimostrarsi, questa auctoritas? (Cacciari 1997, 7879). (...) Tale ordine lunico a potere garantire augmentum scientiarum, la costante crescita del sapere in quanto utile alluomo (...): la promozione delle attivit dei monstratores, di quella scienza, cio, che inventa (...) per la sempre maggiore eudaimona, per il sempre maggiore benessere delluomo. (...) Si esprime qui lidea di una perfetta conciliazione tra sapere e potere, come lidea regolativa dello Stato (...) (Cacciari 1997, 79). Il sapere di cui si sta dicendo quello della razionalizzazione tecnico-scientifica, che per appunto, non una costruzione fine a se stessa, ma strettamente legata al fatto di servire alluomo, al suo stare-bene: e lauctoritas della FormaStato cerca un fondamento di utilit pubblicamente riconoscibile. Ma da questa reciprocit del sapere e del potere derivano notevoli conseguenze, per la Tecnica quanto per lo Stato. Lo Stato infatti d forma politica al cambiamento, allinnovazione, prodotti dal progetto tecnico-scientifico; ma per garantire al sapere di potere effettualmente, (...) di procedere con metodo e sicurezza, deve darsi perfettamente regolato, irriformabile. Irriformabile. Lauctoritas del politico perde di autonomia: lideale di una politica ridotta al calcolemus amministrativo-procedurale nasce in Utopia, la funzione dello Stato risulta ridotta al mero coordinamento della societ. E Utopia questa quintessenza del progetto tecnico-scientifico, di onnivora promessa delluguaglianza come eliminazione del non uguale, radicale depoliticizzazione della vita sociale (Cacciari 1997, 95). Dunque Utopia quellisola che annulla Arcipelago 16. Ma c un ulteriore grado di contraddizione, in tutto questo discorso. Infatti, per potere funzionare, per essere realistico, limperativo tecnico non pu esprimersi tecnicamente. intrinsecamente costretto a rappresentarsi religiosamente ed eticamente (Cacciari 1997, 95). Lo Stato non potr mai secolarizzare ogni posizione di valore, non sar mai una macchina cos potente, questa laltra faccia del regime (sociale) democratico17. C uno spazio, una dimensione, che resiste, che non riconducibile ad una codificazione, regolazione, ad una scrittura di Stato, e che opera costantemen-

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Cacciari, M. (1997). Se per luogo si intende uno spazio costruito da un insieme di relazioni, e non separabile dalle dinamiche di trasformazione di queste, che si danno nel tempo, e la cui identit anzi si definisce proprio intorno a questo processo di cambiamento, che si fa nel tempo, lidea di una forma che detta, nel presente, le condizioni del futuro, prevedendolo, bloccandolo ou-tpos .

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Vedi pagine 78-95 di Arcipelago. Risuona la definizione di democrazia data da C. Donolo (in: Il sogno del buon governo, 1992, ed. Anabasi, Milano), su cui avr occasione di tornare in seguito.
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Qui limitatamente secondo la coincidenza, da alcuni sostenuta, del Pubblico con le Istituzioni Pubbliche, intese come organi e insieme dellattivit della produzione dei beni pubblici. Blanchot, M. (1984), La comunit inconfessabile, ed. Feltrinelli, Milano. Perniola, Mario (1986), Presa diretta. Estetica e Politica, Cluva ed., Venezia.
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te (con alterni successi e insuccessi) come bilanciamento di uno dei caratteri della societ democratica, quello che va verso la disgregazione individualistica, e che non appartiene propriamente al Pubblico18, che comunque sempre si richiama a forme possibili di regolazione. quello della ricerca del Cum, dellin-comune, delle pratiche che sole possono fare dei beni pubblici dei beni comuni, definendo contingentemente un sistema di valori, unidentit, che recupera il senso della vicinanza, della comunit: ma la comunit di quelli che non hanno comunit19. Sono pratiche di amicizia (ma di coloro che amano solo separarsi, allontanarsi) e di ospitalit (che comunque distingue), di partecipazione, capaci di riportare al centro il problema del Cum, che tuttavia ha senso, opera congiunzione, soltanto se resta propriamente problema. Il Cum di ogni forma di coabitazione e di dialogo rimane tuttavia come il luogo della differenza e del contrasto dei valori: il recupero di questa particolare dimensione politica.

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Se dunque la dimensione di Arcipelago autonomia ma, insieme, phila, che dire dellattuale condizione delle citt, dellArcipelago delle reti (urbane, territoriali)? Dalla lettura dei due testi di Cacciari che ho proposto alla discussione sono emersi alcuni aspetti che ci consentono di comprendere caratteri del pi recente processo di urbanizzazione, diffusione e crescita delle citt. In quanto realt eterogenee di nodi entro sistemi reticolari, uniti dalleconomia, le citt possono essere intese come passaggi, punti di concentrazione dei flussi e di scambio: un effetto visibile lo spostamento incessante dei confini territoriali entro cui sono comprese, e i cui limiti sono ibridati dalla densit delle relazioni che le definiscono, in quanto parti di network che non necessariamente hanno una base locale. Da un lato, una conseguenza dello stare in questa dimensione plurale, molteplice, per molte citt equivalso con il problema di competere con le altre, e quindi di avere la capacit di rappresentarsi allesterno, di costruire una strategia unitaria, con la quale rapportarsi con le altre realt istituzionali, governative e non, con le altre aree urbane ecc.: questo ha significato la necessit di attivare un processo di identificazione, che consenta alle molte e diverse organizzazioni, reti di attori, ecc. e ai loro differenti interessi, di connotarsi, caratterizzarsi in un quadro integrato, riconoscersi parti di un interesse generale. Il dover stare in un contesto fortemente complesso, eterogeneo, ha portato alla ricerca di un radicamento, per quanto continuamente in ridefinizione, come sistema di relazioni e di valori di riferimento, e alla tensione ad una qualche forma di unit. Le modalit del raggiungimento del consenso generale, e del trattamento delle differenze allinterno di questo processo, sono estremamente significative, su un piano di effetti. Per quanto spesso in misura assai limitata, un effetto indiretto di questi processi stato quello di attivare una certa partecipazione degli attori, soggetti locali, anche se in un quadro di rappresentazione di interessi, ma almeno si sono date occasioni di confronto e di coinvolgimento pubblico alla produ-

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zione dei beni. Questo ha messo in evidenza come fatto problematico che i soggetti di politiche (pubbliche) sono una pluralit che non coincide, ma fortemente eccede linsieme delle istituzioni, pubblicamente riconosciute come responsabili della produzione dei beni pubblici per il benessere della societ. Dallaltro la condizione di sradicamento, che il processo di democratizzazione ha portato, lindifferenziazione di spazio e di tempo, stata piuttosto subita da altri contesti urbani, citt, che hanno perduto la capacit di autonomia, e quindi anche di relazione. Lesito stato o il divenire di processi di omologazione, omogeneizzazione, anestetizzazione, o lalternativa rappresentata dal subentrare di spinte separatiste, la chiusura in localismi, per reazione, fenomeni di tribalizzazione, con il conseguente collassamento della dimensione pubblica, politica, crisi degli equilibri democratici; leconomia, il mondo produttivo, si porta piuttosto verso rapporti di dipendenza dal gioco del mercato, riduce le potenzialit innovative, di sviluppo. Questi sono anche gli effetti della globalizzazione in atto, che appare sempre pi come diffusione di un unico modello di relazioni politiche e sociali21: si tratta di nuove forme di gerarchizzazione, razionalizzazione. Tali trasformazioni si svolgono nel contesto di crisi della forma politica dello Stato, della sua capacit di garantire il benessere collettivo, e dellidea di pubblico come sinonimo di Stato, su cui si articolato appunto il welfare state, con la sua impalcatura di culture e di pratiche di organizzazioni e di attori22. Ma quello che venuto declinando anche il binomio sapere-di-Stato/consenso sociale, scienza/ideologia, nel vasto movimento di socializzazione del sapere23. Alla fine, tanto la parola scientifica quanto quella ideologica sono interpreti di una conoscenza che potenzialmente di tutti. Mi sembra efficace riproporre, in sintesi, il seguente schema di analisi di tale processo corrente di ridefinizione dello Stato, attraverso i vari livelli della sua crisi24: - crisi dei rapporti del potere col sapere, cio erosione della legittimit del potere politico che non potendo pi validarsi su principi scientifici, quanto poggiarsi su unideologia che compatti lopinione, costruisca il consenso, esposto alla contestazione ed al dissenso. - crisi dei rapporti del sapere col potere, cio erosione della effettualit sociale del sapere scientifico, che si rinchiude in un ambito separato dal pubblico, dal politico. - crisi dei rapporti del sapere con se stesso, cio erosione della motivazione , che anchessa cade in una dimensione privata, lattivit dellintellettuale non pi di diritto interessa la societ intera. - crisi dei rapporti del potere con se stesso, cio erosione della governabilit, impossibilit di prendere e fare eseguire le decisioni. crisi dello Stato, squilibrio tra capacit del politico e sfera dellinfluenza delleconomico; le grandi compagnie, catene commerciali, banche, le esperienze dei margini, ecc., minacciano lautorit statale, quanto sfuggono al suo controllo. La crisi viene non tanto da uno scompenso dellequilibrio, nellinfluenza, dei rapporti tra sapere tecnico-scientifico e politica, quanto da una riduzione del significato sociale del sapere scientifico, che non pi il sapere della societ nella sua globalit (sapere di cui la societ il soggetto), ma un sapere locale (Perniola

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Cacciari, M. (1998), Manifesto del NordEst.


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De Leonardis, O. (1996). Lanalisi di Ota de Leonardis del welfare state porta ad evidenziare un doppio effetto, come messa-incomune di un patrimonio ed una cultura: da un lato si accrescono le possibilit per lindividuo di partecipare alla vita pubblica, di riconoscersi nellappartenenza ad una identit condivisa, dallaltro si registra leffetto perverso di una facilitazione di un ritiro privatistico della cittadinanza (Habermas 1992), poich i beni e servizi privati difettano del processo di socializzazione che deve investire i problemi, la loro ridefinizione ed eventuale soluzione: scambio intorno a interessi e valori collettivi che alimenta la sfera pubblica.
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Perniola (1989).

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Lelaborazione di questo schema analitico ripresa da M. Perniola, al capitolo: Sapere scientifico e potere ideologico (1989, 22-26).

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1989, 22/26), perch disorganico, frammentario, occasionale: il processo di apprendimento della societ non tiene pi conto solo di tradizionali modelli di trasmissione del sapere, formazione (sistematici, riferiti a valori, ideologie, principi radicati in fondamenti che passano per la scuola, gli insegnamenti, o la pubblica opinione), quanto di una diversa organizzazione delle conoscenze, tramite immagini e simulacri, pratiche interattive, processuali, che sfuggono, resistono ad essere comprese entro un quadro istituzionalizzato di valori. Non pu darsi socializzazione del sapere e del potere, ma si assiste ad una moltiplicazione di saperi e poteri locali: locale non come quanto stato fatto oggetto di delimitazione e conseguentemente reso debole, pi facilmente controllabile, ma al contrario sfuggente, scarto, ma nel senso che essi non riguardano pi la societ nella sua globalit e non si possono pi spiegare con teorie della societ generali, poich massimamente oggi la societ non pi riducibile ad un tutto. Habermas lo indicava come sganciamento del sistema culturale, caduta nel privato. Lapproccio a questo punto, conoscitivo e pratico, deve vedere la connessione non gerarchica tra locale e globale, ma in effetto dassieme di appartenenza, interdipendenza reciproca. Ci siamo lasciati dietro una questione: se, propriamente, il comune il differire, si era detto, allora un processo - continuamente da farsi, da condividere partecipandovi -, che accomuna le parti. E tale processo non pu darsi se non che nella forma dellapprendimento sociale, collettivo. (...) Il sogno (del buon governo) consiste nellidea che il regime democratico sia un grandioso processo di apprendimento collettivo, reso consapevole e trasparente a se stesso dallargomentazione politica e dalla progettazione continua di futuri alternativi per la citt (Donolo 1992, 24). Non vi alcuna tecnica politica e alcun sapere scientifico, che siano in grado, da soli, di realizzare questo processo, che per sua natura non separabile dalle pratiche di interazione sociale e dallinsieme dei loro effetti, voluti e non. E se di una razionalit di processo si parler, essa dovr essere intesa come una condizione che si d quando molte premesse eterogenee contribuiscono, anche indirettamente e involontariamente, a degli esiti (...) Le istituzioni politiche devono permettere la correzione e lapprendimento (...); e ancora: il regime democratico una spugna (...) perch consente la valorizzazione di effetti non voluti, di stati di cose che sono essenzialmente sottoprodotti di processi e strategie rivolte ad altri scopi ed in altre direzioni (Donolo 1992, 50-51). Lapprendimento non ha per effetto soltanto la produzione di senso, di una forma di conoscenza, come sviluppo di capacit e competenza di tematizzazione, da parte di attori individuali e collettivi, o, soprattutto da parte delle istituzioni, di capacit di correzione in tempi accettabili, di incremento di sapere e sapere fare, ma un principio connettivo, dal momento che il suo presupposto che si dia la capacit di interazione tra le diverse strategie, visioni, forme organizzative, ecc. che abitano la societ, fermo restando per il presupposto della conservazione della variet (Donolo 1992, 58-59).

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Riferimenti bibliografici
Blanchot,M.(1984), La comunit inconfessabile, Milano, Feltrinelli Cacciari, M. (1985), Icone della Legge, Milano, Adelphi Cacciari, M. (1994), Geo-filosofia dell'Europa, Milano, Adelphi Cacciari, M. (1997), Arcipelago, Milano, Adelphi De Leonardis, O.(1996) In un diverso welfare, Milano, Feltrinelli Deleuze,G., Guattari,F. (1987), Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Donolo, C.(1992), Il sogno del buon governo, Milano, Anabasi Heidegger, M. (1992) Seminari, Milano, Adelphi Perniola, M. (1989), Presa Diretta. Estetica e politica, Venezia, Cluva ed.

________________ Francesca Gelli dottore di ricerca in Pianificazione e politiche pubbliche del territorio. Attualmente, borsista post dottorato presso il Dipartimento di Studi Storici e Politici di Padova. Collabora per attivit di ricerca col DAEST di Venezia. fragelli@bora.iuav.it

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SILVIO TRENTIN, La Crise du Droit et de lEtat, Paris, Bruxelles, LEglantine, 1935.


Nel 1935, Trentin pubblica, forse, il suo volume pi importante, dal significativo titolo: La crise du Droit et de lEtat. Questo libro segnalato come libro da salvare perch non mai stato tradotto in italiano e perch praticamente introvabile. Una sola copia pare si trovi in unimprecisata biblioteca di Torino, mentre circolano solo poche fotocopie di questo testo tra gli studiosi che sono interessati a leggerlo e studiarlo. Nel 1997, unimportante casa editrice si era offerta di pubblicare il libro, una volta tradotto in italiano, ma la famiglia, contattata a questo scopo, ha preferito che il libro non venisse pubblicato. Alla base di questa decisione sta il fatto che il federalista Trentin era un martire della Resistenza ed inoltre le teorie secessioniste in voga in quel periodo avrebbero potuto presentarlo come un secessionista. Questa spiegazione, tuttavia, giustifica il rifiuto della famiglia di Silvio Trentin di non permettere la pubblicazione di questopera nel 1997, ma non giustifica la decisione di non inserire questo volume nella pubblicazione dellopera (quasi) completa di Silvio Trentin (decisione maturata in tempi presecessionisti). Nel corso degli anni Ottanta, infatti, solo le conclusioni (lottavo capitolo) di questo volume sono state inserite e pubblicate in italiano nel volume, a cura di Norberto Bobbio, Federalismo e libert. Scritti teorici 1935-1943. Questa decisione del curatore di smembrare il testo pubblicandone solo una minima parte deriva dal fatto che Bobbio non ha considerato rilevante, per la comprensione del federalismo di Trentin, i primi sette e pi importanti capitoli del volume (malgrado Franois Geny, preside della Facolt di diritto di Nancy, definisca - nella prefazione del 1935 - questi capitoli come la parte permanente ed essenziale del lavoro di Trentin). Ha contribuito certamente a determinare questa decisione il fatto che Trentin sostenga, nei capitoli non tradotti, alcune tesi non positiviste di dottrina del diritto. Tesi, certamente, non condivise da Bobbio e probabilmente considerate superate. Queste tesi sono le seguenti: che le teorie convenzionaliste (per intenderci, quelle di derivazione hobbesiana) che considerano come esistente solo il diritto positivo, hanno creato una babele perch i giuristi di paesi diversi hanno finito per parlare lingue diverse (Trentin 1935, 28); che il diritto non consiste nelle realizzazioni che se ne fanno e che pretendere che lo siano significa identificare il razionale con il reale (Trentin 1935, 34); che, se si identifica il Diritto con il diritto positivo, finiscono per essere assimilate al Diritto anche tutte le leggi razziste, quelle fasciste, ecc. (Trentin 1935, 220). A premessa della propria filosofia del diritto, come presentata in questo volume, Trentin ha posto unaffermazione di Rosmini: quando luomo soverchiato da una forza brutale, allora egli scopre in s e negli altri uomini qualcosa che nes-

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suna forza pu annullare, una sfera alta e spirituale dove regna il Diritto (Trentin 1935, 60). Di conseguenza, proprio in quanto esiste questa dimensione incoercibile, non accettabile n convincente lipotesi, di origine hobbesiana, che luomo libero e al di fuori dello Stato sia antisociale, cio si comporti secondo la regola dellhomo homini lupus. Invece, suggerisce Trentin, lo Stato (nelle sue varie manifestazioni, dalle pi antiche alle pi moderne) sempre stato e sempre sar perch costituisce il principio su cui si basa la convivenza. Fino a quando le attivit umane restano alla merc degli istinti lordine dello Stato si concentra sul controllo del territorio; quando le attivit cominciano a essere organizzate dalla ragione, lo Stato comincia a essere percepito nella sua dimensione razionale dellOrdine degli Ordini o dellOrdine delle Autonomie. Lo Stato incorpora la finalit che la societ (intesa come la somma delle finalit dei vari ordini) si pone come obiettivo e lunica finalit che non diminuisca lautonomia dei vari ordini , ovviamente, la finalit della democrazia. per questo che il principio della democrazia si pone come principio direttivo dellorganizzazione positiva dello Stato (Trentin 1935, 188), anche se bisogna ammettere che Lo Stato democratico ben lontano dallavere trovato la propria espressione positiva (Trentin 1935, 191). Questa proposta di uno Stato come Ordine degli Ordini nasce da un superamento del principio di sussidiariet formulato da Proudhon. Per principio di sussidiariet si intende che lordine o lautonomia pi grande si deve astenere dal trattare o tentare di risolvere ogni problema che pu essere risolto da un ordine o unautonomia pi piccola. Proudhon, secondo Trentin, ha peccato di apriorismo perch ha presupposto una divisione artificiale e decisa una volta per tutte dei vari livelli di Ordini delle Autonomie. Trentin chiarisce che il principio di sussidiariet implica, un atto di liberazione di una molteplice e sempre mutevole realt che lo Stato moderno violentemente comprime (Trentin 1987, 111). Trentin critica Proudhon su un secondo aspetto: sul fatto che ha sostenuto che lItalia un Paese a vocazione federalista. Sostenere che un Paese ha questa vocazione, sottolinea Trentin, significa sostenere che altri non lhanno affatto o lhanno di meno. Invece, insiste Trentin, loggettiva vocazione federalista non sta nella natura del Paese (bens nella mente dei suoi cittadini) e se affermata, questa vocazione, solo uno strumento per sostenere che il federalismo lordinamento pi adatto alla disciplina della vita dei popoli che si trovano o si sentono esclusi, irrevocabilmente, dalle grandi missioni. La flessibilit del principio di sussidiariet lantidoto di Trentin alla tendenza dello Stato a centralizzarsi e burocratizzarsi: qualsiasi Ordine degli Ordini fissato una volta per tutte tenderebbe a burocratizzarsi esso stesso, come lo Stato, e solo un Ordine degli Ordini molto flessibile e aperto alle modifiche che intervengono nella societ civile pu, con il suo continuo rinnovarsi, contrastare con speranze di successo la tendenza a burocratizzarsi, cio ad istituzionalizzarsi. La Crise du Droit et de lEtat segna una tappa importante nellevoluzione del pensiero di Silvio Trentin che era stato, allinizio della sua attivit di studioso, convinto centralista e solo gradatamente, riflettendo sulle ragioni della crisi delle democrazie e dellavvento dei fascismi, si convertito al federalismo, anzi, a una formulazione coerente ed estrema di federalismo. Egli stesso ammette in uno scritto del 1940: Confesso che, vittima di una deformazione professionale assai

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diffusa tra i giuristi e troppo penetrato ancora nei pregiudizi di un insegnamento eccessivamente rispettoso delle forme pure del diritto, anchio, per un momento, ho creduto allesistenza e allautorit di una siffatta sedicente legge regolatrice dellevoluzione degli istituti giuridico-politici dei popoli moderni, il cui enunciato, costantemente messo in luce dal giuoco automatico di ferree sanzioni tenderebbe appunto a dar rilievo a questa evidenza elementare: che il tipo di Stato semplice-unitario attua il pi perfetto equilibrio (assicurandone la pi razionale coordinazione) fra le forze sociali coesistenti nel medesimo territorio e costituisce perci la meta fatale verso cui giuocoforza debbano a poco a poco gravitare, nel loro graduale assestamento, le varie particolari forme di organizzazione adattata nella pratica dalle diverse societ politiche (Trentin 1987, 143-4). Lallontanamento di Trentin da questa iniziale posizione comincia al I Congresso dellUnione Nazionale del giugno 1925, quando parla de Il decentramento amministrativo. Sostiene, in particolare, due tesi: che se il Paese si fosse dato per tempo un adeguato decentramento amministrativo, se non fosse stato imposto il regime equalitario-burocratico per oltre mezzo secolo, se si fosse seguita la prassi di coinvolgere nellamministrazione pubblica le varie realt locali nazionali, la democrazia liberale avrebbe avuto maggiori possibilit di resistere al fascismo; che una lezione migliore della democrazia era venuta dallImpero Austroungarico che aveva lasciato spazio allo sviluppo autarchico di molte realt locali e aveva permesso che lidea di democrazia si costruisse, gradatamente, nella mente delle persone prima che nelle istituzioni. Questa seconda tesi fulcro della filosofia politica del pi grande filosofo italiano, il napoletano Giambattista Vico che fornisce la base filosofica pi adeguata a tutte le forme vere o sostanziali di federalismo, e a quello antropologico in particolare. Vico sosteneva che bisognasse costruire un nuovo rapporto tra i governanti e i governati basandosi su uneducazione capace di far crescere individui autonomi, addestrati a operare come uomini liberi e non come soldati. Proprio la grandezza della costruzione teorica di Trentin mi ha fatto ipotizzare, fin dalla prima lettura, che avesse una qualche dimestichezza con lopera di Vico e mi ha spinto a cercare, nel complesso delle sue opere, le citazioni dirette dalle opere di Vico (senza tuttavia trovarne). Ho trovato solo una citazione indiretta, appunto ne La Crise du Droit et de lEtat, attraverso Giorgio Del Vecchio. Citando Del Vecchio, Trentin afferma che, per Vico, luomo porta in se stesso la finalit verso cui procede, lentamente e con arretramenti, lumanit. Tuttavia, si pu portare, a conferma di questa attenta lettura di Vico da parte di Trentin, un documento che si trova tra le carte di Trentin custodite al Centro Studi P. Gobetti. Questo documento manoscritto mostra che Trentin ha letto con attenzione Vico nella traduzione francese che stata fatta da Michelet. Si tratta di 20 fogli, scritti a matita sul fronte e sul retro (il foglio numero 14 mancante), in cui si riportano passi dellintroduzione di Michelet e delle Opere di Vico. Questo manoscritto importante perch dimostra che Trentin non ha letto Vico nella presentazione che ne avevano fatta Croce e Gentile, ma in una versione molto pi antica e pi capace di tirare fuori le componenti di federalismo antropologico che sono presenti nellopera del filosofo napoletano. Prima di arrivare, dopo le posizioni centraliste degli anni Venti, al volume sulla crisi dello Stato e del Diritto, il pensiero di Silvio Trentin si radicalizza subito

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dopo la crisi del 1929. Anzi, egli approfondisce la propria riflessione sul perch del fascismo collegandola al perch di quella crisi. Per cinque anni consecutivi, pubblica, ogni anno, opere di critica politica, costituzionale ed economica del fascismo: Laventure italienne. Lgendes et ralits nel 1928, Les transformations rcents du droit public italien. De la charte de Charles-Albert la cration de ltat fasciste nel 1929, Antidemocratie nel 1930, Aux sources du fascisme nel 1931, Le fascisme Genve nel 1932. Con queste opere, egli cerca di spiegare ai francesi, oltre che agli italiani, che la crisi italiana e lavvento del fascismo non fatto particolare che interessa solo il nostro Paese, ma che conseguenza di una crisi pi generale che riguarda, e che si sente in tutti i Paesi dEuropa (e che sar acuita dalla crisi economica successiva al 1929). Nel 1935, viene pubblicato il libro da salvare la cui importanza , oggi, misconosciuta perch il Trentin pi noto quello degli anni successivi al 1939, quando comincia la sua attivit nella Resistenza francese. Nel corso di quella lotta, egli continua a pubblicare scritti di riflessione teorica tendenti a proporre, come sbocco della lotta al fascismo, la federalizzazione di uno Stato socialista. Queste sue idee federaliste si trovano formulate, in forma completa, nel volume Librer et Fdrer, del 1942. Questopera scritta in piena lotta di liberazione, anche una specie di manifesto programmatico con lo stesso titolo del movimento di liberazione francese che vede Trentin tra i suoi esponenti principali. Il volume sar tradotto in italiano, ma non pubblicato, lanno dopo, da Antonio Giuriolo, con il titolo: Liberare e federare. Dare un senso e uno scopo alla rivoluzione europea in corso di gestazione. In questo testo, si trova ribadito quanto ha scritto sulla crisi, sulla necessit della rivoluzione e sulla necessit di una nuova organizzazione delleconomia intorno a una nuova organizzazione dello Stato sulla base del socialismo e del federalismo. (Giuseppe Gangemi) gangemi@ux1.unipd.it

Riferimenti bibliografici
Trentin, S. (1935), La Crise du Droit et de lEtat, Paris, Bruxelles, LEglantine. Trentin, S. (1987), Federalismo e Libert. Scritti teorici 1935-1943, a cura di N. Bobbio, Venezia, Marsilio.

________________ Giuseppe Gangemi docente di Metodologia e Tecnica della Ricerca Sociale allUniversit di Padova. I suoi lavori pi importanti sono stati: La questione federalista. Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani, UTET, Torino, 1994; Statistica comparativa, UTET, Torino, 1997; Metodologia e Democrazia. La comunicazione attraverso metafore, concetti e forme argomentative, Giuffr Ed., Milano, 1999.

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Recensioni
Asterischi

DONATELLA DELLA PORTA, La politica locale, Bologna, Il Mulino, Collana: Le vie della civilt, 1999, pp. 307, L. 32.000
Il titolo non ammette deroghe, quasi un manifesto. Leggendolo, si pu pensare che in inglese diverrebbe: local policy (pi che politics) matters. Senza difficolt, e ampliando la prospettiva dellapproccio politologico, a cui si rif lautrice, vengono toccati temi molteplici che offrono spunti per altrettante, molteplici riflessioni sul tema delle politiche locali. Ed esprime cos il coraggio di soffermarsi e di costruire una possibile cassetta per gli attrezzi per interpretare la questione, testimoniando e contribuendo al fermento intellettuale in atto in questi anni sulla questione in Italia. Il taglio dellopera quasi formativo, permette al lettore/lettrice di costruire un percorso di lettura sulla nuova attenzione posta al tema del locale nella politica. I vari passaggi delineati pongono luce e costruiscono i fondamenti lungo i quali lautrice delinea un filo rosso interpretativo sulle vicende, attingendo da un territorio vasto e disordinato della letteratura in oggetto. Il processo implicito al quale si viene sollecitati quello di una nuova riconfigurazione dei fatti e dei mutamenti in atto attraverso linterpretazione della letteratura e di alcuni episodi ritenuti significativi. Il testo si divide in due parti, dopo unintroduzione sullevoluzione del significato della politica locale, che opportuno qui riprendere. Essa viene definita attraverso la triplice concettualizzazione di Bogdanor (1987) come: comportamento elettorale e competizione tra partiti a livello locale, [...] rapporti tra politici/amministratori/burocrati locali e istanze politiche pi elevate in vista di benefici specifici, [...] influenza della struttura di governo locale sugli organi di governo nazionale in vista degli interessi collettivi dellunit locale, a cui lautrice aggiunge ... la struttura degli interessi e la sua politicizzazione. La prima parte del testo riferita alla letteratura statunitense e viene dedicata ad alcuni studi classici sulla struttura del potere locale, gli studi di comunit degli anni 30, levoluzione verso la scuola elitista, quella pluralista e neoelitista, con ampi riguardi agli studi di caso affrontati dagli autori considerati. La seconda parte si trasferisce allEuropa e risulta pi ampia ed eterogenea. Si sofferma, nellordine, sugli studi delle culture e tradizioni civiche con ampi riferimenti alle analisi classiche di Banfield e Putnam; sulla relazione tra partiti, clientelismo e corruzione nel caso italiano; sui rapporti tra centro e periferia, soprattutto in relazione ai movimenti e ai partiti autonomisti, con parte dedicata al fenomeno della Lega; sui movimenti urbani intesi come opportunit politiche con uninteressante ricostruzione delle lotte per laffitto negli slum americani fino ai casi italiani legati al movimento femminista, allassociazionismo laico e cattolico e infine ai gruppi ambientalistici. Gli ultimi due capitoli rappresentano invece pi una fotografia, rielaborata, di trasformazioni del presente nellItalia di oggi. Il penultimo capitolo volto ad una ricostruzione del ruolo delle istituzioni locali, centrali ed intermedie in Italia, con unattenzione particolare posta alle dinamiche del processo di formazione dellassetto territoriale, ovvero nellevoluzione del meso-livello regionale dallUnit agli anni 70 in cui le Regioni vengono costituite fino ad oggi, sia al dibattito parallelo, e a tratti confliggente, sul federalismo, che qui viene definito come ... una trasformazione del foedus, cio del rapporto di diritto internazionale che lega originariamente alcuni Stati, in un soggetto nuovo, mentre ... i sistemi regionali sono derivati dal decentramento di uno Stato centralizzato (pag. 244), non mancando di trattare alcune note sintetiche sul federalismo fiscale e alcuni principi del federalismo con riferimenti alla lettura critica di Riker (1964) e Pasquino (1996).

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Lultimo capitolo disegna le ultime frontiere degli studi sulle politiche pubbliche e sul potere locale, con riferimenti alla governance, dove si pone in evidenza lo spostamento dellaccento dai soggetti pubblici nella costruzione delle politiche ad una rete di decisioni su problemi collettivi selettivi, su issue. Sul caso italiano viene posto laccento sulle relazioni perverse tra la costruzione delle politiche ed il clientelismo degli anni 80 nelle grandi opere, ma anche sulle nuove tendenze verso lautonomia locale e sugli effetti delle leggi sullelezione diretta dei sindaci. Vengono cos trattate, in vario modo, parole chiave come la struttura familiare, la comunit, la societ civile, i partiti e le politiche. Linteresse dellopera sta nei suoi diversi caratteri. Innanzitutto nella duplice caratteristica della trattazione autonoma di diversi temi, ampiamente argomentati in modo critico lasciando spazio a molteplici citazioni dirette e ad una bibliografia tematica alla fine di ogni capitolo, insieme alla capacit di costruzione di un filo logico del discorso. Secondo, appunto, lo sviluppo dei temi da cui si pu ricostruire il dibattito e le ragioni delle sue trasformazioni. Dalla tradizione tipicamente anglosassone di studi locali al rinnovato interesse, con vari mutamenti, dei temi in ambito europeo. quindi un percorso insieme metodologico e storico. E infatti, nel passaggio, entrano in gioco alcune variabili in cui ci si addentra a pi ampia scala, come nel ruolo dei partiti politici e, nel caso italiano, nel rapporto tra corruzione politica, mala-amministrazione e non-decisioni, un focus da non sottovalutare per interpretare in modo non ingenuo le dinamiche sulle politiche locali. Ma cosa cambia nel passaggio dagli Stati Uniti allItalia? La riflessione risulta aperta e pone in evidenza la diversa natura nella struttura dei poteri nei due paesi, ove, in questultima convivono la natura centralistica e autoritaria dello Stato e la struttura gerarchica della burocrazia, come delineati allorigine dellUnit, in contraddizione con la tradizione municipalistica e lisolamento di alcune aree, il dualismo nord/sud e la debolezza delle comunit locali, insieme ad una rinnovata volont di riforma. Da queste tematiche messe in gioco nasce linteresse per la politica locale e nelle quali naviga, felicemente, lautrice, non perdendo mai di vista lineguale rapporto tra poteri, centrale e locale, volontario e autoritativo ... Duso corrente la metafora dellattore nel riferirsi ai soggetti coinvolti nella costruzione delle politiche (ad esempio la stampa o i movimenti urbani), in cui implicito il concetto di trasformazione e mutevolezza di peso, ma per alcuni versi sarebbe stato pi significativo usarla al plurale per caratterizzare ancor pi la possibile pluralit di intenti anche interni alla stessa organizzazione. Le possibili riflessioni parallele allultima parte del testo, e sottese alla politica sono quelle che possono riferire al rapporto tra citt, poteri e definizione e costruzione di bene e interesse pubblico nelle relazioni molteplici tra soggetti e istituzioni. Ma questo travalica le finalit e linteresse dellopera. Il testo non termina con una conclusione, ed giusto che sia cos, poich gli spunti di riflessione sono molteplici e perch fornisce gli elementi per dare senso alle nuove politiche locali in Europa, ancor pi in Italia. Esso risponde a un movimento circolatorio ricco di stimoli, dallattenzione alla politica locale in USA, ad alcune dilatazioni di temi strutturanti i soggetti coinvolti ad un ritorno verso lanalisi metodologica delle politiche rinnovate. Le riflessioni che se ne possono trarre sono aperte, il testo un punto di arrivo e uno di partenza allo stesso tempo, proprio per il suo ampio respiro. Lopera ricca e ben argomentata e pu essere trattata in modi diversi, dalla lettura puntuale di temi di interesse specifico ad unottica pi ampia, come scatole cinesi, senza perdere di valore ma sviluppando, anzi, stimoli e implicazioni volta per volta, utili e suggestive. (Daniela Cardinali) dcardina@bora.iuav.it

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GRUPPO DI ANCONA, (a cura di), Trasformazioni delleconomia e della societ italiana. Studi e ricerche in onore di Giorgio Fu, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 544, L. 50.000 ALESSANDRO ARRIGHETTI, GILBERTO SERRAVALLI, (a cura di), Istituzioni intermedie e sviluppo locale, Roma, Donzelli, 1999, pp. 272, L. 38.000 IDSE-CNR, Trasformazioni strutturali e competitivit dei sistemi locali di produzione. Rapporto sul cambiamento strutturale delleconomia italiana, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 322, L. 36.000
Sottoporre a tensione il concetto di locale e fare il punto sulle tradizioni di ricerca che fino ad oggi attorno ad esso sono andate strutturandosi: questo lambito di interessi allinterno dei quali sembra interessante rileggere alcuni testi recenti della letteratura sui distretti di matrice italiana. Il tema del locale interessato infatti in questi anni, in pi modi e da pi parti, da differenti programmi disciplinari che ne stanno operando una complessa risignificazione: lo spazio del locale riscoperto in nuove forme di descrizione e interpretazione dei processi insediativi; ormai da pi decenni lambito allinterno del quale anche le discipline economiche hanno, nello scoprire nuovi modelli di organizzazione produttiva, rivisto e riformulato parte delle proprie basi teoriche; da sempre il luogo notevole delle esperienze di pianificazione italiana, mentre dalle tradizionali contrapposizioni del racconto urbanistico autonomia/centralizzazione ci si muove ormai alla ricerca di nuove forme di relazione tra i livelli amministrativi; costituisce infine uno degli ambiti privilegiati di alcune delle esperienze storiche di rilettura della comunit intesa come insieme di valori, materiali e non, condivisi o meno, allinterno del quale operare in modo altro la pianificazione del territorio. Quindi il locale costituisce oggi, in Italia, una di quelle immagini esplorative, o forse meglio una di quelle famiglie di immagini euristiche che, anche se affermarlo quando lesperienza ancora in corso pu esporre a rischi non indifferenti, stata capace di dare luogo ad una generale rivoluzione disciplinare, tanto che potremmo ormai con Kuhn dire che siamo passati dalle forme e dai tempi di una scienza straordinaria a quelle di una scienza normale. Tra i testi recenti che permettono di rileggere tra le righe la storia dellaffermazione del paradigma del locale nella letteratura economica italiana tre testi pubblicati nel corso del 1999 costituiscono una sorta di punto di osservazione privilegiato: essi sembrano proporsi di fare il punto sul locale, sulle tradizioni di ricerca e sulle famiglie di discorsi sul locale degli ultimi ventanni. Legati ad alcune delle figure che pi di altre hanno introdotto al nuovo paradigma, essi ne ricostruiscono le diverse declinazioni allinterno della matrice comune, ritagliando un condiviso punto di vista, rinsaldando quindi il paradigma, ma anche rimettendolo in gioco, affrontando esplicitamente la riflessione sulle possibili questioni aperte e sulle prospettive di ricerca, con una comune intenzionalit teorico-operativa e un ricorrente richiamo alle questioni attinenti alla sfera della regolazione. Essi infatti da un lato pongono in discussione la possibilit di una teoria del locale, dallaltra ne tentano una fondazione nelle pratiche, a partire da una forte attenzione alle esigenze di una realt italiana che in attesa di una ri-definizione delle forme di regolazione e delle istituzioni preposte al trattamento dei beni pubblici, sta conoscendo localmente frammentati episodi di risignificazione delle sfere del pubblico e del privato. Il primo testo Trasformazioni delleconomia e della societ italiana. Studi e ricerche in onore di Giorgio Fu, a cura del Gruppo di Ancona, ricostruisce attraverso la figura di Fu una tradizione di ricerca comune attorno ai temi delle trasformazioni delle strutture economiche e sociali, della diffusione territoriale, dei legami con levoluzione demografica, del governo delleconomia, del ruolo dellimprenditore. Tributo di coloro che si riconoscono nellattenzione di Fu per la pluralit degli equilibri di ciascun contesto territoriale e nella sua affermazione della necessit di rottura rispetto alla retorica della dicotomia tra sviluppo e

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sottosviluppo, nella ricerca sulle cause dello sviluppo e dellaffermazione del modello NEC, il testo propone, accompagnate da brani antologici dello stesso Fu, le riflessioni di alcuni dei pi interessanti distrettualisti italiani, tra i quali spiccano quelle di Becattini, Bagnasco e Paci. In tutti e tre gli autori listanza di una rilettura del paradigma appare pressante, e sempre comunque non in termini conclusivi quanto piuttosto nel senso di un possibile rilancio della questione locale. Si tratta, dice Paci, di tornare a ripensare al locale in un momento privilegiato, quando cio dopo anni di studi sul campo esistono dati su cui rivedere le teorie per affinare metodi e concetti. Paci individua un particolare punto debole della letteratura sul locale: fino ad oggi abbiamo descritto con attenzione le condizioni strutturali, cio le condizioni che si sono rese disponibili e hanno permesso laffermarsi di alcuni contesti locali. Come, quando e perch determinati soggetti si sono concretamente fatti portatori dello sviluppo: queste le domande che Paci sottopone alla ricerca, con una nuova attenzione per gli effetti della discontinuit, e, con Trigilia, per il ruolo della storia amministrativa e politica e del senso di appartenenza alla comunit da parte dei soggetti che la compongono; latteggiamento di fondo quello di nuova curiosit per lindividualismo creativo, a partire da una riflessione sulle radici della spinta allimprenditorialit autonoma e ai limiti e alle possibilit di una societ che spinge allaffermazione dellindividuo soprattutto in termini di attivazione imprenditoriale. Interrogandosi sul senso del paradigma dello sviluppo locale come sviluppo diffuso, anche Bagnasco torna a privilegiare rispetto alla a lui cara matrice degli effetti di lunga durata, la necessit di ripensare ad esso non nei termini di una storia naturale; ad essere messo in discussione il senso di spontaneit che ha caratterizzato lapproccio disciplinare: lassenza di politiche regionali esplicite, un racconto che ha privilegiato limmagine di una societ che si sbrigata da sola, dice Bagnasco, non devono impedirci di ragionare su come investire su questi processi. In questo senso lautore rilancia la ricerca sul campo. Innovazione e congiuntura scardinano costantemente e riformulano il sistema: di fronte allimpossibilit di una teoria generale, la strada suggerita quella di un costante e infaticabile sforzo di accumulazione di descrizione dei meccanismi locali e storici di queste forme di sviluppo. Una terza strada per la ricerca quella individuata da Becattini: anche essa caratterizzata da un approccio operativo, si pone alla ricerca delle corrispondenze tra la classificazione dei modelli cognitivi degli studiosi e di coloro che vengono studiati, i produttori, ad esempio. La metafora del mirmecologo che cerca di capire come le formiche descrivono se stesse si pone nella prospettiva di una ricerca che cerca di capire come ha modificato la realt sociale descrivendola; la ricerca sul locale ha in questi anni trasformato profondamente il modo in cui i locali si riconoscono o descrivono agli altri aprendo a nuovi sensi di identit e appartenenza. Nella riflessione sul locale, la discussione sul significato dellintroduzione di nuove griglie di classificazione allinterno delle realt locali si pone come nuovo filone dindagine nella prospettiva di una ricerca come parte dellattivit pratica e dellattivit pratica come parte dellattivit di ricerca che forse uno dei pi grandi insegnamenti di Fu e di coloro che in questi anni lo hanno accostato nella ricerca e di cui il libro testimonianza interessante. Tra interventi di varia natura e differente peso, esso infatti costantemente animato da una nuova attenzione per il ruolo delle politiche pubbliche, che prosegue e rilancia linsegnamento di Fu sul ruolo delleconomia politica e specifica i termini di una ricerca che se pur si mossa tra le maglie di una societ che sembrava sbrigarsi da sola, ha contribuito a rimettere in discussione e tentare di decostruire e ricostruire le tradizionali categorie di pubblico e privato. In questa direzione si muove ancora pi esplicitamente il secondo testo Istituzioni intermedie e sviluppo locale, a cura di Alessandro Arrighetti e Gilberto Serravalli. Come sostiene Jessop, di fronte allo scardinamento delle istituzioni nazionali, operato da un lato dalle sovranazionali, dallaltro dai livelli locali e regionali della governance, il testo indaga sulla natura e sul ruolo delle istituzioni intermedie, cio proprio di quelle istituzioni che come prodotti contemporanei del capitale sociale locale, hanno costituito le condizioni dellaffermazione dello sviluppo. Intese come organismi collettivi e sistemi di regole finalizzate allofferta localmente differenziata di beni pubblici categoriali destinati cio a specifici soggetti o categorie di soggetti economici, il testo ne indaga la natura di meccanismi di stabilizzazione o destabilizzazione nei

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movimenti costanti tra processi di istituzionalizzazione-deistituzionalizzazione e il contributo alla riproduzione dellordine sociale. Passando dalle banche agli istituti di credito, ai comuni, nel panorama dellItalia degli ultimi trentanni, si discute della loro capacit e interesse relativamente allarricchimento dei fondamenti della societ civile, alla capacit di ristrutturazione delle sfere del pubblico e del privato, di fronte a quello che Fabio Sforzi tratteggia come un contesto geografico di dissociazione tra regioni economiche e regioni istituzionali: il fatto che i sistemi locali costituiscano nella loro variet di forme di aggregazione, leffettiva base strutturale delleconomia e della societ italiana, solleva il problema del ruolo delle istituzioni intermedie e del loro coordinamento a scala regionale per la regolazione dello sviluppo locale. Interrogandosi sulle potenzialit delle istituzioni intermedie di ridisegnare forme di regolazione locali, il testo introduce in maniera dialettica un interessante percorso di ricerca, nel tentativo di individuare radici teoriche per le istituzioni intermedie: la tesi di fondo che lordine sociale, politico ed istituzionale sia sottoposto ad una progressiva erosione a causa della discrasia tra livello macroistituzionale e microistituzionale a causa delle diverse logiche di riproduzione dei tipi di relazione ad essi legati. Mentre infatti listituzionalizzazione a livello macro si fonda su criteri di tipo universalistico e genera standardizzazione ed omogeneit, listituzionalizzazione di tipo micro incorpora criteri particolaristici dazione e genera differenziazione dei modelli regolativi e dei comportamenti. Tra i due livelli esisterebbero delle impermeabilit: la formazione di ordini regolativi locali introduce elementi di deistituzionalizzazione strisciante dei sistemi istituzionali nazionali, cos come il rafforzamento delle istituzioni nazionali ha come presupposto lindebolimento degli ordini regolativi locali e ne minaccia la stabilit. Le istituzioni intermedie giocano in questo processo il ruolo di forme di standardizzazione idiosincratica, di potenti meccanismi di stabilizzazione tra istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione. Il testo rilegge in alcuni contesti della Terza Italia la storia e il ruolo di alcune istituzioni intermedie, ricostruendo un quadro in disequilibrio costante di unItalia in trasformazione, in cui la ri-istituzionalizzazione del livello micro scardina un livello macro in cui si cercano nuove forme di regolazione, destinate a loro volta a scardinare il livello micro, un quadro dinamico in cui le meso-istituzioni sono messe alla prova nella loro capacit non tanto di porre fine al conflitto, quanto di strutturare leterogeneit rispetto ai sistemi di regolazione come fonte di ricchezza. Il terzo testo Trasformazioni strutturali e competitivit dei sistemi locali di produzione. Rapporto sul cambiamento strutturale delleconomia italiana, a cura dellIdse-Cnr si discosta dai primi per la natura di rapporto di ricerca a carattere essenzialmente economico sulla realt italiana, ma offre alcuni spunti di riflessione su altri possibili percorsi della ricerca sui contesti e sulle caratteristiche dello sviluppo locale, inteso in questo testo come sviluppo della piccola impresa. Esso parte dal presupposto che i sistemi produttivi locali abbiano assunto una posizione centrale nella letteratura economica pur in assenza di interpretazioni complete dei loro meccanismi formativi ed evolutivi. Di fronte al rischio di una cristallizzazione dei modelli ad opera della letteratura e dellassunzione di questi come dati, mentre in una prospettiva di trasformazione istituzionale gli stessi soggetti che li hanno strutturati, ad esempio le istituzioni locali, vanno assumendo ruoli inediti, non conosciuti in quella che spesso stata descritta come la fase spontanea dello sviluppo locale, gli autori, dichiarando di partire da un approccio di analisi economica storicoteorica, per operare una lettura evolutiva dei processi interni di organizzazione e riorganizzazione ritengono opportuno assumere una prospettiva che senza trascurare il ruolo talvolta centrale dellindustria possa consentire di cogliere i fenomeni di interdipendenza e interazione tra settori produttivi eterogenei su scala locale, di esplorare in particolare il ruolo dei settori dei servizi e delle istituzioni. In questo modo, rileggendo leconomia italiana con una documentazione precisa delle trasformazioni, per quasi tutto il Novecento, essi tracciano una storia economica in cui si legge in controluce il ruolo delle istituzioni locali e delle condizioni del contesto locale non solo come precondizioni ineliminabili del successo, ma anche come fattori perennemente in gioco nel ruolo creativo di scelta delle politiche e di riformulazione dei modelli di azione pubblica. Senza avere ambizioni propositive in questa direzione, il testo traccia una relazione forte con lambito operativo, rilanciando limportanza di un percorso di ricerca nelle policies che ridi-

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segni per il nuovo pubblico e le istituzioni il ruolo di semina delle iniziative e della strutturazione di eventi sociali favorevoli allo sviluppo. In questo senso interessante la ricostruzione del ruolo dei gruppi di aggregazione industriale in ambito romagnolo che permette di rileggere la storia dello sviluppo locale non semplicemente come processo spontaneo basato sulla fiducia tra individui, ma anche come insieme di forme nuove di regolazione allintreccio tra istituzioni private e pubbliche. I tre testi dunque aprono nuove possibili prospettive per la ricerca sui distretti industriali, ma anche sulle formazioni sociali e sulle istituzioni che esse stanno contribuendo a ridefinire, rilanciando la riflessione nel segno dellaffermazione becattiniana (G. Becattini, Il distretto industriale, un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico, Torino, Rosemberg & Sellier, 2000): la riscoperta della cruciale importanza della variet dei contesti locali quali alimento del cambiamento rimane incompiuta e insoddisfacente fino a che non si affronta la questione dei modi in cui essa agisce sulla generazione dei vantaggi competitivi delle imprese e dei paesi, e si riproduce nel tempo. Dove laccento a nostro avviso pi urgente da porre soprattutto sulla riproducibilit nel tempo non solo delle strutture produttive, ma anche su quelle sociali e quindi istituzionali, su quelle forme di capitale sociale a cui forse la ricerca in grado di tornare a guardare non solo secondo la retorica dello spontaneismo, ma anche nella retorica e nella prospettiva della responsabilit. (Valeria Fedeli) valeriafedeli@hotmail.com

PAOLO PERULLI, La citt delle reti. Forme di governo nel postfordismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 192, L. 35.000
La crisi del modello di produzione fordista porta con s anche la crisi del modo di regolazione gerarchica tipico dello Stato moderno e, in particolare, dello Stato-nazione. Il saggio di Perulli dedicato a unanalisi tanto delle nuove forme di organizzazione della produzione e del mercato, quanto delle nuove forme di regolazione politica: entrambe sembrano essere accomunate da una medesima forma, quella di una struttura reticolare e non gerarchica. Questo accostamento tra leconomia reticolare e le nuove forme di regolazione politica viene posto, tuttavia, in termini problematici poich proprio la dimensione reticolare non gerarchica, se confacente alla logica del libero mercato, non si concilia con la dimensione della regolazione politica in cui lattore politico , per definizione, gerarchicamente sovraordinato. In altre parole, se le forme a rete, caratterizzate dalla connessione continua tra le parti in mancanza di precisi confini e dallassenza di un centro gerarchicamente ordinato, sembrano essere quelle vincenti in economia, come si configurano allora le nuove forme di regolazione politica tendenti per definizione alla gerarchia? Lautore cerca di fornire una risposta a questo interrogativo riprendendo quanto emerso dal dibattito sul neoregionalismo. A questo proposito Perulli analizza la crisi dello Stato-nazione (capitolo 2) e lemergere delleconomia delle reti (capitolo 3) che, letti nel loro insieme, permettono di comprendere meglio, da un lato, il riemergere dei cleavages e delle fratture regionali e locali di origine pi antica e, dallaltro, la ridefinizione degli ambiti in cui, tendenzialmente, oggi vengono prodotti quei beni pubblici necessari per lo sviluppo locale e regionale largamente affidati agli attori territoriali intesi come nodi autoregolati (p. 42) della rete locale cui affidata la regolazione complessiva. Si tratta di reti di governance (capitolo 7) cui partecipano attori politici locali, imprese private e associazioni di categoria, che sono in grado di giungere a decisioni politiche attraverso un processo di negoziazione. Lidea di una governance a molti livelli nasce dalla certezza che il vecchio modello centrato sullo Stato e di tipo gerarchico (top-down) si ormai dissolto e che il potere/autorit si sta disperdendo in molte direzioni come in una specie di big bang; che il processo irreversibile e tuttora in corso; e che le fonti di obbedienza, lealt e identit sono ormai diffuse (p. 125).

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Con la crisi dello Stato regolatore del modello fordista, i territori si organizzano strategicamente sperimentando forme alternative di relazione tra i luoghi. Un esempio significativo quello della rete di citt che ha un suo precedente nel modello anseatico: la Hanse era una lega di citt commerciali che agiva come entit economica senza sviluppare forme statali (protezione militare, raccolta centralizzata di tasse, ecc.) (p. 62), una rete che gravitava su due citt maggiori, come Amburgo e Brema, le quali formarono ognuna una citt-Stato che sopravvivono ancora oggi come Lnder nellattuale stato federale tedesco. Partendo dallanalisi di questo caso Perulli sostiene lidea che quella federalista sia la forma pi adeguata a rispondere alla logica della rete che richiede flessibilit strutturale, concludendo che: la struttura federativa della rete ha () eccellenti ragioni per rivelarsi pi efficiente della forma statale. () Entro un contesto sopranazionale come lEuropa, reti di citt e di regioni potranno essere pi efficienti dello Statonazione nel promuovere lo sviluppo economico, la coesione sociale e una nuova cittadinanza (p. 66). Va notato, tuttavia, che la forma federale non incompatibile con la forma statale tout court ma, semmai, con la forma dello Stato-nazione centralizzato. Lalternativa post-fordista proposta dallanalisi di Perulli quella della citt delle reti. Poich le reti sono chiamate a fornire cittadinanza, a permettere il gioco degli interessi, a federare autonomie (p. 8), possibile immaginare, secondo Perulli, una citt delle reti, intesa non come urbs (citt fisica) ma come civitas (citt politica), cio come ordine morale o spazio pubblico in cui entrano in relazione individui e norme, identit e diritti di cittadinanza. Lidea della rete come costruzione sociale artificiale viene proposta allora da Perulli non pi come un semplice concetto metaforico per indicare il cambiamento che caratterizza il post-fordismo, ma piuttosto come un paradigma intermedio in grado di superare la contrapposizione, non solo metodologica, tra le scienze sociali sia individualistiche che olistiche (p. 7). Per avallare questa tesi Perulli propone una teoria dellattore che vede lindividuo non pi come uomo economico o uomo democratico, ma piuttosto come uomo delle reti, caratterizzato cio da una ambivalenza strutturale tra una componente utilitarista, che tende cio a massimizzare lutile individuale, e una componente interazionista e multipla quanto lo sono gli ambiti di relazione, le norme e i sistemi di riferimento con cui entra in contatto, che rende del tutto sfaccettata e complessa la sua razionalit. Le reti definite da questo insieme complesso di relazioni tra individui costituiscono, secondo Perulli, vere e proprie costruzioni artificiali e non comunit naturali ma, proprio per questo, la loro progettazione diventa possibile e diventa oggetto di riflessione per le scienze sociali. La domanda allora diventa: Dopo lepoca degli Stati nazionali e nellera delleconomia globale, possiamo costruire istituzioni collettive basate sulle reti, una economia politica delle reti? (p. 8). In altri termini, le reti possono essere pensate (come gi suggerito da Rullani) come le institutions del postfordismo? (p. 179). Per rispondere a questa domanda Perulli accosta la metafora della rete ad altre due metafore altrettanto ricorrenti nel dibattito delle scienze sociali della fine degli anni Novanta: quella del labirinto e quella dellarcipelago. Il saggio parte da una ricognizione delle rappresentazioni della societ date nel corso della storia del pensiero (occidentale) delle scienze sociali, ora come macchina (nel secolo XVIII, con A. Smith e A. Comte), ora come organismo (nel secolo XIX, con Durkheim), ora come sistema (per buona parte del secolo XX, con Parsons), fino ad arrivare ai nostri giorni in cui limmagine che sembra prevalere quella del labirinto che, va sottolineato, vede la rete di relazioni a partire dal punto di vista dellattore individuale, perdendo la visione dinsieme delle relazioni non gerarchiche che caratterizzano la rete. Distinguere tra la metafora della rete e quella del labirinto perci di estrema importanza se si vuole mantenere fede alla domanda iniziale: possiamo costruire istituzioni collettive basate sulle reti? Se il labirinto guarda al percorso individuale, la rete invece connette tali percorsi individuali dandone una visione dinsieme e mettendo laccento sulle relazioni tra gli attori. La teoria dellattore razionale interpreta la rete come un labirinto promettendo allattore di guidarlo nel labirinto delle scelte, individuando un metodo efficiente (standard e universalistico) per ridurre la complessit. Tuttavia, come osserva Perulli,

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cos facendo questa teoria si riduce nel migliore dei casi a costruire un uomo razionale in una societ irrazionale (p. 26). Inoltre, possiamo aggiungere, decontestualizzando lazione dal suo ambiente culturale e relazionale, essa non fornisce gli strumenti per comprendere ladeguatezza dellazione stessa rispetto alla specificit del contesto, finendo con lipostatizzare una razionalit standard e ottimale in ogni caso: una logica dellazione che mostra di essere piuttosto rigida proprio perch pretende di essere valida in qualunque contesto, ma che, di fatto, risulta essere poco efficace nel far fronte alla molteplicit dei sistemi di significato che caratterizzano i vari contesti relazionali e, tutto sommato, rimanendo uguale a se stessa, anche poco capace di apprendere dalla propria esperienza e di mutare nel tempo. Rete e labirinto, quindi, non solo non indicano lo stesso oggetto, ma anche come espressioni metaforiche rimandano a due concezioni molto diverse del rapporto tra lindividuo e il suo ambiente sociale e relazionale. Lidea della rete come connettore in grado di creare accordi, di federare le parti, induce Perulli a rapportare il concetto di rete a quello di arcipelago (capitolo 9). Ci che accomuna, secondo lautore, la teoria delle reti alla sociologia dellarcipelago , in primo luogo, lassenza di gerarchie e di sovranit e, dallaltro, lidea di un legame sociale che scaturisce da un accordo tra le parti e dal vincolo morale che ne consegue. Il risultato una sorta di ordine spontaneo la Hayek che, se riesce a spiegare la genesi di un modello istituzionale di tipo aggregativo, basato cio su una sorta di armonia degli egoismi e sullo scambio di utilit, non riesce a spiegare invece la genesi delle istituzioni di tipo integrativo in cui ci che tiene insieme le isole dellarcipelago , piuttosto, unidea di bene comune (March e Olsen). Per comprendere la rilevanza di questa differenza basta fare riferimento al caso dei distretti industriali, spesso analizzati, non senza contraddizioni, facendo riferimento alla teoria delle reti: cosa tiene insieme gli attori economici, politici e sociali del distretto di Prato? Uno scambio di utilit tra i singoli attori (isole dellarcipelago) o la condivisione di valori culturali e di unidea di bene comune che fa di una molteplicit di isole un paese integrato? Contrariamente a quanto ritiene Perulli, se si fa coincidere la teoria delle reti con quella dellarcipelago, inevitabilmente si finisce con il fare (pi o meno volutamente) anche una scelta del modello istituzionale verso cui, si ritiene, le reti tendano ad orientare lazione sociale: lopzione per il modello istituzionale aggregativo, che tuttavia non riesce a rendere conto di istituzioni integrative come quelle dei distretti industriali. Un ambito in cui la metafora della rete sembra essere invece molto efficace quello della ricostruzione dei modelli cognitivi, delle mappe concettuali con cui vengono costruite le rappresentazioni del mondo che orientano lazione individuale e sociale: i fatti, non esistono se non nella rete di attori che li costruiscono e ne condividono il senso, offrendone la chiave di lettura. Il linguaggio forse lesempio pi suggestivo di questa rete che prende forma dalle regole e dal sistema di significati condivisi e che , al tempo stesso, il risultato dellinterazione sociale continua, ma anche lo strumento (listituzione) che rende possibile e meno problematica questa interazione. possibile, seguendo la stessa dinamica della definizione del linguaggio, costruire tipi di rete di relazioni che possono condurre alla strutturazione di istituzioni sociali e politiche? Nellopinione di chi scrive la soluzione proposta da Perulli non appare del tutto convincente dal momento che sembra rimanere troppo legata alla necessit di elaborare una teoria dellattore piuttosto che una teoria delle reti, passando attraverso lidea dellattore-rete (p. 29), senza risolvere cos linevitabile ambiguit insita nella metafora stessa della rete che, divenuto paradigma intermedio, cerca di mediare tra individuo e sistema, tra micro e macro, senza mai abbandonare, nei fatti, il richiamo a una qualche teoria dellattore, estraniato per dal suo contesto. Per questa strada sarebbe, insomma, come pensare di poter comprendere una lingua a partire dalle azioni di un singolo attore, o anche di un insieme di attori, anzich dal contesto comunicativo che la rete-linguaggio produce grazie alle interazioni continue tra gli attori considerati. Il punto che il concetto di rete riesce a descrivere le relazioni di transazione tra gli attori ma non ci dice con quali modelli cognitivi questo scambio di informazioni diventa comunicazione sociale, cio costru-

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zione sociale della rete e, quindi, istituzione. Per avere queste informazioni bisogna coniugare il concetto di rete con quello di contesto culturale e istituzionale che ci permette di definire il contesto comunicativo entro cui si muovono gli attori sociali, con i loro modelli cognitivi, le norme sociali e i sistemi di valori di riferimento. Reti e istituzioni sono quindi, e restano, concettualmente molto distanti: mentre le reti connotano relazioni di tipo prevalentemente informale ancora non istituzionalizzate e, per questo, anche molto flessibili; le istituzioni, al contrario, connotano tipi di relazioni gi codificate entro ruoli e regolate da norme condivise. Se cos stanno le cose, le conclusioni rischiano allora di non confermare quanto sostenuto da Perulli, dal momento che lo Stato post-fordista, essendo strutturalmente caratterizzato da reti informali, o rappresenta una fase di transizione tra una forma di regolazione politica e unaltra, di cui la metafora della rete aiuta a comprendere le nuove forme solo in parte (senza per questo costituire ancora unalternativa compiuta e istituzionalizzata), oppure destinato a rimanere un sistema reticolare e informale e, quindi, a non divenire mai unistituzione. Se passiamo poi ad applicare il paradigma intermedio delle reti al campo delle riforme istituzionali, come per esempio, nel caso italiano, le applicazioni delle leggi Bassanini del federalismo amministrativo e fiscale e gli strumenti della programmazione negoziata nei luoghi concreti, appare subito evidente che si tratta di un terreno ben pi articolato e complesso, difficilmente rappresentabile in una semplice rete: pi un groviglio, spesso inestricabile, in cui gli attori locali giocano ruoli diversi a seconda delle culture politiche locali, delle prassi amministrative consolidate, dei modelli istituzionali localmente sedimentati che danno vita a reti di governance molto diverse da luogo a luogo. Se si prescinde da questa dimensione concreta dei luoghi, la metafora della rete, divenuta, come suggerisce Perulli, paradigma intermedio, rischia di configurarsi pi come unopzione (per di pi non sempre consapevole) che orienta lazione sociale verso la costruzione di istituzioni (solo) di tipo aggregativo e che, se assolutizzata, rischia di essere una semplificazione fuorviante che appiattisce in una dimensione troppo sottile la densit dei luoghi in cui vivono i soggetti in carne e ossa, oggetto della ricerca politica, sociale ed economica. (Patrizia Messina) pmessina@ux1.unipd.it

ALBERTO MAGNAGHI, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 256, L. 30.000
Il lavoro di Magnaghi prende le mosse da una critica radicale della forma metropoli, modello insediativo che riduce il territorio a spazio isotropo e indifferenziato, meramente funzionale al libero dispiegarsi delle logiche localizzative del mercato e della produzione capitalista. Lindefinita estensione della forma metropoli sancisce una rottura epocale nel secolare processo di costruzione di territorialit, mette in crisi lequilibrio nella relazione coevolutiva fra insediamento umano e ambiente, e genera una crescente deterritorializzazione (cancellazione dellidentit e della specificit dei luoghi, consumo irresponsabile di suolo, distruzione degli ecosistemi, sradicamento delle comunit locali, disgregazione sociale, impoverimento dello spazio pubblico). Il dilagare della deterritorializzazione, sebbene fortemente sostenuto dai processi di globalizzazione economica, tuttavia, non irreversibile. Innanzitutto proprio le nuove povert (materiali e culturali) da essa causate sono allorigine di pratiche e aspirazioni sociali che alludono a possibili percorsi di rifondazione urbana e territoriale: le nuove energie da contraddizione espresse dai movimenti sociali urbani e dai gruppi ambientalisti, implicite nellemergere della questione identitaria, etnica e linguistica, disseminate in una molteplicit di micropratiche locali (esperienze di self-help, commercio equo e solidale, comitati di quartiere, finanza etica, nuove forme

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comunitarie elettive), e giunte infine a manifestarsi nella mobilitazione internazionale contro la globalizzazione a Seattle, stanno sperimentando nuovi e credibili progetti di resistenza politica e propongono nuovi paradigmi di sviluppo locale autosostenibile. In secondo luogo le chance per uno sviluppo locale autosostenibile alternativo alla deterritorializzazione sembrano iscritte negli stessi caratteri del mutamento epocale: leconomia post-fordista, la trasformazione della forma Stato in senso federalista, la centralit della concertazione territoriale nelle nuove pratiche amministrative post-burocratiche e nelle relazioni industriali fanno del locale un tema di dibattito e un ambito dintervento strategico, sottratto alla residualit (accademica, politica ed economica) in cui era confinato fino a pochi anni or sono. Ma cos il locale, nellottica di Magnaghi? Il locale al tempo stesso unistanza politico-culturale e un tema teorico-progettuale suscettibile di un trattamento specifico dal punto di vista dellurbanistica. Da un lato, infatti, collocando saldamente il contributo del suo approccio territorialista alla teoria dello sviluppo locale nello scenario del mutamento storico in atto, Magnaghi giunge a ritenere che il locale sia diventato oggi un terreno, anzi il vero terreno di scontro. Lappropriazione del locale (del capitale umano e sociale insediato e del patrimonio territoriale che genera le risorse, le qualit ambientali-insediative e gli asset localizzativi di cui si nutre il ciclo post-fordista) al centro della competizione economica; specularmente il controllo sulle risorse e i destini delle comunit locali al centro del conflitto sociale e della lotta politica contemporanea. Daltro canto va ricordato che lapproccio territorialista anche il risultato di una ben precisa tradizione di ricerca, di didattica e di pratica professionale maturata negli ultimi anni a ridosso di alcune Facolt di architettura e urbanistica italiane e che, di conseguenza, una corretta valutazione del contributo del libro di Magnaghi non pu prescindere dal suo rapporto con il recente dibattito urbanistico. Fermo restando che uno dei principali pregi del testo consiste nellequilibrio con cui miscela argomenti tecnico-urbanistici e gergo disciplinare con questioni e linguaggi di pi generale rilevanza politico-culturale, forse proprio in riferimento al locale come tema di progetto urbanistico e al ruolo dellurbanistica nella politica contemporanea che Il Progetto locale fornisce gli spunti di riflessione pi interessanti. Da questo punto di vista il libro di Magnaghi, oltre a segnare il punto di massima sistemazione di una riflessione e una pratica progettuale alternativa e antagonista, costituisce anche un contributo maturo in grado di aggredire con incisivit alcune delle problematiche emergenti nel pi generale dibattito sulla riconfigurazione degli assetti, degli strumenti e delle tecniche della pianificazione territoriale. Con una semplificazione estrema lapproccio territorialista pu essere ricondotto a due assunti principali: a) unidea radicalmente partecipativa della pianificazione urbana, intesa come interazione sociale e non come esercizio di expertise tecnico-professionali, e una concezione del ruolo del planner come facilitatore al servizio della comunit insediata; b) unopzione decisa e non negoziabile per la sostenibilit territoriale (ambientale, economica e sociale) come contenuto sostantivo del progetto e un ethos progettuale ispirato allidea di cura del territorio, interpretato come soggetto vivente complesso e pluridimensionale. Ora, dopo una stagione di affinamento dellelaborazione teorica e della sperimentazione pratica svolte nei contesti antagonisti dellinsurgent city allinsegna di questi due orientamenti costitutivi, lesperienza territorialista sembra esprimere una proposta di rifondazione della disciplina urbanistica ricca di indicazioni anche per lorganizzazione istituzionale dellurbanistica. Al centro di tale proposta vi il concetto di statuto dei luoghi. Concetto poliedrico e complesso, quello di statuto dei luoghi allude innanzitutto ad una modalit della descrizione e interpretazione territoriale, che, abbandonati i codici analitici omologanti, quantitativi e standardizzanti della tradizione geografica positivista e funzionalista, assume come obiettivo il riconoscimento e la rappresentazione dellidentit dei luoghi, intesa come permanenza di specifiche invarianti strutturali del paesaggio antropico e naturale. Ma il concetto ha, oltre a questo valore analitico, anche un risvolto decisamente normativo e progettuale.

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Lo statuto dei luoghi, nel riconoscere e codificare i caratteri identitari di lunga durata di un territorio, definisce anche le coordinate entro cui debbono collocarsi le azioni di trasformazione e ri-territorializzazione dello stesso. Per questa ragione esso non pu che avere anche un carattere contrattuale-costituzionale: latto - inevitabilmente politico, giacch derivante da processi di negoziazione e concertazione sociale - con cui la comunit insediata in un luogo giunge a siglare un patto condiviso sul futuro del proprio patrimonio territoriale. a questo punto che lidea di statuto dei luoghi si salda con la pi generale problematica comunitaria e neomunicipalista. Lo statuto dei luoghi diviene uno strumento del processo di rifondazione della citt in quanto municipalit, unoccasione per sperimentare nuove forme di democrazia comunitaria e di autogoverno della societ locale, fondate sul rafforzamento degli istituti di partecipazione civica e lispessimento delle reti comunitarie. Ma, di nuovo, il discorso di Magnaghi non si risolve in unesortazione politica: la pur forte carica utopica dellapproccio territorialista si coniuga alla proposta di una soluzione operativa e immediatamente praticabile al problema della ridefinizione della forma del piano urbanistico, su cui, da tempo, gli urbanisti discutono sia in sede accademica che in sede legislativa. Una delle ipotesi al centro della discussione (e della sperimentazione gi avviata in alcune regioni) concerne il cosiddetto sdoppiamento del piano in un momento programmatico-strutturale (o strategico) e un momento operativo-normativo. Tale momento non pu risolversi - sembra suggerirci implicitamente Magnaghi nellelaborazione di generici documenti dindirizzo strategico, assimilabili magari ai programmi di legislatura delle diverse amministrazioni locali. Esso al contrario deve diventare un momento costituente dellidentit e dellautogoverno locale, unoccasione per tornare a radicare lurbanistica nel processo politico locale e per sancire le scelte non negoziabili della societ locale circa la salvaguardia e la valorizzazione dellambiente e dello spazio pubblico quali beni comuni condivisi. Ecco allora che la rifondazione del nuovo municipio e la rifondazione del progetto locale attraverso lo statuto dei luoghi diventano due aspetti dello stesso processo, necessari luno allaltro: non si d democrazia locale senza strumenti di decisione realmente partecipata e non si d conservazione e riproduzione del patrimonio territoriale (in altri termini: sviluppo locale) senza la maturazione nel processo decisionale dei soggetti locali capaci di prendersene cura innovativamente. (Elena Milanesi) elena_milanesi@rcm.inet.it

DAVID HARVEY, Lesperienza urbana - metropoli e trasformazioni sociali, Milano, Il Saggiatore, 1998, pp. 352, L. 49.000
In Italia dopo il successo nel 1993 de La crisi della modernit (traduzione di The Condition of Postmodernity, Blackwell Pub, 1990) il pensiero di David Harvey si arricchisce nel 1998 de Lesperienza urbana, una raccolta di alcuni saggi in parte gi pubblicati tra il 1978 e la met degli anni 80, riuniti secondo un preciso filo teorico (oltre che rivisti e talvolta riscritti per migliorarne la coerenza) e dati infine alle stampe nel 1988 con il titolo originale di The Urban Experience. La traduzione italiana, edita dieci anni pi tardi ed in ogni caso successiva sia alla pubblicazione inglese che a quella italiana de La crisi della modernit (di cui Lesperienza urbana il fondamentale presupposto), impone dunque una riflessione comune su due opere strettamente legate nel percorso di ricerca oltre che sintonizzate entrambe su un doppio registro di analisi: da una parte la storia delle vicende sociali, economiche ed urbane del modernismo dallIlluminismo ai giorni nostri, dallaltra lindagine sulla mutata esperienza dello spazio e del tempo nella dimensione urbana contemporanea. In questo senso la chiave di interpretazione de Lesperienza urbana senza dubbio lultimo saggio

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(Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione: riflessioni sul postmoderno nella citt americana). Qui Harvey esplicita i due temi guida del cambiamento epocale in corso dallinizio degli anni 70: la trasformazione delleconomia politica del capitalismo in seguito alla recessione del 1973 ed insieme laffacciarsi dello stile e della retorica postmoderni che caratterizzeranno la maggior parte dei movimenti culturali sino ai giorni nostri. La coincidenza di alcune date per certi versi sorprendente. Christopher Jencks, nel suo The Language of Post-Modern Architecture (1984) data alle 15.32 del 15 agosto 1972 la fine simbolica dellarchitettura moderna ed il passaggio al postmoderno, con la distruzione del complesso di abitazioni popolari PruittIgroe a St.Louis nel Missouri, costruite secondo i dettami dei Ciam; ma il 1972, data di pubblicazione di Learning from Las Vegas di Venturi, Scott-Brown e Izenour, proprio lanno in cui il sistema capitalistico (particolarmente quello britannico e statunitense), sempre pi incapace di far fronte alla rigidit del mercato del lavoro se non con una disinvolta politica monetaria, inizia a sviluppare un nuovo regime di accumulazione del capitale. Lo shock petrolifero del 1973, a seguito della guerra arabo-israeliana, e la conseguente stagflazione (produzione stagnante e alta inflazione), avviano un profondo e definitivo ripensamento del compromesso fordista e con esso lavvento di un sistema completamente diverso di regolazione politica e sociale. Accumulazione flessibile e postmoderno si presentano quindi a registrare su frequenze differenti una stessa crisi della modernit. Il modernismo - ricorda Harvey - aveva perso qualsiasi aspetto di critica sociale. Il suo programma prepolitico e utopico, imperniato sulla trasformazione dellintera vita sociale per mezzo di quella dello spazio, era fallito, e lo stile moderno era finito per trovarsi strettamente collegato con laccumulazione del capitale, in un progetto di modernizzazione fordista connotato da razionalit, funzionalit ed efficienza. Nel 1972 larchitettura modernista era soffocata e bloccata, proprio come il potere delle grandi aziende multinazionali che rappresentava (Harvey 1998). Dove nasce questo rapporto cos stretto tra meccanismi economici e trasformazioni urbane? il percorso stesso di ricerca di Harvey, geografo di formazione, che sin dai primi anni 70 esplora i limiti della metateoria marxiana (di cui continua tuttavia a servirsi) integrandola, citando Giddens, con lapparato concettuale che possa rendere lo spazio, e il controllo dello spazio, parte integrante della teoria della societ. Il materialismo storico - sostiene infatti Harvey - ha reso possibile lo studio delle trasformazioni storiche, ma ha ignorato il fatto che il materialismo produce la propria geografia. () Il materialismo storico deve trasformarsi in un materialismo storico e geografico. La geografia storica del capitalismo deve diventare oggetto della nostra teoria (Harvey 1998). Denaro, tempo e spazio sono allora le tre categorie da analizzare nelle loro strettissime relazioni, in grado di dare forma al processo urbano e allesperienza della citt. Il denaro, strumento che diventa fine, la forza pi profonda e completa tra tutte quelle che cercano di riportare al centro una societ in cui esso stesso rende possibile la massima dispersione, () unastrazione concreta che esiste fuori di noi e che su di noi esercita un potere molto reale. La comunit del denaro, democratica e individualista, cinica e livellatrice, assoggetta silenziosamente i suoi abitanti a quella visione tragica e indispensabile della vita moderna che offre libert e pretende solitudine. Harvey sostiene che Marx crea uninvisibile distanza funzionale tra gli uomini che costituisce una protezione interna e una compensazione nei confronti di ogni eccessiva vicinanza e ogni attrito nella vita civile (Harvey 1998). Una distanza critica, viene da aggiungere, che nellarchitettura moderna, dal Rinascimento ad oggi, stata sempre riconosciuta come indispensabile nel misurare i rapporti tra gli edifici e la struttura urbana delle citt. la natura artificiale del capitalismo industriale ad indurre una nuova percezione del tempo. Le macchine e i loro cicli di produzione misurano secondo una cronologia inedita e prepotente il tempo del lavoro. I datori di lavoro da subito imparano a sfruttare quanto pi possibile il pluslavoro degli operai; i lavoratori, dal canto loro, imparano velocemente a difendersi lottando per abbreviare la loro presenza nelle fabbriche. Si contratta sulle giornate lavorative, le ferie, la pensione, il tempo libero. Dopo la terza generazione si danno vita ai primi scioperi per il riconoscimento degli straordinari. Avevano imparato fin troppo bene la

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lezione: il tempo denaro. Harvey sostiene che le nuove infrastrutture (la ferrovia innanzitutto), la delocalizzazione dello spazio del lavoro ed i vincoli spaziali in genere, oltre che lintroduzione dei sistemi di comunicazione di massa (telegrafo, telefono, radio e televisione) tutto contribu a un nuovo senso di simultaneit nello spazio e di uniformit totale in un tempo coordinato e uguale per tutti (Harvey 1998). La questione dello spazio da sempre la pi trascurata dallanalisi marxista. Sia perch di tutte le astrazioni sicuramente la pi concreta, sia perch la sua progressiva smaterializzazione proprio alla base del processo capitalistico che vuole tradizionalmente il primato del tempo sullo spazio stesso. Razionalizzato e poi distrutto lo spazio nella citt moderna resiste come ambito peculiare di manifestazione del conflitto. Portato sotto lunica misura del valore monetario nel sistema capitalistico, acquistabile, esso diventa universale ed omogeneo. Raggiunto e attraversato dalle reti infrastrutturali perde rapidamente ogni tipo di qualit assoluta e di territorialit privilegiata. La vittoria del tempo sullo spazio e sul territorio - sostiene Harvey - ha avuto il suo prezzo. Ha significato laccettazione di un modo di vita la cui essenza sono la velocit e la corsa a superare lo spazio Una corsa al movimento che se da una parte dissolve qualsiasi senso tradizionale di comunit (Non cera nessun luogo dove andare, se non ovunque scrive Kerouac), dallaltra continua incessantemente a produrre nuovo spazio sino ad andarlo a cercare oltre i confini del globo terrestre. Non un caso che gli anni 60 sono caratterizzati dalla corsa, spregiudicata e costosa, alla conquista dello spazio extra-terrestre che culmina nel 1969 con latterraggio sulla Luna e si arresta bruscamente, con la settima ed ultima missione sul satellite, proprio nel 1972. Lurbanizzazione capitalista prende dunque forma nella comunit del denaro, attraverso le astrazioni concrete di tempo e spazio. Tutto ci genera insieme alla trasformazione fisica delle citt un bagaglio continuamente aggiornato di esperienze degli individui che le abitano. Esperienze da cui nasce la comprensione elementare del significato di spazio e tempo; del potere sociale e delle sue forme di legittimazione; delle forme di dominio e di interazione sociale; della relazione, mediata da produzione e consumo, con la natura; e della natura delluomo, della societ e della vita politica. Lindividualismo, la classe, la comunit, lo Stato e la famiglia sono, secondo Harvey, altrettanti luoghi in cui si formano il potere e la coscienza. Essi determinano percorsi e qualit dellurbanizzazione capitalista ma ne sono al tempo stesso influenzati. Come laccumulazione di capitale implica una continua distruzione e ricostruzione degli spazi urbani ed una progressiva mutazione dei significati simbolici delle citt, cos altera negli individui i dispositivi di percezione e i meccanismi di consumo. La complessit estrema di questi fenomeni particolarmente evidente nella riflessione sulla condizione postmoderna, che nel 1993 Harvey introduce nellultimo saggio per strutturarla successivamente in La crisi della modernit. Accanto ad un nuovo decentramento delle citt si registra un aumento della concorrenza interurbana che produce una mobilit pi fluida ed un profondo rinnovamento dei centri di consumo e di cultura su cui si gioca il potere di attrazione dei grandi capitali. Ma sul terreno della produzione di capitale simbolico che si articola la vicenda pi interessante della lunga stagione postmoderna. Contro laccumulazione standardizzata e la cultura di massa degli anni 60 larchitettura postmoderna, dallinizio degli anni 70, investe nel trattamento allegorico delle tipologie pi familiari rispondendo alla progressiva parcellizzazione dello spazio fisico con un progressivo aumento di capitale simbolico. Capitale che si smaterializza in eventi sempre pi effimeri, decontestualizzati e autoreferenziali in una vita urbana ormai configurata come immensa accumulazione di spettacoli. La conclusione delle considerazioni di Harvey (da apprezzare negli ultimi capitoli de La crisi della modernit che risalgono, come abbiamo visto, al 1990) ci consegnano un mondo in cui si verificata la predizione di Paul Valery: Come lacqua, il gas o la corrente elettrica entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, cos saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi ci lasciano. Immagini che vanno risarcite con contrattacco della narrazione che ne sveli il reale potere e con esso i problemi della compressione spazio-temporale ed il significato della geopolitica.

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A dieci anni dalluscita del testo di Harvey lesperienza urbana si arricchisce di nuove questioni. Lesplosione della comunicazione digitale ha trasformato il fruitore passivo di immagini pubblicitarie e televisive in un navigatore decisamente pi attivo dello spazio immateriale delle reti telefoniche ed informatiche. Nello spazio fisico e generalizzato del consumo si affacciata quella figura che Aldo Bonomi chiama del consumattore, cio una figura sincretica di consumatore e attore che prima si presenta come modello idealtipico di utilizzatore di stili, tempo e spazio, poi consuma merce, tempo e spazi funzionali a realizzare la sua rappresentazione. Bonomi ha recentemente sostenuto che dopo il consumatore massificato ed indifferenziato del fordismo ed il produttore di informazioni (che determinano le categorie merceologiche da consumare) del postfordismo, il consumattore delleconomia della rete e dellindistinto un produttore di stili e tendenze che determinano la produzione della merce, sia che navighi su Internet o che si dedichi al tempo libero (Bonomi A, Il distretto del piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2000). Nella metropoli diffusa della riviera romagnola, da Rimini e Riccione sino a Venezia, Bologna e Gardaland, in questo distretto del piacere fatto di centri storici e parchi a tema, discoteche, motel, stazioni di servizio e centri commerciali, spazi lisci della pi recente ipermodernit, si fa esperienza urbana partendo da ci che mai avremmo pensato diventasse merce - il piacere - nella fase in cui il capitalismo espande la sua logica ai servizi, allinformazione, al vivere, alla nuda vita. (Gabriele Mastrigli) gabriele.mastrigli@iol.it

PAOLO JEDLOWSKI, Il sapere dellesperienza, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 256 L. 30.000
La crescente consapevolezza della crisi delloggettivit del metodo scientifico della conoscenza a partire da Husserl, in un generale quadro filosofico e culturale in cui si assiste al superamento dellassunzione delloggettivit come istanza di riferimento, ha reso sempre pi rilevanti riflessioni che assumono come sfondo quello della vita quotidiana, tradizionalmente drasticamente separato da quello scientifico. In questa rinnovata ottica, lattenzione viene rivolta anche alle forme di conoscenza altra rispetto a quella scientifica, tra le quali occupa un posto rilevante il senso comune, nonch alla possibilit di riformulare il concetto di esperienza e di riguardare ai rapporti tra esperienza e senso comune. questa una possibile collocazione del libro di Paolo Jedlowski, che, in estrema sintesi e con le parole utilizzate dallo stesso autore nella presentazione, tratta dellesperienza e del senso comune, cos come si intrecciano nella vita quotidiana (p. 10). A tali contenuti la stessa struttura del libro appare, in un certo qual modo (e forse inevitabilmente) intimamente connessa: Allinizio il tono piuttosto asettico, la scrittura orientata prevalentemente al confronto con alcune teorie sociologiche e filosofiche. ... Poi cominciano a moltiplicarsi le citazioni letterarie, ed quasi come se a un tratto una storia mi prendesse la mano (pp. 9-10). E infatti, partendo da una descrizione della struttura del libro, ci che colpisce proprio la maniera agile in cui il rigoroso inquadramento dei concetti di senso comune e di esperienza nellambito di diversi filoni di pensiero, afferenti per lo pi alla sociologia e alla filosofia, sia alternato a citazioni letterarie, cinematografiche, a episodi di vita quotidiana, che lasciano trasparire un personale percorso dellautore attraverso alcuni testi ed emergere, a tratti, anche parti del suo vissuto personale. Tutto mirato a costruire un discorso in cui il concetto di esperienza messo in relazione con questioni rilevanti nellambito del dibattito sulla modernit, in modo da giungere a presentarne unidea che sembra plausibile oggi (p. 11). Cos, nella prima parte, per tentare innanzitutto di comprendere in che cosa consista il senso comune, Jedlowski considera le diverse accezioni che di questo concetto emergono da differenti filoni di pensiero

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che se ne sono occupati: lermeneutica filosofica (in particolare nella versione di Hans George Gadamer), la sociologia fenomenologica, letnometodologia. Ciascuno di questi approcci, tra loro diversi ma complementari, consente di evidenziare alcuni aspetti del concetto di senso comune, che viene visto rispettivamente come memoria sociale, ossia come insieme di istruzioni pragmatiche e di norme morali da tener presenti nelle varie circostanze della vita, nonch di pre-giudizi sui quali si basa per ciascuno la comprensione della realt; come routine cognitiva, ossia come forma di conoscenza tacita cui i soggetti fanno ricorso nella vita quotidiana; come capacit di comprendere cosa consono ad un contesto, ossia come capacit di adeguare le regole al contesto e di costruire regole nella concrete interazioni della vita quotidiana. Al di l di queste diverse accezioni, il senso comune definito essenzialmente come un sapere senza dubbi, contraddistinto da un atteggiamento che porta a dare per scontato allinterno di una determinata cerchia sociale e in un determinato momento della storia; un vincolo che ci costringe a vedere la realt attraverso una serie di stereotipi, ma anche una risorsa che ci consente di non dover mettere tutto in discussione prima di qualsiasi azione e, quindi, in definitiva, di vivere in una societ . Nella seconda parte viene messo in evidenza come il concetto di esperienza muti nel corso del tempo e come, in ogni epoca, richiamarsi ad esso agevoli, per certi versi, la destrutturazione delle forme di sapere precedentemente consolidate. Anche qui lanalisi del concetto di esperienza nellambito di diversi filoni di pensiero e nel corso del tempo rigoroso, ma il riferimento ai testi comincia a diventare pi personale. Cos Jedlowski tratta del passaggio dal concetto tradizionale di esperienza come saggezza, tipico del periodo greco come anche di quello medievale, al concetto di esperienza come ricerca della verit attraverso la scienza che si afferma a partire da Galileo unitamente ai metodi della scienza moderna e che permarr durante let del positivismo; tratta dellulteriore passaggio al concetto di esperienza come rapporto tra soggetto e oggetto, come percorso individuale, nella cultura romantica, che getta, per, contraddittoriamente, le basi per il concetto (opposto) di esperienza come insieme di avventure, tipico dellesperienza moderna, o, meglio, della frantumazione dellesperienza nella stessa epoca. Ancora, pur essendo il concetto di esperienza assai complesso ed estremamente sfaccettato, un mutamento fondamentale per la sua comprensione, , secondo lautore, quello esprimibile nella lingua tedesca attraverso i due distinti termini, Erfahrung ed Erlebnis: il primo legato al concetto tradizionale di esperienza intesa come vissuto particolarmente significativo, nonch come processo con cui alcune competenze e aspettative si consolidano, dando luogo cos ad una capacit di fornire risposte adeguate agli eventi, in definitiva, come saggezza; il secondo, entrato nelluso solo verso la fine del XIX secolo e successivamente concettualizzato da Dilthey, richiama invece il concetto di esperienza quale percezione nella coscienza del soggetto, quale rapporto tra soggetto e oggetto, quale atto puntuale. Ma quali sono le relazioni tra i diversi concetti di esperienza e le diverse accezioni di senso comune? Se lesperienza tradizionale pu essere messa in relazione con il concetto di senso comune come memoria sociale, quali relazioni intrattengono esperienza e senso comune nellorizzonte della modernit o, meglio, nella situazione postmoderna? nel superamento dellatteggiamento che d per scontato che Jedlowski coglie il nocciolo del rapporto tra senso comune ed esperienza: rispetto al senso comune lesperienza si pone in un rapporto di tensione, di scarto che nasce dal rimettere in gioco la soggettivit, intesa come capacit di opporsi a ci che appare dato. Nel libro, queste riflessioni sono affrontate con un linguaggio che diviene sempre pi personale: a questo punto le citazioni non servono pi soltanto ad inquadrare diverse accezioni e diversi concetti nellambito di differenti filoni di pensiero, ma anche a costruire il discorso che porta ad una personale formulazione del concetto di esperienza; forse questo il fil rouge che lega le citazioni di diversi autori, tra cui Benjamin, Proust, Melville, Wenders. E lesperienza diviene una sorta di capacit di orientarsi in mezzo a frammenti di vita che affiorano alla memoria come ricordi; o, ancora, tra frammenti delle tante vite che si offrono oggi come possibili strade da percorrere. Diventano qui fondamentali le riflessioni sul concetto di pausa, e sul ruolo della pausa nellattuale formazione dellesperienza, intesa, in definitiva, da Jedlowski

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come ritmo tra il vivere dando per scontato, che proprio del senso comune, e il ritorno del soggetto su se stesso. Lesperienza diviene cio una sorta di capacit di astrazione, di osservazione dallesterno del proprio vissuto, di personale contestualizzazione, di consapevolezza della relativit della propria condizione. Questo , quindi, un libro sullesperienza e sul senso comune; ma anche forse, per certi versi, un libro sulla situazione delluomo contemporaneo. Nel tentare di comprendere ci che il concetto di esperienza pu significare di fronte ai frammenti di vita che possono essere considerati elemento caratteristico dellattuale situazione umana, in relazione ai diversi modi in cui possibile, nellambito di differenti sfere di vita, dare le cose per scontate, il libro tratta, infatti, della odierna condizione delluomo, considerato nella sua individualit e nellappartenenza ad una societ plurale e in rapidissimo mutamento. Il concetto di esperienza diviene cos utile non solo per illustrare la destrutturazione delle precedenti forme di sapere, ma anche per cogliere alcuni aspetti problematici dei rapporti tra luomo contemporaneo e i rapidi cambiamenti a cui sottoposto. Appare forse chiaro quanto tutte queste riflessioni siano rilevanti anche nellambito delle discipline territoriali e per tutti gli studiosi che si occupano, da diversi punti di vista, di territorio. Anche in questo ambito, infatti, superata la concezione oggettivistica, si assiste al riconoscimento del carattere plurale delle forme di conoscenza messe in gioco dai diversi attori, tra le quali occupa un posto rilevante il senso comune. E ci, sia per quanto riguarda i processi di conoscenza del territorio e i documenti che ne costituiscono, per certi versi, lesito, sia per quanto riguarda, pi in generale, i processi di trasformazione territoriale. Diviene quindi fondamentale, anche in questambito, cercare di comprendere la natura di queste forme di conoscenza altra rispetto a quella scientifica. Daltra parte, le riflessioni sul concetto di esperienza e sui rapporti tra esperienza e senso comune possono forse contribuire a riguardare al ruolo dei diversi attori nellambito dei processi di trasformazione territoriale. (Carla Tedesco) ctedesco@libero.it

AMARTYA SEN, Lo Sviluppo Libert, Milano, Mondadori, 2000, pp. 355, L. 35.000
Lo Sviluppo Libert si basa su di una serie di conferenze che Amartya Sen ha tenuto come Presidential Fellow presso la Banca Mondiale nel 1996, pi una conferenza successiva del 1997. La traduzione italiana di questo libro scritto nel 1998 per stata pubblicata solo allinizio questanno. Lo scopo di questultimo lavoro, come lo stesso Amartya Sen dichiara nella prefazione, di stimolare la discussione pubblica (concetto a cui lautore attribuisce grande importanza) su un tema cos attuale e fondamentale come lo sviluppo. Per raggiungere questo fine, gli argomenti trattati sono analizzati in maniera tale da risultare accessibili anche al lettore comune. Ed in questo, a mio parere, sta al tempo stesso la grande forza e la debolezza de La libert Sviluppo. Infatti, gli aspetti tecnici e formali vengono spesso trascurati, rinviando, per il lettore interessato, ad altre pubblicazioni. Chiaramente, in questo modo la trattazione perde in rigore, soprattutto quando sono analizzati argomenti specialistici quali la base informativa delle teorie etiche o la teoria della scelta sociale, che risultano comunque ostici per un lettore non-specialista. Daltra parte, la mancanza di estremo formalismo e tecnicismo hanno il vantaggio significativo di lasciare ampio spazio ad esemplificazioni empiriche tratte dal mondo reale, le quali si distinguono per la loro forza illustrativa. Queste contribuiscono a tenere vivo linteresse del lettore, concretizzando in modo esemplare una teoria altrimenti astratta. La caratteristica distintiva del lavoro di Sen lattenzione da egli posta al tempo stesso su tematiche eco-

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nomiche, filosofiche ed etiche. Questultimo lavoro non eccezione: i suoi scritti in tema di benessere, scelta sociale, analisi della povert e delle carestie rappresentano il background analitico anche di questultimo libro. La libert sviluppo rappresenta il tentativo di proporre una teoria dello sviluppo come espansione delle libert reali godute dagli individui partendo dallormai famoso approccio delle capacit di Sen. Il libro si sviluppa attorno a tre temi chiave. Il primo riguarda la libert come fine dello sviluppo e il tema ad esso collegato della giustizia sociale. Il secondo tema principale mette in luce limportanza strumentale della libert nel promuovere lo sviluppo. Ed infine, il terzo rappresentato dalle implicazioni che, da una tale visione dello sviluppo, derivano per le politiche pubbliche. Lidea della libert come fine ultimo dello sviluppo implica la profonda inadeguatezza delle tradizionali analisi dello sviluppo che concentrano lattenzione sui progressi economici (la crescita del PNL, laumento dei redditi individuali, il progresso tecnologico). Lo sviluppo deve essere identificato con lespansione delle libert reali godute dagli individui, in quanto reddito e ricchezza sono soltanto mezzi per lo sviluppo, e quindi non possono essere considerati il fine ultimo di esso. Come lo stesso Aristotele ha affermato nellEtica Niconomachea, la ricchezza non il bene ultimo che cerchiamo, la perseguiamo solo in vista di qualcosaltro. Questa visione dello sviluppo si fonda sullapproccio delle capacit che base informativa di una teoria della giustizia sociale e quindi criterio per la valutazione delle politiche economiche e sociali. Lapproccio delle capacit si fonda su due concetti chiave, quello di funzionamenti (functionings) e quello di capacit (capabilities). I funzionamenti sono le cose che un individuo riesce a fare o ad essere nel corso della propria vita. Essere adeguatamente nutrito, sfuggire ad una morte prematura, o avere rispetto per s sono tutti esempi di funzionamenti. Le capacit rappresentano le combinazioni alternative di funzionamenti tra le quali un individuo libero di scegliere, quindi la libert reale di un individuo di fare o essere ci a cui (a ragion veduta) attribuisce valore. I funzionamenti scelti ed acquisiti tra i vari possibili rappresentano il well-being di un individuo. Da questa nozione di capacit deriva una concezione di benessere e di giustizia per cui il vantaggio del singolo viene giudicato in base alla capacit di una persona di fare delle cose a cui egli ha motivo di dare valore Lapproccio delle capacit si pone come alternativa sia alle teorie etiche utilitariste, la cui base informativa rappresentata dallutilit aggregata, sia alle teorie libertarie, che accordano priorit assoluta alla libert procedurale, sia alle teoria rawlsiana dei beni primari che si focalizza soltanto sui mezzi dello sviluppo. Quindi, lautore fa una digressione sui pregi e i difetti di queste teorie, avvertendo il lettore disinteressato allargomento di saltare la discussione critica e passare direttamente allanalisi costruttiva. Ma, in realt, lanalisi costruttiva dellapproccio risulta essere una delle pi ostiche di tutto il lavoro, soprattutto per il lettore non specialista, a cui il libro soprattutto rivolto. Quindi, ritengo che la discussione delle precedenti teorie etiche di cui lapproccio delle capacit si presenta come alternativa non possa essere ignorato tout court. Nonostante lenfasi posta sulla libert, Sen molto critico nei confronti delle teorie cosiddette libertarie, soprattutto nella versione proposta da Nozick. La base informativa della teoria libertaria rappresentata esclusivamente da libert e diritti di vario genere. I diritti libertari hanno priorit assoluta. Lindifferenza totale alle conseguenze , secondo lautore, il principale difetto di tale teoria, che richiede il rispetto dei diritti anche nel caso in cui questi producano conseguenze negative sulla libert sostanziale degli individui. Secondo la teoria welfarista, invece, il parametro per valutare il vantaggio di un individuo dato dallutilit. Lutilit pu indicare alternativamente la felicit, il piacere, o la soddisfazione dei desideri. Ma essere felici, o provare piacere soltanto uno dei molti aspetti rilevanti per una valutazione globale del well-being. Una persona potrebbe essere felice anche in una situazione di deprivazione, avendo imparato ad accettare la situazione. Ma il suo stato di deprivazione rimane comunque, ed una valutazione basata sullutilit non in grado di tenerne conto.

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Infine, per quanto riguarda la teoria dei beni primari, nonostante lampiezza del concetto di beni primari che comprende diritti e libert, poteri e opportunit, ricchezza e reddito ... e le basi del rispetto di s, essi rimangono comunque soltanto strumenti che aiutano a perseguire i propri fini. Linadeguatezza di questa impostazione si fonda sul fatto che essa trascura le differenze degli individui nella capacit di convertire i beni primari in funzionamenti, in well-being. Sen identifica cinque cause distinte che fanno variare il rapporto tra i beni primari e il benessere che ne ricaviamo: leterogeneit delle persone, le diversit ambientali, le variazioni del clima sociale, le differenze relative ed infine la distribuzione intrafamiliare. Nonostante, lapproccio di Sen si ponga in contrasto con le precedenti teorie etiche, esso mostra anche alcuni punti di contatto con ognuna di esse. Con la teoria utilitaristica, lapproccio delle capacit condivide lattenzione alle conseguenze e al benessere degli individui. Il libertarismo sottolinea limportanza dei processi di scelta e della libert dazione ed infine la teoria rawlsiana ha in comune con lapproccio delle capacit lattenzione per la libert individuale. Quindi, lo sviluppo deve avere come fine lespansione delle capacit degli individui, quindi la libert sostanziale degli individui di scegliere il tipo di vita a cui (a ragion veduta) danno valore. Questo aspetto della libert come obiettivo deve essere tenuto distinto dal ruolo della libert come mezzo dello sviluppo. Limportanza di questo secondo aspetto della libert (che rappresenta il secondo tema chiave del libro) deriva dal riconoscimento che le libert sono interconnesse e si rinforzano reciprocamente. Sen discute cinque tipi di libert che contribuiscono significativamente al progresso economico e alla giustizia sociale: le libert politiche, le infrastrutture economiche, le occasioni sociali, le garanzie di trasparenza e la sicurezza protettiva. Si tratta di libert strumentali che promuovono direttamente le capacit degli individui, ma la loro importanza non si riduce soltanto a questo aspetto: la loro efficacia sta nelle loro interconnessioni per cui le libert di un tipo promuovono il progresso delle libert di un altro tipo. Per esemplificare, la crescita economica non solo accresce i redditi individuali, ma d allo Stato la possibilit di finanziare lespansione dei servizi sociali (listruzione pubblica, lassistenza sanitaria ...). Ancora, la libert politica e i diritti civili hanno effetti consistenti sulla libert di evitare disastri economici. La conferma di questa interrelazione ci viene, sostiene Sen, dal fatto che nei paesi democratici non si verificano carestie, in quanto il governo di un paese democratico con mezzi di informazione liberi, unopposizione efficace, fortemente incentivato ad evitare le carestie. I nessi empirici tra queste libert strumentali sono messi in evidenza durante il corso di tutti i capitoli seguenti, traendo esempi ricavati da esperienze storiche o dalla comparazione di differenti esperienze dellattuale quadro politico economico mondiale. Si tratta di una serie di saggi, i cui argomenti spaziano dallanalisi della disoccupazione nei Paesi cosiddetti sviluppati, alla teoria della scelta razionale, dalla pianificazione familiare alletica degli affari, dalla povert allefficienza dei mercati. Il terzo tema fondamentale del libro riguarda il ruolo della politica pubblica. Essa non solo deve fornire un ambiente in cui gli individui siano in grado di esprimere le proprie capacit, la propria libert individuale, ma deve anche creare le condizioni per la discussione pubblica come base per identificare i valori individuali. Gli individui, infatti, secondo Sen, devono essere visti come agenti attivi del cambiamento e non come ricettori passivi dei benefici erogati e lindividuazione dei valori fondamentali per gli individui non costituisce responsabilit esclusiva della classe politica. Nonostante questa funzione della politica pubblica sia enfatizzata con forza dallautore, la sua operativit e i mezzi di attuazione risultano poco chiari. Risulta evidente che il mezzo attraverso cui gli individui sono in grado di discutere e dibattere sui valori rappresentato dalla democrazia. Ma Sen stesso ammette come anche in una democrazia matura, come per esempio quella degli Stati Uniti, una gran parte della popolazione non ha la possibilit di esprimere i propri bisogni, n tanto meno di identificare i propri valori.

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Secondo lautore, queste distorsioni si verificano in quanto la democrazia un sistema che crea un insieme di possibilit, ma luso di queste possibilit dipende dalla pratica effettiva dei diritti democratici. E questa pratica effettiva dei diritti condizionata dai nostri valori e dalle nostre priorit nonch dai modi in cui ci avvaliamo delle possibilit di espressione e partecipazione esistenti. Ci che non risulta chiaro quindi la soluzione al problema della pratica effettiva, si tratta di una questione di politica pubblica o di un problema individuale? Se in un sistema democratico maturo coloro che non sono in grado di definire i propri bisogni sono proprio coloro i cui bisogni sono pi urgenti, la questione si propone con forza. Non sufficiente affermare che la democrazia offre delle possibilit, ma che la pratica effettiva poi tuttaltra cosa. Quali sono le indicazioni pratiche per un decision-maker? Come risolvere la problematica degli afroamericani o in generale quella (ampiamente diffusa anche in Europa) dellesclusione sociale? Si tratta di una serie di questioni a cui Sen sembra non dare alcuna risposta, nonostante la loro fondamentale importanza in una visione dello sviluppo come libert. Il lavoro termina con lammissione da parte di Sen che lo sviluppo come libert un concetto eterogeneo che per sua natura non pu essere ridotto ad una semplice ricetta da seguire nella certezza del successo. Ci che rende unitario questo processo di sviluppo la libert individuale e limpegno da parte della societ di realizzarla. responsabilit degli individui decidere come utilizzare le capacit che realmente possiedono, ma le capacit degli individui dipendono strettamente dalla natura degli assetti sociali, ed in questo contesto che entra in gioco la responsabilit dello Stato e della societ nel promuovere le condizioni per lo sviluppo delle libert individuali: quindi, la libert individuale come impegno sociale rappresenta la via da seguire per promuovere lo sviluppo come libert. (Caterina Marchionni) catemar@libero.it

PIER LUIGI CROSTA, Politiche. Quale conoscenza per lazione territoriale, Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 112.
Insieme di vari articoli, note e comunicazioni, Politiche una buona introduzione al pensiero di un docente che occupa una posizione originale nel paesaggio italiano dellurbanistica e dellanalisi delle politiche pubbliche territoriali. Il lavoro di P.L. Crosta fa parte di una tradizione di critica della razionalit urbanistica che si strutturata in Italia. Lautore parte da unidea semplice che sta alla base della cultura professionale degli urbanisti: il piano il frutto dellattivit dei pianificatori. Lurbanistica, il piano, sono assimilati ad un settore e ad un corpus di conoscenza professionale ben definito. Quindi, nella cultura urbanistica corrente, il soggetto della pianificazione non considerato come problematico. Per individuarlo, basta conoscere il sistema istituzionale della pianificazione che attribuisce ruoli e funzioni. Questa dicotomia forte tra ruoli diversi (pianificatori/pianificati) raddoppiata da una dicotomia tra forme diverse di conoscenza (esperta/ordinaria) - ha per lungo tempo trovato una sua giustificazione nelle tradizioni riformista e marxista della pianificazione, che accordano entrambe un ruolo privilegiato al tecnico esperto che, in virt della sua competenza professionale, opera la mediazione tra i pianificatori (i politici) e i pianificati (gli abitanti). Questa concezione della ripartizione dei ruoli nella pianificazione ha ampiamente segnato le esperienze del comprensive planning che sono praticate classicamente. Essa allorigine della produzione di un tale sistema di piani, a cascata, che esiste in Italia. Di fronte al fallimento di questo sistema, i difensori accademici della gerarchia dei piani hanno spesso o fustigato lincuria degli attuatori (politici), becchini dello-

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pera di ragione urbanistica, oppure chiesto unistituzionalizzazione dei modi di coordinamento e di controllo. P.L. Crosta, ha sviluppato una riflessione critica su questi due tipi di reificazioni. Ci che fa problema nelle concezioni classiche della pianificazione, in primo luogo la distinzione stabilizzata tra la conoscenza dellesperto (che deve ispirare i pianificatori) e la conoscenza derivata dellesperienza (quella dei pianificati). La tesi di Crosta che il lavoro di produzione di conoscenza utilizzabile nelle politiche territoriali pu essere collettivo ed intervenire in tutti i momenti del lungo processo di costruzione del piano. Non si pu e non si deve separare in un modo troppo rigido i ruoli di utilizzatori e di produttori di conoscenze, tanto meno assimilare ciascuno di questi ruoli a delle figure professionali univoche. La conoscenza interattiva, essa prodotta da attori che interagiscono nel corso dellazione. La forma di conoscenza pi utile per lazione viene durante lazione, dagli attori stessi che vi sono impegnati (p. 15). La conoscenza utile per lazione il prodotto di una combinazione di conoscenze diverse. Occorre quindi rimettere la conoscenza al suo posto nel processo di pianificazione. Le decisioni politiche non sono lesito dellattuazione di una conoscenza ma di scelte. La conoscenza informa la decisione ma non la sostituisce. Unazione determinata dalla conoscenza (concepita come prodotto della razionalit di chi abbia la legittimit a produrre la razionalit) non opera una scelta, quindi non politica. Per garantire alle politiche il carattere di scelte, dobbiamo riconoscere che prodotti della conoscenza sui quali si fonda la decisione, sono materie esse stesse di decisione (p. 18). Lexpertise, la produzione di conoscenza per e nellazione sono gi atti di lavoro politico, lavoro dinterazione politica, che conviene aprire a tutti i portatori di conoscenze. Questa ridefinizione del posto della conoscenza nellazione si accompagna ad una ridefinizione dellinteresse pubblico; altrove Crosta preferisce parlare di beni comuni. Tradizionalmente, i pianificatori, sul modello degli altri professionisti delle politiche pubbliche, intendono costruire il bene comune, lintrt gnral, come dicono i Francesi, fuori e prima del processo di pianificazione o di attuazione della politica. Qui linteresse pubblico non lesito di un processo dinterazione politica (o allora limitato alle assemblee istituzionali). La produzione del bene pubblico non costituisce un problema perch le entit legittime (politiche, professionali) ne sono depositarie. A questa visione di un interesse generale come sostanza, Crosta, ispirandosi a Lindblom e Donolo, oppone una concezione dei beni comuni come prodotti relativamente aleatori dei processi di politiche pubbliche. Il bene comune non costruito fuori dalle pratiche sociali. Esse generano, come effetti sottoprodotto, dei beni comuni: Crosta propone una ridefinizione relazionale del bene comune. Qui, si torna alla questione della conoscenza. Siccome la conoscenza deve essere concepita come un prodotto dellazione congiunta piuttosto che come un preliminare ad essa, le politiche pubbliche devono essere considerate come spazi di interazione tra diversi tipi di conoscenze (esperte, ordinarie). Linterazione sottomette queste diverse forme di conoscenze ad un processo di validazione crociata. Questo processo di validazione fa lavorare i saperi nellazione, li sottomette al mescolamento, alla contaminazione reciproca. Lipotesi fatta dallautore che tutti gli attori possono dedicarsi a questo lavoro di manipolazione dei loro saperi, degli interessi propri e di quelli degli altri. Questinterazione consente la condivisione di un quadro di significazione che pu trasformare il processo di pianificazione in unazione congiunta. in definitiva da questo punto di vista che lurbanistica-come-pratica produce senso comune: attraverso la loro validazione - via interazione - i quadri di significato propri di ciascun attore vengono messi in comune. La produzione di senso-in-comune dunque leffetto e insieme la condizione del costituirsi dellurbanistica come pratica sociale (pp. 65-6). I beni comuni prodotti da questa pratica sociale dinterazione sono essenzialmente misurabili in termini di costruzione di capitale sociale. Lazione congiunta costitutiva dellidentit degli individui. Lazione collettiva mette alla prova, utilizza e costruisce il capitale sociale degli individui e dei gruppi sociali. I beni comuni rinviano al processo di produzione della societ nel suo insieme. Sono astratti, sono dei sotto-prodotti dellazione, continuamente reintrodotti nelle pratiche sociali. Partecipano alla costituzione della societ e sono di conseguenza difficilmente misurabili.

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Lautore propone sia una riconcettualizzazione delle politiche pubbliche sia un modo diverso di pensare il processo di pianificazione. Le politiche pubbliche devono essere concepite come dei processi interattivi di politiche, ci che consiste nel rifiutare una concezione delle politiche pubbliche come assimilabili allazione dello Stato ed a confutare il principio dellintenzionalit. Una politica pubblica non si deduce da unintenzione e non si riduce a questa, per cui soltanto costruibile ex post, un costrutto analitico. Una politica un contesto dinterazione che pu permettere agli attori di passare allazione congiunta. Una politica rileva dellazione congiunta quando gli attori sono portati a riesaminare le loro griglie interpretative preliminari ed a costruire collettivamente dei significati condivisi. Il processo di piano non consiste di interazioni tra pi attori nello svolgimento dei loro ruoli, bens costruito dallinterazione, e solo eventualmente prende la forma di azione congiunta se i soggetti interagenti dimostrano una disponibilit a (e capacit di) ridefinire la forma (le regole) dellinterazione, entro quadri di significato condivisi (p. 30). A partire dalla sua concezione dellazione congiunta, Crosta ridefinisce, qui in un modo normativo, una pratica del piano. Esso non pi lattivit degli urbanisti ma unattivit diffusa, una pratica sociale di produzione collettiva di quadri di significati comuni che consentirono una produzione di beni comuni. Qui ancora, lautore si inspira a Lindblom: lattivit di pianificazione lattivit di tutta la societ, essa non pi ridotta, come nellottica riformista, alla domanda sociale (p. 58). La pianificazione il prodotto di una societ che si auto-governa o che, almeno, mette la razionalit dei pianificatori sotto il controllo dellinterazione sociale. Per quanto riguarda questultimo punto di vista, il pensiero di Crosta debitore di un contesto politico e scientifico italiano dove la constatazione della crisi delle regolazioni politiche ed istituzionali si accompagna ad una riflessione sulle modalit extra-istituzionali di regolazione e di produzione dellordine sociale. Ma loriginalit del lavoro di Crosta il fatto di entrare nella questione dei rapporti Stato-Societ nellazione pubblica dal lato dellanalisi delle forme di produzione di conoscenza - in e per - lazione. (Gilles Pinson) pinsong@aol.com

SASKIA SASSEN, Migranti, coloni, rifugiati. Dallemigrazione di massa alla fortezza Europa, Milano Feltrinelli, 1999, pp. 196, L. 37.000
Un tema critico, quello delle migrazioni umane, che non sempre viene presentato in maniera adeguata nella cronaca, n considerato elemento di rilievo negli studi storici sullEuropa occidentale. Sassen parte, invece, dal presupposto che la storia delle migrazioni possa essere considerata laltra storia dellEuropa: quella non visibile, trasversale alla storia ufficiale e che ha contribuito in maniera sostanziale a definire il carattere del continente europeo. Docente di urbanistica allUniversit di Chicago, Saskia Sassen si occupa oggi di economia globale, globalizzazione e rapporto fra dinamiche economiche e processi di urbanizzazione, ma il tema delle migrazioni ha segnato la sua formazione e lha spinta ad accogliere linvito di Eric Hobsbawm a scrivere un libro sulle migrazioni europee negli ultimi due secoli. Nasce cos Migranti, coloni, rifugiati. Dallemigrazione di massa alla fortezza Europa. Nel testo si intersecano tre tagli di lettura sul fenomeno migratorio: uno storico-strutturale che guarda non solo ai milioni di europei che sono emigrati dal continente negli ultimi centocinquant'anni, ma che considera i caratteri ed i percorsi delle migrazioni interne allEuropa ed il loro impatto economico, politico e culturale; un secondo taglio di lettura quello che considera i processi migratori come radicati nelle origini del sistema statuale moderno. Infine si intravede un taglio di lettura meno esplicito, ma non meno rilevante, relativo alla formazione europea ed al ruolo che in essa ha giocato la figura dellAltro, interno ed esterno. Si spiegano cos alcuni dei concetti chiave che attraversano lopera: sistemi migratori, struttura

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delle migrazioni, confini-frontiere-statualit, migranti, rifugiati, cittadinanza, integrazione. Assumendo un concetto di emigrazione non tanto (soltanto) associato ad eventi bellici ed a fenomeni di intolleranza, ma legato essenzialmente alla realt del lavoro, Sassen propone un excursus storico delle migrazioni europee, riconoscendo che la comprensione dei fenomeni migratori attuali richiede uno sguardo di lungo periodo sullevoluzione europea; uno sguardo capace di oltre trecento anni di storia, suddivisibili in fasi (fino al primo 800, dopo lindustrializzazione, dopo la Prima Guerra mondiale, attualit) ciascuna delle quali presenta caratteri distinti. Si parla di migrazioni stagionali, cicliche, a catena, ricordando che fin dal Medioevo queste sono state alla base dei sistemi migratori di manodopera verso il Mare del Nord, le pianure del Mediterraneo e le aree peri-urbane di Parigi, Madrid, Londra. Si ricordano i mutamenti imposti dagli sviluppi industriali allorganizzazione del lavoro e del territorio, sottolineando come lingresso del capitale nelleconomia agricola allinizio del diciannovesimo secolo abbia provocato la proletarizzazione dei piccoli contadini, e dato origine ad una nuova classe di poveri; mentre, al contempo, gli sviluppi tecnologici, lo sgretolarsi delle strutture socioeconomiche preesistenti e la concentrazione delle industrie nelle aree urbane facevano s che la manodopera dipendesse sempre pi dai mercati mondiali, da accordi e da politiche internazionali. Si richiamano le dinamiche di popolamento dei territori coloniali, legate alla struttura ed al funzionamento dello Stato nazionale e allesigenza di una classe burocratica per amministrarlo. In questo percorso Sassen individua le peculiarit del fenomeno - che sono mutate nel tempo e se nel Medioevo erano soprattutto artigiani e lavoratori stagionali a spostarsi, dopo le guerre napoleoniche il lavoro migrante diventa componente stabile della storia europea; certo che nel 600 e 700 lemigrazione rappresentava per i paesi poveri una minaccia ben peggiore dellimmigrazione, dalla quale tutti traevano vantaggio (p. 25) - ma sottolinea anche gli elementi di continuit, che sintetizza in una frase: I movimenti migratori non nascono per il semplice fatto che alcuni individui desiderano migliorare le proprie condizioni di vita, bens sono conseguenza di una complessa serie di processi economici e geopolitici (p. 13). Si tratta quindi, non di eventi casuali ma di dinamiche strutturate, condizionate da andamenti storici, interessi economici, relazioni politiche. Linteresse per la dimensione diacronica dei fenomeni, allora, non giustificato solo dallintento di recuperare le radici ed i caratteri antichi di fenomeni che oggi si impongono sulla scena politica. Lintento esplicito di Sassen quello di offrire elementi per ladozione di politiche alternative a quelle attuali a livello europeo; politiche capaci di rispondere alle esigenze di regolazione del fenomeno ed alle domande espresse da unopinione pubblica sempre pi sensibile al tema/problema migratorio. Sassen, infatti, ribadisce pi volte lesistenza di una profonda contraddizione tra la politica praticata in materia di immigrazione (tuttora fortemente centrata sul principio del confine e della separazione fra entit statuali sovrane) e le strutture del sistema internazionale (p. 16) in particolar modo quelle costitutive della crescente integrazione economica. In questa articolazione Sassen inserisce un ulteriore elemento: i percorsi paralleli che riguardano i rifugiati ed il modo in cui la stessa terminologia relativa ai processi ed ai soggetti coinvolti andata mutando. Se allinizio del diciannovesimo secolo i rifugiati erano individuati nelle lites colte che lasciavano il proprio paese per motivi politici e ricevevano generalmente unaccoglienza benevola da parte dei paesi di destinazione, con il conflitto franco-tedesco del 1870 iniziano le migrazioni di massa: alle emigrazioni volontarie si affiancano le espulsioni e con il crescente nazionalismo n i rifugiati politici n i lavoratori migranti godono pi di facile accoglienza. Ma il problema dei grandi flussi di rifugiati si pone dopo il 1918 ed tema che interseca fenomeni storici diversi: la formazione di nuovi Stati, la chiusura statunitense allimmigrazione, la vittoria del comunismo nellUnione Sovietica. Sassen afferma che lEuropa del periodo compreso fra il 1900 e il 1945 poteva essere definita il continente dei rifugiati e cita le vicende degli ebrei russi, lo sgretolarsi dellimpero turco ed il destino delle popolazioni balcaniche, gli eventi dell'Italia fascista e della Germania nazista. Dalle indagini storiche emerge che i fenomeni migratori hanno sempre risposto ad esigenze di carattere economico, demografico e politico e che nel corso dei secoli essi hanno suscitato diverse risposte da parte

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delle istituzioni politiche e reazioni da parte delle societ (opinione pubblica) a seconda del contesto culturale generale e della contingente situazione socio-economica. A questo proposito Sassen offre una comparazione fra i diversi paesi europei. Cos la Francia ha sempre promosso forme di integrazione permanente nellambito, per, di unimmigrazione regolata, e sostenuto lassimilazione culturale degli stranieri, sia sul proprio territorio che nei territori doltremare. La Germania, invece, stata terra di forte emigrazione prima verso le zone del Nord Europa e poi verso gli Stati Uniti, ma al contempo anche area di immigrazione di manodopera a basso costo. Dalla fine della Guerra Fredda essa deve confrontarsi con le migrazioni provenienti dallEuropa dellest che coinvolgono popolazioni di origine e lingua tedesca e questo ha portato a rivedere in anni recenti le politiche per limmigrazione: dal privilegiare le migrazioni temporanee si giunti allattuale riconoscimento dei concittadini stranieri, ma al tempo stesso le garanzie relative allasilo politico riconosciute costituzionalmente nel secondo Dopoguerra hanno subito una severa restrizione. LItalia, altro caso esemplare, stata per oltre cento anni paese di forte emigrazione verso gli altri paesi europei, le Americhe e lAustralia, per un totale di oltre venti milioni di persone emigrate fra il 1876 e il 1976, nonostante lavvio della crescita economia del paese (in queste dinamiche il territorio Veneto citato esplicitamente come esempio di una migrazione particolarmente rilevante rispetto alla popolazione complessiva a inizio secolo, con una percentuale di quaranta soggetti migranti ogni cento abitanti). Ma lItalia divenuta oggi uno dei territori pi direttamente interessati dalle nuove modalit (e dalle nuove problematiche) dei flussi migratori. Lautrice elenca, infatti, alcuni elementi di novit che caratterizzano il fenomeno nellepoca attuale, sottolineati anche da altri autori come caratteristici del fermento di questo inizio di secolo (Castells M., End of Millenium, Massachusetts, Blackwell 1999): le migrazioni non sempre rispettano le aspettative (e le preoccupazioni) che il discorso sui flussi genera, ovvero non si verifica alcuna invasione di massa. Ci sono oggi nuovi territori di destinazione cos come di provenienza e si espande la geografia delle migrazioni. Valgano due esempi in proposito: la situazione di Italia, Grecia, Spagna e Portogallo, paesi che fino a pochi anni or sono esportavano manodopera in Europa e oltre e ora mete di flussi rilevanti, molti dei quali in transito verso altri paesi europei; in secondo luogo le realt dellEuropa centrale, che sempre pi diventano aree di accoglimento di migranti, permanenti, temporanei o stagionali, provenienti dallEst e dallex Unione Sovietica. Fra le novit ricordiamo anche la formazione e limpatto degli immigrati cosiddetti di seconda generazione, che sta influendo sulle societ di accoglienza poich sempre pi ai contingenti di manodopera straniera si vanno sostituendo vere e proprie comunit di cittadini, che si propongono sulla scena politica locale e nazionale come interlocutori e non pi solamente come individui stranieri immigrati, dando origine a ci che Appadurai chiama sfere pubbliche diasporiche (Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalizations, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996). Infine, le questioni sollevate dal processo di integrazione europea, dalla liberalizzazione interna e dallinternazionalizzazione economica, in unEuropa che nel 1990 contava quindici milioni di stranieri, un terzo dei quali di provenienza da paesi della stessa Unione. Questi nuovi aspetti del fenomeno interpellano le istituzioni dal livello locale a quello nazionale fino al livello europeo, in termini di libert di circolazione, riconoscimento di cittadinanza, armonizzazione delle politiche relative. Ed a questa esigenza di definizione delle politiche pubbliche che Sassen dedica lultima parte del testo, portando a sostegno della tesi non solo le analisi storiche ma anche una serie di dati e tabelle. La conclusione che il problema di fondo non quello di dover respingere uninvasione ma quello di gestire un flusso strutturato, ovvero funzionale al sistema economico dei paesi di destinazione e non solo radicato nelle asimmetrie dello sviluppo e nelle strutture imperiali del passato. Si spiegano cos le forme di reclutamento e le responsabilit dei governi, i quali nel concertare le politiche per immigrati e rifugiati dovrebbero tener conto di alcune analogie transnazionali: il fatto che lemigrazione riguarda sempre una piccola parte della popolazione, che gli immigrati sono comunque minoranze allinterno delle societ di

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accoglienza, che sono frequenti fenomeni di ritorno al paese di origine ma che si sviluppa anche una tendenza allinsediamento permanente e che i fenomeni migratori sono comunque una realt altamente differenziata. Le riflessioni con cui il libro si chiude riguardano soprattutto la responsabilit delle entit statuali e poststatuali (Beck, U., Che cos la globalizzazione. Rischi e prospettive della societ planetaria, Roma, Carocci,1999) o post-nazionali (Habermas, J., La costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Milano, Feltrinelli, 1999) per il prossimo futuro su temi quali cittadinanza, identit, integrazione. Linvito di Sassen esplicito: in un secolo in cui ogni economia globale e la politica economica nazionale ha pi che altro funzioni di coordinamento (p. 143) le politiche per limmigrazione devono abbandonare la visione legata al trinomio Stato/sovranit/frontiere ed entrare in una nuova prospettiva, nella quale a cittadinanza ed identit si affianchino concetti quali sovranit non esclusiva, tendenze globali, coordinamento politico e coinvolgimento delle opinioni pubbliche e delle comunit nel dibattito politico relativo. Ci sembra significativo che Sassen affronti il tema dei soggetti migranti anche in altra sede, rispetto alla realt delle citt globali (Sassen, S., Le citt nelleconomia globale, Bologna, Il Mulino 1997): leconomia globalizzata ha bisogno di spazi, non vero che nellepoca del globale tutto diviene virtuale ed i luoghi perdono di significato. Le citt globali assumono unimportanza strategica perch sono i luoghi del coordinamento e della gestione delle attivit globali; n sono da considerare luoghi quasi-virtuali abitati solo da esperti finanziari e fornitori di servizi ad alta intensit di conoscenza. Le citt globali sono anche spazi in cui le dinamiche del lavoro e delle relazioni sociali si sviluppano coinvolgendo una molteplicit di lavoratori migranti che diventano essenziali per la gestione delleconomia globale garantendo i servizi di manutenzione, trasporto, pulizia e che in questo modo contribuiscono a determinare il carattere stesso delle citt, dei quartieri, dei nodi regionali dellepoca globale. Ma qui si apre un altro capitolo, interessante anche per comprendere la realt attuale del NordEst italiano, che lascia lanalisi storica per entrare nel futuro prossimo. (Claudia Padovani) claupad@libero.it

STEFAN VOIGT, Explaining Constitutional Change - A Positive Economics Approach, Cheltenham, Edward Elgar, 1999, pp. 264, GBP 55.00
Secondo la definizione di James Buchanan una costituzione un insieme di regole consensualmente stabilite che limita lattivit degli individui nel perseguimento dei loro obiettivi. Voigt specifica meglio tre categorie di questo tipo di regole: i vincoli che le persone si autoimpongono, i vincoli che i soggetti stabiliscono reciprocamente allinterno di sistemi sociali, i vincoli imposti agli agenti che rappresentano lo Stato. Questultima categoria di norme quella presa in considerazione da Explaining Constitutional Change. Vengono esaminate le istituzioni che hanno il compito di definire gli organi che costituiscono lo Stato, di delineare le competenze di tali organi, di stabilire le procedure da seguire per modificare le regole costituzionali stesse e di stabilire le regole sub-costituzionali, di specificare i diritti individuali che servono a proteggere gli individui dallinterferenza arbitraria di altri individui e dello Stato stesso. Limportanza di questo tema per leconomia data dal fatto che la scelta di sistemi di regole si rivela cruciale per determinare il benessere collettivo. Da non trascurare inoltre il fatto che sempre questo lambito di studi in cui avviene un confronto pi diretto tra diverse scuole di pensiero economico e tra diverse discipline. qui infatti che si incrociano economia, scienza della politica e diritto, ed in questo contesto che lepistemologia economica dominante si trova in diretta concorrenza con gli approcci economici basati su fondamenti pragmatico-fenomenologici. La difficolt della valutazione delle conseguenze delle

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scelte tra regole alternative rende leconomia delle istituzioni e leconomia costituzionale uno dei domini in cui la diversit di metodi di studio pu essere pi feconda. Lobiettivo principale di Stefan Voigt di elaborare una teoria positiva del cambiamento costituzionale: spiegare come le costituzioni emergono o evolvono endogenizzando il processo di scelta delle regole. In secondo luogo, Voigt si propone di comparare le conseguenze economiche di varie regole costituzionali. Lautore cerca di comprendere le costituzioni attraverso gli strumenti delleconomia delle istituzioni fondendo lapproccio della nuova economia delle istituzioni di North con i principi sviluppati da Hayek e Buchanan. Le istituzioni, nella cui classe ricadono le costituzioni, hanno limportante ruolo economico di ridurre lincertezza consolidando le aspettative e quindi permettono di operare delle scelte su orizzonti temporali pi ampi. Ci consente investimenti a pi lungo termine ed una maggiore specializzazione nella divisione del lavoro. Insomma, delle istituzioni adeguate e solide sono un importante elemento per lo sviluppo economico. Il libro inizia con lesposizione e la critica delle posizioni di quelli che lautore ritiene essere i due pilastri fondamentali delleconomia delle costituzioni: James Buchanan e Friedrich von Hayek. Questo permette a Voigt di emancipare il proprio approccio da tali tradizioni di studi delineando una teorizzazione piuttosto indipendente che tende ad integrare gli strumenti elaborati in diversi ambiti in un corpus organico e quindi meno problematico. Da tale critica emerge anche un quadro analitico-valutativo di riferimento molto interessante dal punto di vista epistemologico, che far da guida alla strutturazione di questo programma di ricerca. Lautore valuta infatti i seguenti aspetti delle teorizzazioni positive concernenti levoluzione delle costituzioni: laspetto della conoscenza positiva, ladeguatezza delle ipotesi, la spiegazione del canale di trasmissione delle scelte, lapplicabilit dei principi ed il riconoscimento delle implicazioni della propriet di coerenza dei sistemi di norme. La critica pi decisa viene rivolta a Buchanan: il suo contrattualismo sostanziale non ritenuto compatibile con una teoria positiva: il contratto ha sempre delle precondizioni, prima fra tutte la fiducia tra le parti, in mancanza delle quali viene meno la possibilit di esistenza del contratto stesso. Il contrattualismo si basa pertanto su ipotesi strumentali, fornisce spiegazioni altrettanto strumentali e non tiene conto dellinterazione tra istituzioni interne ed esterne. Hayek, dal canto suo, risulta poco coerente e la sua teoria del cambiamento istituzionale elaborata in modo tale da risultare poco propositiva. La cassetta degli attrezzi delleconomia delle costituzioni individuata da Voigt nellanalisi istituzionale comparata, nella storia economica, nella storia congetturale e nelleconomia sperimentale. Lautore prosegue quindi con unanalisi degli studi di coloro che hanno prodotto materiale che pu presentare un certo interesse per questo programma. Data la relativa novit del campo di ricerca affrontato, la panoramica risulta un po eterogenea, ma il filo conduttore ben steso cogliendo gli aspetti di ogni contributo nelle possibilit offerte dal contesto in cui stato proposto. La seconda parte del libro offre una critica pi estesa al contrattualismo volta a mettere in dubbio la validit del concetto di contratto sociale per la teoria positiva. Voigt inquadra le costituzioni come istituzioni spontanee, cosa legittima secondo lautore in considerazione del fatto che vengono endogeneizzate rispetto al sistema economico. In secondo luogo, egli sostiene che le costituzioni formali rischiano di essere banalizzate dalla realt se non si costruiscono sulla base di istituzioni spontanee o vengono da esse supportate. Precondizione per lefficacia di una costituzione che sia lespressione di una cultura di un popolo. Egli interpreta questo concetto di spontaneit come un processo di negoziazione tra gruppi dinteresse o tra governanti ed opposizioni. Passa quindi ad esaminare la differenza tra cambiamenti espliciti e cambiamenti impliciti delle regole costituzionali. Questi ultimi sono i cambiamenti di interpretazione del testo o variazioni nelle pratiche costituzionali dovute a modifiche informali che comportano variazioni rilevanti delleffetto delle regole. Vengono infine analizzati i fattori esterni che possono portare a cambiamenti costituzionali: in questo Voigt d giustamente poco peso al concetto di concorrenza tra costituzioni, presentando come fondamental-

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mente rilevante quello del processo di imitazione dato da supposti effetti positivi di schemi costituzionali di paesi di successo. Questa seconda parte del libro ben documentata con esempi di cambiamenti istituzionali di paesi di tutto il mondo in un periodo di tempo molto ampio. Laspetto pi apprezzabile dellopera sicuramente lapertura della teorizzazione economica verso aspetti evolutivi senza lutilizzo di modelli di difficile applicazione. La formalizzazione limitata a semplici applicazioni di teoria dei giochi. Lopera consolida linvasione dello spazio politologico da parte degli economisti, tuttavia limperialismo economico cos come oggi viene chiamata lapplicazione del calcolo razionale basato sullindividualismo metodologico risulta molto ridotto, grazie alla convergenza di diverse tecniche analitiche. Infatti, la vastit del piano danalisi porta lautore a ridurre la complessit del soggetto tramite lutilizzo di diverse tecniche, adottando cos un approccio non certista gi a livello teorico. Daltra parte la complessit dellargomento non viene affrontata con concetti sintetici e strumentali come nel caso di North la minimizzazione impersonale dei costi di transazione , ma attraverso un ancoramento pragmatico al principio di creazione di senso da parte dei modelli utilizzati. Se pur un certo strumentalismo permane nei modelli formali proposti, questo in gran parte legato alla scarsa dotazione di strumenti a disposizione delleconomista relativamente ai suoi scopi. Il problema della valutazione degli effetti di regole diverse viene un po trascurato o comunque poco enfatizzato. Da un lato, Voigt sembra adottare il concetto di sistemi di regole di Hayek, dallaltro, non elabora tutte le conseguenze che questo principio comporta. Infatti, se leffetto di una regola dipende dalle relazioni che essa intrattiene con altre norme, allora limpatto di una regola pu essere valutato solo relativamente a tutto il sistema di regole. Ci significa che leffetto del cambiamento di una norma pu essere studiato solo avendo in mente la particolare configurazione delle interazioni tra regole. Questo concetto trova gli economisti in buona parte sprovvisti di strumenti analitici appropriati in quanto la loro cassetta degli attrezzi impone loro di concepire le variabili come additive, di parlare di insiemi e non di sistemi. La valutazione dellimpatto di una variazione del sistema di regole sulleconomia comunque un problema che Voigt cerca di evitare per concentrarsi sui meccanismi del cambiamento istituzionale. Il concetto di spontaneit utilizzato da Voigt nel capitolo sesto del libro, dove viene discusso il processo di cambiamento costituzionale come processo di negoziazione, uninterpretazione molto libera di quello hayekiano. Esso risulta poco riconciliabile con questultimo ed in parte con quello sostenuto da Voigt stesso nel capitolo precedente. Il concetto di ordine spontaneo come emersione non pianificata di norme difficilmente pu essere esteso a processi di negoziazione collettiva. Il consenso dei gruppi dinteresse non garantisce la sostenibilit delle forme dinterazione tra essi concordate. Inoltre il concetto di gruppo dinteresse o di rappresentanza non appare compatibile con lindividualismo hayekiano che si basa sullipotesi di informazione imperfetta e sullidea di processi di scoperta individuali. Daltra parte, uno dei limiti di Hayek che non si pu concepire come ordine progettato ogni forma di azione collettiva formalizzata volta a stabilire regole dinterazione non gi esistenti. In conclusione, i concetti di ordine spontaneo o progettato di Hayek risultano di difficile applicazione pratica in molti contesti, e comunque linterpretazione che Voigt ne d nel capitolo sulla compatibilit di costituzioni e norme spontanee risulta pi felice di quella che invece emerge nel capitolo dedicato ai meccanismi di evoluzione delle costituzioni. Rivolto al pubblico di stile anglosassone, il libro risulta di piacevole lettura anche per il continentale in quanto produce un compromesso tra lapplicazione di tecniche strettamente economiche e la discussione di concetti di matrice culturale europea. Dispiace tuttavia notare che lautore trascura eccessivamente il contributo dato da Walter Eucken, padre fondatore di questo tipo di studi. (Stefano Solari) stefolari@decon.unipd.it

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BARLUCCHI M. CHIARA, Il tipo ideale weberiano. Dalla identificazione alla operativizzazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998, pp.122, L. 22.000
Raramente si ha il piacere di recensire un vero scritto di metodologia che affronti problemi metodologici cruciali come quello dell'idealtipo weberiano. Questi scritti si riconoscono dal fatto che sono il prodotto di riflessioni spesso lunghissime. Ed, infatti, questo volume di metodologia la rielaborazione di una tesi di dottorato del 1992 ed esprime il lungo lavoro di una ricercatrice fiorentina che ha pubblicato, su questo stesso argomento, un saggio sulla rivista "Sociologia e Ricerca Sociale". Inoltre, nel periodo tra la conclusione del dottorato e la pubblicazione di questo volume, lautrice stata a lungo e frequentemente in Germania ed ha potuto confrontarsi con i testi originali e la letteratura tedesca sull'argomento. Nonostante ci, lo scritto della Barlucchi rimasto profondamente italiano, come dimostra lo stesso riferimento alla operativizzazione contenuto nel sottotitolo. Soprattutto, se non solo, in Italia, ormai, i metodologi rimangono ancora cos attenti al tema lazarsfeldiano della traduzione dei concetti in operazioni standardizzate in modo da ridurre al minimo la discrezionalit del ricercatore. Questo presupposto specificamente italiano condiviso dall'autrice, la quale, in coerenza con esso, chiude il volume trattando il tema dell'impiego del tipo ideale e costruisce, a tal scopo, unastratta tabella di presenza e assenza delle caratteristiche o propriet che potrebbero comporre un idealtipo. Questa chiusura perfettamente coerente con le premesse di scuola che rimandano, oltre che ad Alessandro Bruschi, metodologo fiorentino che si poco interessato di questo argomento o di argomenti ad esso strettamente collegati, agli scritti di Alessandro Cavalli, Giovanni Sartori e Alberto Marradi. Del primo, l'autrice accoglie l'idea, poi sviluppata nelle conclusioni, che le propriet o caratteristiche di un idealtipo vengano considerate preesistenti all'idealtipo stesso e siano rilevabili verificandone la presenza (indicata o codificata con 1) o l'assenza (indicata o codificata con 0). Del secondo, lautrice accoglie l'idea che la costruzione dei concetti proceda per genus et differentiam (cosa che Weber ha esplicitamente negato). Del terzo, lautrice ha accolto la concezione della comparazione come confronto di propriet o di stati di una stessa propriet (concezione che risale alla Logique de Port Royal e che lontanissima dall'idea di Weber che la comparazione sia un confronto di contesti semplificati, appunto, attraverso il ricorso a tipi ideali). In altri termini, sia le premesse che le conclusioni operativizzanti dell'autrice., inscrivono l'idealtipo weberiano esclusivamente nella comparazione sincronica dove pi facile utilizzare strumenti tipici della thin description (le dummy variables che illustrano le presenze e le assenze delle propriet o caratteristiche). Un idealtipo cos descritto non ha, tuttavia, niente a che vedere con la comparazione diacronica dove , invece, inevitabile utilizzare strumenti tipici della thick description (la problematizzazione di ciascuna caratteristica o propriet e, soprattutto, la descrizione della sua genesi). Il problema che qualsiasi idealtipo costruito (o presentato) sulla sola base della comparazione sincronica si presenta, quasi inevitabilmente, pi come uno stereotipo (che individua un comportamento medio laddove si presentano, comunque, forti scostamenti dalla media) che come un idealtipo vero e proprio (che individua un tratto culturale o sottoculturale che aiuta a rappresentare una struttura pi o meno latente nella/della societ o realt indagata). Se veramente gli idealtipi della ricerca sociale si costruissero in questo modo, non vi sarebbe alcuna possibilit di rispondere ai critici della comparazione come metodo (soprattutto ai tanti che si fermano al casestudy adatto pi allelaborazione di ipotesi che al loro controllo) i quali potrebbero, a ragione, denunciare come stereotipizzante e, quindi, inutile, ogni analisi comparativa. Il libro comunque ben scritto e presenta un apparato bibliografico non indifferente in cui, per, il peso dei comparativisti alla Weber molto ridotto rispetto al peso dei neopositivisti e, comunque, dei non comparativisti. (Giuseppe Gangemi) gangemi@ux1.unipd.it

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